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gennaio 2015
numero 152
Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la moder nità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre
Selezione della critica d’arte contemporanea
rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco
Comitato scientifico
Comitato redazionale
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Roberta Amirante Pasquale Belfiore Alessandro Castagnaro Imma Forino Emma Labruna (Segretaria di redazione) Francesca Rinaldi Livio Sacchi
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Grafica Elettronica
F. Irace, Due modi di essere nel web 5 O. Scotto Di Vettimo, De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità 15 V. Cristallo, La crisi del prodotto nel “design del prodotto” 25 Libri, riviste e mostre 38
Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Pasquale Belfiore, Valeria Pagnini, Raffaella Rosa Rusciano, Dario Russo, Paola Scala.
Due modi di essere nel web FULVIO IRACE
«Internet non si addice all’architettura», scriveva su queste pagine Renato De Fusco, a conclusione di un’accurata disanima dei più avveniristici scenari sulla smaterializzazione dell’architettura nell’era digitale. Era il 2001, l’an no successivo alla fortunata edizione della settima Biennale di Architettura di Venezia, lanciata da Massimiliano Fuksas all’insegna di Less Aesthetics, More Ethic. Per quanto il tema fosse piuttosto incentrato sulla visione della città contemporanea configurata dai nuovi comportamenti sociali indotti dalla globalizzazione, la costruzione scenica e gli interventi di molti degli invitati spingevano il tasto delle nuove tecnologie verso una spettacolarizzazione riassunta nell’invenzione del «muro mediatico» lungo l’imponente navata delle Corderie. Una «Bit-Biennale» insomma, influenzata da quella «net-architecture» che allora sembrava riassumere il futuro stesso dell’arte del costruire nel nuovo millennio: gli architetti trasformati in websters; il cemento evaporato in bit; la legge del click and mortar che si apprestava a sostituire i fondamentali della old economy, in una paradossale riedizione postmoderna della profezia dell’abate di Notre Dame davanti all’invenzione della stampa: “ceci tuera cela”! Poco più di dieci anni dopo, molto poco in realtà pare rimanere in piedi di quest’euforia, tramontata drammaticamente con i sussulti negativi dell’indice Nasdaq e il crollo
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delle economie mondiali. Al punto che persino il saggio recentemente pubblicato da Carlo Ratti con Matthew Claudel – Architettura Open Source – più che una fervente perorazione dei benefici di internet sui processi di democratizzazione del progetto, pare in realtà una scommessa, non certo un’analisi persuasiva e argomentata. Scartando giustamente la più esplorata (e tutto sommato deludente) dimensione estetica delle conseguenze del digitale e del virtuale sull’architettura, Ratti si sofferma soprattutto sulle possibilità che il tipo di interlocuzione open source aperto da internet attraverso i social network (tra cui si può includere anche Wikipedia con la sua scommessa di un sapere condiviso e costruito dalla comunità degli utenti), possa finalmente dare una struttura realistica e praticabile a quell’aspirazione coltivata da molte delle avanguardie del XX secolo verso una modalità del progetto come dispositivo modificabile e trasmissibile in maniera ampiamente partecipata. Sviluppandosi, Internet (o, più precisamente, il World Wide Web) è diventato un banco di prova involontario e un laboratorio per un nuovo genere di progettazione. Internet ha creato tramite i suoi utenti un sistema autopoietico: le persone hanno usato Internet per creare Internet (un oggetto fatto al tempo stesso di comunicazione e di sostanza) – scrive Carlo Ratti nel suo invito a “Imparare dalla rete”, al punto di affermare che siamo vicini a un punto di svolta, l’architettura come informazione e la fabbricazione come mezzo per acquisire più potere. È interessante osservare che, proprio De Fusco, ridimensionando la presunta rivoluzione di Internet nel campo della progettazione, arrivava a conclusioni abbastanza simili a quelle che invece Ratti indica come una epocale «svolta»: l’operazione informativa più utile e sperimentata è quella di collegarsi con altri operatori, una volta apertosi questo potenziale atelier progettuale con sedi in ogni paese del mondo. In particolare, si va realizzando quell’ideale lavoro di gruppo tanto auspicato da decenni. Infatti un progetto può avere inizio in uno studio ubi-
cato in una città, ripreso e discusso in un’altra, continuato in una terza e magari completato in una quarta dove si raccolgono i dati delle precedenti elaborazioni ed approvato da tutti i precedenti autori. Ciononostante le suddette informazioni non costituiscono affatto la «materia prima dell’architettura». Né la costituiscono le ipotesi, per così dire, più moderate sul futuro dell’informatica applicata all’architettura, alcune delle quali già in atto”1. Se dunque il web ha trovato un forte ostacolo nell’insopprimibile materialità dell’architettura, molto più congeniale appare invece la sua convergenza verso il design, soprattutto quando si consideri che oggi questa parola non evoca più in maniera univoca l’universo della produzione industriale e quindi la sua originaria vocazione al disegno e alla riproduzione seriale delle merci. Storicamente, il design è stata la disciplina che con maggior impegno si è proposta di trasformare l’Industria in arte: un’arte di massa, naturalmente, e non più individualista e borghese, nella prospettiva di una effettiva democrazia d’accesso ai beni. Se nella società industriale del XIX e di buona parte del XX sec. le sue pertinenze erano delimitate dalla natura materiale dei beni, nella società postindustriale le sue competenze hanno registrato un salto di scala, visto che lo stesso prodotto non è più concepito come un oggetto che deve essere prodotto, ma piuttosto come un’informazione2. Come è noto, infatti, oggi la parola design è oggetto di numerose aggettivazioni: da “industrial”, si è fatto “visual”, “conceptual”, “strategic”, etc. per meglio definire la versatilità dei suoi ampliati compiti nella mutata prospettiva dell’epoca postindustriale. Chi diede per primo consistenza filosofica e visiva a questa trasformazione, fu nel 1985 Jean Francois Baudrillard che con la mostra “Les Immateriaux” al Centre Pompidou di Parigi, mise in scena una sorta di drammaturgia dell’informazione nell’era dell’elettronica, dell’informatica e delle tecno-scienze. Naturalmente la sua prospettiva non
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era né euforica né apologetica: piuttosto esprimeva inquietudine (se non preoccupazione) per l’imprevista deriva del l’uscita dalla Modernità, generatrice di una condizione politica, sociale ed esistenziale dove il dominio della tecnica avrebbe prodotto uno slittamento del tradizionale rapporto tra soggetto ed oggetto. La seduzione del digitale, il fascino del virtuale, mettendo in dubbio la stabilità delle cose e la loro veridicità, trasformano tutto in linguaggio, perché tutto diventa messaggio e quindi informazione. Concepita agli albori di quella che oggi appare come una riconoscibile civiltà del digitale, la provocazione di Baudrillard è diventata una vera e propria profezia, che alcuni, come il critico americano Hal Foster, hanno apocalitticamente individuato nella visione estensiva del design secondo un progetto di “eliminazione del mondo naturale”, e altri, più ottimisticamente, interpretato come un necessario ruolo di mediazione che il design, soprattutto in momenti come l’attuale di forte trasformazione, ha dovuto assumersi per ricostruire la necessaria empatia tra i beni e i fruitori o, se si vuole, in senso più esteso, tra i processi di elaborazione culturale e le comunità. Identificandosi sempre di più con la sua matrice concettuale di piano, il design insomma ha smesso di produrre solo “oggetti”, per rivolgersi alla previsione e alla definizione di scenari d’uso, o anche per sviluppare forme di sensibilità attinenti alla dinamica dei comportamenti, delle reazioni, delle aspettative. Si è proposto come servizio: cioè come progetto che elabora visioni di sistema in grado di stabilire connessioni tra ambiti diversi. Utilizza sinergie per aumentare la gamma delle prestazioni dal mondo dei consumi materiali a quello della fruizione immateriale, aprendo alla definizione di soluzioni inedite e innovative stimolate proprio dall’abolizione dei tradizionali confini tra competenze e saperi diversi. Riconosce come suo ambito di pertinenza l’elaborazione di modelli di relazione e di mediazione che attengono al mondo dei comportamenti, delle mentalità, delle identità culturali e sociali e quindi, estensivamente, a quella “cultura” o “produzione immateriale” si-
nora territorio d’indagine privilegiato della sociologia, del l’antropologia, della politica, ecc. Il suo campo di applicazione, dunque, riguarda l’aspetto visuale e relazionale, oltre che quello fisico in senso stretto e l’incontro con le tecnologie digitali consente di raffinare ulteriormente le sue aree di intervento, rafforzandone la capacità di offrirsi come strumento di definizione di nuovi modelli di comportamento. Ma soprattutto, il passaggio dal l’oggetto alla “mediazione” culturale e progettuale implica la sua estensione a campi finora ritenuti marginali o addirittura estranei: come quello del “cultural heritage”, la cui dimensione va infatti oltre l’accezione del Bene Culturale come patrimonio materiale, annettendosi tutti quei paesaggi antropologici che, pur essendo all’origine del mondo tridimensionale, vi rimangono ai margini per l’impossibilità di essere opportunamente conosciuti e rappresentati con strumenti tradizionali. E che non a caso, l’Unesco ha sentito la necessità di codificare nella “Convention for the Safeguarding of the Intangible Cultural Heritage” del 17 ottobre 2003. Diversamente dall’architettura, l’evocazione del termine “immateriale” risulta dunque compatibile con la nozione di design come pratica di relazione, e particolarmente congeniale alle sue interrelazioni con il mondo della cultura, perché introduce immediatamente una visione estesa del patrimonio e dei suoi aspetti intangibili – il paesaggio umano, le pratiche, le espressioni, i rituali, l’oralità di una comunità, dall’Unesco definiti “tesori umani viventi” – che i metodi tradizionali di conservazione e di valorizzazione non riescono a coprire con l’efficacia richiesta. In tal modo il design stabilisce un rapporto progettuale con il patrimonio, non più considerato come giacimento cui attingere, ma come un’eredità da promuovere, da incrementare. La cultura digitale, favorendo per sua stessa natura la dinamica del l’interrelazione e della comunicazione, può essere strumento efficace di promozione di questa visione attiva dell’eredità, cui consente attraverso le sue tecniche di esprimersi, di trasmettersi e di produrre ulteriori significati. In quest’e-
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stensione vanno compresi anche tutti quegli atti di riconoscimento di valore e di archiviazione storica riferiti alla processualità del progetto, capaci di generare forme di musealizzazione attiva. Un’estensione nè scontata, nè indolore per gli evidenti riflessi sulla tradizionale concezione della natura stessa del “bene culturale” messa in discussione da una progettualità forse ancora anarchica o troppo soggettiva, dove molto spesso le componenti di sfruttamento economico, che si nascondono sempre dietro ogni proposito di valorizzazione, sconfinano in arbitrarie forme di spettacolarizzazione a scapito di una corretta fruizione della materialità e della storicità dell’heritage. Ma, come sempre accade, davanti alle trasformazioni e alle crisi degli esistenti sistemi di valori, la posizione del rifiuto è speculare a quella dell’acritica accettazione, secondo il ben noto schema della contrapposizione tra apocalittici e integrati. Serve una riflessione più articolata per definire utilità e danno del design applicato all’heritage: se non una vera e propria teoria, certamente una “carta” che stabilisca limiti e possibilità, relazioni di congruenza e di legittimità e, ovviamente, tutti i possibili gradi di coesistenza tra rispetto della storia e sua “attualizzazione” nell’attuale scenario della cultura globale. Per molto tempo, la parola design per i musei ha coinciso quasi esclusivamente con l’estetica e la tecnica del display, dalla progettazione dell’allestimento alla illuminotecnica o alla grafica. Ha riguardato cioè la dimensione fisica degli spazi, la disposizione delle opere e lo studio delle loro migliori condizioni di visibilità, nella tradizione di un’architettura d’interni intesa come sussidiaria e non sostitutiva degli oggetti esposti. Eppure, il design entrava nel museo apparentemente in punta di piedi, ma in realtà con una suggestione che forse oggi appare difficile da misurare nella sua carica eversiva. Basti pensare ad esempio alle polemiche sulla riforma dell’allestimento dei BBPR per la Pietà Rondanini nel Castello Sforzesco di Milano o ai continui rimaneggiamenti dei non meno celebri interventi di
Franco Albini nei genovesi Palazzo Bianco e Rosso. Gli attrezzi ortopedici con cui Scarpa e Albini inquadrarono le opere d’arte antica per offrirle a una “corretta” visione (non è ancora stata né sopita né digerita, ad esempio, la decisione di Albini di esporre i quadri privi delle loro cornici) sono a tutti gli effetti inquadrabili nell’antologia del design postbellico, come efficace dimostrazione di compatibilità tra “macchina” e manufatto artistico. Marisa Dalai Emiliani ne ha ben colto la natura propositiva di un nuovo modello di rapporto con l’arte nella giovane Italia repubblicana, leggendo nei “riordini” di quei musei la volontà di estenderne le possibilità comunicative col nuovo pubblico – cui lo Stato garantiva facile accesso – attraverso un’elegante e sottile equiparazione tra ambiente museale e ambiente domestico. Lampade, sedie e divani entravano nella scenografia delle sale, portando il design industriale a tu per tu con i capolavori del passato. In un tempo relativamente breve […] l’immagine de nostri musei si modifica almeno quanto, contemporaneamente, quella degli interni delle case italiane, in una sorta di omologazione dei caratteri strutturali, morfologici e insieme dell’arredo degli ambienti espositivi3. Questo modello museografico è ormai storicizzato, nel senso che l’avvertiamo come un valore a sua volta da preservare contro le continue trasformazioni imposte dai conservatori e dal sistema del turismo di massa. Se da una parte avvertiamo la bellezza intangibile di quei modelli, dall’altra non possiamo però sottrarci alle ragioni delle nuove necessità, a meno, ovviamente, di rinchiuderci nella difesa ad oltranza di visioni che non reggono all’urto con la nuova realtà. Questa si presenta sempre, apparentemente, con i caratteri dell’invasione e della sopraffazione: anche quando, nella stagione d’oro della museografia italiana, i maestri moderni prevalsero sui conservatori ad oltranza, rivestendo la novità con i risvolti etici della democrazia (o della tirannia) del pubblico. Con la sua capacità di progettare l’immateriale, il design – diventato interattivo e virtuale – si dichiara pronto a
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raccogliere la sfida, sperimentandosi proprio nel campo dove maggiormente si registra la crisi: quello della relazione e della mediazione culturale. Il design si propone come organizzatore di queste relazioni, rimettendo il patrimonio in sinergia con i nuovi contesti, esattamente – ma con strumenti diversi – come propose mezzo secolo fa la “svolta” italiana dei musei della democrazia. Oggi la vera frontiera si è spostata dalla concezione del museo come luogo fisico a quella del museo come artefatto digitale: nel Web Museum il disegno del manufatto coesiste o addirittura cede il passo al design dell’informazione che l’Information Architecture Institute definisce come the art and science of organizing and labeling web sites, intranets, online communities and software to support usability and findability. Se all’inizio lo strumento telematico è stato usato come surrogato del tradizionale catalogo o della guida, oggi i websites – la cui progettazione costituisce una delle applicazioni più sofisticate e complesse del design – sono diventati i primi portali d’accesso al dispositivo museale se non al museo stesso. Le applicazioni della grafica interattiva e tridimensionale, della digitalizzazione, della riproduzione ad alta fedeltà, dell’uso di cataloghi e data base online, oltre a potenziare le modalità della ricerca facilitando l’accesso simultaneo alle informazioni, sono in grado di favorire la produzione di iper-testi che aumentano i gradi di connessione tra documentazione storico-critica e fisicità dei reperti. I virtual tour, le app. di ogni genere e grado, le installazioni multimediali sino all’olografia e all’interazione con touch screen che aiutano a integrare informazioni e commenti sulle opere, aiutano il pubblico a familiarizzare con le testimonianze del passato, reinserendole dentro un contesto di narrazione (digital storytelling) che colma il cultural divide tra pubblico e reperti storici. Non a caso uno dei settori dove maggiormente si sta saldando la convergenza tra competenza storica e capacità divulgativa è quello dell’archeologia, grazie alle suggestioni delle ricostruzioni virtuali e della realtà aumentata. La
ricomposizione di corredi, di oggetti appartenenti a collezioni disperse nel tempo o ancora di unità documentarie disseminate in archivi tra loro anche geograficamente distanti, ad esempio, trova nel web e nella ricostruzione virtuale strumenti operativi di condivisione e di analisi, che vanno ben oltre il tradizionale sistema dei rilievi o delle ipotesi grafiche (che rimangono allo stadio della rappresentazione bidimensionale) o dei modelli in scala (che danno della realtà una riproduzione “ridotta” e difficilmente riconfigurabile nei termini della pratica spaziale). Lo spazio online crea insomma nuovi canali attraverso cui è possibile scambiare idee e informazioni, allargando contemporaneamente la platea del pubblico dell’arte, ma anche fornendo soluzioni all’oggettiva difficoltà dei musei di trovare un equilibrio tra difficoltà di organizzazione in spazi limitati ed esigenze legittime del singolo visitatore. È facile prevedere, ad esempio, che il tempo consentito alla visita di un’opera o di un’architettura diminuirà sempre di più per le ovvie necessità di preservare i reperti da un eccessivo “consumo” e la riproduzione digitale o la creazione di ambienti virtuali in parallelo a quelli originari (caso emblematico il sito delle grotte di Lascaux) possono costituire una risposta, se non definitiva, almeno accettabile. Ancorché da una prospettiva fortemente critica, gli aspetti cruciali di questa rivoluzione sono stati ben colti da Hal Foster, quando osserva che la versione di Malroux, il museo senza mura, è diventata una realtà con il museo elettronico, il museo on-line”, mentre “la versione prevista da Benjamin, il cinema oltre il museo, è tornata all’interno del museo sotto forma di mostre progettate per scorrere in stile cinematografico o come pagine web4. Ma il museo virtuale non è solo il canale privilegiato di alcune specifiche forme artistiche, come la web art o la performance, ma anche il congeniale sbocco espressivo di tutte quelle manifestazioni dell’intangible heritage che è per sua natura immateriale. Attraverso il disegno di percorsi virtuali, l’archivio digitale permette la costruzione di nuovi for-
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mat di musei “impossibili”, come quelli degli allestimenti, per loro natura effimeri e destinati sinora ad essere ricordati soltanto attraverso la parziale ricostruzione fotografica. In tal modo si amplia la gamma dei “beni” culturali, trasformando il volatile documento in vero e proprio monumento virtuale. Internet insomma si addice al design, perché ne asseconda la vocazione onnivora a contrassegnare consapevolmente non solo la forma delle cose, ma quelle addirittura delle relazioni tra le cose e tra queste e le persone. Il paradosso è che un mezzo come internet dove l’unico tempo è quello presente (perché simultaneo nella sovrapposizione contestuale delle pagine web), se utilizzato secondo un’ottica design oriented può dar luogo a un aumento e non a una diminuzione della storia, e quindi a un potenziamento della conservazione e al tempo stesso della valorizzazione del bene culturale.
