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Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Comitato scientifico Philippe Daverio Kenneth Frampton Giuseppe Galasso Vittorio Gregotti Juan Miguel Hernández León Aldo Masullo Vanni Pasca Franco Purini Joseph Rykwert

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R. Amirante,

Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione 5 L. Berti, B. Velardi Ancora sul rapporto tra arte e pubblico 23 Design: scenari morfologici C. Martino, della contemporaneità 35 Libri, riviste e mostre 51 Le pagine dell’ADI Campania 81

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Renato Capozzi, Salvatore Cozzolino, Domitilla Dardi, Anna Gallo, Cettina Lenza, Alberto Terminio.



Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione ROBERTA AMIRANTE

In quanto fenomeno estetico e oggetto storico – scrive Michael Jacob – il paesaggio non potrà mai essere spiegato in modo esaustivo1. L’aggiunta dell’aggettivo “culturale” alla parola paesaggio, da un lato contribuisce a complicare ulteriormente questa spiegazione dall’altro chiarisce un aspetto importante: il paesaggio non esiste in sé, non ha una natura “ontologica”, è sempre il frutto di una relazione tra un soggetto e un oggetto. Il paesaggio esiste quando viene “percepito”, e questa percezione (ce lo insegnano le teorie estetiche) è sempre legata a una interpretazione più o meno soggettiva. Ma in questo aggettivo c’è di più: c’è la consapevolezza che lo sguardo che “produce” questo paesaggio non è un semplice esercizio dei sensi, e non è neanche uno sguardo neutrale; e che il prodotto di quello sguardo non rientra solo nella sfera delle sensazioni, della sensibilità. Quello sguardo porta con sé – consapevolmente o inconsapevolmente – una “cultura”, una tradizione, una storia; e proprio perché le culture, le tradizioni e le storie sono relative, sono plurali per definizione, oggi ciascuno potrebbe costruire il proprio paesaggio, ciascuno potrebbe avere diritto al proprio paesaggio e pretenderne il riconoscimento. D’altra parte se è vero che non esiste un paesaggio “in sé” è vero anche che esistono molti luoghi ormai storicizzati come paesaggi, che sono stati dipinti, raccontati, fotografati, filmati; che sono stati riconosciuti come elementi dota-

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ti di una propria identità, di generazione in generazione, da molti uomini appartenenti a tempi, paesi e culture diverse: a lungo andare questi luoghi hanno assunto le sembianze di paesaggi “in sé”, il loro riconoscimento è diventato automatico e si è presentato come un dato di fatto alle generazioni successive, immerse in una dimensione spaziale sempre più globale e in una dimensione temporale sempre più accelerata. Non proverò neanche a tracciare una storia dell’idea di paesaggio e delle sue “conseguenze” sulla materiale costruzione dei territori abitati dagli uomini, sarebbe impossibile. Ne è prova il fatto che la bibliografia su questo tema è diventata sterminata, visto che “la cultura del paesaggio” sembra non avere limiti, tiene insieme i campi più disparati (dalla filosofia, alla ecologia passando per la sociologia, tropologia, l’urbanistica, l’architettura, l’ingegneria, l’an­ l’ar­cheologia, l’arte, l’etologia, la botanica …). Ma il fatto più significativo è forse un altro: anche il paesaggio, come tante altre cose, da argomento d’élite è diventato un fenomeno che da un lato incrocia il gusto collettivo, quello di massa (alcuni parlano apertamente di “moda del paesaggio”) e dall’altro si intreccia con la costruzione delle “comunità”, diventa un importante fattore identitario: e sono proprio queste due dimensioni antropologiche (e diversamente “territorializzate”) che vanno approfondite per capire in che direzione si sta costruendo il “concetto” di paesaggio culturale. Come vedremo, è proprio sulla natura delle collettività che producono i paesaggi culturali e sulla natura delle collettività che li riconoscono che si giocano le differenze tra il passato e la nostra contemporaneità, tra la cultura moderna e quella post-moderna: ed è all’interno di queste differenze (o meglio, come direbbe Jacques Dérrida di queste différances) che l’architettura – e in particolare la cultura architettonica italiana abituata a convivere con la diversità spaziale e la profondità temporale dei propri paesaggi – potrebbe disegnare il suo nuovo ruolo (da protagonista, da comprimario?) nella descrizione, nella trasformazione, nella costruzione dei paesaggi culturali contemporanei.


Uno spunto utile a sollecitare qualche riflessione si può ritrovare ragionando intorno all’origine, al senso e soprattutto alla possibilità interpretative di una delle più discusse tra le categorie inventate per classificare i paesaggi del mondo: riassunto nell’acronimo HUL, il concetto di Historic Urban Landscape prova a tenere insieme – con non poche ambiguità – la logica elitaria dei siti patrimonio mondiale dell’umanità e quella, molto più democratica ma molto meno operativa, della Convenzione Europea del Paesaggio. In realtà, nella sua interpretazione più convenzionale, il paesaggio urbano storico (per dirla all’italiana) mette semplicemente “in versione Unesco” la nozione di centro storico: ma, come provo a suggerire di seguito, la sua ambigua estensione semantica potrebbe trasformarlo in un grimaldello utile a costruire un “discorso architettonico” dentro la complessa trama dei paesaggi culturali. Paesaggio, natura, cultura La nascita dell’idea moderna di paesaggio, come molti hanno sottolineato, si può far coincidere con quella prima dimensione della modernità rappresentata dalla pittura di paesaggio, quando gli artisti mostrano con chiarezza la distinzione tra paese e paesaggio, la perdita dell’unità uomo/ natura, il distacco dell’uomo dalla natura naturans, la sua immersione nella natura naturata che lui stesso costruisce; l’idea di paesaggio si consolida e si estende nel tempo delle Encyclopédies e dei Voyages Pictoresques; assume dimensioni molto più ampie nell’epoca di cui parla Walter Benjamin, quella della riproducibilità tecnica; esplode letteralmente nella nostra civiltà dell’immagine in cui i paesaggi (più o meno culturali) si moltiplicano fino a diventare infiniti. In questi passaggi epocali quella che cambia non è solo la dimensione quantitativa del fenomeno “paesaggio”: cambia la qualità dell’idea di paesaggio, cambia la qualità del rapporto tra paesaggio e cultura, cambia la qualità del rapporto tra produzione del paesaggio e sua legittimazione col-

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lettiva; cambia in particolare la qualità delle authorities che sono legittimate a “riconoscere” i paesaggi in nome di collettività più o meno estese nel tempo e nello spazio. E la situazione, in questa serie di passaggi, si complica molto. Si complica innanzitutto a partire dall’idea di paesaggio, (anche nella sua interpretazione più tradizionale, come “altro” rispetto ai luoghi abitati dagli uomini, in particolare come “altro” dalla città) man mano che si complica il rapporto degli uomini con la “natura”. Man mano che la natura (naturans o naturata), oggetto di ammirazione estetica e di interpretazione artistica, diventa “natura-territorio”, oggetto dell’osservazione scientifica; e poi “natura-ambiente”, l’oikos, il luogo della vita umana, che per essere studiato richiede la creazione non solo di una nuova disciplina – l’ecologia – ma di una vera e propria dimensione culturale. In questi passaggi l’idea di natura si scompone, si articola, si arricchisce; e, con essa, quella di paesaggio. La natura come “altro” dai luoghi abitati dall’uomo – che è stata il soggetto originario del paesaggio – ne diventa un attributo: il paesaggio naturale è solo una delle componenti del paesaggio culturale; non solo non è più la sua dimensione principale ma non è neanche più individuabile come elemento autonomo e separato. Viaggi e paesaggi