1 R. De Fusco, Internet non si addice all’architettura, in «Op. cit.», n. 112, 2001. 2 H. Foster, Design&Crime, Postmediabooks, Milano 2003, p. 28. 3 M. Dalai Emiliani, Musei della ricostruzione in Italia, tra disfatta e rivincita della storia, oggi in M. Dalai Emiliani, Per una critica della museografia del Novecento in Italia, Marsilio, Venezia 2008. 4 H. Foster, op. cit., p. 73.
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De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità OLGA SCOTTO DI VETTIMO
Le contraddizioni della modernità, da cui dipendono inevitabilmente anche le difficili e spesso non inequivocabili definizioni del termine Postmodern, sembrano già tutte insite nel saggio Il pittore della vita moderna di Charles Baudelaire del 1863, dove il poeta francese definisce la modernità come il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immuta bile1. Queste diverse polarità individuate da Baudelaire confluiscono e animano anche i territori che delimitano l’estetica del modernismo. Attraversando il Novecento e pur nella loro spesso evidente contraddizione, esse hanno sostenuto e alimentato ciò che Jürgen Habermas definisce con precisione “progetto” della modernità, che nell’arte si traduce in un forte edonismo estetico con il conseguente potenziamento del soggetto e, quindi, dell’autore. Quelle stesse contraddizioni, che vogliono che il transitorio conviva con l’eterno e il fuggitivo con l’immutabile, hanno però oggi condotto al tramonto del progetto e all’insinuarsi di posizioni teoretiche autorevoli che, disconoscendo la seconda polarità dell’affermazione baudelairiana, preferiscono la fluida incertezza del pensiero debole e un relativismo spesso senza sponda perché privo di quella tensione teleologica che animava la precedente epoca. In questi anni l’insufficienza di categorie interpretative
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adeguate a supportare i cambiamenti in atto rendono ancora valide letture di ambito estetico postmoderniste, che hanno sostituito al progetto l’idea di catastrofe e il timore di morte e di sciagura, nonché la suggestione della vaporizzazione dell’oggetto artistico, sulla scorta soprattutto di una ricorrente ripresa della riflessione benjaminiana sull’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica. Dal pensiero costruito attorno alla perdita dell’aura e dell’unicità a favore dell’ipotetica riproduzione all’infinito dell’oggetto artistico, dunque, deriva la necessità di raccontare l’arte partendo dalla sua eterna condanna di presentizzazione autoreferenziale e inautentica. Le tecnologie, in particolare le tecnologie della comunicazione, diventano il più frequente argomento per osservare la società e l’arte, attraversata, quest’ultima, invero, da quelle stesse contraddizioni già individuate con assoluta capacità interpretativa e predittiva da Baudelaire. L’estasi dell’iperrealtà, così come la definisce Jean Baudrillard, è data dal sistema delle nuove tecnologie della comunicazione che determinano l’attuale orizzonte dell’esperienza. L’iperesteticizzazione del mondo, che si è imposta come imprescindibile evidenza per l’indagine e la ricerca artistica, si risolve, dunque, in un’esteticità diffusa che secondo lo studioso condurrebbe all’anestetizzazione e addirittura alla sparizione dell’arte. Ed è sempre Baudrillard a precisare che l’arte cerca, come tutte le forme che spariscono, di raddoppiarsi nella simulazione, ma presto sparirà completamente lasciando il posto all’immenso museo artificiale e alla pubblicità scatenata2. Al simulacro, dunque. L’insidioso equivoco contenuto in queste riflessioni, se valutate agli albori del Terzo millennio, non consiste nelle analisi, ma nel giudizio di valore che le accompagna, ormai insufficiente per comprendere le nuove reali frontiere della sperimentazione artistica. Si ritiene, cioè, non più metodologicamente corretta l’attribuzione di un disvalore nell’interpretazione del rapporto arte-società, arte-informazione, arte-comunicazione, che sorregge quella parte consistente
della critica che sviluppa le proprie osservazioni non dall’analisi fenomenica (l’arte nel suo nuovo e complesso sistema), bensì da una precedente e autorevole letteratura critica che ha suggerito molteplici e significative definizioni di arte e società moderne e postmoderne, ma meno significative se ancora utilizzate per definire l’oggi. Le indagini sulla contemporaneità, infatti, richiedono innanzitutto un approccio di natura non comparativa, capace di sottrarsi, quindi, ancora una volta, ma in via definitiva, alle secche pericolose della contrapposizione del pre (Modern) e del post (Post-Modern) largamente diffuse in una paludosa logica di rigida sistemazione diacronica del pensiero. In secondo luogo, si suggerisce di operare una sospensione di giudizio, quindi di rifondare quella parte del pensiero che richiede nuove attrezzature epistemologiche senza preoccupazioni di giudizio. Occorre, cioè, che lo stesso recupero di categorie e modelli illuminanti per comprendere il funzionamento della società – e quindi anche dell’arte – non vengano utilizzate in alternativa o in opposizione, come accade, ad esempio, al concetto baumaniano di “liquidità” usato per definire una nuova condizione in evidente contrapposizione alla solidità che si attribuisce all’epoca precedente. Occorrerà, invece, che, liberi da qualsiasi pregiudizio nominale e concettuale, si assumano coraggiosamente nell’indagine dei sistemi complessi odierni molte delle definizioni che hanno descritto la condizione postmoderna, considerandole come presupposti ineludibili per l’analisi dell’oggi e privandole di qualsiasi connotazione evocativa e senso di colpa che sempre il paragone con le categorie forti del pensiero moderno hanno alimentato. Questi argomenti trovano una loro precisa dimensione di esistenza soprattutto quando, nel confronto critico, ci si interroga sulla questione ontologica dell’arte, da un punto di vista sempre troppo poco indagato, sebbene diffuso, come quello del pubblico, la cui distanza o avvicinamento all’arte, si crede, sia strettamente collegata al tema dell’autore. Più che quello della sparizione dell’arte oggi il tema fe-
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lice, gioioso, augurabile se si vuole, è quello della sparizione di un soggetto autoriale forte, che nelle esperienze artistiche di frontiera finalmente evapora in favore di una soggettività complessa, multipla, collettiva o, meglio ancora, ‘connettiva’, se ci si rifà al nuovo orizzonte di riferimento offerto dai meccanismi che sottendono il funzionamento della Rete. L’opera oggi non può essere indagata per la sua aura perché, se si insistesse su tale piano speculativo, l’opera rimarrebbe muta poiché non riuscirebbe a essere letta in rapporto con le dimensioni dell’iperestetico e dell’ipermoderno a cui essa appartiene. I concetti di ‘ambiente’ e di ‘atmosfera’ si sostituiscono non solo allo spazio, ma anche all’aura, evitando così il ‘pericolo’ dell’anestetizzazione che, invece, aveva dominato, nell’ottica postmoderna, sull’opera. Muta il concetto di spazio, che si diluisce nell’atmosfera, o nella Rete, e mutano con esso anche l’idea del tempo e della storia. A questo proposito, sembrano utili le riflessioni di Baudrillard sull’idea di storia e di tempo, categoria fino ad ora non considerata, quando afferma che se usciamo dalla storia per entrare nella simulazione, è solo la conseguenza del fatto che la storia stessa non era in fondo altro che un immenso modello di simulazione. Non nel senso che non abbia avuto altra esistenza se non quella del racconto che ne facciamo o dell’interpretazione che ne diamo, ma rispetto al tempo in cui essa si svolge, quel tempo lineare che è insieme il tempo della fine e di una “suspense” illimitata della fine – il solo tempo in cui una storia possa prender posto, cioè una successione di fatti non insensati, e generantisi in un rapporto di causa-effetto, ma senza necessità assoluta e tutti in squilibrio sull’avvenire. Un tempo tanto diverso da quello delle società rituali, in cui tutte le cose sono compiute nell’origine e la cerimonia ripete la perfezione di questo evento originale. In opposizione a tale ordine del tempo “compiuto”, la liberazione del tempo “reale” della storia, la produzione di un tempo lineare e differito può apparire come un processo puramente artificiale3.
L’arte oggi è specchio di una complessità sociale articolata a più livelli, che si muove in una molteplicità di direzioni secondo modelli non distanti da quelli delle società orali, in cui l’arte risiedeva nella relazione, nei momenti di scambio e, dunque, nel dono, secondo quel dispositivo che Marcel Mauss definiva efficacemente “fatto sociale totale”. Essa può dirsi veramente contemporanea a questo tempo, laddove produca un’esperienza estetica che coinvolga la vita, risultando capace di tenere assieme cultura alta e cultura bassa (se mai fosse ancora legittimo operare tale distinzione), ma soprattutto eludendo inefficaci distinzioni tra generi, forme e discipline. Andranno incluse, quindi, pratiche artistiche generalmente escluse e considerate ‘non arte’. Spingersi oltre le categorie e favorire l’incrocio dei saperi comporta inevitabilmente un disinteresse diffuso nei confronti dell’antico tema della citazione (virgolettata o non virgolettata) a favore, invece, del mash up e del remix, che escludono un’autorialità forte e certa del pensiero. L’arte conquista attraverso la dimensione partecipativa un significato rituale e ritrova un ruolo etico e sociale di apertura verso gli altri. All’interno di questo rito l’artista non è lo sciamano o il vate che dà risposte, bensì colui che, con un atto di don’azione, è capace di creare atmosfere idonee a produrre esperienze inedite4. La critica oggi predilige, invece, mantenere saldo il suo legame con gli orizzonti interpretativi novecenteschi, discostandosi poco da quell’esigenza propria dell’ambito storico. Si richiederebbe, invece, nella società allo stato gassoso di cui si vogliono cogliere i benefici, analisi sistemiche pertinenti più alle consuetudini di ambito sociologico che di quello storico-artistico. La sparizione dell’arte vuol dire innanzitutto la sparizione non tanto dell’oggetto quanto del soggetto, perché sostituito dalla dinamica necessaria, possibile, realistica di un pensiero collettivo che si costituisce nel potenziamento del l’individualità in un’unica intelligenza, come insegna Lévy. L’arte è oggi, pertanto, quella frontiera di relazioni connettive che ha come orizzonte non solo (e non tanto,
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forse) l’arte relazionale, ma che soprattutto assume a modello il funzionamento delle ‘nuove’ tecnologie e le utilizza non come pura techné, ma come modello di pensiero, recuperandone le modalità ipertestuali e connettive di funzionamento5. In questo nuovo campo d’azione diventa fondamentale il ruolo del pubblico che acquista una nuova funzione sempre più coincidente, per forza, protagonismo e significato, con quella dell’artista. Diversa, invece, e ancora non risolta è la posizione della critica. Mentre l’“artista plurale”6 e il pubblico innescano assieme il dispositivo estetico che chiamiamo arte relazionale e connettiva, il ruolo della critica rimane ancora molto incerto e, soprattutto, sempre meno significativo se non all’interno di un sistema di mercato e di finanza. Un’indagine proprio sulla critica, ma con una prospettiva di apertura a diverse questioni di metodo, è quella proposta di recente da Renato De Fusco e da Raffaelle Rosa Rusciano i quali sviluppano un discorso che prevede, preliminarmente, una distinzione tra critica discorde e critica concorde, non solo argomento, a mio avviso, di indagine storica e metodologica, ma anche modello interpretativo della critica e dell’arte del Novecento. Contro i vecchi entusiasmi e i nuovi rifiuti, ci appare indispensabile rivedere molti punti, cui si deve il processo di scadimento dell’arte contemporanea, sintetizzabile nell’espressione “dalla rivoluzione all’indifferenza”7, affermano gli autori, ponendosi in una prospettiva di ricognizione e di ‘riesame’ dell’indagine critica che ha attraversato lo scorso secolo. Presupposto dell’analisi è un saggio pubblicato sul n. 4 di «Op. cit.» del 1965, intitolato La critica discorde, scritto a più mani da autori volutamente non firmatari dell’articolo secondo modalità di scrittura anonima perché collettiva, che con quell’espressione intendevano riferirsi a quella parte della critica che aveva mantenuto un atteggiamento critico e radicale, a volte reazionario, nei confronti degli sviluppi dell’arte moderna. La presente rassegna intende raccogliere le opinioni di alcuni autori
che hanno avuto verso l’arte moderna un atteggiamento ostile, svalutativo o anche di consenso ma per motivi tuttavia diversi da quelli delle poetiche e della critica moderna. Si tratta in una parola di una critica discorde avanzata da una visuale più radicale anticonformista o, spesso, più reazionaria di quella visione ormai schematica che ha accompagnato gli sviluppi dell’arte moderna8. E precisano: Sia ben chiaro che non proviamo nessuna simpatia per le posizioni di rifiuto integrale o di accomodamento furbesco alla situazione. Ma tra l’oziosa rampogna moralistica e l’attivismo acefalo dei conformisti v’è certamente spazio per una posizione critica interna all’arte contemporanea9. Già nel Novecento al concetto di ‘nuovo’ e di ‘unicità’ si aggiunge ben presto la nozione di progetto a cui si lega quella di quantità. Così, riprendendo il pensiero di Argan, chiariscono De Fusco e Rusciano che in relazione ai problemi della produzione e del consumo di massa, oggetto del giudizio critico non può più essere solo l’opera compiuta bensì anche il processo del suo farsi e del suo quantificarsi10. Questo vuol dire, precisano i due autori, che nella società di massa l’approccio teoretico precedente non è più valido perché non tiene conto della esigenza di un fondamento operativo quale criterio di indagine: si cerca soprattutto la funzionalità del criterio, più che la sua ontologia11. Nel confronto tra Jürgen Habermas e Jean-François Lyotard l’idea del progetto rimane centrale: per il primo il progetto moderno è stato incrinato a metà del Novecento, ma è rimasto incompiuto; per il secondo, invece, è stato completamente distrutto. Una volta finito il senso della storia, una volta superato questo punto di inerzia, ogni evento diviene catastrofe, diventa evento puro e senza conseguenze (ma è questa la sua potenza)12. Il passaggio successivo è sulla sparizione del soggetto a favore dell’oggetto, vero capovolgimento, con ciò indicando che tutto il destino del soggetto è ora attribuito all’oggetto il quale, se elevato alla potenza
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di merce assoluta, che Jean Baudrillard contrappone alla merce volgare, produce effetti di seduzione: sta all’opera d’arte di feticizzare questa nullità, questa sparizione, e di trarne effetti straordinari13. L’oggetto d’arte è, dunque, il nuovo feticcio quando non è più oggetto familiare, ma estraneo. Per questo motivo, nel paesaggio della distruzione provocato dalla diffusione e dallo sviluppo illimitato delle tecnologie audiovisive, “l’arte di vedere” è divenuta “l’arte dell’accecamento”. E invece, ancora di più si crede che proprio dalla diffusa estetizzazione del mondo e dalla sparizione del soggetto come referente forte della produzione artistica si possa volgere più serenamente lo sguardo all’analisi della produzione di un’arte di limine che mette tra parentesi il soggetto forte e lo diluisce all’interno di una pluralità di soggetti, le cui individualità vengono esaltate nelle loro differenze e specialismi per produrre una connessione di nuovo senso. Sparito il soggetto rimane allora come elemento centrale il “dispositivo”, che è qui inteso non tanto come lo indica Michel Foucault o come poi diversamente viene precisato da Gilles Deleuze, il quale sostiene che noi apparteniamo a dei dispositivi ed agiamo in essi. La novità di un dispositivo rispetto ai precedenti, la chiamiamo la sua attualità, la nostra attualità. Il nuovo è l’attuale. L’attuale non è ciò che siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo divenendo, cioè l’Altro, il nostro divenir-altro. In ogni dispositivo, bisogna distinguere ciò che siamo (ciò che non siamo già più) e ciò che stiamo divenendo: ciò che appartiene alla storia e ciò che appartiene all’attuale14. Su una linea parallela Giorgio Agamben individua una divisione tra gli esseri viventi (o le sostanze) e i dispositivi in cui essi vengono costantemente catturati, precisando che nominerà come dispositivo letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discor-
si degli esseri viventi. (…) Chiamerò soggetto ciò che risulta dalla relazione e, per così dire, dal corpo a corpo fra i viventi e i dispositivi15. In questo modo si individuano, rispetto a Foucault, non solo i processi di soggettivazione a cui inducono i “dispositivi disciplinari”, ma anche i processi di desoggettivazione, che non danno luogo indifferentemente a un nuovo soggetto se non in forma larvata e, per così dire, spettrale16. Da qui la minaccia implicita di questi dispositivi che inducono a una forte desoggettivazione senza la possibilità di risoggettivarsi. Il tema del dispositivo è centrale per l’affaccio che si propone sulle nuove estetiche dell’arte, che intendono l’opera come un dispositivo che crea azioni, pensieri, flussi connettivi nella indistinzione tra artista e pubblico, soprattutto se osservati attraverso la lente di un rapporto convenzionale tra attore e fruitore. La vaporizzazione dell’autore è sempre più intensa, a fronte di un rafforzamento di una soggettività plurale e complessa in cui l’artista e il pubblico si integrano in una dinamica partecipativa e l’arte perde la sua funzione oggettuale per farsi completamente esperienza, in un ambito tecnologico e di flusso di informazioni, conoscenza, partecipazione e in un campo di promiscuità dei saperi che esistono proprio per la loro possibilità connettiva e relazionale.