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Quanto al rapporto tra paesaggio e cultura, è quando si incrocia con la dimensione del viaggio che la nozione di paesaggio esplode in una serie di articolazioni talmente complesse da diventare incontrollabili: tutto è, potenzialmente un “paesaggio” e ogni paesaggio è inevitabilmente un “paesaggio culturale”. L’incrocio tra viaggio e paesaggio è legata trasversalmente alla divaricazione fondamentale di cui ha scritto Alain Roger2: il paesaggio oggetto del­ l’ar­tialisation in visu (rappresentazione limitata e statica) è cosa molto diversa dal paesaggio “artializzato” in situ (realtà fisica, illimitata e dinamica). Ma, oltre a fondarsi su que-


sta distinzione fondamentale, che amplia molto l’ambito del paesaggio e dà significati differenti all’aggettivo culturale, il viaggio contribuisce a far compiere all’idea di paesaggio un passaggio fondamentale, in particolare per chi studia il tema del paesaggio culturale dal punto di vista dell’architettura. L’origine dei voyages settecenteschi è legata all’interesse per il paesaggio naturale e per quello archeologico che hanno in comune il fatto di appartenere a un tempo differente, a una longue durée (per dirla con il linguaggio di Braudel) che racconta storie molto distanti da quelle legate agli événements che misurano la vita degli uomini: lo spazio della natura è senza tempo per definizione, quello dell’archeologia lo diventa attraverso l’idea di “antico” che la cultura occidentale fa diventare “classico”, e quindi senza tempo. E se i luoghi sono senza tempo (ce lo insegna Einstein) sono anche senza spazio: le bellezze naturali e le grandi testimonianze archeologiche sono quasi immediatamente – e poi definitivamente – sottratte alla loro “territorialità” originaria (di cui al massimo diventano “simboli” e oggi diremmo landmark). Fin da allora si comincia a costruire una rete di extraterritorialità di alcuni siti che sono riconosciuti come “luoghi della bellezza” in quanto “luoghi della cultura” e viceversa. In nome di questa doppia qualità questi saranno individuati per primi come i siti da proteggere. Non è un caso che a queste due categorie appartengano all’inizio i luoghi individuati dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità: ma, molto più che nel Secolo dei Lumi, al tempo dell’Unesco è l’azione trasformatrice dell’uomo che mette a rischio i “patrimoni”: basta pensare che tutto nasce con la costruzione della diga di Assuan che costringe a “de territorializzare” l’area archeologica di Abu Simbel … e la natura di questa “prima volta” è un indizio importante della validità della riflessione che ho appena esposto: la deterritorializzazione può materialmente realizzarsi proprio perché è già in qualche modo “contenuta” nell’oggetto. Ma, tornando al cambiamento che il viaggio produce

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sull’idea di paesaggio, ben presto – molto prima che il viaggio diventi un fenomeno di massa – i viaggiatori cominciano a muoversi alla ricerca delle città. E se i paesaggi naturali e quelli archeologici potevano ancora tenere insieme l’idea dei paesaggi in visu e di quelli in situ, il viaggio nei paesaggi costruiti e abitati dagli uomini, nei paesaggi temporalmente e spazialmente indeterminati, il viaggio nelle città, sposta definitivamente l’asse nella seconda direzione e propone una impressionante moltiplicazione dei paesaggi in situ, nuovi “oggetti del desiderio”, nuovi oggetti della descrizione, dell’interpretazione, della narrazione dei viaggiatori che a loro volta producono nuovi paesaggi, in visu: le rappresentazioni delle città, i “ritratti urbani” costruiti nelle più diverse forme, letterarie, grafiche, cinematografiche si moltiplicano in maniera proporzionale alle esperienze di viaggio. Agli albori della modernità l’”autenticazione” dei paesaggi, la loro trasformazione in oggetti culturali condivisibili da altri (ancora pochi, allora) spetta ai colti viaggiatori europei che alternano descrizioni soggettive a sforzi consistenti di oggettivazione del loro sguardo: rilievi, cartografie e poi dagherrotipi e fotografie dei viaggiatori contribuiranno alla conoscenza “para-scientifica” dei luoghi di interesse – tra cui ormai sono compresi molti “paesaggi urbani” – in una forma olistica che verrà progressivamente sostituita dalla segmentazione scientifica delle differenti discipline applicate allo studio dei “territori”. Poi, nel 1835, Karl Baedeker avvierà in Germania la pubblicazione di un tipo di guida di viaggio che aveva l’obiettivo di eliminare ogni forma di emozione soggettiva per proporsi come uno strumento utile al nuovo soggetto “impersonale” e “innumerevole” che si muoveva alla ricerca dei “paesaggi del mondo”: il turista. È a partire da quei piccoli libretti con la copertina rossa che l’idea delle authorities che hanno il compito di orientare l’esperienza dei viaggiatori passa dai rappresentanti di una cultura d’élite a una nuova categoria di “funzionari della cultura”, impersonali e spesso anonimi, all’inizio racco-


glitori di esperienze e scritture collettive, poi sempre più protagonisti – nella loro appartenenza a una rete specializzata – della creazione di “paesaggi” buoni per tutte le stagioni e useful per tutte le culture massificate. Paesaggio e patrimonio Se l’incontro con “il viaggio” produce un ampliamento significativo della “dimensione” e della “quantità” dei paesaggi (culturali) e l’ingresso ufficiale nella loro casistica di quelli che chiamiamo “paesaggi urbani”, l’intreccio del concetto di paesaggio con il concetto di patrimonio produce una vera e propria esplosione, anche perché il concetto di patrimonio, ancora più dell’idea di viaggio, è soggetto a una serie di cambiamenti e di continue integrazioni che ne rendono difficile l’identificazione. Patrimonio … guardiamo l’etimologia latina: pater che significa padre e munus che significa compito: patrimonio è “compito del padre”. Il pater è il pater familias: è l’autorità riconosciuta dal nucleo fondativo di qualsiasi comunità umana, che è la più piccola delle comunità: la famiglia. Per estensione: costruire un patrimonio è compito dell’autorità archetipica riconosciuta dalla comunità archetipica. In francese e in inglese il termine diventa più esplicitamente heritage: il patrimonio è “un’eredità”. E l’eredità è quella che si lascia ai figli ma è anche quella che si riceve dai padri. Ho detto fin dall’inizio che le prime parole su cui costruire il discorso sul “paesaggio culturale” sono autorità e collettività: a queste ora dobbiamo aggiungere la parola eredità e, con essa, la parola tradizione. Il discorso sul patrimonio è complesso quasi quanto quello sul paesaggio culturale: anche qui la bibliografia è sterminata. Un riferimento importante è il libro di Françoise Choay che ha come titolo L’allegoria del patrimonio3: tra le tante questioni trattate è utile qui ricordarne due. La prima rappresenta per certi versi lo sfondo delle riflessioni che vado esponendo. Il concetto di patrimonio è universale ma la sua “materializzazione” non lo è affatto. Tutte le cul-

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ture hanno un’idea di patrimonio ma queste idee sono molto diverse tra loro. E, nella contemporaneità, l’emergere di realtà culturali tenute ai margini dalle culture vincenti, con la complicità della storia o della geografia, già da tempo ha posto gli europei e gli anglosassoni di ambedue le sponde dell’Atlantico di fronte a un panorama globale molto complesso. Valga per tutte la diversità della cultura orientale che dà molto più valore alla conservazione dell’immagine nello spazio che non a quella della materia nel tempo, a cui gli europei sono invece indissolubilmente legati. Ovviamente queste diversità (che a scala più minuta si trasformano in un “sistema di differenze” teoricamente infinito) rendono il discorso sul Patrimonio, e in particolare sul Patrimonio dell’Umanità, molto complesso e portano in primo piano la questione della natura (mondiale / sovranazionale / nazionale / societaria / comunitaria / individuale), della qualità (culturale / economica / sociale) e della quantità delle authorities, deputate alla identificazione e alla protezione dei beni: come testimonia del resto la lista dell’Unesco, qualificata a partire dal 1994 dagli aggettivi “rappresentativa”, “bilanciata”, “credibile” che dicono molto di questa complessità. Questa dimensione del sistema delle differenze – nella condizione oppositiva tra globale e locale che è tipica della contemporaneità – è una delle spinte che portano alla continua de-costruzione e ricostruzione del concetto di paesaggio culturale e rendono veramente difficile costruire un discorso generale su questo tema. Le mie stesse riflessioni sono “viziate” da una prospettiva territoriale, quella italiana, innanzitutto, e poi quella europea: due prospettive storicamente molto importanti e molto prepotenti, che hanno orientato la politica culturale mondiale (in particolare, ma non solo, quella dell’Unesco) in maniera molto significativa almeno per tutta la seconda metà del secolo scorso. Tra l’altro, come si sa, la cultura italiana è stata sempre particolarmente segnata dal tema della storia, della conservazione, della tutela non solo dei “beni culturali” ma anche del “paesaggio”. Il tema è richiamato addirittura in un arti-


colo della Costituzione della Repubblica (l’art. 9) che recita: “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”; ed è utile ricordare che questa formula fu preferita (dai Padri della Costituzione che la scrissero nel 1946, subito dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, in un paese devastato e diviso) all’altra che recitava “lo Stato protegge il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”; una differenza importante sia rispetto al tema dell’authority (la Repubblica e cioè tutti i cittadini e non solo lo Stato che li istituzionalizza) sia rispetto al tema dell’azione, che da protezione diventa tutela; la protezione può anche essere un’azione passiva: la tutela no. Ma tornando ai due temi sollevati dalla Choay, se il primo, quello della “diversità” rappresenta lo sfondo del ragionamento che stiamo seguendo, il secondo ne è invece parte costitutiva. Si tratta del ruolo epocale che la rivoluzione industriale svolge nella “nascita” dell’idea di patrimonio in Europa. In epoca pre-industriale, il patrimonio nel quale le comunità si riconoscevano era costituito dai “monumenti”, costruiti e legittimati dalle authorities (il potere temporale e quello religioso), che guidavano (anche culturalmente) le comunità. I monumenti (anche qui l’etimologia latina monere è importante) avevano il compito di “ammonire” e “rammemorare” con la loro bellezza e con il loro significato, con la loro grandezza e con la loro potenza: avevano una funzione rappresentativa e una funzione educativa. Erano quelli gli elementi da conservare e trasmettere ai posteri. Anche molte altre cose, in realtà, venivano conservate e trasmesse ma quest’altro tipo di eredità apparteneva a una cultura popolare implicita, non codificata e non controllata: a una “cultura materiale”. Con la rivoluzione industriale tutto cambia: il patrimonio, da quel momento, non sarà più rappresentato solo dai monumenti ma anche dai documenti, e in particolare da tutte quelle testimonianze di un tempo e di una società fondati sulla cultura materiale. Da tutte quelle testimonianze che la rivoluzione tecnica e scientifica stava cancellando, distrug-

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gendo, sostituendo, e comunque rendendo “inattuali” o perfino “inutili”. Tutti questi materiali occupano uno spazio nel presente ma appartengono a “un altro tempo” e quindi si trasformano in “materiali archeologici”. Proprio in quanto tali e solo in quanto tali, in quanto testimoni di una tradizione (e tradere in latino significa “portare avanti”, “trasmettere”), possono/devono essere conservati. Non è difficile comprendere, alla luce di questa importante “opposizione”: monumento/documento, perché le città entrino a pieno titolo nella casistica degli oggetti del patrimonio e dell’heritage. Se, come scriveva Victor Hugo, l’architettura è il gran libro dell’umanità, la città – lo scriveva Levi-Strauss – è addirittura la cosa umana per eccellenza. E qui non si può non sottolineare il ruolo importante che, tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, la cultura italiana ha avuto nella costruzione di un discorso teorico, e a tratti perfino “scientifico”, sulla città e sugli elementi materiali che la costituiscono: sul rapporto tra tipologia edilizia e morfologia urbana; sulla forma e la relazione tra le parti di cui è composta; sull’idea di “monumento” che non è più guardato per le sue caratteristiche artistico-formali ma per la posizione che occupa nella città e per il ruolo di permanenza e di polarizzazione che assume. In quelle teorie si parlava della città come manufatto: uno “strumento” per la vita degli uomini fatto dagli uomini, come tanti altri strumenti costruiti. Un contributo importante. Ma siamo ancora lontani dall’idea di paesaggio urbano; anche se Aldo Rossi già nel 1966 parlava di memoria e di ritratti di città, di città analoga e di locus (oltre che del genius loci di cui parlava anche Christian Norberg Schultz): lo ha ricordato, quarant’anni dopo, Peter Eisenmann che ha sottolineato la capacità anticipatrice di Rossi rispetto alla costruzione dell’idea di un paesaggio urbano che si apre alla dimensione immateriale4. Ma torniamo al tema del “documento”. Sappiamo tutti che la “dimensione” del patrimonio – una volta assunta la forma del “documento” – ha subito negli ultimi due secoli una impressionante amplificazione. I “monumenti” forse si


possono contare, i documenti no, sono innumerevoli. Più dei monumenti i documenti possono essere riconosciuti come patrimonio da collettività molto piccole, perfino da un singolo individuo; i documenti assumono forme materiali diversissime, e non sono neanche necessariamente “materiali”5. Quando si parlava di patrimonio pensando ai monumenti o finché si parlava di patrimonio pensando alle manifestazioni più stabili, più durevoli della cultura materiale (i centri storici per esempio), l’architettura e l’urbanistica erano in testa alla già folta schiera dei custodi della nozione di patrimonio. Man mano che l’idea di patrimonio si è estesa – e soprattutto da quando ha abbracciato una quantità di aspetti “immateriali” della cultura tradizionale – la sociologia, l’antropologia, le scienze umane nelle loro molteplici accezioni hanno conquistato immensi spazi d’azione e una grande autorità nella “costruzione del patrimonio” e nella sua “legittimazione”. Si capisce allora perché le città, più e oltre che essere viste come “manufatti”, sono state viste come paesaggi in situ per eccellenza; e si capisce anche perché, molto più che i singoli monumenti/documenti, si propongano – come portatori di una specifica Stimmung – come emblema dell’heritage da ricevere, conservare e trasmettere. Ma a questo punto si aprono due questioni: una è legata al problema della classificazione, l’altra è legata al problema della legittimazione. E ambedue si incrociano con l’ambigua nozione di “paesaggio storico urbano”. HUL (Historic Urban Landscape) Il paesaggio della prima modernità era “altro dalla città”, quello della modernità industriale include la città nella sua forma “storicizzata” (quella che corre il rischio di essere cancellata dal progresso): nella post-modernità il concetto di città entra in crisi, entra in crisi l’idea della sua forma compiuta, entra in crisi la sua opposizione alla “campagna”, al territorio non urbanizzato. La città informale, la città ge-

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nerica fanno parte ormai dei “paesaggi urbani”. Cambia l’idea di spazio e cambia il ritmo del tempo: i cambiamenti si producono con una velocità sempre più accelerata. Sappiamo dunque che oggi è difficile parlare di città e più difficile ancora è parlare di città storica, visto che l’accelerazione del tempo dei cambiamenti e il cambiamento dello stesso concetto di “storia” rende “storiche” sempre più cose (in Italia viene considerato “storico” qualsiasi edificio pubblico che abbia più di 50 anni; e il “centro storico di Napoli”, sito Unesco, comprende parti di città che si sono sviluppate nel Novecento) se poi invece che di città parliamo di paesaggio, è veramente difficile definire la “classe” dei paesaggi storici urbani, a meno che non si voglia pensare alla città storica come paesaggio in visu, (l’immagine della città storica) invece che come paesaggio in situ (la città come paesaggio da vivere e attraversare): ma questo sarebbe contrario all’idea stessa di paesaggio culturale … Quanto alla legittimazione, a chi spetta definire quali e quanti sono i “paesaggi storici urbani” nel momento in cui la città non è più un organismo unitario e concluso? nel momento in cui alle logiche top-down si contrappongono le pratiche bottom up?6 nel momento in cui alla autorità culturale degli “storici urbani” si affiancano o si sostituiscono le parish maps delle comunità locali o gli itinerari delle multinazionali del turismo (moltiplicati, ambedue dalle straordinarie potenzialità delle ICT)?7. L’idea di paesaggio urbano storico è dunque molto ambigua e si capisce perché sia “vista por multos como desnecessaria e redundante”8. E per molti potrebbe essere anche pericoloso per la ricerca architettonica considerare il paesaggio urbano storico come una possibile enclave disciplinare: come la classe dei paesaggi culturali di cui l’architettura è legittimata a diventare l’authority principale. Ma sappiamo dalle scienze della comunicazione che la “ridondanza” è una parte importante del messaggio, quella che spesso ne consente la comprensione; e sappiamo da Hölderlin che “lì dove c’è il pericolo c’è anche ciò che salva”. Partendo da queste due considerazioni, e questa è la