1 C. Baudelaire, Il pittore della vita moderna, in La critica d’arte, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 177. 2 J. Baudrillard, La sparizione dell’arte, Giancarlo Politi Editore, Milano 1988, p. 38. 3 J. Baudrillard, L’illusione della fine o Lo sciopero degli eventi, Anabasi, Milano 1993, p. 17. 4 E. Di Stefano, Iperestetica. Arte, natura, vita quotidiana e nuove tecnologie, in «Aesthetica Preprint», agosto 2012, p. 32. 5 Diversa è la posizione di Renato De Fusco che già nel 2001 solleva la questione che se l’irritante domanda “che cosa significa?” non viene neanche più posta dal pubblico per l’indifferenza verso l’arte, è necessario un tentativo critico per uscire da una condizione in cui, mentre l’architettura e il design riescono a reggere di fronte alla dominante tecnologia, le arti rappresentative ne risultano quotidianamente spiazzate e comunque risultano rispetto al
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grande pubblico, come abbiamo appena letto, qualcosa che questo non vuole e di cui non sa che fare. Arti visive; un senso da ritrovare, in «Op. cit.», n. 111, maggio 2001. De Fusco ritorna nuovamente sull’argomento in Per cucire lo strappo, in «Op. cit.», n. 113, gennaio 2002; in particolare pp. 26-33, dove l’autore si sofferma sulle tre domande che il pubblico comunemente rivolge: ma questa è arte? che cosa significa quest’opera? non saprei farla anch’io?. Insomma il metalinguaggio dell’avanguardia è venuto a sostituire il linguaggio della vera e propria pratica dell’arte, muta o ridondante su pochi messaggi alienanti. 6 Si veda su questo tema A. Balzola, P. Rosa, L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica, Feltrinelli, Milano 2011. 7 R. De Fusco, R.R. Rusciano, Tre domande. Questa è arte? Che significa? Non saprei farla anche io? Un riesame, Altralinea Edizioni, Firenze 2014, p. 7. 8 La critica discorde, in «Op. cit.», n. 4, settembre 1965. 9 Ivi. 10 R. De Fusco, R.R. Rusciano, op. cit., p.176. 11 Ivi, p. 177. 12 J. Baudrillard, Le strategie fatali, Feltrinelli, Milano 2011, p. 20. 13 Ivi, p. 133. 14 J. Deleuze, Che cos’è un dispositivo, Cronopio, Napoli 2002, pp. 27-28. 15 G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma 2006, pp. 21-22. 16 Ivi, p. 31.
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La crisi del prodotto nel “design del prodotto” VINCENZO CRISTALLO
1. Da alcuni anni viviamo in una sorta di limbo disciplinare quando ci riferiamo al design nella sua definizione di “design del prodotto”. L’incertezza è ancora più evidente se consideriamo l’espressione “progettare oggetti prodotti industrialmente”, laddove il termine oggetto appare privo di autonomia e del tutto sottomesso a un fine industriale. La perdita di senso che le due espressioni mostrano sono esempi concreti di un cambiamento che riguarda la cultura materiale del prodotto contemporaneo che si è separata dal “disegno industriale” per aver valicato la modernità di impronta ideologica. Una cultura materiale che si è paradossalmente allontanata dalla peculiarità della “dimensione materiale degli oggetti” per accedere alla “metafora della materialità negli oggetti” che fissa con minori vincoli la relazione che un oggetto ha con il suo compito. Ovverossia il compito assegnato a un oggetto da un bisogno e reso visibile oltre che possibile da un progetto. Abitualmente quando ci riferiamo all’entità materiale degli oggetti, il richiamo al tema della forma e della sua estetica oltre che naturale dovrebbe essere necessario. Ma la trasformazione di cui parliamo è così solida che parole come “forma” ed “estetica” non trovano sufficiente spazio nella progettazione e nella critica dei prodotti industriali per il timore di apparire come categorie imprecise nel poter rap-
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presentare il valore complesso degli artefatti nel quadro delle connessioni che intercorrono tra merce, consumo e consumatori. Ed è proprio questa vincolata relazione, che cambia al variare dei trasformismi sociali ed economici, a rendere più che ondivaga la definizione di “product design” quando attraversa i campi della formazione e delle professioni. Ma è nella didattica che si genera il maggior numero di danni che hanno a che fare con la lingua del progetto, perché convinti sono non pochi di utilizzare con “product design” un contenitore vuoto non solo del suo significato storico ma di un vero significato. Per questi, la parola “design”, per autodeterminarsi, non ha bisogno di un “prodotto”, tanto meno se “finito”, semmai di un “dispositivo”, meglio se “reversibile”. Descrivere il fenomeno del design del prodotto nel suo presunto valore assoluto è certamente un compito non facile data la sua articolazione e il confronto con una situazione in continua evoluzione. Si può (eventualmente, ndr) procedere alla identificazione del product design partendo dall’analisi degli elementi che influiscono sull’attività di progetto e, di fatto, ne compongono la complessità […] nello studio del rapporto tra attività di design, industria, mercato e società1. Ecco perché ci siamo addestrati, per determinarne i modi e campi di azione, ad affiancare il termine “design” con dei sostantivi che ne determinano meglio le competenze (furniture, fashion, car, oppure strategico, dei servizi, ecc.)2 e a sviluppare esplorazioni necessariamente oblique sulle modifiche in corso nella disciplina per coglierne con maggiore lucidità gli sviluppi. Oltre dieci fa Ezio Manzini ha raccontato un design attraversato da una pluralità di fenomeni che ne hanno “variato il senso e la natura profonda”. Il suo campo d’azione si è per questo esteso verso altri saperi, altri bisogni, facendo affiorare nuove domande di progetto, nuovi strumenti con cui affrontarle e pertanto nuove figure di progettisti. In conseguenza di ciò, continua Manzini, il design ha mutato le sue relazioni con gli altri attori dei sistemi produttivi e di
consumo, rendendo evidenti le crisi e le contraddizioni delle conoscenze tradizionali. E quella che si può racchiudere in una attività mirante a configurare la dimensione estetica e tecnica di un prodotto si rappresenta piuttosto in una grandezza complessa dalla quale scaturiscono terreni di progetto emergenti a fronte di una domanda multiforme di prodotti3. Tomàs Maldonado, diversi anni prima, e siamo nel 19614, attribuisce al design una “ragione d’insieme” poiché dà “forma al prodotto” “integrando e coordinando” tutto quanto partecipa alla realizzazione di questa forma. Una regola nuova che secondo Gui Bonsiepe equivale a un “discorso progettuale”. Enzo Frateili, nel 1969, molto più sinteticamente vede nel design la convergenza di contenuti morfologici, tecnologici e sociologici5; e Gillo Dorfles, nel 1972, con l’espressione total design, ne tratteggia il nucleo come centro di saperi. Tornando a Maldonado, la sua definizione di un design connotato tecnicamente ma che non può più prescindere dall’evoluzione del sistema culturale, ha avuto l’abilità di perfezionare il profilo dell’attività dei designer, diventato ora un “integratore di competenze”. Un “facilitatore di processo”, secondo Manzini. La fortunata “formula” di Maldonado – adottata dalla Icsid (International Council of Societies of Industrial designers), un organismo internazionale fondato nel 1957 per raggruppare le associazioni coinvolte a diverso titolo nel campo dell’industrial design – ha avuto in chiave critica una lunga vita fino a quanto non è stata aggiornata a cura della stessa Icsid, nel 2004, per sostenere che il design è un’attività creativa il cui scopo è di stabilire le caratteristiche complesse di oggetti, processi, servizi e dei loro sistemi considerando il loro ciclo di vita. Il design è inoltre un fattore centrale di umanizzazione delle tecnologie innovative e fattore cruciale di sviluppo culturale ed economico6. A questo complesso processo definitorio hanno anche concorso nel tempo le valutazioni dell’economista Theodore Levitt sul “prodotto ampliato” che vede crescere il significato e il valore dell’oggetto nel rapporto con il sog-
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getto acquirente7; e quelle dei sociologi Giampaolo Fabris e Vanni Codeluppi: il primo attribuisce alla forma-merce un valore di “medium comunicativo”, il secondo assegna ai beni di consumo la possibilità di interpretare le frammentate identità dei consumatori postindustriali8. Da quando il prodotto è stato configurato nel binomio formamerce, oltretutto smaterializzandosi, il tema dei “servizi” (il Design dei servizi) – più comunemente indicato come il progetto di una relazione che vede l’oggetto come congiunzione di un bene materiale e della sua prestazione all’interno di uno spazio esperienziale – ha superato progressivamente gli oggetti in proprietà, tanto che con il tempo il valore del prodotto è diventato l’informazione, la conoscenza, il rendimento e l’esperienza del bene più che il bene stesso per poi completarsi nella dimensione quasi totalitaria del “Design strategico”9. Una generale complessità, per dirla come Edgar Morin, che colloca il design, in quanto “risposta multipla”, nell’area dell’“entropia del valore”10. Per Andrea Branzi il design, valutando il venir meno della stabilità e della forza delle teorie di Nikolaus Pevsner e Sigfried Giedion sulla composizione tecnico-meccanica degli oggetti, deve interpretare senza tesi precostituite la nuova modernità (ora debole), non creando più singoli oggetti, ma piuttosto strategie dinamiche d’innovazione. Dal product design si sta passando al buzz design, dal gesto unico allo sciame di progetti prodotti da un sistema diffuso11. Diffusa è pertanto, e si comprendono i perché, una crisi ontologica del design. Un disagio visibile che riguarda i contenuti e i modi di manifestarli nelle more degli insegnamenti. Ma questa crisi non si supera con il cesello di un successivo sostantivo da incastonare alla parola design ne tantomeno abusando dei termini “servizio” e “strategia” usati talvolta come demagogici strumenti per garantirsi la veggenza per soluzioni di ogni tipo anche se solo annunciate. Una eccessiva adesione in campo formativo a un modello del design di impronta strategica, possiede il rischio, ritiene Vanni Pasca, di abbandonare progressivamente il
terreno del progetto per concentrarsi su tecniche di tipo organizzativo-manageriali con un’ottica ‘operazionista’, nel senso che il progetto viene ridotto all’elenco delle operazioni che sarebbe necessario mettere in atto per raggiungere l’obiettivo fissato. Il rischio è quello che si formi una generazione di nuovi designer con qualche esperienza nella mappatura dei dati e nell’organizzazione delle operazioni in diagrammi di flusso, ma con la tendenza a non raggiungere mai il momento progettuale […] privi delle competenze necessarie per agire come designer all’interno di gruppi di specialisti, o come registi di gruppi di competenze di vario tipo. Questo sempre nell’ottica che l’obiettivo del design sia quello di elaborare progetti basati sulla complessità che il termine implica: complessità capace di tenere insieme […] il rapporto tra etica ed estetica12. E se l’etica ha in questi anni avuto modo di essere adottata in diversi campi del progetto in nome soprattutto di posizioni ambientaliste, l’estetica nel progetto di design ha difficoltà a presiedere il progetto anche solo come valore critico. È sempre meno avvertibile come esperienza di libertà e di fruizione. Di emancipazione. Di progetto, appunto. Il premio Nobel per la letteratura Josif Brodskij ha attribuito il crollo dei Paesi Socialisti proprio al “collasso estetico” di quelle società, prodotto da un mondo privo di qualità formali, che aveva avuto come effetto indotto un “vasto rifiuto politico”; diceva Brodskij che (come nell’infanzia) la categoria del “brutto” è strettamente legata al concetto dio “cattivo”: la categoria estetica coincide largamente con la categoria etica13. La parola estetica è certamente sinonimo di una complessità culturale che conduce negli ambienti della filosofia – e forse da questa consapevolezza nascono molte delle incertezze sul suo utilizzo – ma non per questo, per non rischiare il confronto, deve essere una parola derelitta per il progetto. 2. Tornando al ruolo delle parole, il filosofo e linguista inglese John L. Austin (1911-1960), sosteneva che ogni
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espressione linguistica è in realtà un’azione pratica, e le parole, poiché utensili del linguaggio sono in grado di fare le “cose”14. Se allora delle parole avviliamo il patrimonio linguistico non diamo loro il modo di produrre correttamente queste “cose”. Le parole degradate, inoltre, alterano i valori democratici e sociali che hanno presieduto la loro formazione. Se le parole diventano poi fragili sono più corruttibili. Se sono deboli tanto più fiaccano il pensiero e il suo relativo linguaggio. Di conseguenza fanno “cose” sbagliate. Nel caso del design, gli errori sono emblematicamente visibili nell’ubiquità terminologica che ha conquistato (e subito) come parola, nel suo essere diventata porosa in nome di una estensione disciplinare che aumenta inevitabilmente con l’estendersi dei territori del progetto. Non a caso la sua versione leit-motiv stigmatizza la teoria integrale del progetto dell’artificiale e la sua ampiezza si impone come la metafora di un unico ed enorme produttore globale di tutti gli artefatti materiali e immateriali. Ma c’è qualcosa di più. Ed è più pervasiva. Il deterioramento della parola, il suo parziale cortocircuito, è causato da una ragione più cruciale: la sua inclinazione postmodernista15. Se il “disegno industriale” delle origini è coinciso con il principio della modernità, la sua successiva declinazione in “design”, nel mostrarsi inclusiva oltre certe pratiche, si è presentata come una esauriente figura del postmoderno. Postmoderno in quanto dissoluzione, frammentazione e contaminazione dei generi. Polisemia di contenuti. Consumata la possibilità di comprendere il divenire delle trasformazioni del progetto contemporaneo – perché mutate erano le condizioni che ne sostenevano i precetti ideologici – al disegno industriale si è sostituito il design come insieme di attività capaci di contenere il possibile, abilitando chiunque se ne rendesse artefice secondo un procedimento tipicamente postmodernista che si basa sulla mobilità delle esperienze, delle competenze e dei risultati. Solo in questo modo si poteva superare la memorabile divisione tra quanto era ed è prodotto industrial-
mente e tra quanto non lo era e non lo è nel nostro perimetro disciplinare: storico contraddittorio che ha attraversato la disciplina rispetto alle istanze provenienti dalla cultura dottrinale del progetto industriale16. Se poi crediamo che una delle lezioni più spinte del postmoderno sia il populismo con il suo “disordine pop”17 – ad esempio lo scambio tra fatti e interpretazioni – nel nostro campo questo disordine si esibisce nell’affermazione che tutto è progetto. Ma ciò, per quanto crediamo sia ragionevolmente vero, non equivale a dire che tutto quanto si progetta è design. La declinazione postmoderna del design ne coglie anche il disorientamento culturale nel trovarsi a essere del progetto contemporaneo simmetricamente sinonimo di crisi e di opportunità. Una condizione che ha posto il design e il suo sistema al centro di una “crisi epistemologica” favorendone tuttavia un processo reattivo nei confronti della realtà e una positiva osmosi nei confronti dei fenomeni più vitali ai quali si è accostato: soprattutto le tecnologie e l’arte18. Ad esempio nella complessità dei cambiamenti che comprendono le trasformazioni dei nostri luoghi abitati, il design si è assunto il compito, con maggiore coraggio anche rispetto all’architettura, di interpretarli e di favorirli laddove queste richieste si sono affermate impreviste, spontanee e talvolta improprie. È evidente, pertanto, che come disciplina che progetta l’ambiente artificiale, il design è costantemente esposto al flusso e combinato di spazi, merci, prodotti, servizi e informazioni. È evidente che per reagire a questo flusso dinamico deve configurarsi come un sistema adattabile e in grado di integrare competenze. È evidente, quindi, che (il design è diventato, ndr) l’area del progetto che muta con maggiore velocità i territori su cui agire e gli strumenti da utilizzare19 e che, per questa sua capacità di adattamento, seppure con esiti incerti, segue lo sviluppo di “attività progettanti”, accettandone anche il non facile compito di misurarsi con la possibilità di restituirle in modelli formativi.