tesi che propongo, ritengo che valga la pena di usare il concetto di paesaggio urbano storico, perché anche attraverso la de-costruzione di questo termine l’architettura può contribuire alla costruzione del concetto di paesaggio culturale, provando a riempire un vuoto. L’enorme vuoto che esiste tra il riconoscimento istituzionale che l’Unesco – con la sua Lista dei Siti Patrimonio dell’Umanità – attribuisce ai punti di eccellenza di una geo­ grafia e di una storia globali e il riconoscimento minuto e informale che piccole collettività costruiscono intorno a pae­saggi locali, densi di bellezze, di memorie e di valori che anche altri (anche se magari non proprio tutta l’Umanità!) potrebbe riconoscere e condividere. Riempire questo vuoto potrebbe anche contribuire a evitare le distorsioni contenute nei due estremi dell’opposizione locale/globale. Distorsioni di cui si discute molto, che hanno a che vedere con le due parole-simbolo della nostra condizione contemporanea dal punto di vista economico e dal punto di vista politico: mercato e democrazia. Quanto incide sui meccanismi economici del turismo mondiale l’inclusione nella lista Unesco? La discussione è aperta, ma non c’è dubbio che l’appartenenza alla lista individua gli “hub” di una rete globale di eccellenza che incide sul mercato in molte forme; non c’è dubbio che, nel momento in cui questa lista diviene oggetto del mercato, il rischio di etero-direzione dei fini è molto forte; e non c’è dubbio soprattutto che la logica di un’authority mondiale garantisca una formale rappresentanza istituzionale top down ma sia incapace di gestire e di accogliere pratiche di riconoscimento non istituzionalizzate, bottom up. Queste pratiche, d’altra parte, sembrano invece del tutto legittimate dalle considerazioni che vengono riportate nella Home page del sito della lista dell’Unesco a proposito del concetto di patrimonio: Patrimonio è ciò che abbiamo ereditato dalle generazioni passate, ciò in cui oggi viviamo, quello che lasceremo alle generazioni future. Gli elementi che compongono il patrimonio culturale e naturale sono insostituibili, fonte di vita e d’ispirazione. Tutti i luo-

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ghi sono unici e diversi. In questo senso il fatto che delle piccole collettività, e perfino dei singoli individui, si riconoscano e si rappresentino attraverso l’appartenenza a un luogo e si dedichino alla sua valorizzazione ha molto a che fare con i principi base della democrazia. Ma il rischio che il legittimo discorso che mette in relazione paesaggio culturale e identità locale diventi chiusura, esclusione, localismo è molto forte. Si corre il rischio di costruire una nuova distanza tra gli abitanti e gli “altri”, incompatibile con l’idea contemporanea di paesaggio culturale. E su questo punto dice bene Marco Trisciuoglio: Questo riconoscimento dell’identità da parte dell’individuo o della comunità, serbando tutta la sua maggiore schiettezza rispetto all’identità preconizzata dalle istituzioni (attraverso la nozione di inalienabili “beni culturali”) deve tuttavia riuscire a fare il salto più importante: quello verso la comunicazione all’altro da sé che sono le altre e diverse comunità, gli altri e diversi individui9. Sharing

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Per dirla in breve: se il paesaggio culturale si definisce attraverso un’interpretazione, un “riconoscimento”, nella condizione contemporanea – in tempo di mercato e di democrazia – per cercare di evitare i “rischi” dell’uno e del­ l’altra dobbiamo ricorrere alla logica dello sharing. Dentro il concetto ambiguo e potenzialmente pericoloso di paesaggio urbano storico sono contenute quasi tutte le contraddizioni, o potremmo dire meglio le “opposizioni”, che caratterizzano l’ordine del discorso (per usare l’espressione molto evocativa di Michel Foucault) sui paesaggi culturali tra globale e locale. Queste tre parole messe in fila – paesaggio, urbano, storico – come in parte abbiamo visto, assumono un senso preciso solo se si accetta di ancorare ciascuno di loro a dei significati molto riduttivi, solo se si accetta una semplificazione schiacciante: tanto giustificabile quando viene usata dalle authority mondiali o sovranazionali (la Comunità Eu-


ropea istituzionalizza Itinerari invece che Siti, ma il discorso è abbastanza simile) – quanto inaccettabile sul piano scientifico e culturale. Se queste tre parole e le loro combinazioni vengono invece decostruite – come in parte abbiamo fatto finora discutendo della sola idea di paesaggio – la riflessione sui paesaggi urbani storici potrebbe diventare un luogo fertile anche per la cultura architettonica. E allora, forse, se la cultura architettonica vuole continuare a contribuire alla costruzione del concetto di paesaggio culturale, potrebbe utilmente metterlo in contatto con l’ambiguità della città contemporanea, che mette in crisi per definizione la struttura lineare del paesaggio storico: che è contemporaneamente la polis greca, luogo di democrazia, la città dell’epoca post-antica, luogo del mercato, e la città generica, reticolare, informale, de-territorializzata del presente, hub materializzato della cultura della rete. Tutte queste cose vengono ancora chiamate e riconosciute come città. In più, la città è un concetto fortemente “politico” che garantisce una riconoscibilità istituzionale a livello globale; è il luogo delle forme istituzionali che riescono a tenere insieme società e comunità (Gesellschaft e Gemeinschaft). È nella città che la logica delle authorities più o meno legittimate può essere messa in crisi, nel senso migliore del temine. Perché lì il bottom up è più potente; perché lì la complessità e l’intreccio rendono più difficili le classificazioni a priori che tutelano ma anche uccidono la “diversità”. Ma la città è anche una forma strutturale che garantisce “somiglianza” e “diversità” alle sue infinite manifestazioni materiali. E l’architettura è ancora legittimata a dare la sua versione sulle città (qualunque sia la loro definizione), sia perché il tema dei paesaggi culturali continua a incrociare le questioni formali, materiali, durevoli dei “fenomeni” urbani sia perché la cultura architettonica si confronta da sempre anche con quelli immateriali. Alcune città sono incluse nella lista Unesco ma dentro il

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loro stesso corpo, nella loro versione multi-scalare, si possono scoprire tutti quei paesaggi informali, che non sono oggetto di uno sharing strutturato e ufficializzato, riconosciuti e condivisi solo da pochi “abitanti”; tutti quei paesaggi “intermedi”, di “soglia”, di “margine”, tutti quei paesaggi che ibridano natura e artificio, riconosciuti solo da chi vi appartiene e dai “viaggiatori curiosi e colti”. Credo che questa operazione sia molto facilitata dall’esistenza delle reti (in tutte le loro forme); ma le reti non sono omogenee, alcune sono molto potenti e fatte di pochi punti: come le stelle più grandi del firmamento brillano molto, tutti le vedono e le loro geometrie relative disegnano figure che diventano simboli. Il firmamento è occupato però da un reticolo fittissimo di altre stelline, infinite: ma la loro luce è debole, sono invisibili e non costruiscono relazioni privilegiate; come la via Lattea sono visibili solo come “masse di punti accostati” che talvolta seguono una direzione. Queste stelline diventano individualmente visibili solo quando si trasformano in “supernove”, quando si bruciano, quando muoiono: e, fuor di metafora, non è difficile pensare ai tanti luoghi “invisibili” che vengono condivisi mediaticamente solo quando sono oggetto di una catastrofe, solo quando sono perduti. Le reti non sono omogenee, dicevo: è evidente che le authorities praticano forme di sharing molto potenti (tanto potenti da diventare pre-potenti, ordinative, come direbbe ancora Foucault); ma non c’è dubbio che la condizione reticolare nella quale ci muoviamo è un ambiente – verrebbe da dire un “paesaggio” – che rende possibile questa grande sfida culturale: misurare e abitare la distanza che separa la rete mondiale dalle reti locali. Per raccogliere questa sfida non è possibile limitarsi a permettere alla rete minuta di esistere: bisogna aumentare le forme dello sharing, bisogna costruire relazioni il più possibile fitte tra la rete potente e quella debole; costruire percorsi che consentano al maggior numero di persone di passare da una rete all’altra, in ambedue i sensi, di saper interpretare il senso e i disegni della rete superiore e soprat-