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3. In un articolo comparso su Domus nel settembre del 1998 a cura del centro studi della Domus Accademy, il “New Industriale Design” è fissato come il frutto dei cambiamenti in corso nel rapporto tra design e sistema industriale a partire dal fatto che l’industria ha raggiunto la sua massima espansione annettendo anche i processi produttivi non industriali20. Vale a dire che la fabbrica ha invaso il sociale ma, inevitabilmente, la società tutta, come realtà problematica, ha invaso il “territorio produttivo industriale”. Azzerate le distanze, l’industriale coincide con il non industriale liberando la cultura imprenditoriale dal recinto retorico della fabbrica per assimilarla a una cultura aperta che persegue una “economia sociale” basata sulla capacità individuale dei singoli (ma anche di piccoli gruppi) di “inventare” lavoro attraverso micro-imprese produttrici di beni. I nuovi inventori sono ora e contemporaneamente autonomi ricercatori, progettisti e autoproduttori. Viene insomma raccontata l’economia del self brand – di attività spontanee che realizzano nuovi imprenditori in rete con altri, attraverso le riforme tecniche della comunicazione – che svuota il termine “industriale” del significato che sempre ha avuto nell’accompagnare la definizione di design. Il fenomeno appena descritto è oggi indicato come “movimento Makers”, vale a dire chi riconduce le azioni dei progetti nel farsi prodotti a una cultura della sostenibilità politica e ambientale, e che ambisce a produzioni e distribuzioni composte da filiere corte fondate su modelli on demand, capaci di soddisfare domande di manufatti anche personalizzati come opposizione all’omologazione delle merci. I Makers, che a diverso titolo attraversano le culture dell’open source e dell’open design – suggerendo l’idea di un personaggio-progettista anarcoide che supera la dimensione romantica e individualista del classico designer “piegato al sistema” – sono diventati il simbolo di una società progettante (nella quale, ndr) resta (comunque, ndr) aperto il problema, tutto disciplinare, di un controllo del rapporto tra la dimensione antropologica dell’oggetto e
la definizione del suo aspetto formale, tra etica ed estetica21. Ciononostante, pur considerando straordinaria e dirompente la portata culturale di un fenomeno che prelude a una elevata gemmazione di attività analoghe, dichiarare come si fa da più parti che il movimentismo Maker rappresenta il nuovo equilibrio nel rapporto sostenibile tra domanda e offerta nel mondo degli artefatti, è improprio poiché non si è per nulla conclusa la stagione dell’industria manifatturiera nella sua tradizionale missione. Se esiste, questa trasformazione non ha certamente investito i cosiddetti distretti produttivi, non solo dei paesi più avanzati (Giappone, Germania, USA), quanto piuttosto in quei paesi dell’est europeo che hanno accolto di quei paesi avanzati le delocalizzazioni industriali. E poi ancora la Corea fino ai giganti di Cina e India, i cui mercati sono vere praterie per nuove cose22. Vale a dire che città, case, uffici, edifici pubblici (biblioteche, scuole, università, ospedali, tribunali) non possono non popolarsi di artefatti nei quali concentrare anche indispensabili prestazioni intelligenti. È necessario, pertanto, non cadere nell’inganno che chi realizza macchine “casalinghe” per autoprodursi oggetti, abbia trovato la soluzione per evitare il flusso delle merci. Fatti salvi rari talenti (si veda il recente esempio di un telaio per auto, del tutto inscatolato) molti corrono il rischio d’illudersi di commercializzare nella rete per poi trovarsi dietro a una “bancarella” […] che non può sostituirsi ai processi di produzione industriali per il soddisfacimento delle necessità di molti23. Vi è un’ovvia complementarietà tra produzione industriale e l’autoproduzione dei Makers, vi sono spazi di assoluta integrazione ma vi sono anche importanti differenze che riflettono la diversità dei rispettivi obiettivi. Per questo motivo quale scuola può allora immaginare di non insegnare l’autonomia del progetto diversa da quella del prodotto? Quale scuola può non spingere sulla necessità che il prodotto sia ancora un oggetto industriale su cui investire nuove risorse? E quale scuola può ancora relegare l’e-
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stetica al solo ruolo di cornice storica evitandone l’esplicito accesso nella progettazione delle “cose” contemporanee? Viceversa si assiste alla sostituzione dell’estetica come valore del bello in favore dell’”estetica della sperimentazione” come valore del dubbio, della precarietà del risultato. Si potrebbe anche dire “estetica della ricerca” – se volessimo sottrarla a un possibile eccesso di negatività di cui le stampanti 3D sono spesso involontarie prove – che si genera automaticamente con il procedere dell’esperienza che dal progetto conduce all’oggetto attraversando il novero di libere prototipazioni. Una esperienza che non prevede necessariamente criteri condivisi di qualità e di responsabilità. Se non marginalmente. Per Victor Papanek, ed è una affermazione che risale agli anni settanta, la progettazione è il più potente mezzo attraverso il quale l’uomo plasma il suo ambiente naturale e realizza i suoi strumenti e questo aspetto richiede una grande responsabilità morale da parte di chi ritiene di essere un progettista – e anche per chi ha il compito di insegnare il mestiere del progettista – perché sa di utilizzare un mezzo di assoluta interdisciplinarietà per produrre innovazione capace di rispondere ai veri bisogni dell’uomo24. Maldonado, in un lontano 1976, riferendosi allo sviluppo e al ruolo delle “tecnologie emergenti” nella società nel suo complesso – che conducono al progressivo assottigliarsi di una materialità del mondo nel quale gli oggetti “pesanti” sono via via sostituiti da processi e servizi sempre più immateriali – osserva che il design avrà un compito di primo piano nella progettazione dei nuovi prodotti cui queste tecnologie hanno dato (e continuano a dare) origine. Ma ciò non deve far dimenticare che l’area d’intervento del disegno industriale rimane quella attinente al processo formativo degli oggetti come elementi strutturali dell’ambiente umano. Certo, gli oggetti partecipano, e sempre di più, alla dinamica dell’universo comunicativo […] tuttavia ciò non toglie che una parte considerevole dell’attività del disegnatore industriale rimanga fortemente ancorata al compito di ‘dare forma’ a oggetti materiali che, piac-
cia o meno, continuano a stabilire un rapporto assai tradizionale con gli utenti, ossia un rapporto che si esplica, appunto, tramite la natura materialmente tangibile degli oggetti25. In una conferenza tenuta a Berlino nel 1980, Giulio Carlo Argan – la cui assoluta notorietà nel campo dell’arte non è stata sufficiente a valorizzarne al meglio i suoi contributi sulla fenomenologia del design – si esprime riguardo alla “crisi del design” (è proprio questo il titolo del suo intervento) considerando che è in crisi lo statuto del “product design” e l’idea della gute Form, a partire dal fatto che si tratta di una difficoltà che riguarda tutta la sfera della progettazione e delle metodologie relative […] La crisi (pertanto, ndr) si manifesta come una crescente divergenza tra programmazione e progettazione: la programmazione, come pre-ordinazione calcolata e quasi meccanica tende non più a precedere la progettazione, ma a sostituirla come ricerca di soluzioni dialettiche alle contraddizioni che si determinano di volta in volta sulla società26. Si tratta di un raffronto di assoluto interesse poiché, ritiene Argan, la progettazione è un processo integrato in una concezione dello sviluppo della società come un “divenire storico”, mentre la programmazione presenta “il superamento della storia come principio d’ordine dell’esistenza sociale”. La morale stessa – è un esempio di Argan – è un ordine progettuale che l’uomo dà alla propria esistenza. La programmazione, al contrario, prosegue Argan, per sua natura tende a destinare le decisioni al “potere” e non ai singoli individui e, poiché tende alla repressione anche violenta di ogni insorgente contraddizione al sistema, nega alla società ogni forma di esistenza storica27. Dunque, se la storia come schema del vivere progettato, rappresenta la struttura fondamentale della cultura occidentale, la “crisi del design” è quantomeno il sintomo di una crisi diffusa di tale cultura. Si spiega così, secondo Argan, come il design rappresenti un processo finalizzato non solo della società, ma di tutta la realtà: è il design che promuove una cosa al grado di oggetto e pone l’oggetto come perfettibile e cioè partecipe del finalismo dell’esistenza umana. La crisi in
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atto è dunque una crisi globale: il mondo moderno tende a cessare di essere un mondo di oggetti e soggetti, di cose pensate e persone pensanti. Il mondo di domani potrebbe non essere più un mondo di progettisti, ma un mondo di programmisti28. Questo e quanto vorremmo che si evitasse.
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1 F. Trabucco, Il design del prodotto, in P. Bertola, E. Manzini (a cura di), Design Multiverso. Appunti di una fenomenologia del design, Edizioni Poli.Design, Milano 2004, p. 243. 2 A. Bassi, Design. Progettare gli oggetti quotidiani, Il Mulino, Bologna 2013, p. 14. 3 La complessità della nostra società richiede, afferma Manzini, di essere affrontata da tutti operando per “progetti”, ovvero con azioni organizzate e strategiche. Pertanto “in questa arena in cui tutti sono o dovrebbero essere progettisti, i designer si collocano come ‘specialisti del progetto’ che agiscono all’interno di una rete più complessa di attori/interlocutori […] specialisti del progetto che usano le loro specifiche capacità e competenze per ‘fare succedere eventi orientati ad un risultato’”, E. Manzini, Il design in mondo fluido, in P. Bertola, E. Manzini (a cura di), cit., p. 20. 4 Tale definizione fu presentata da Maldonado al congresso Icsid di Venezia del 1961. 5 Cfr. E. Frateili, Design e civiltà della macchina, Editalia, Roma 1969. 6 “Design is a creative activity whose aim is to establish the multifaceted qualities of objects, processes, services and their systems in whole life-cycle. Therefore design is the central factor of innovative humanisation of technologies and the crucial factor of cultural and economic exchange”, Icsid, 27 agosto 2004. 7 T. Levitt, Marketing imagination, Sperling & Kupfer, Milano 1990. 8 V. Codeluppi, Manuale di sociologia dei consumi, Sperling & Kupfer, Milano 2002; G. Fabris, Nuove identità, nuovi consumi, Il sole 24 ORE, Milano 2006; G. Fabris, Il nuovo consumatore verso il postmoderno, Franco Angeli, Milano 2006. 9 F. Celaschi, Il design della forma merce, Il sole 24 ORE-Poli. Design, Milano 2000. Si veda anche il successivo F. Celaschi, A. Deserti, Design e innovazione. Strumenti e pratiche della ricerca applicata, Carocci, Milano 2007. 10 E. Morin, Le vie della complessità, in G. Bocchi, M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1985. 11 A. Branzi (a cura di), Capire il design, Giunti, Milano 2007, p. 278. 12 V. Pasca, Il design nel futuro, Treccani.it, Enciclopedia italiana, 2010, www.treccani.it/einciclopedia.
13 Citato in A. Branzi, Una generazione esagerata. Dai radical italiani alla crisi della globalizzazione, Baldini&Castoldi, Milano 2014, p.58. 14 J.A. Langshaw, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987. Edizione italiana a cura di C. Penco e M. Sbisà. 15 V. Cristallo, La bottiglia, il tappo e il cavatappi, in F. Dal Falco (a cura di), Lezioni di Design, Rdesignpress, Roma 2013, pp. 285. 16 Ibidem. 17 Su questi argomenti si veda M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, G. Laterza & figli, Roma-Bari 2012. 18 Argomenti citati in F. La Rocca (a cura di), Scritti presocratici. Andrea Branzi: visioni del progetto di design 1972|2009, Franco Angeli, Milano 2010, pp. 62-64. Si veda anche A. Branzi, Cose e case, in Pomeriggi alla media industria. Design e seconda modernità, idea Books, Milano 1988. 19 V. Cristallo, Un si, un no e un tuttavia per il design. La crisi del progetto è per fortuna variabile, in S. Baiani, V. Cristallo, S. Santangelo (a cura di), Lectures 1, Rdesignpress, Roma 2013, pp. 94. 20 Domus Accademy Research Center, Il new Industrial design, in «Domus», n. 807, settembre 1998. Il centro di ricerca in quegli anni era composto da Andrea Branzi, Emilio Genovese, Marco Susani, Mario Trimarchi, Roberto Tagliabue. 21 R. Carullo, Beni comuni e design: grammatiche delle moltitudini, in “diid” (disegno industriale-industrial design), n. 57, “design open source”, 2014, Rdesignpress, p. 16. 22 T. Paris, Dispute vere o presunte, in “diid”, n 57, cit., p. 5. 23 Ibidem. 24 V. Papanek, Progettare per un mondo reale, Mondadori, Milano 1973. Titolo originale Design for the Reul World, 1970. 25 T. Maldonado, Disegno industriale: un riesame, Feltrinelli, Milano 1995 (terza edizione), p. 75. Si tratta dell’edizione del 1991 riveduta e ampliata rispetto alla prima stampa del libro che risale al 1976. 26 G. Carlo Argan (a cura di C. Gamba), Progetto e Oggetto, edizioni Medusa, Milano 2003, p. 202 27 Ibidem. 28 Ibidem.
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Libri, riviste e mostre
A.C. Danto, La trasfigurazione del banale. Una filosofia del l’arte, Edizioni Laterza, III ed., Roma-Bari 2011.
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In tempi così veloci sul piano della fruizione culturale, può sembrare insolita la nuova pubblicazione di un saggio apparso la prima volta nel 1984. Eppure, le ragioni di questa scelta editoriale risulteranno al lettore subito evidenti, se si considera sia il prestigio dell’autore – Johnsonian Professor of Philosophy alla Columbia University di New York e critico d’arte per il settimanale “The Nation” – sia la forte attualità della tematica. Infatti, uno dei temi più ricorrenti, anche nel dibattito culturale degli ultimi giorni, riguarda la definizione di «opera d’arte»: ce ne dà conto la recente e capillare diffusione di confronti e riflessioni sul tema che si sta svolgendo in questi anni su diversi registri comunicativi, come trasmissioni televisive, inchieste giornalistiche, manuali ad hoc ed eventi organizzati dai più importanti musei di arte moderna e contemporanea.
Fin dalla prima edizione, le tesi esposte nel volume di Danto hanno prodotto accesi dibattiti sul tema dell’arte, inaugurando una riflessione filosofica che l’au tore prosegue con gli altri due saggi, After the end of the Art (1997) e The abuse of beauty (2003). L’occasione che dà avvio alla sua indagine è offerta dal trionfo della pop art e delle correnti artistiche che si ispirano agli oggetti e alle immagini della cultura di massa. Come scrive Stefano Velotti nell’Introduzione, è lo stesso Danto a ricordare che è stata la prima visione delle Brillo Box di Andy Warhol, nel 1964 alla Stable Gallery di New York, a ispirare il suo metodo d’indagine filosofica per «oggetti indiscernibili». Danto si pone apertamente la domanda che si è posto chiunque abbia visitato una mostra di arte contemporanea: perché mai queste cose sono considerate arte? E, nel caso specifico e più eclatante: come mai le scatole di Brillo esposte da Andy Warhol come Brillo Box sarebbero ‘arte’ (acquisendo subito anche il prezzo
‘artistico’ di 300 dollari), mentre le scatole di Brillo, quelle acquistabili nei «supermercati dell’intera cristianità» per pochi centesimi, non lo sono? È vero, una qualche differenza c’è: quelle di Warhol sono più grandi e sono fatte di compensato, mentre le altre, più piccole, sono di cartone. Ma per quanto l’ingigantimento delle dimensioni sia uno dei procedimenti con cui la pop art si smarca talvolta dal reale, la differenza, sostiene Danto, non può risiedere in questa circostanza. A partire dal XX secolo, il concetto di opera d’arte e i parametri tradizionalmente accettati per identificarla – l’abilità esecutiva, la mimesi, l’estetica – sono stati sistematicamente messi in discussione, fino a rendere impossibile stabilire, secondo una teoria condivisa, le caratteristiche che «trasfigurano» un oggetto o un’operazione in opere d’arte. Lo stesso linguaggio dell’arte è stato ampliato, raggiungendo possibilità espressive senza precedenti. Oggi, rientrano nella categoria di «arte» gli happenings, l’arte digitale, le installazioni, la videoarte, le performances, e davanti a questa disomogeneità dei materiali il problema affrontato nelle pagine di Danto assume sempre maggiore necessità di soluzione: cosa legittima un oggetto come opera d’arte? Nell’ambito di questa riflessione, l’autore rifiuta il principio della ‘non definibilità’ dell’arte sostenuto da diversi autori sulla scorta delle tesi di Wittgenstein, secondo il quale non è possibile – e non è necessario – trovare una definizione, poiché non esiste un
criterio delle opere d’arte, né un insieme di condizioni necessarie e sufficienti affinché qualcosa sia un’opera d’arte. In risposta a Wittgenstein, Danto propone l’idea che l’insieme delle opere d’arte non sia strutturato in maniera convenzionale – cioè un insieme omogeneo di oggetti di cui si tratterebbe di trovare il principio omogeneizzante –, ma che si tratti di un insieme di cose logicamente aperto, i cui componenti non necessitano di alcuna caratteristica comune di appartenenza, almeno non sul piano delle proprietà manifeste delle opere. È possibile, infatti, individuare una definizione essenzialista (in termini di condizioni necessarie e sufficienti), se si analizza la dimensione extra-materiale, e quindi extra-percettiva dell’oggetto. Nell’esaminare questa problematica, Danto tenta di stabilire la relazione tra arte e filosofia, domandandosi per quale motivo la definizione di opera d’arte debba rientrare tra i quesiti filosofici, e suggerendo in tal modo un’interessante differenza tra l’arte moderna e quella del passato. Storicamente, infatti, il mondo del l’arte si è sempre dimostrato autonomo rispetto alle tesi dei filosofi, rivelatesi irrilevanti per artisti e oggetti d’arte. Così, i filosofi dell’arte e il mondo dell’arte, come curve contrapposte, si toccano in un singolo punto per poi spiegarsi in direzioni diverse. E ciò rinforza l’ostilità per la trattazione teoretica e intellettuale della loro attività che, dai tempi di Ione il rapsodo fino agli irrazionalisti duri della 10ª Strada e del Club, è stata sempre tipica degli artisti. E le cose potrebbero essere rimaste così
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se l’arte non si fosse evoluta in modo tale che la questione filosofica relativa al suo statuto non fosse diventata quasi l’essenza dell’arte stessa, cosicché la filosofia dell’arte, invece di restare al di fuori del proprio oggetto e di rivolgersi ad esso da una prospettiva estranea ed esterna, si è trasformata nell’articolazione delle energie interne del proprio oggetto. Non solo: secondo Danto, le opere d’arte rispetto al mondo reale ricoprono la stessa posizione delle parole, poiché sono a proposito di qualcosa che appartiene a quel mondo, e quindi sono esterne ad esso. Trovandosi alla stessa distanza filosofica dalla realtà, e trascinando chi le considera come opere d’arte a un’analoga distanza, è corretto dire, conclude l’autore, che l’arte possiede una pertinenza filosofica. Stabilita l’ammissibilità di un approccio filosofico alle questioni dell’arte, è possibile domandarsi attraverso questi strumenti che tipo di predicato sia «opera d’arte», e in che modo possa esso permettere a uno di due oggetti identici di ottenere uno statuto ontologico completamente diverso dalla sua «controparte materiale». Ciò che distingue l’opera d’arte è una proprietà che non appartiene alla percezione sensibile, una qualità relazionale che lega l’oggetto a elementi che appartengono a un piano non accessibile ai sensi: un’atmosfera di teoria artistica, una conoscenza della storia dell’arte: un mondo dell’arte. Per spiegare queste proprietà relazionali, Danto, in alcune pagine particolarmente efficaci e suggestive, ricorre all’esempio
delle due redazioni del Chisciotte citate da Borges. [L’autore] ci dice che Chisciotte di Menard è infinitamente più sottile di quello di Cervantes, mentre quello di Cervantes è immensamente più grossolano della sua controparte, benché ciascuna parola contenuta nella versione di Menard si trovi, nella medesima posizione, in quella di Cervantes. […] Non si tratta soltanto del fatto che i due libri sono stati scritti in tempi diversi da autori diversi di diverse nazionalità e con intenzioni letterarie diverse: queste non sono circostanze esterne; servono a caratterizzare l’opera o le opere e naturalmente a individuarle nonostante la loro indiscernibilità grafica. [ ] quei fattori non possono essere isolati dall’opera perché penetrano, per così dire, nell’essenza dell’opera. Per determinare l’essenza del l’opera d’arte, Danto individua nella successione dei capitoli e degli esempi funzionali le proprietà, le condizioni necessarie e sufficienti che trasfigurano i meri oggetti, e tra queste la posizione centrale è occupata dall’intenzionalità dell’artista in quanto criterio di riferimento per la definizione e comprensione dell’opera. L’opera d’arte possiede, in primo luogo, una struttura intenzionale, essendo causata da un autore che ha prodotto intenzionalmente una rappresentazione: questo è ciò che distingue, infatti, un’opera d’arte da una mera rappresentazione. Il significato dell’opera d’arte, il suo essere a proposito di qualcosa, è esplicitato dall’interpretazione, che è, quindi, costitutiva dell’identità dell’opera. Andare in cerca di una descri-
zione neutrale significa guardare l’opera come una cosa e dunque non come un’opera d’arte. Vedere un’opera d’arte senza sapere che si tratta di un’opera d’arte è paragonabile, in un certo senso, all’esperienza che si ha delle lettere stampate prima di aver imparato a leggere; e vederla come un’opera d’arte è allora come passare dal regno delle mere cose a quello del significato. Ne consegue che il contesto storico entro cui viene prodotta l’opera d’arte è determinante, nella misura in cui l’oggetto può possedere un certo significato in un determinato ambito culturale, e lo può cambiare, o addirittura perdere se appare in un altro contesto. Alla base dell’opera di Danto risiede, quindi, l’idea per cui l’intenzionalità dell’autore e l’interpretazione dell’opera costituiscono i criteri normativi per la sua identificazione e comprensione: l’estetica e i parametri percettivi vengono, in definitiva, esclusi dalla valutazione, non essendo strumenti concettuali che rendono possibile, in quanto tali, il discernimento tra opera e oggetto. La separazione dell’arte dall’estetica porta, dunque, a un risultato paradossale, perché di fatto finisce con l’identificare arte e filosofia: se da un lato questo processo ha fatto sì che l’opera d’arte si liberasse da teorie e pregiudizi valutativi, dall’altro l’ha allontanata ancora di più dal sentire comune. Questo processo non è un fenomeno da sottovalutare, se si considera che, in fondo, l’estetica è etimologicamente una teoria del sentire. V. P.
E. Francalanci, Estetica del po tere. Figure dell’ordine e del disordine, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2014. Il titolo e i contenuti che prefigura appaiono, d’acchito, decisamente in ritardo rispetto al clima culturale e politico attuale prevalente. Le parole potere e figure rimandano alla stagione della prepotente rifioritura del pensiero marxista e della diffusione degli studi di semiologia e iconologia tra la fine degli anni Sessanta e per tutti gli anni Settanta. Scorrendo l’indice, tale sensazione permane fino al paragrafo finale titolato La “lotta di classe” che è espressione da tempo espunta dal lessico del dibattito politico, persino dai partiti della sinistra. È stata riproposta solo di recente con efficace montaggio linguistico da Luciano Gallino e Paola Borgna nel libro La lotta di classe dopo la lotta di classe del 2012 per Laterza. Che la rappresentazione dell’autorità trasmetta significati simbolici inquietanti attraverso il suo aspetto formale – una delle tesi centrali del libro in esame – è poi considerazione così scontata da non meritare un ennesimo, ponderoso studio di 370 pagine, ricco di note (ma non di un Indice dei nomi che dovrebbe invece essere sempre presente in studi del genere). Il credito scientifico di cui gode Francalanci tuttavia – recensito positivamente su questa rivista con il suo Estetica degli oggetti (Il Mulino, 2006) – consiglia un supplemento di rilettura e attenzione critica prima di parlare di ritardi o di argomenti desueti. Questo impegno aggiuntivo si rivela utile perché cadono alla
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fine i sospetti di ritardi e desuetudine degli argomenti. Prende invece corpo l’idea che ci sia troppa materia politico-ideologica intrecciata con la parte più convincente del saggio, cioè quella artistico-iconologica. La relazione tra questi ambiti è strutturale e dunque i motivi di perplessità non vanno ricercati su questo piano quanto nel dosaggio e nella prevalenza della componente politica. La critica del capitalismo ad esempio, è sì l’idea guida della cultura moderna, come sostiene l’A., ma è solo una delle tante prospettive, e neppure tra quelle decisive, dalle quali sono stati traguardati i fatti artistici della modernità. E ancora: se è vero che la tradizione critica dei filosofi operaisti (il corsivo è dell’A.) non può essere né dimenticata né superata, è altrettanto certo che non possa essere il pur (politicamente) attrezzato Mario Tronti citato in questo contesto, uno dei riferimenti primari per indagare su questioni di iconologia. La sequenza dei ragionamenti sembra esaltare una relazione politica-arte-iconologia da sempre esistita ma non nella ferrea, inesorabile forma deterministica che qui traspare. Libro perciò complesso e controverso, comunque d’alto interesse per la solida e erudita impostazione estetico-filosofica che lo vertebra, per le originali letture iconologiche che contiene (alcune delle quali veramente godibili), per le molteplici considerazioni di nuovo conio che propone sul tema dell’estetica del Potere, qui personalizzato sempre con la maiuscola. Vediamo più da vicino questi caratteri, a partire dalla struttura del libro, dedicato con
ineccepibile coerenza “Ai miei studenti ribelli”. L’Introduzione di trenta pagine in dodici paragrafi predispone in nuce la sequenza degli argomenti in seguito sviluppati. Una prima parte ha contenuti più decisamente politici come le strategie del nuovo ordine, la critica del capitalismo, il dittico capitalismo-schizofrenia mutuato da Deleuze-Guattari, la servitù volontaria, la partecipazione diretta, le figure del Potere. Una seconda, introduce i temi dell’arte e dell’iconologia con il viatico di Panofsky e una veritiera osservazione di Mitchell e Rorty per cui tutta la storia del sapere può essere riscritta a partire da una prospettiva iconica. Una terza e ultima, la più importante e esplicativa del contenuto del saggio, elenca oltre venti coppie oppositive a partire da ordine/disordine che è uno dei punti nodali più emblematici di una complessa rete rizomatica di categorie, di nozioni e di concetti, non sempre chiaramente contrapposti. Siamo nel cuore del problema: queste coppie oppositive non generano più mondi separati ove sia possibile distinguere con certezza la misura dalla dismisura, il razionale dall’irrazionale, il certo dall’incerto, il progresso dal regresso, la legalità dall’illegalità, l’ordine dal caos – per citare alcune delle coppie – ma determinano un campo operativo caratterizzato da una geometria elastica, nella quale i contrari si invertono e gli opposti si incontrano e si confondono. In ambito artistico, i concetti di armonia, simmetria, equilibrio, geometria, ritmo, costruttivo, unitario e quelli di disarmonia, asimme-
tria, disequilibrio, informale, aritmia, decostruttivo, frammentario, da sempre separati, sono ora “nodi controversi” di un rapporto non più lineare, ambiguo. È una temperie culturale propria del pensiero postmodernista, fortemente pervasa da un relativismo, nel quale nascono e scorrono “fatti recenti” che, secondo l’A., giustificano la ripresa d’attenzione su questi argomenti. La novità odierna consiste nel fatto che il Potere politico utilizza per la sua autorappresentazione non più solo le tecniche collaudate dello spettacolo – già chiarite da Debord e i situazionisti –, ma vi aggiunge anche una modalità inedita: la conquista di una perfetta coincidenza tra la scena e la vita, in modo tale da disimpegnare il cittadino da qualsiasi critica politica e da qualunque giudizio morale, in quanto coabitante con il Potere in una dimensione nella quale, come nel mondo dell’arte, tutto è permesso… Si tratta dunque di una questione fondamentalmente etico-morale, che dobbiamo riaprire, e che ognuno di noi dovrebbe affrontare con gli strumenti che possiede e che gli competono; nel nostro caso, nelle pagine che seguono, mediante l’analisi di una serie di segni simbolici, apparentemente marginali, presenti nell’iconografia dell’arte e in quella più generalmente documentaria, e che appartengono alla dimensione “estetica” del Potere visto nella sue manifestazioni ordinarie, essendo esso fondamentalmente una gigantesca produzione di visibilità. Segue la parte più cospicua
del saggio, circa novanta brevi paragrafi raggruppati in diciannove capitoli ognuno dedicato a una specifica forma con la quale si manifesta il rapporto del Potere con la sua rappresentazione e autorappresentazione. Gli argomenti sono tra i più diversi, spaziando da quelli artistici, in maggioranza, a quelli politici, scientifici, filosofici, letterari, di costume. Di particolare interesse risultano tre letture di ottimo livello investigativo riferite ai frammenti del gruppo scultoreo raffigurante la lotta tra Apollo e il Centauro collocato in origine sul frontone del tempio di Zeus a Olimpia, al dipinto di Rembrandt Aristotele con il busto di Omero, oggi al Metropolitan Museum of Art di New York e al quadro Il geografo di Vermeer van Delft, oggi allo Städelsches Kunstinstitut di Francoforte. In tutti i casi, sono tre punti di partenza per allargare la riflessione, nell’ordine, alle tecniche di montaggio degli elementi che compongono un insieme per restituire significati diversi dell’opera, al rapporto tra autorità e autorevolezza, al valore simbolico degli elementi tecnici appartenenti alla scena del Potere, il compasso nel caso di Vermeer. Non c’è un’interpretazione univoca degli oggetti e della gestualità dei personaggi: un braccio alzato può esprimere autorevolezza ma anche autorità imperiosa, il compasso può comunicare necessità di conoscenza precisa delle cose ma anche misurazione dello spazio ove esercitare il Potere. Un relativismo che si estende a uno dei capitoli egemoni della storiografia sull’arte classica, quello della sua interpretazione apollinea che