tutto di viaggiare dentro le reti intermedie, costruendo relazioni e disegni multiformi e molteplici, infiniti nuovi paesaggi culturali. Per concludere: credo che la cultura architettonica debba conquistare un ruolo di authority nell’immenso spazio che oggi separa le liste elitarie del Patrimonio Mondiale e i tanti paesaggi locali distribuiti sulla superficie del mondo e che il concetto scivoloso e ambiguo di paesaggio urbano storico possa essere un utile punto di ingresso per affrontare questo compito. La cultura architettonica deve essere capace di de-costruire, articolare, ampliare questo concetto assegnando ai tre termini che compongono la definizione il loro significato più ampio, aggiornato e condiviso. Cosi lo spazio che separa globale e locale potrà essere finalmente riempito con infiniti paesaggi urbani storici che rappresenteranno le “stelle intermedie” nel firmamento dei paesaggi culturali, quelle che gli uomini riconoscono simili alle “stelle-guida” e che consentono a tutti di riconoscere alcune figure; ma anche quelle che consentono a ciascuno di intravedere figure diverse, di costruire in quel firmamento il proprio personale itinerario e di condividerlo con tutti quelli disponibili a riconoscerlo. 1  M. Jacob, Il paesaggio, Il Mulino, Bologna 2009, p. 125. Cfr. anche, dello stesso autore, Paesaggio e tempo, Meltemi, Roma 2009. 2   «Le pays, c’est, en quelque sorte, le degré zéro du paysage, ce qui précède son artialisation, qu’elle soit directe (in situ) ou indirecte (in visu)». A. Roger, Court traité du paysage, Gallimard, Paris 1997, p. 18. 3 Cfr. F. Choay, L’allegoria del patrimonio (1992), trad. it. Officina, Roma 1995. 4 “Il locus, come la permanenza, è un componente dell’artefatto individuale, determinato non soltanto dallo spazio ma anche da tempo, topografia e forma e, cosa più importante, dall’essere stato il sito di una successione di eventi sia antichi, sia più recenti. Per Rossi la città è teatro di eventi umani. Tale teatro non è più soltanto una rappresentazione: è una realtà. Assorbe eventi e sentimenti, e ogni nuovo evento contiene in sé la memoria del passato e la potenziale memoria del futuro. Il locus è dunque un sito che può accogliere una serie di eventi ma che allo stesso tempo costituisce di per sé un evento. È in questo

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senso un luogo unico e caratteristico, un locus solus”. P. Eisenman, Case della memoria, in Inside out, Scritti scelti 1963-1988, (2004), trad. it. Quodlibet, Macerata 2014, p. 228. 5 Il discorso sui documenti e sulla “documentalità”, che ha recentemente avuto una estesa trattazione soprattutto attraverso il contributo di Maurizio Ferraris, incrocia, seppur in modo trasversale, i termini del discorso sui paesaggi culturali. Cfr., in particolare, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari 2009. 6 “Da criterio apparentemente insignificante nell’economia del Cyberspazio, oggi i luoghi stanno diventando la metafora più utilizzata per organizzare e ricercare l’informazione nel web, e anche una dimensione sempre più rilevante nei processi di costruzione ed espressione della propria identità in rete … Non stiamo assistendo semplicemente a un cambiamento nelle pratiche di mappatura o di visualizzazione dei dati geografici. La produzione di contenuti e conoscenza geografica attraverso il web e i social network sta di fatto modificando il modo con cui le persone conoscono e fanno esperienza dei luoghi producendo … le Net Localities: paesaggi ibridi di bit e atomi, di informazione e materia, nuovi spazi sociali in cui i confini tra flussi e luoghi, tra contesti remoti e contigui non possono essere più definiti con chiarezza e in cui le tecnologie location aware possono essere utilizzate in modo costruttivo per tessere legami tra persone, comunità e luoghi”. G. Bertone, S. Monaci, Gli strumenti ICT per la valorizzazione del paesaggio: dal cyberspazio all’ipermediazione dei luoghi, in I paesaggi culturali. Costruzione, promozione, gestione, a cura di M. Trisciuoglio, M. Barosio, EGEA, Milano 2013, p. 215. 7 “Il turista investe tempo, sforzo e denaro per visitare luoghi e scenari dei quali possiede qualche notizia, ma le conoscenze del turista sono indotte dalla pubblicità diretta o indiretta … ha preso forma un immaginario turistico che, necessariamente, si basa su dei topici, ovvero su ‘luoghi comuni’ che è necessario ripetere affinché determinate immagini di luoghi, città e monumenti divengano immediatamente riconoscibili dalla maggior parte della popolazione mondiale”. J. Maderuelo, Iconografie del paesaggio: il territorio e l’immaginario, in I paesaggi culturali, cit., p. 100. 8 Questo giudizio rappresentava una delle premesse di un Colloquio organizzato recentemente dall’Università di Belo Horizonte in collaborazione con il locale Ministero della Cultura, in cui il concetto di Historic Urban Landscape è stato messo in discussione, in una prospettiva non eurocentrica. 9 M. Trisciuoglio, L’abitante e il viaggiatore, in I paesaggi culturali, cit., p. 19.

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Ancora sul rapporto tra arte e pubblico LUCIANA BERTI, BRUNELLA VELARDI

Cinquant’anni fa «Op. cit.» pubblicava l’ormai nota inchiesta dal titolo La critica discorde, nella quale si raccoglievano interventi di critica all’arte contemporanea di alcuni tra i più illustri pensatori tra Otto e Novecento1. Di recente alcuni studi sono tornati su quel fascicolo numero 4 del 1965, riprendendone i temi principali alla luce di nuove riflessioni2. L’allontanamento dalla natura e dalla sua rappresentazione mimetica, il conseguente disinteresse per l’uomo e per la religione, la caduta dell’arte nella tecnica erano gli aspetti presi in esame dalla prima generazione di critici in relazione all’Impressionismo prima, e ai movimenti d’avanguardia poi, a partire da una destrutturazione della figuratività del referente già riscontrabile nell’Espressionismo e nel Cubismo e portata a compimento con l’approdo all’elemento performativo e all’effimero, introdotti dal Futurismo, dal Dadaismo e dal Surrealismo. Prese poi in esame le posizioni di una seconda generazione di critici che si muovevano sulla falsariga precedente, ne è emerso il rischio di un disinteresse reciproco tra artisti e pubblico e dunque di una frattura tra società e arte contemporanea che rende inevitabile fornire risposte alle domande che sempre più frequentemente si levano da un pubblico spesso incredulo e diffidente, quando non sprezzante. Eppure, molti sono i dispositivi di cui buona parte degli artisti di oggi si avvale proprio per ricucire quella “ferita”

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che, dalle avanguardie in poi, è sembrata finora insanabile. D’altra parte, se il modernismo ha avuto come necessario corollario il postmodernismo, oggi la ricerca artistica è tutta tesa a definire la società attuale e a delinearne possibili futuri. Talvolta a tentoni, talaltra cogliendone l’essenza più profonda, l’artista contemporaneo cerca di rintracciare il senso dell’esistenza in sé e in quanto relazione col mondo. La rimeditazione estetica sulle manipolazioni del corpo, sull’ibridazione uomo-macchina e uomo-natura vanno appunto in questa direzione e se da un lato segnano un drastico distacco dalla religione tradizionalmente intesa, dall’altro rintracciano nuove frontiere di una spiritualità che non ha più nulla di metafisico ma, il più delle volte, si concretizza appunto in una riflessione su una fisica aristotelicamente intesa, che ne diviene il nuovo referente. L’innegabile, radicale trasformazione, che coinvolge la struttura stessa del­ l’arte, non può tuttavia non essere definita in relazione ai profondi mutamenti che il mondo ha subito (o provocato) a partire dal XX secolo. Accanto ai nuovi orizzonti tecnologici, all’ipercomunicazione e alla moltitudine di scambi che annullano o riducono drasticamente le barriere geografiche e culturali, si assiste a una sorta di ipertrofia di linguaggi, che se in parte rischiano di reiterarsi al punto da scadere nella sterilità3, per altra parte si rivelano in grado di formulare soluzioni nuove e perfino accattivanti per il pubblico, che nella ridefinizione dei ruoli e delle responsabilità prende ormai parte al processo di attivazione dell’opera. Sebbene abbia sempre avuto un ruolo attivo nella decodificazione dell’oggetto estetico, oggi lo spettatore sembra occupare una posizione prioritaria. Infatti, avvertiva Eco, il fruitore interviene a colmare i vuoti semantici, a ridurre la molteplicità dei sensi, a scegliere i propri percorsi di lettura, a considerarne molti a un tempo – anche se mutuamente incompatibili – e a rileggere lo stesso testo più volte, ogni volta controllando presupposizioni contraddittorie4. Benché sembri essersi stabilito un interesse inedito per il fruitore come parte necessaria nella presentazione dell’opera, non di rado tuttavia si riscontra nel pubblico una sensa-


zione di frustrazione nell’aggirasi tra le opere d’arte contemporanea a causa di un lessico settoriale e di una frammentazione dei valori di riferimento che, invece, la televisione riesce a sintetizzare, accordando gusti, stili e interessi del pubblico di massa. Nonostante gli sforzi degli artisti e dei mediatori – dal curatore al critico, dall’operatore didattico alla guida – il cortocircuito è innegabile. L’artista ha cominciato a impiegare le sue forze per incontrare il pubblico, non riuscendo a trovare un lessico condiviso5. L’opera, infatti, risulta respingente poiché in essa è attiva una dialettica di accettazione e ripudio dei codici dell’emittente e di proposta e controllo dei codici del destinatario6. Una negoziazione non semplice, suscettibile di adattamenti continui e riformulazioni complicate anche dalla grande quantità di opere prodotte per le quali – similmente a quanto accadeva, in passato, alle copie di bottega qualitativamente inferiori, di cui sono rimaste scarse tracce – la selezione è operata dalla fortuna e dalla storia; in entrambi i casi, il ruolo del critico, del divulgatore, del mercato e delle istituzioni si rivela determinante. L’opera non catalizza più i desideri del pubblico, benché essi siano centrali e soddisfatti attraverso altri sistemi, tra tutti, il cinema che, con la sua vocazione spettacolare e popolare, supera teatro, arte e letteratura. Recuperando il referente, il dato sensibile, rintracciando la ricezione nella distrazione7, il cinema si avvale di una densa stratificazione di messaggi e della commistione di molte arti e tecniche, appagando e gratificando lo spettatore, poiché l’atteggiamento critico e quello del piacere del pubblico coincidono8. Nonostante ciò, l’arte rappresenta ancora uno dei riti più radicati, sebbene non sempre esperiti con consapevolezza: Il fatto che l’arte possa recuperare una dimensione rituale, aperta all’altro, può diventare un modo per rompere l’autoreferenzialità e per contrastare questo senso di impotenza diffusa, mascherata spesso da finta libertà, da involucro di simboli che ricopre in realtà un vuoto di principi, di metodi e di relazioni, ma anche grazie a una capacità d’interpretazione e di intuizione

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dell’artista che coinvolge la dimensione sensibile, emotiva e spirituale9. Inoltre, non va dimenticato che il problema della partecipazione del pubblico ai fatti dell’arte non è affatto antico, ma nasce in seguito ai processi di democratizzazione che investirono le istituzioni museali tra gli anni ’60 e ’70, i quali se da un lato hanno aperto i battenti a fasce più larghe di visitatori, al contempo hanno imposto una riflessione, ad oggi tutt’altro che chiusa, relativa all’accesso delle masse all’arte e dunque alle sue possibilità (o impossibilità) di comprensione. Ciò implica l’estensione del problema all’arte in generale e non, come più spesso si afferma sulla scia del «senso comune», specificamente all’arte contemporanea. Contro una nostalgica visione che vuole il pubblico del passato maggiormente consapevole e coinvolto, vale la pena rileggere le parole di William Morris datate 1883: Non c’è oggi nel pubblico alcuna reale conoscenza dell’arte, né un po’ d’amore per essa. Niente, eccetto, nel migliore dei casi, certi vaghi pregiudizi […]. Perciò gli artisti sono obbligati a esprimersi, per così dire, in una lingua non compresa dal popolo10. Proprio sul tema dell’accessibilità, Enrico Crispolti mette in chiaro alcuni degli equivoci più diffusi sulla fruizione dell’arte del nostro tempo, che, se presenta notevoli difficoltà di orientamento fra vicende disparate e spesso contraddittorie dello svolgimento multiforme della ricerca (al contrario dunque dell’arte del XIX secolo), può tuttavia offrire di fondo un’agevolazione di corretta disponibilità a un primo approccio, rispetto al confrontarsi con l’arte del passato. Sembrerebbero in effetti contraddirlo difficoltà pregiudiziali apparentemente banali, ad esempio la convinzione che si possa capire facilmente l’arte del passato, contrariamente a quella del nostro tempo, che apparirebbe al confronto del tutto ermetica. In realtà l’arte del passato risulta, molto spesso, strutturalmente assai più complessa in termini ideologici che quella del presente. Nella sua sostanza l’arte del passato si fonda infatti su una trasmissione, a volte quasi cultu-


ralmente iniziatica, di valori ideologici codificati, ai quali fa costantemente esplicito o implicito riferimento, e a prescindere dunque dalla ricostruzione e apprendimento dei quali risulta di fatto incomprensibile nella sua reale consistenza storica al di là della banale soddisfazione di una riconoscibilità elementare di «figure». […] L’arte contemporanea sostanzialmente dialoga invece, e in misura assai più ipotetica, con strutture antropologiche elementari, basiche, sostanzialmente psichiche, piuttosto che con strutture elitarie di pensiero11. Una tale affermazione assume tutta la sua concretezza se si pensa al percorso di inclusione del fruitore intrapresa dal Minimalismo, fondato sul presupposto che l’opera non preesiste alla sua esperienza da parte del pubblico, e che molte delle ricerche successive hanno proseguito nel senso di un coinvolgimento sempre più totalizzante, secondo quel processo di trasferimento di senso dall’oggetto artistico, alla sua epidermide, all’ambiente in cui è inserito, fino a concretizzarsi nella coscienza di chi lo esperisce, come delinea­ to da Rosalind Krauss12. L’artista, ormai lontano dall’amara disillusione novecentesca, è dunque quanto mai prima d’ora interessato all’esperienza estetica del suo pubblico, annoverabile come nuovo referente: l’arte […] in Europa poggia sul rimando a criteri sempre più generali che coinvolgono non solo i livelli della creatività individuale, ma specialmente la sua collocazione nel contesto sociale. Ne risulta un impegno ideologico […]. L’artista europeo parte da questo stato di consapevolezza, accettando di operare attraverso il linguaggio specifico dell’arte, ma tentando di ribaltare tale specificità in progetto di trasformazione della realtà, assumendo l’arte come modello di comportamento alternativo13. Non possiamo, quindi, lamentare una reale disattenzione verso l’arte, non solo perché gli artisti si fanno carico di una nuova responsabilità verso il fruitore, ma anche per la maggiore forza con cui le istituzioni propongono opere contemporanee come elementi capaci di catalizzare l’attenzione degli spettatori. Più che un divorzio, ne emerge una

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sostanziale indifferenza verso l’opera, tenendo conto, però, della grande varietà dei possibili destinatari ai quali l’artista conta di rivolgersi. A contrastare l’indifferenza del pubblico troviamo in prima linea non tanto i critici, quanto gli artisti, che tentano – come si diceva – di guidare lo spettatore nella lettura dell’opera, con più o meno discrezione, sollecitando riflessioni e interrogativi. Dopo una fase di aperto contrasto con l’intero sistema dell’arte, gli stessi autori hanno compreso – che sia per opportunismo, per il peso dell’opinione pubblica e dei mass-media, oppure per il bisogno sincero di aprire un dialogo – l’urgenza di chiarire alcuni tratti della propria poetica. Tale vocazione è palese non solo in quelle opere denominate «relazionali», che per vocazione e statuto sono ideate e prodotte con il dichiarato intento di interagire con lo spettatore, ma anche in quelle rispondenti a canoni tradizionali e non dichiaratamente «aperte»14. In esse il referente è più che mai la realtà, intesa non come oggetto ma in quanto parte attiva nella concretizzazione dell’oggetto d’arte. Nell’opera contemporanea si ritrovano tutti quei rapporti parziali e contingenti che le persone quotidianamente individuano con gli oggetti, con gli altri individui, con il sistema. Quale forma questo dialogo arrivi ad assumere non è importante: infatti, come ricorda Angela Vettese, proprio perché i linguaggi artistici hanno subito un’apertura senza precedenti, l’idea iniziale richiede una realizzazione formale impeccabile, attentamente pianificata a priori e adeguata allo scopo e al luogo prescelti15. A un rinnovato e inclusivo processo creativo si accompagna anche una riformulazione del ruolo dell’artista, del suo rapporto con il contesto e con altri autori: Si trasforma la figura dell’artista singolo, unico artefice del processo artistico, alfa e omega del valore dell’opera, unico depositario dei percorsi di senso. Nasce l’autore come individualità collegata, espansa, neurone che riceve, attiva, traduce, interpreta e ritrasmette informazione in continua connessione con altre entità. È l’elemento propulsore del processo artistico-comunicativo, che si definisce