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da sempre ha preteso di eliminare “corpi imperfetti e gesti anomali” dal suo orizzonte ma ne ha dovuto registrare la diffusa presenza e con essa la sconfitta dell’ordine nel pensiero di qualsiasi avanguardia esplicitamente razionalistica. La diabolicità del classico è il paragrafo che introduce in modo esplicito e sistematico un argomento di architettura. Riguarda Zevi e la sua nota lettura anticlassica dell’Eretteo di Filocle. In seguito, autori e opere di architettura troveranno ampio spazio nelle tesi di Francalanci, alcune molto bene argomentate e condivisibili, altre di più problematica accettazione per il pregiudizio ideologico che le anima e il sospetto d’una eccessiva semplificazione di assetti teorico-progettuali più complessi. Il favore del l’A. è, prevedibilmente, sull’asse Gehry, Libeskind, Eisenman, Hadid, Koolhaas, Tschumi, architetti decostruttivisti ispirati alla filosofia derridiana della “impossibilità di un qualsiasi progetto di totalizzazione del sapere”. Da leggere con attenzione l’intero capitolo Una piega nell’ordine che spiega con poche ma corrette e efficaci battute, la rivoluzione compositiva che da Borromini conduce a Gehry e Eisenman. Una integrazione parimenti efficace del tema della piega si ritrova nel paragrafo Il disordine possiede struttura che cita tra l’altro l’ironico lavoro di Diller e Scofidio alla Biennale di Venezia del 1993. Con altrettanta prevedibilità, le critiche più risolute sono rivolte ad alcuni architetti postmodernisti, Portoghesi e Krier prima di altri. Se l’accanimento contro le idee e soprattutto
i progetti di Krier può essere condiviso, del tutto malriposto risulta quello verso Portoghesi, esponente della cultura architettonica di rilievo internazionale, mille volte criticabile ma non nella forma liquidatoria e quasi impertinente che emerge da brani come questo. In un articolo per “Controspazio”, che sembrò una sorta di manifesto d’avanguardia, Portoghesi aveva affermato la necessità di una “emersione degli archetipi”, ipotizzando gli effetti iconoclastici del postmoderno, che “non avrà bisogno di molto tempo per travolgere sudati equilibri e fare a pezzi la cristalleria ben allineata della cultura architettonica della modernità”. In queste parole si veniva già annunziando la tragedia politica degli anni Ottanta e, in maniera indiretta, la discesa in campo dell’uomo più potenzialmente pericoloso della storia italiana dopo il fascismo, figlio esemplare del postmoderno e del cosiddetto tardo capitalismo, l’uomo spettacolo, anch’egli progettista di facciate e di promesse. Ritenere responsabile Portoghesi, seppure in maniera indiretta, del nefasto ventennio berlusconiano è tesi molto ardua da sostenere, al pari della sua riduzione a progettista di facciate e di promesse. Sempre per l’attenzione che si deve a studiosi del livello di Francalanci, non si può omettere una considerazione di carattere più generale che riguarda la sua valutazione dei fatti dell’architettura, molto diversa da quelli del design narrati nel citato saggio del 2006 ove il “niente è più soltanto una cosa” veniva corredato da infiniti e tutti pertinenti e con-
vincenti sconfinamenti nella letteratura, nell’arte, nell’architettura, nel cinema, nella filosofia, nella musica. Qui, l’architettura dei regimi totalitari e il postmodernismo sono i bersagli ricorrenti. Criticare Aldo Rossi, Superstudio e altri storici dell’architettura italiana perché avevano continuato ad ammirare l’architettura fascista degli anni Trenta, talvolta ben al di là degli indubbi valori formali, scrivere che le “facciate” della “Strada Novissima” coprivano…un’operazione ideologica, che mirava a creare le basi di un’estetica di regime, una fatale riproposizione della fittizia coincidenza di “bellezza e bontà”, osservare ancora che la “strategia del postmoderno consiste…nell’abile contaminazione di simmetria e asimmetria, di costrizione e di libertà, di classicismo regolarizzante e manierismo d’invenzione e concludere infine che tale ideologia dell’ambiguo ci spinge a scavare nei suoi antecedenti… ovvero alle dittature del Novecento, è filiera argomentativa impropria perché desume da premesse sbagliate. Chi ha vissuto gli anni della nascita del postmodernismo architettonico, sa bene che alla base c’era una insofferenza per l’ortodossia del Movimento Moderno, per la serietà/severità con la quale doveva essere rispettata la norma compositiva. Riesce difficile associare agli (stilisticamente e ideologicamente) eterogenei architetti della Strada Novissima la comune volontà di instaurare estetiche di regime democratico o addirittura rispolverare estetiche di regimi dittatoria-
li. Allo stesso modo, il revisionismo dell’architettura fascista operato da storici e critici italiani di stretta militanza comunista, resta tutto inscritto nell’ambito d’una valutazione dei valori formali e contenutistici delle opere, essendo scontato e inaccettabile il versante della simbolizzazione. Con questo tipo di ragionamenti dovremmo rinunziare a dire che Terragni è stato il maggiore architetto della prima metà del Novecento solo perché era fascista e che la sua opera più nota non è un capolavoro solo perché si chiama Casa del Fascio? Rassicuriamo Francalanci che per questo tipo di storiografia non c’è mai stato un “al di là dei valori formali” da qualificare come pericoloso per la democrazia. Conclusione. Saggio di rilevante impegno scientifico; necessario, perché ci sono realmente “fatti recenti” che richiedono rinnovata attenzione al tema dell’estetica del Potere; utile, perché spazia su una molteplicità di ambiti disciplinari e come tale risulta trasversale a più competenze e interessi; erudito, per la grande mole di eventi e idee analizzati, erudizione sempre assistita da capacità critica. Restano le perplessità manifestate per alcuni passaggi su fatti di architettura. P. B. Fundamentals. 14. Mostra Internazionale di Architettura, Venezia, 7 giugno - 23 novembre. Si è conclusa il 23 novembre la 14. Mostra internazionale di Architettura dal titolo Funda-
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mentals diretta da Rem Koolhaas. Questa Biennale, che “ha aperto i battenti” il 7 giugno, con circa due mesi di anticipo rispetto alle altre, si componeva di tre mostre e di numerosi eventi che, come sottolineato dallo stesso Koolhaas nel catalogo, insieme si proponevano di attuare una “verifica” dell’architettura, mettendone in luce l’attuale empasse e ponendo i seguenti interrogativi: “che cosa abbiamo?”, “in quale modo siamo giunti a questo punto?”, “ora che cosa possiamo fare e da qui dove andiamo?”. A queste domande provavano a rispondere le tre sezioni: absorbing modernity, elements of architecture e Monditalia. Il primo “tema” raggruppa e dà unità alle esposizioni dei 66 paesi coinvolti nell’evento, ciascuno dei quali è stato chiamato a rappresentare la storia della propria modernizzazione dal 1914 al 2014. L’insieme dei padiglioni nazionali, localizzati non solo ai Giardini e all’Arsenale ma anche in diverse altre parti della città, restituisce l’immagine di un secolo terrificante in cui quasi ogni paese è stato distrutto, diviso, occupato, sfibrato e traumatizzato e ciò nonostante è sopravvissuto … Due cose vanno sottolineate rispetto a questa sezione: la prima è che il “tema” individuato sembra aver avuto un livello di condivisione così alto da consentire, a chi ne avesse voglia, di leggere la mostra nel suo insieme senza per questo mortificare le interpretazioni personali dei singoli curatori. La seconda è che l’insieme delle esposizioni nazionali, il loro confronto e il loro “raffronto” sostengono un’an
tica tesi di Koolhaas, e cioè che la “modernità” ha servito così tante grandi narrazioni … da divenire “ideologicamente neutra”. In altre parole la modernità “assorbita” dal flusso caotico della storia di ciascun paese perde il suo carattere universale e assoluto e si decompone (decostruisce) in tante “interpretazioni” nelle quali il ruolo dell’architettura è considerevole, ma forse non fondamentale quanto gli architetti auspicherebbero. Emblematico da questo punto di vista il padiglione della Germania, nazione con la quale Koolhaas intrattiene un dialogo interessante sin dai suoi primi “esperimenti” studenteschi sul muro. Nel padiglione tedesco viene infatti ricostruito in scala 1:1 un frammento della residenza del Cancelliere della Germania Ovest, realizzato a Bonn nel 1964. Con questa operazione i due curatori Alex Lehnerer e Savvas Ciriacidis mettono in scena la loro narrazione costruendo relazioni tra architetture “rappresentative”. Il Kanzlerbungalow di Bonn, fino al 1999 cuore ed emblema della Germania Orientale, cade, dopo la caduta del muro, nell’oblio. La sua architettura è, ovviamente, celebrazione e linguaggio del moderno. Il padiglione tedesco ai Giardini, costruito nel 1905 e rimaneggiato nel 1938, “rappresenta” la retorica del Reich attraverso un linguaggio dichiaratamente antimoderno. L’esposizione tedesca alla 14.Biennale non è la ricostruzione del Kanzlerbungalow di Bonn in scala 1.1, è la ricostruzione di un “frammento” del Kanzlerbungalow di Bonn “dentro” il Padiglione Tedesco ai Giardini della
Biennale. È dal dialogo tra queste due architetture, fatto di inclusioni, di sovrapposizioni e di intrusioni, che nasce la vera o forse solo la più interessante lettura di come sia stato interpretato il tema dell’”absorbing modernity” dalla Germania, patria indiscussa dell’architettura moderna ma anche nazione europea che più di tutte ha dovuto fare i conti con una storia complessa, scomoda, non lineare e popolata dai molti fantasmi/mostri generati da ideologie diverse. Meno “drammatico” l’allestimento del Padiglione Italiano di Cino Zucchi, dove il tema generale dell’“absorbing modernity” viene tradotto nella questione “tipicamente italiana” dell’“in ne sto”, magistralmente “messo in scena” dal portale in metallo (un imbuto, anzi un archi-imbuto come definito dal suo autore) che dilata lo spazio di ingresso del Padiglione. La volontà di Cino Zucchi di tradurre in “forma architettonica” i concetti che sono alla base del suo allestimento determina delle spazialità molto diverse per le due sale principali. La prima, dedicata a Milano come “laboratorio del Moderno”, è strutturata attraverso una sequenza di spazi che riproducono la regolarità di un tessuto urbano. La seconda sala ha invece un carattere più fluido e racconta, attraverso una selezione di progetti, l’Italia nelle sue contraddizioni e nei suoi differenti paesaggi. Come sottolineato dallo stesso Zucchi nel numero 981 di «Domus»: Il padiglione si trova, quasi per caso, alla fine di “Monditalia”, che mette in scena una ‘decostruzione’ acuta e idiosincratica dell’immagine
da cartolina del Bel Paese … Il Padiglione Italia esamina i tentativi da parte della cultura progettuale dell’ultimo secolo di agire su questo paesaggio frammentato in maniera ‘edificante’, innestando gemme di grande modernità negli interstizi che separano gli strati precedenti. Monditalia, dunque, è la sezione della mostra allestita nel l’Arsenale che coinvolge tutti gli altri settori della Biennale – Cinema, Danza, Teatro e Musica – costruendo un percorso dal Sud al Nord della nostra penisola, attraverso 82 film italiani e 41 casistudio architettonici. Come italiani si può essere infastiditi da una mostra che sembra indulgere quasi esclusivamente sui fallimenti – tragicamente veri – architettonici, politici e sociali del nostro paese; come ricercatori si può essere affascinati da alcuni “racconti” che traducono, più o meno efficacemente in “immagini dense”(la risposta è molto variabile considerato l’ampio panorama di gruppi di ricerca coinvolti) situazioni tipiche non solo del nostro paese ma di un contesto globale in cui molti paesi sono in bilico tra il caos e la realizzazione della loro piena potenzialità. Non sempre percepibile nei singoli allestimenti c’è, in questa sezione della mostra, non solo la registrazione del fallimento ma anche, a partire dall’analisi delle sue ragioni, la prefigurazione di una possibile risposta alla domanda: ora che cosa possiamo fare e da qui dove andiamo? E veniamo alla sezione: “elements of architecture” costruita intorno ai componenti fondamentali dei nostri edifici, usati
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da qualunque architetto, in qualsiasi luogo, in qualsiasi mo mento: il pavimento, il muro, il soffitto, il tetto, la porta, la finestra, la facciata, il balcone, il corridoio, il caminetto, la toilette, la scala, la scala mobile, l’ascensore, la rampa… Gli elementi in mostra sono estrapolati dalla ricerca condotta con la Harvard Graduate School of Design, iniziata nel settembre 2012 e pubblicata nel libro – suddiviso in 15 fascicoli acquistabili anche separatamente – presente nell’esposizione in tre forme: “tradotto” in una dimensione XXL è consultabile sia in verticale (i grandi fogli sono fissati a un perno) che in orizzontale (il MAXIlibro è appoggiato su uno scaffale di metallo ripiegato). Nella loro dimensione “mediatica” le pagine del libro diventano slide proiettate sulla parete. Superata la prima stanza in cui un soffitto cavo, moderno e con una misteriosa tridimensionalità lascia intravedere un soffitto pieno (la cupola esistente decorata da Galileo Chini, recentemente restaurata), vecchio, rassicurante, venerato e considerato onesto, si accede all’esposizione introduttiva composta da quattro parti: una raccolta di testi provenienti da tutto il mondo che hanno trattato l’architettura a partire dagli elementi; un collage di “pubblicità” estratte da riviste di architettura, una mashrabiya aggettante, e il film di Davide Rapp, elements. Nel numero speciale di «Abitare», dedicato alla 14. Biennale, Luca Molinari sottolinea la radicalità della scelta di Rem Koolhaas di non puntare sugli architetti ma sull’architettura e il suo senso. Del resto lo stesso Ko-
olhaas l’aveva detto ancor prima dell’apertura di volere una biennale senza archistar e c’è chi ha sottolineato che c’è riuscito a meno di una, … lui stesso. Non c’è dubbio che questa mostra sia un monumento all’architetto olandese, alla sua ricerca e al suo lavoro; la maggior parte dei gruppi di ricerca coinvolti lavora da anni nella sfera di AMO. Ma perché avrebbe dovuto essere diverso? Koolhaas è una delle poche archistar che non ha mai rifuggito dalla speculazione critica e teorica. Ha lavorato per anni alla decostruzione di una cultura architettonica rigidamente accademica. Nell’introduzione al catalogo della mostra è lui stesso a dichiarare: quando nel 1979 mi chiesero di partecipare alla prima biennale di Architettura del 1980, pensai che ci dovesse essere un errore. Non conoscevo il direttore, Paolo Portoghesi, e, considerato il tema da lui scelto, la presenza del passato, non riuscivo a immaginare quale potesse essere il mio contributo. Mi innervosiva il fatto che ogni struttura esposta fosse sovrastata da un timpano… Ciò che molti ritenevano un recupero dei valori tradizionali a me sembrava essere la fine dell’architettura così come la conoscevamo. La pretesa dell’Occidente – implicitamente assecondata dalla mostra – di possedere le chiavi di un’architettura universale e il copyright dell’unico modello valido di città suonava piuttosto imbarazzante in considerazione dell’imminente comparsa di varie realtà e concetti sostenuti da altri continenti. Trentacinque anni dopo è lui il direttore della Biennale e
decide di mettere in mostra solo gli elementi dell’architettura, perché attraverso la sua ricerca da anni sostiene che la struttura di relazioni non può e non deve essere unica, fissa, assoluta e immobile. Questo non vuol dire accettare il fatto che la struttura sia assente o poco importante, ma solo che essa non può che essere fluida ed eterogenea e soprattutto capace di reggere le molte e diverse interpretazioni che la nostra epoca post-moderna ci impone. Come scrive Marco Biraghi nella “Storia dell’architettura contemporanea”, da sempre il punto di vista di Koolhaas si connota come postmoderno; dove il termine non identifica alcuna caratterizzazione stilistica, quanto piuttosto la condizione di pensabilità di una modernità alternativa, più eterogenea e instabile: seconda chance offerta alla cultura e all’architettura moderne. Alla luce di queste considerazioni il film di Davide Rapp, nella stanza introduttiva della mostra, assume il senso di una guida lieve e leggera, capace con la sua poesia di aprire il nostro sguardo e la nostra mente alle molte possibili interpretazioni della mostra. Il film è un montaggio che raccoglie e unisce centinaia di sequenze cinematografiche tratte da numerosi film. Come sottolinea il suo autore, il semplice atto di giustapporre riprese separate di corridoi, scale o facciate è in grado di evocare connessioni e legami che altrimenti non potrebbero rivelarsi nelle singole inquadrature originali. Così il montaggio tra il fotogramma tratto dal film “Insonnia d’amore” in cui le “porte” dell’ascenso-