nella continua interazione tra co-autori, discipline, tecnologie e fruitori16. Una situazione simile ha rappresentato, dagli anni ’90 in poi, una delle possibili vie percorribili, avendo chiari gli intenti comunicativi e preventivando la necessità di stabilire una relazione attraverso il raggiunto accordo su un idioma condiviso. In tal modo, la frammentazione indotta dalla specificità dei linguaggi si ricompone attraverso la simultaneità di codici diversi e di specialismi, che originano prospettive mai percorse. La ricerca di Studio Azzurro è esemplare e rappresenta una realtà tutt’altro che marginale: il gruppo è stato scelto per la prima prova del Padiglione della Santa Sede alla 55ª edizione della Biennale di Venezia e le molte mostre che, da anni, si susseguono confermano il successo riscontrato dalla loro ricerca estetica, tra tecnologia e relazione. L’opera contemporanea, però, si dimostra ancora, il più delle volte, muta e ottusa. Ciò è dovuto a un preciso processo storico: Da quando l’arte si proclamò eccelsa, il suo isolamento si è fatto progressivo. Se la glorificazione a cui ogni opera aspira resta quella del Museo – elevazione dalla cronaca alla Storia – è necessario che intorno ad essa si crei un intervallo sacrale, un vuoto che solo apposite liturgie consentono di superare17. Olga Scotto Di Vettimo propone di rintracciare nella non-autorialità una delle vie percorribili per una revisione della percezione del ruolo dell’artista e del suo fare in relazione al contesto: È qui, in questa sempre presente e dilatata contemporaneità, che una nuova ricerca estetica si muove, affrancandosi da antiche questioni che riguardano l’idea del «genere» e della «forma» e sostituendo ad esse modalità alternative di costruzione di un diverso logos, che prevedono la mescolanza e l’ibridazione, il mash-up e il remix anche nel­ l’arte. Il primo a cadere (o a escludersi spontaneamente) è il concetto autoriale e con esso tutto il sistema fideistico che lo sostiene. Si assottiglia, fino a scomparire, la distinzione tra autore e fruitore perché ciascuno contribuisce ad alimentare il processo, mettendo tra parentesi l’idea della firma, con l’ambizione di costruire, infine, un «im-

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menso piano semiotico deterritorializzato», per dirla alla Lévy, in cui predominano dispositivi e processi18. L’opera trova, così, un nuovo terreno sul quale incontrare il suo pubblico, non più confinata nei luoghi deputati e con le modalità convenzionali ma negli spazi di condivisione. Ciò avviene tanto innescando una partecipazione estetica a tutto tondo, vale a dire una vera e propria esperienza corporea che precede immediatamente quella intellettuale, quanto una partecipazione di tipo sociologico, che chiama in causa le responsabilità dell’individuo nel sistema globale. In sostanza, se il fondamento della dinamica dell’immaginario collettivo è d’implicazione partecipativa, va tenuto presente che una tale misura s’insinua nella fenomenologia stessa dell’operatività artistica “contemporanea”, che spesso alla stessa implicazione esplicitamente aspira. […] E l’inerenza sociologica si puntualizza in una nuova attenzione da parte dell’artista alla ricettività dello spettatore, e dunque alla possibilità di una sua implicazione19. Nel primo caso gli artisti si avvalgono di espedienti come la scala ambientale e la multimedialità innescando meccanismi assai diretti e di immediato impatto fisico ed emotivo. La via minimalista fu in qualche modo proseguita perfino da un artista già largamente affermato come Henry Moore, se dalla fine degli anni ’50 iniziò a volgere i suoi interessi verso la scala monumentale, riconoscendovi una maggior capacità di relazione con il corpo umano20. Di questo filone fa parte Leviathan, lavoro di Anish Kapoor presentato al Grand Palais di Parigi in occasione di Monumenta 2011. Si tratta di un oggetto dalle dimensioni colossali, formato da tre sfere interconnesse in PVC rosso e fruibile in due modi: come scultura, camminandoci attorno, passando sotto le sue parti rialzate, osservandola a distanza dai ballatoi della grande veranda, oppure come ambiente, abitandola, entrandovi all’interno e inoltrandosi nelle sue concavità per scoprirne il cuore. Allorché ci si addentra nel ventre accogliente del mostro, le associazioni con la dimensione corporea sorgono spontaneamente, riportando suggestivamen-


te lo spettatore nell’utero materno. D’altra parte, dice Kapoor, il Leviatano è anche uno stato mentale. Esplorarne la concavità coincide con l’aprirsi al diverso (il mostro), esperire il sublime affrontandone il vuoto, per poi scoprire di essersi aperti a se stessi, aver vinto il terrore del buio e aver superato la paura della misura delle cose. Con esiti assai diversi, anche il concettualismo di Daniel Buren sembra aver ceduto il posto a una ricerca di tipo estetico-esperienziale con Come un gioco da bambini, opera in situ inaugurata nell’aprile 2015 al museo Madre. All’interno della grande sala al piano terra il visitatore è invitato a inoltrarsi tra grandi sculture composte dalle riproduzioni a scala ambientale dei moduli geometrici delle costruzioni per bambini. Man mano che procede, un’esplosione di colori prende il posto dell’algida monocromia iniziale e, alla rievocazione della purezza infantile attraverso il recupero delle più recondite memorie, si sostituisce un presente in cui le forme prendono vita grazie al colore, facendosi esperienza reale e non più immaginaria. L’ironico concettualismo di Buren si tramuta qui in un discorso sull’arte come gioco di riscoperta mediante la dimensione ludica grazie alla quale il bambino, come lo spettatore dinanzi all’opera, impara a conoscere il mondo. Anche i nuovi media e le recenti scoperte dell’informatica entrano efficacemente a far parte dei linguaggi dell’arte ampliandone l’orizzonte delle tecniche. Così, sostiene Maldonado, è indubbio che il rapporto arte-virtualità è un fatto di estremo interesse. […] Costituisce, a ben guardare, uno sbocco assai promettente al ricco ventaglio delle tendenze (e intuizioni) che si sono manifestate nel panorama dell’arte degli ultimi cinquant’anni21. Nell’ottica dell’utilizzo delle nuove tecnologie nell’arte in senso multimediale si muove il già citato Studio Azzurro, il cui lavoro unisce indissolubilmente l’opera e i suoi dispositivi di fruizione, cosicché le loro ricerche risultano efficaci in modo molto originale, anche nell’inventiva messa in atto negli allestimenti museali, che divengono essi stessi prodotti artistici.

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Nel secondo caso, la strada scelta è quella di una sorta di performatività collettiva che, attraverso l’invito a compiere gesti semplici, talvolta banali, riporta l’attenzione e la sensibilità del fruitore su temi di stringente attualità. Adrian Piper, vincitrice del Leone D’Oro alla 56ª Biennale di Venezia, ha proposto The Probable Trust Registry, opera nella quale il pubblico, dopo aver scelto una frase che rappresenta una dichiarazione di intenti tra le tre affisse al di sopra di seriose reception, (“I will mean everything I say”; “I will do everything I say I will do”; “I will always be too expensive to buy”), riceve un attestato che testimonia un impegno preso con se stessi. Sullo stesso binario si muove il lavoro, anch’esso presentato all’ultima Biennale, di Rirkrit Tiravanija che ha proposto Untitled 2015 (14,086), opera che prevede la vendita dei 14.086 mattoni, ognuno al costo di 10 euro, fabbricati nei giorni di apertura della kermesse. Il ricavato sarà devoluto ad un’associazione non profit attiva per i diritti dei lavoratori cinesi. Tiravanija espone un lavoro seriale, al quale attribuisce immediatamente un prezzo, inconsistente quanto basta per suscitare interrogativi sulla validità dell’operazione, estremamente paradossale per i desideri che riesce a provocare nel pubblico che si trova nella condizione di essere l’immediato acquirente, condividendo questo status con altre 14.085 persone. Il movente sociale e politico è, poi, esattamente calibrato per destare nel fruitore un senso di empatia e partecipazione nel momento dell’acquisto del mattone, elemento basilare per la costruzione di una casa. Conclusa, quindi, la stagione dello «sciopero dell’artista», si è innanzi a un rinnovamento del ruolo dell’artista nella società, consapevole della sua responsabilità nel definire il rapporto del pubblico con l’arte contemporanea. La critica, invece, sembra ancora arroccata in sistemi piuttosto chiusi, incapace, per indisponibilità o timore, di avventurarsi lungo strade impervie e di riformulare i suoi linguaggi. Chiamata a rintracciare lucidamente nuove traiettorie possibili, la critica ha la necessità di tornare ad essere punto


di riferimento per gli artisti e per il pubblico22. Entrano allora in gioco, accanto ad arte e critica, nuove componenti, tra cui la tanto avversata quanto imprescindibile «comunicazione», dalle istituzioni verso la comunità e al loro interno e sottoforma di quella che oggi viene più comunemente chiamata «didattica dell’arte». È ancora Crispolti, riprendendo il discorso sopra riportato, a porre nitidamente i termini della questione: In certa misura dunque l’approccio all’arte dovrebbe risultare relativamente più agevole rispetto a quello dell’arte del passato. Naturalmente molte delle difficoltà in realtà dipendono dalle spesso ancora limitate possibilità di un’esperienza effettiva di opere, intenzioni, problemi dell’arte contemporanea. Giacché se l’offerta di tali informazioni fosse maggiore, sia attraverso l’esistenza adeguata di musei specifici con una loro organizzazione didattica, sia attraverso l’educazione scolastica, il risultato sarebbe indubbiamente diverso23.