re dell’Empire State Building si chiudono ricomponendo la sagoma dell’edificio, e il fotogramma successivo, in cui troneggia la “facciata” del più celebre grattacielo newyorkese, non solo evoca una relazione tra gli elementi (porta-ascensore-facciata) ma soprattutto consente il “link” con la teoria del Manhattanismo, dando ragione dell’asetticità della stanza dedicata al “lift”, contrapposta alla ricchezza retorica di quella dedicata alle scale. Persino la stanza della toilette, che più di tutte ha disturbato molti per la sua “banalità”, può essere “riscattata” dal collage di “pubblicità” estratte da riviste di architettura che sottolinea come gli elementi siano stati il locus dello sviluppo tecnologico, della standardizzazione (e dunque dell’avvento di una “nuova” misura/idea architettonica) e della commercializzazione nel corso del XX secolo. There is only one thing in the world worse than being talked about, and that is not being talked about scriveva Oscar Wilde nel ritratto di Dorian Gray e questa sembra, da sempre, essere una delle massime di vita di Koolhaas che, stando al mare di polemiche e di critiche che questa Biennale si lascia dietro, sembrerebbe aver centrato anche stavolta il suo obiettivo. Eppure, a parere di chi scrive, forse in questo caso, la massima sembra aver nociuto a una delle più interessanti Biennali degli ultimi anni, spostando l’attenzione su una serie di “questioni a margine”, non ultima la retorica pro o anti-Koolhaas che caratterizza gran parte delle critiche. Su questa Biennale si è di-
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scusso moltissimo: sulla scelta degli elementi, sull’assenza di alcuni (ritenuti, da sempre, “fondamenti” della composizione architettonica) e sulla presenza di altri (considerati invece semplicemente “funzionali”); sul fatto che non è possibile ridurre l’architettura a un insieme di elementi ignorandone la sintassi. Nel numero 134 della rivista «Area», Marco Casamonti sottolinea come la ricerca scientifica necessiti di rigore. Tale rigore non è assolutamente derogabile perché renderebbe opinabile il valore stesso della ricerca. Se ciò è vero, la selezione dei diversi elementi oggetto dello studio proposto da Koolhaas e l’accostamento di alcuni elementi, così diversi tra loro, appare discutibile. In un’intervista rilasciata a Valentina Ciuffi su “De Zeen Magazine”, Peter Eisenman, interrogato a proposito della Biennale dichiara: First of all, any language is grammar. The thing that changes from Italian to English is not the words being different, but grammar. So, if architecture is to be considered a language, ‘elements’ don’t matter. I mean, whatever the words are, they’re all the same. So for me what’s missing, purposely missing, is the grammatic. Casamonti e Eisenman, che peraltro sono tutt’altro che “antikoolhaasiani”, sollevano indubbiamente questioni vere e importanti sulle quali riflettere. Tuttavia nel tamtam che riporta le loro opinioni, talvolta, come spesso succede si glissa sull’importanza di alcune parole. Mi riferisco, per esempio, al fatto che parlare di “rigore” rispetto al lavoro di uno che fin dai
suoi esordi ha lavorato per rompere con il martello pneumatico della realtà l’asfalto dell’ideologia (prima fra tutte, forse, quella del pensiero “scientifico” moderno), significa quantomeno accettare l’ipotesi che la mostra sia un po’ più di quello che appare a un primo sguardo e riconoscere che, nel caso di questa Biennale, non è poi così improprio parlare di codice multiplo di lettura, come ci insegna Renato De Fusco. Così come nella citazione di Eisenmann assume particolare rilievo quel “purposely” che in italiano suona come “volutamente”, “intenzionalmente”, “specificatamente”, “espressamente”. Fare attenzione alla presenza di una parola non è detto porti a modificare il proprio giudizio sulla Biennale – si può ugualmente non essere d’accordo con l’impostazione della mostra – ma potrebbe portare a spostare il confronto sulla distanza di posizioni critiche e non su una presunzione di stanchezza, sciatteria, cinismo (ancora!), voluta banalizzazione della questioni del l’Architettura, come talvolta è avvenuto. P. S. G. Durbiano, Etiche dell’intenzione, Ideologia e linguaggi nell’architettura italiana, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2014. Il testo intende ripercorrere tutta la vicenda dell’architettura italiana, dal dopoguerra a oggi, per rendere palese il ruolo decisivo dell’intenzionalità autoriale. Esso angola l’analisi da una
precisa prospettiva e individua nello stretto rapporto, sul piano culturale, tra autorialità e architettura, ideologia e linguaggio, un’invariante della seppur eterogenea produzione architettonica di quegli anni. La valutazione che fonda la tesi del saggio, infatti, considera l’opera degli autori essenzialmente come proiezione di sé e di intenzionalità figurative soggettive. Un egotismo linguistico che fa la fortuna dell’architettura italiana… ma che è anche la causa principale della sua attuale marginalità. Il saggio si muove quindi all’interno di una rilettura dell’operato di quegli architetti, dei cosiddetti «nuovi maestri» come furono definiti da Zevi (Aldo Rossi, Carlo Aymonino, Guido Canella, Roberto Gabetti, Vittorio Gregotti, Aimaro Isola, Luciano Semerani), che fondarono il loro fare architettura sulla reazione al Movimento Moderno, sulla profonda convinzione che gli assunti ideologici e metodologici dell’etica razionalista, fossero ormai in crisi. La loro risposta fu quindi di rottura, e fu tesa alla costruzione di una nuova etica del progetto completamente incentrata sulla funzione ermeneutica e proiettiva dell’autore. Etiche dell’intenzione, quindi, sono le forme del l’agire di alcuni, pochi architetti italiani che si propongono di dare rappresentazione simbolica del mondo attraverso il proprio linguaggio architettonico… Il protagonista assoluto di queste storie è sempre solo uno: l’autore. Tale è la natura della produzione progettuale ed edilizia, nonché accademica e istituzionale, della loro poetica.
Durbiano prosegue avvertendo dell’esistenza di una responsabilità verso le conseguenze del proprio agire, intuendo che forse proprio nell’evidente divario tra la dimensione dell’«essere» e quella del «dover essere», consistette la ragione dei modesti effetti di quel modo di operare, basato solo sull’etica dell’intenzione. A conferma di tale dualismo, l’autore richiama i concetti di «etica dell’intenzione» ed «etica della responsabilità» secondo Max Weber (dalla conferenza Politica come professione del 1919), il quale individua nella prima una dimensione di assolutezza, vincolata solo alla propria morale, nella seconda invece, quel principio di consapevolezza e coscienza degli effetti del proprio operato, un carattere politico in sostanza che proietta l’agire del singolo in una dimensione futura. Appare evidente così la necessità oggi di ricercare nuovi schemi interpretativi e modelli operativi per l’architettura. Pertanto il libro si propone la definizione di una categoria sintetica che può servire, anche se solo in negativo, a individuare una soglia: un confine da cui è difficile tornare indietro. Etiche dell’intenzione è il titolo di questa soglia. Il testo è articolato in brevi saggi che, attraverso le specifiche esperienze dei protagonisti di questa storia, ripercorrono l’intero arco temporale che va dagli anni Cinquanta ai primi anni Ottanta. La prima tappa sembra porre quasi un paradosso, come osserva lo stesso Durbiano; infatti l’excursus inizia proprio con la vi-
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cenda relativa a quel gruppo di architetti fautori di un’estetica che fosse l’espressione di un particolare soggetto certamente, ma un soggetto collettivo questa volta: il popolo cioè, la classe dei lavoratori. Il carattere di quella specifica individualità autoriale quindi si basò essenzialmente sui principi promulgati dal PCI, e gli esiti formali di quelle esperienze andarono nella direzione del Rea lismo, come è noto. Leggiamo infatti: l’appello al realismo sarà il primo passo di una ricerca progettuale che, attraverso quasi mezzo secolo di storia italiana, esaspera la stessa funzione dell’intenzionalità, così ereditata dal dibattito fenomenologico, ben oltre i limiti di quella realtà, a cui originariamente gli stessi architetti si erano appellati. Tuttavia, all’interno del gruppo legato al Partito Comunista, coesistettero due schieramenti contrapposti che intesero in modo diverso l’impegno politico nel l’architettura. In opposizione agli architetti cosiddetti «pratici», impegnati sul piano sociale, legislativo e tecnico-funzionale, ci furono gli «esteti», interessati all’aspetto puramente formale, ad un nuovo linguaggio dell’architettura, in grado di comunicare al popolo cui essi intendevano rivolgersi. Pertanto il riferimento alla tradizione e al passato, nell’«appello al realismo», viene visto dai «giovani delle colonne» (come li definì De Carlo riferendosi ai disegni di Rossi, Canella e gli altri allora ancora studenti, che vagheggiavano forme passate), come il grimaldello per l’affermazione di un radicale mutamento di modelli formali. In realtà
l’«appello al realismo», non ricevette piena legittimazione in ambito politico, né riuscì a produrre quella unitarietà di linguaggio ricercata all’origine, raccogliendo molte delle differenti traiettorie di ricerca di quegli anni, rette essenzialmente dal metro ideologico. La seconda tappa porta il lettore dentro l’intenzione, attraverso l’esperienza specifica di Guido Canella. L’autore afferma che tra tutti gli architetti, que st’ultimo si è più impegnato a formalizzare con un’analisi sistemica gli strumenti di lavoro. Gli strumenti della costruzione dell’intenzione. Al centro degli studi di Canella, secondo un approccio tipicamente strutturalista, vi fu la ricerca di un’invariante della morfologia urbana, identificata con il concetto di tipologia; il rapporto tra tipo e funzione portò l’architetto a teorizzare un’organizzazione della città basata su precisi «sistemi funzionali». La ricerca di Canella diede forte impulso alle generazioni a lui contemporanee e non, influenzando certamente l’approccio ideologico alla progettazione. Da quegli studi si trasse la teorizzazione di un vero e proprio modello operativo, sebbene l’esperienza in generale avesse trovato il suo migliore risultato nella sua stessa intenzionalità di tipo puramente conoscitivo, restando all’interno di un orientamento fortemente autoreferenziale. Il tema principale è ancora la costruzione dell’intenzione, che ritorna nella parte successiva del testo, dedicata al fenomeno culturale detto della Tendenza. Tuttavia l’analisi si sposta in parti-
colare sulla forza performativa, ossia la potenza espressiva e la proiezione verso l’esterno del l’intenzionalità autoriale. Il gruppo di architetti riconducibili a questo specifico movimento, formatisi intorno alla figura di Aldo Rossi, eresse il fondamento teorico della propria architettura sulla base del rapporto tra tipo edilizio e morfologia urbana, con un atteggiamento intransigente: attraverso lo «studio scientifico» della città – l’analisi storica e formale della morfologia urbana – questi architetti si propongono di riconoscere la «struttura dei fatti urbani», in nome della quale intervenire nel presente senza incorrere nelle gratuite discrezionalità che caratterizzano le modalità correnti (allora come oggi) del mercato come delle culture professionali. Nodo centrale di tale speculazione teorica fu evidentemente il rapporto con la tradizione e con la storia, e fu su tali premesse che il gruppo intese edificare l’ideale del valore civile dell’architettura, socialmente accolto anche sul piano formale. Questa ricerca del rigore scientifico e questo protendere ad un linguaggio figurativo democraticamente condiviso, (che rimasero il maggiore contributo di tale esperienza) si concretizzarono nell’affermazione dei criteri riconducibili al metodo dell’«analisi urbana», intesa come un vero e proprio sistema razionale del tutto simile ad un paradigma scientifico. Il gruppo di architetti, operò in un momento storico di profondi mutamenti in ambito culturale; la loro reazione alla crisi predilesse la semplificazione del codice, essendo il refe-
rente ormai identificato con un pubblico omologato all’interno della cultura di massa, e assunse come dato inscindibile quell’autonomia dell’architettura intesa come autoreferenzialità della forma architettonica, che, come afferma l’autore, fu innanzitutto una strategia comunicativa. La Tendenza, in definitiva, ebbe il grande merito di saper interpretare lucidamente il mutamento che la società dei consumi impone alle condizioni complessive all’interno delle quali lavora l’architetto. La ricerca del nuovo linguaggio, propria del fermento culturale di quegli anni Cinquanta, trovò una sua concretizzazione nei lavori di un architetto in particolare: Giorgio Raineri. Questi fu definito un «nuovo architetto» da Vittorio Gregotti, allorquando presentò le sue opere su «Casabella – Continuità» nel 1956; l’intento con cui fu rivolta l’attenzione alla produzione di Raineri fu essenzialmente quello di diffondere e formare un comune linguaggio, di cui quelle opere assursero a modello di riferimento. In effetti l’architetto torinese seppe muoversi tra l’innovazione tecnologica e funzionale e il recupero della tradizione di materiali e del linguaggio formale. Ed è proprio sulla dicotomia storia e nuovo linguaggio che si dirigeranno in seguito gli esiti della cultura architettonica in Italia. Va però detto che l’architettura del dopoguerra, nel perseguimento di quel sistema formale nazionale e popolare, rimase troppo legato all’ambito della ricerca intellettuale e non ebbe l’eco sperata, se guardiamo agli esiti attuali. D’altra parte, quell’ar-
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chitettura si chiuse sempre più nelle stanze universitarie, sempre più lontana dal campo d’azione. Va altresì riconosciuto che l’università italiana possiede tutte le caratteristiche strutturali necessarie per garantire un esito positivo di un’architettura del l’intenzione. Pertanto, l’autore osserva come quella speculazione intellettuale, che doveva arginare le conseguenze del boom economico, assuma invece oggi le forme paradossali di una resistenza al mondo. Le pagine successive conducono all’analisi in particolare della produzione architettonica e dell’impegno istituzionale di alcuni personaggi specifici di quel panorama culturale: Raineri, Isola, Gabetti. Nel dibattito sul rapporto tra architettura e autenticità e sull’equilibrio tra intenzioni e responsabilità, quelle opere furono emblematiche. Tuttavia, il progressivo allontanamento del l’architettura dal complesso di questioni che legano tale disciplina al tema sociale e politico, comportò dunque un atteggiamento sempre più autoreferenziale: essa pare avvolgersi su se stessa, sulle proprie ossessioni, come afferma Durbiano, pare chiamata ad assolvere all’unico compito di essere architettura d’autore. L’etica dell’intenzione, quindi, pian piano approdò alla sua paradossale impoliticità. Quegli autori, divennero i modelli, e il loro ruolo istituzionale all’interno delle università italiane, contribuì al formarsi di una generazione figlia della precedente, la quale continuò però a muoversi intorno alle figure dei maestri, o meglio all’ombra delle loro per-
sonalità e dettami. Giovanni Durbiano, a proposito del Dipartimento di Architettura del Politecnico di Torino, nel brano acutamente intitolato «Autori e produttori», annuncia: osserviamo questa produzione progettuale per coglierne una specifica consistenza. Per misurare la distanza tra copia e modello… essendo evidente il divario tra l’una e l’altro in termini di produzione, ma soprattutto in termini di circostanze specifiche in cui si trovarono ad agire; circostanze date innanzitutto dalla scala dei progetti (prevalentemente incentrati sul tema urbano), dal tempo, dal consenso, ma anche dal carattere plurale che il luogo accademico offre per sua stessa natura, dove, lavorando spesso in gruppo, diviene difficile operare una sintesi di forma e contenuti. Pertanto si profila l’ipotesi di un mutamento dello stesso status del progetto di architettura: non più soltanto conoscenza finalizzata alla «organizzazione della produzione», ma anche, per necessità, conoscenza orientata alla organizzazione della decisione, non soltanto «pratica» come scienza del fare, ma anche pragmatica come scienza del parlare, del tradurre in figure, dell’agire «intersoggettivamente» in un contesto incerto di decisioni frammentate, come è quello in cui oggi si trova a lavorare il progettista di opere di grande trasformazione del territorio e della città. Alla figura gabettiana del tecnico-intellettuale, un «progettista-esperto» che tende alla sintesi tra scienza, tecnica e arte, l’autore oppone un nuovo stato possibile: quello del «progettista-traduttore». Questi si
presenta come la figura più adatta a muoversi nell’attuale contesto incerto di decisioni frammentate; una figura cioè capace di interpretare tutte le componenti in gioco e la molteplicità degli interlocutori producendo più ipotesi, laddove manca una domanda univoca e consapevole, forzando continuamente i propri confini di legittimazione disciplinare. Pertanto sebbene questa figura, come già detto, apra la strada a possibili nuove evoluzioni del ruolo dell’architetto, e del rapporto tra produzione e retorica, tra materialità e idealità, il testo avverte però dei rischi incombenti dell’anonimia della committenza, la quale, presuppone che il progettista inglobi nel suo raggio d’azione anche la costruzione della domanda facendo di sé il veicolo per la soluzione. Gli architetti invece delle architetture, ancora una volta. Il gioco di prestigio in luogo dell’ascolto e della traduzione. Il saggio si chiude ribadendo ancora una volta il carattere prettamente ideologico di quella scuola, che dall’aspirazione al l’unificazione di un linguaggio costruito per il referente popolare passò attraverso la negazione della comunicabilità per arrivare infine all’affermazione del l’unicità sovrana dell’autore. R. R. R. R. Falcinelli, Critica portatile al visual design. Da Gutenberg ai social network, Einaudi, Torino 2014. Quando m’incuriosisce un libro, a volte chiedo all’autore (o
all’editore) di spedirmelo per una recensione. Tuttavia, non sempre la scrivo, perché dopo qualche pagina mi capita di chiudere il libro per non aprirlo più, semplicemente perché mi annoio. Invece, questa Critica portatile al visual design di Falcinelli s’è fatta leggere pagina per pagina, molto piacevolmente, mantenendosi sempre all’altezza del suo incipit: In un giorno imprecisato del 1524, Marcantonio Raimondi, forse il più grande incisore dei suoi tempi, viene arrestato dalle guardie di papa Clemente VII e rinchiuso nelle carceri vaticane. È coinvolto in un crimine spaventoso e sporchissimo. Non si tratta di omicidio o furto, non è magia nera e neppure eresia. A quanto ci risulta, si tratta di un crimine nuovo, mai commesso prima. È accusato di quello che, con un termine moderno, chiamiamo “design”. Con numerosi aneddoti di questo genere, un primo pregio del libro di Falcinelli è di offrire subito una chiara definizione del l’argomento da sviluppare (come suggerisce Platone nel Fedro). Ecco ad esempio come descrive il quid del suo libro: tutto ciò che si vede fa parte del visual design? Non tutto. Tutto quello che è progettato per essere visto secondo certe intenzioni: per informare, raccontare o sedurre gruppi di persone all’interno della società di massa. E ancora: il visual design progetta anzitutto rappresentazioni. […] qualcosa che si mostra sensibilmente al nostro sguardo, ma pure qualcosa che finisce per abitare i nostri pensieri. E così, Falcinelli definisce, in modo fun-
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zionale al suo ragionamento, i termini classici del visual design: marchio, brand, namiming, layout, grafica, stile… Ma la definizione che mi sembra più interessante è forse quella di “design” tout court: una definizione, come tutti sanno, pressoché impossibile a darsi, perché il design sembra essere una coperta troppo corta che, comunque la metti, lascia sempre fuori qualcosa o, al contrario, una specie di cama leonte suscettibile d’infinite e instabili colorazioni. Molto semplicemente, per Falcinelli design è la progettazione di artefatti o eventi attraverso procedure prestabilite e ripetibili. Oltre a oggetti, si può prevedere anche la copia di un evento, come accade con le arti performative. Questa definizione è molto interessante, nella sua semplicità, perché, più che sulla forma, mette l’accento sul processo. Così, ad esempio: quando un attore a teatro recita ogni sera uno stesso monologo, ci troviamo di fronte a una serie simile alla copia manuale di un disegno; se invece quel monologo viene pensato per essere ripetuto con una telecamera e trasmesso più volte, c’è una tecnologia che garantisce che la serie sia identica. La differenza tra la recitazione teatrale e cinematografica è quindi per alcuni aspetti, oltre che linguistica, industriale. Il libro di Falcinelli, a mio avviso, non è infatti un libro di grafica tout court; è visual design in senso ampio, caldamente consigliato agli studenti dei Corsi di Studi in Design, perché dice loro che dietro molte “apparenze” c’è una scelta precisa, progettata (a monte) per essere riprodotta e
diffusa in modo performante: Nella moda, il vestito di cui si parla è quello di haute cuture; bello, immaginifico quanto si vuole, ma risolto anzitutto sul piano espressivo, come fosse una scultura. Saper progettare le magliette del supermercato, invece, richiede ambiti e competenze ben più ampi: uno stesso disegno deve infatti funzionare su taglie diverse; ci sono valutazioni anatomiche e antropologiche che investono la scelta dei materiali e delle cuciture; ci sono i problemi relativi al colore sia sul piano igienico sia su quello simbolico; per non parlare della resistenza dei tessuti e delle tinte; delle finiture e degli elastici; della tenuta ergonomica e della sostenibilità in rapporto al prezzo. Anche per questo, un punto cruciale della trattazione di Falcinelli è il contesto che, insieme all’uso che se ne fa, indirizza la lettura delle immagini. All’inizio del secolo scorso, Duchamp ha dimostrato con i suoi ready-made che è possibile “trasfigurare esteticamente” qualunque oggetto con un’intenzione artistica, e cioè una precisa scelta “progettuale”, per farne un’opera oppure una “cosa”, come dice lui, giàfatta, un ready-made appunto. Allo stesso modo, il contesto dà senso alla messa in forma di ogni cosa. Esso non è soltanto il luogo ma anche il tempo in cui le cose accadono (il periodo storico), col suo assetto culturale: Il modo migliore per capire il design è chiedersi cosa aveva in mente chi l’ha progettato, chi è il committente, qual è il contesto sociale e quali tecnologie l’anno permesso. La tecnologia, soprat-
tutto, detta le regole e riconfigura il nostro modo di relazionarci alle cose, si potrebbe dire il nostro stare al mondo. Non a caso, Falcinelli mette l’accento sulla stampa come caso lungimirante di design (ribadendo una felice intuizione di Renato De Fusco, Storia del design, Laterza, Roma-Bari 1985), per evidenziare come un processo tecnico, finalizzato alla moltiplicazione seriale del libro e alla sua capillare distribuzione, segni una differenza epocale tra l’opera artigianale e il prodotto moderno massificato, designed appunto per un (nascente) mercato di massa. Ecco perché il libro di Falcinelli, invece di sfoggiare carta patinata e una rilegatura in filo refe come ci si potrebbe aspettare da un libro “visivo”, si presenta come prodotto tascabile, uso-mano, con legatura fresata; è insomma un prodotto realizzato secondo lo standard dell’industria di massa per garantire capillarità in libreria e costo (prezzo) contenuto. L’autore, infatti, non ambisce al museo (dove sono sepolti i libri d’arte) ma al supermercato (dove si consuma anche la cultura). Ma l’aspetto cruciale del libro sta per me nell’approccio critico. Questo titolo è infatti molto ben scelto: è portatile, cioè tascabile, agile e pensato per la massa, come abbiamo appena detto; parla di visual design in un’accezione ampia ma precisamente circoscritta a ciò che è progettato per essere visto (con un processo seriale e all’interno di un contesto storico-culturale); e si tratta di una formidabile critica – non come giudizio, ma come messa in discussione – che sviscera le cose del mondo al di là di ciò che
sembra inamovibile o casuale, perché molte cose sembrano innocenti e sono invece visual design. E dunque, per capire il design, dobbiamo sempre chiederci non “cos’è e che significa?”, ma “chi l’ha progettato e perché?”. Per esempio, se comunemente si pensa che i prodotti più sensazionali siano progettati da professionisti del design, Falcinelli mette in chiaro che si tratta anche dell’opera di orefici (Gutenberg e Dürer), ingegneri (Charles Minard, autore della formidabile mappa che illustra la campagna di Russia di Napoleone), economisti e sociologi (Otto Neurath, esponente del Circolo di Vienna e padre dell’infografica con l’invenzione di Isotype, negli anni venti del secolo scorso), disegnatori (di circuiti elettrici, Harry Beck, progettista della mappa della metropolitana londinese, 1931), matematici (gli ideatori di Worldmapper)… quindi designer non è chi prende un titolo di studio ma un participio presente: è «colui che progetta». Se designer e marketer pretendono di formulare format universali, questa è pura utopia: poiché siamo condizionati da codici affinati in millenni di convenzioni figurative e scrittorie molto sfaccettate e in continuo mutamento, e poiché l’attenzione selettiva del pubblico è basata sul vissuto e i gusti di ognuno, la comunicazione non è come sparare a un bersaglio, è più simile all’impollinazione, dove solo alcuni semi arrivano a destinazione. Se sempre si associa il design al prodotto industriale, al mobile, all’artefatto comunicativo o (di recente) al servizio e alla strategia, ragionando in termini di se-
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rializzazione, diffusione ed eloquenza sui grandi numeri, l’autore dei discorsi del presidente degli Stati Uniti, diffusi su milioni di teleschermi, di pagine web, di giornali, in cui ogni sillaba è calibrata per ottenere la massima efficacia, è uno scrittore o è uno speech designer? La comunicazione in tutto il mondo tende ad assomigliarsi, non perché risente dell’influenza culturale del modello occidentale, ma perché è prodotta dagli stessi media digitali; può la creatività dell’uomo appiattirsi alla superficie di uno schermo? Tutti i designer compiono gli stessi movimenti, maneggiano pixel: un po’ più a destra; ruotato; di nuovo a destra; abbassato; poi; sopra; e taglia; e incolla. Così all’infinito. Il design dovrebbe essere un modo di ragionare, di impostare problemi, di raccontare storie, non può ridursi a maneggiare box o a spostare pixel. Se tutti pensano che le merci, attraverso il visual design, rappresentino l’identità del produttore (identità aziendale, appunto), ciò è vero solo in parte: le merci somigliano al loro produttore e pure a chi le comprerà: perché, sul piano delle identità, il design è allo stesso tempo l’immagine di chi parla e di chi «viene parlato». Se il packaging riguarda prima di tutto i prodotti in scatola, più in generale è il modo in cui le cose si presentano ai nostri occhi; il suo grado zero è il bollino di qualità sulle banane, mentre raggiunge i massimi livelli là dove sembra non esserci, come nel caso della carne: le lampade del reparto bovino del supermer-
cato, a differenza delle altre, emettono tutte le radiazioni tranne quelle verdi, per far sembrare la carne più rossa: è packaging fatto con l’illuminotecnica; del resto, il trucco più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato convincere il mondo che lui non esiste… Se oggi chiunque ha modo, col proprio computer, di utilizzare un sacco di font, solo pochi sanno come usarle correttamente, cioè in relazione alle loro effettive capacità espressive: È un po’ come avere a disposizione un enorme guardaroba ma senza sapere se in pizzeria è meglio andarci in jeans oppure in frac. Siamo sicuri che la pubblicità seduca (senza informarci) mentre un trattato di biologia faccia esattamente il contrario? Dopo tutto, se per sedurre […] bisogna mettere in scena una bellezza persuasiva, le informazioni, per essere affidabili, devono mettere in scena l’autorevolezza, e questa va precisamente progettata secondo convenzioni stilistiche. Se tutti pensano che I Promessi sposi sia un prodotto squisitamente letterario, per il suo autore era invece visual design: Manzoni aveva sceneggiato con grande cura il contenuto di ogni singola vignetta, indicando come e dove queste avrebbero dovuto essere inserite, pianificando con cura il layout e l’impaginato del libro. […] I promessi sposi senza figure sono un’opera a metà. Perché il vestito nero è elegante e lo smoking è l’ossimoro prestigioso del glamour non ostentato? C’è per caso un collegamento con i dipinti di Hans
Holbein che ritraggono la borghesia cinquecentesca del Nord, in aperta polemica con i colori sgargianti indossati dai principi delle corti italiane? Tutti pensano che la registrazione di un marchio riguardi l’attività del designer, ma il primo ad applicare una sorta di diritto d’autore fu un pittore: Tiziano, nel 1567, ottenne dal senato veneziano i diritti sulla riproduzione dei suoi dipinti: per la prima volta, in modo ufficiale, il valore non veniva calcolato
sull’esecuzione materiale, ma sull’invenzione, sull’idea compositiva: quelle che oggi chiamiamo royalties. Ecco, in breve, alcuni dei temi discussi, rivisitati e acutamente criticati da Falcinelli, con non pochi colpi di scena, per apprezzare non tanto le cose in sé, ma il come e il perché delle cose progettate per lo sguardo: una critica agile, anzi portatile al visual design. D. R.
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Sommario dei fascicoli pubblicati
N. 91. «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92. Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93. La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94. Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95. Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96. Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97. Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98. Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99. Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre N. 100. Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101. Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre
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N. 102. Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre
N. 103. Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104. La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105. L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106. Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107. Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108. Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109. Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110. Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111. Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112. Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113. Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114. L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115. L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116. Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117. Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118. Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e archi-
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tettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119. L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121. La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122. L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123. Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine del l’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125. Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126. L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127. Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128. Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129. Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131. Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
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N. 132. Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazio-
ni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133. Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134. Abitare la razionalità - Per una nuova classificazione delle arti - Il design aeronautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135. Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137. Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138. Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine del l’ADI N. 139. Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
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N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI
Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998
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