AA.VV., La critica discorde, in “Op. Cit.”, n. 4, 1965.  R. De Fusco, R. R. Rusciano, Tre domande. Questa è arte? Che significa? Non saprei farla anch’io? Un riesame, Altralinea-Intersezioni, Firenze 2014. 3   Cfr. R. Barilli, Prima e dopo il 2000, Feltrinelli, Milano 2006, p. 10. 4   U. Eco, Trattato di semiotica generale, Studi Bompiani, Milano 1975, p. 343. 5   Ivi, p. 329. 6   Ivi, pp. 341-342. 7  W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, pp. 44-46. 8   Ibidem. 9  A. Balzola, P. Rosa, L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica, Feltrinelli, Milano 2011, p. 160. 10  W. Morris, Architettura e socialismo, Laterza, Bari 1963, p. 71. 11  E. Crispolti, Come studiare l’arte contemporanea, Donzelli, Roma 2005, pp. 30-31. 12   Cfr. R. Krauss, Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land Art, Bruno Mondadori, Milano 2006. 13  A. Bonito Oliva, L’arte oltre il Duemila, Sansoni, Firenze 2002 pp. 311-313. 14  U. Eco, Opera aperta, (1962), Bompiani, Milano 2009, pp. 62-63. 1 2

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15  A. Vettese, L’arte contemporanea, Il Mulino, Bologna 2012, p. 99. 16   Materiali per un Manifesto dell’arte e della comunicazione nell’era virtuale, 1992-1999, in A. Balzola, P. Rosa, L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica, Feltrinelli, Milano 2011, p. 50. 17  M. Vitta, Il rifiuto degli dei, Einaudi, Torino 2012, p. 127. 18  O. Scotto di Vettimo, Weltanschauung 2.0 e la nuova fenomenologia della creatività: l’Ipermoderno, in “Zeusi. Linguaggi contemporanei di sempre”, n. 0, 2014. 19  E. Crispolti, op. cit., p. 130. 20  Cfr. Henry Moore. Late large forms, catalogo della mostra tenuta a Londra, Gagosian Gallery, 31 maggio - 18 agosto 2012. 21  T. Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 77-78. 22   A proposito delle responsabilità del critico e del suo rapporto con l’artista, Crispolti scrive: «l’intervento di sollecitazione riflessiva, di discussione, da parte del critico, se realmente questi sia partecipe a quel fare, può contribuire a trasformare tale inconsapevolezza relativa in più specifica consapevolezza, operativa, quanto ideale, insinuando nel lavoro dell’artista una dimensione di maggiore oggettivazione culturale, e quindi di maggiore collegamento e senso di orientamento», op. cit., p. 165. 23  E. Crispolti, op. cit., p. 32.

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Design: scenari morfologici della contemporaneità 1

CARLO MARTINO

Spesso chi fa ricerca o elabora teorie sul design dimentica cosa questa disciplina sia stata chiamata originariamente a fare e quanto la società si aspetti da essa. In un contesto scientifico che si muove tra le innovazioni tecnologiche informatiche (dall’Interaction Design al­ l’Internet of Things), la sostenibilità ambientale e la ricerca di Nuovi Modelli Sociali d’Innovazione2, ci si dimentica che il designer è sempre percepito (concepito) come un operatore estetico cui ancora oggi, come ricorda Roberto Verganti, i manager imprenditoriali chiedono (…) di rendere i prodotti belli3. Una mission del design che Francesco Trabucco, nelle sue recenti riflessioni, conferma: (…) Il mandato del design è far si che, di fronte alle cose che progetta, le persone dicano: “che bello!”4. Resta il fatto che, oggi, si avverte una certa reticenza a usare questo termine; si preferisce dire che un oggetto di design è funzionale, ingegnoso, interessante, rispondente ad uno status symbol, e cose simili; attributi certo necessari ma non sufficienti a specificare la principale valenza che è appunto quella estetica5. Nell’ambito di un design che muove dall’innovazione tecnologica, dall’uso di nuovi materiali o dalla risposta a nuove domande prestazionali, o ancora dalla risposta all’innovazione socio-economica che associa spesso il progetto alla strategia, il progettista, pur perseguendo un approccio

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etico, è, infatti, ancora chiamato a definirne gli esiti estetici. Per cui sembrerebbe quanto mai sensata di l’affermazione di Vanni Pasca secondo cui il nucleo fondativo del design è costituito dal rapporto tra etica ed estetica6. Il designer, infatti, deve essere in grado di compiere delle sintesi progettuali che si distinguono da ciò che design non è, che si differenziano per contenuti (sociali, ambientali e tecnologici) principalmente attraverso soluzioni morfologiche, colore, manipolazione dimensionale e per molti altri aspetti, da artefatti nati in contesti in cui la cultura del progetto è assente. È vero che, a partire dalla seconda metà del ’900, si assiste a una pluralità di approcci che documenta sia la complessità raggiunta dall’estetica del design sia la sua pervasiva diffusione7 e che, come sostiene Dario Russo, dagli anni Novanta in poi, tale complessità, ha portato alla convivenza di diverse espressioni con esiti morfologici anche molto distanti tra loro8, ma tale complessità non esime i progettisti dall’affrontare il loro compito principale. L’esteticità è (…) conditio sine qua non del design9 per cui diventa indispensabile per i progettisti – soprattutto in questa fase di crisi economico/culturale – non cedere a tutte le aberrazioni disciplinari che, in nome della trasversalità, aprono il design alle pratiche e ai metodi delle scienze sociali ed economiche, distogliendolo dal suo scopo originario. Grandi interessi economici e importanti prospettive di profitto, ma soprattutto straordinari contenuti culturali, passano ancora oggi, con forza, attraverso la buona qualità estetica e la soluzione morfologica degli artefatti. L’estetica del design, seppur complessa, è ancora lo specchio dello stato sociale, economico e culturale del nostro tempo. Analizzando i prodotti e le immagini elaborate negli ultimi anni, è possibile affermare che in questo senso il design contemporaneo è ancora vivo, e che le soluzioni estetiche adottate, prescindendo dalla coerenza dei segni e dalla conoscenza della loro origine (spesso assente tra i giovani designer globalizzati), sovvertono con forza le leggi consolidate della tradizione del design, innovando linguaggi e for-


me. Il design dei primi quindici anni del nuovo secolo, infatti, ha teso a sottolineare più le relazione tra segni che i segni stessi, a lavorare più sulla sintassi che sulle parole, operando contaminazioni culturali e sovversioni di regole codificate nel secolo precedente. Se il Novecento era riuscito, attraverso i grandi movimenti di avanguardia, a organizzare in semplici apparati segnici i filoni dell’astrattismo e dell’espressionismo, configurando dei veri e propri codici che hanno poi generato linguaggi e neo linguaggi, l’inizio del nuovo secolo sembra aver assunto un atteggiamento irriverente che ha rimesso in discussione tali logiche compositive e che può essere riassunto in alcuni filoni estetici. La casualità o il difetto, per esempio, rappresentano oggi un valore aggiunto nella concezione dell’oggetto, e non sono più un arbitrio progettuale o una causa di esclusione, come accadeva nel secolo scorso. Così come avviene nei rapporti tra l’unità (dell’oggetto) e le sue parti, tra l’intero e i suoi dettagli, che storicamente si configuravano come rapporti gerarchici in cui il dettaglio era sempre subordinato alle logiche estetiche dell’insieme. La sovversione delle gerarchie è più che mai evidente oggi in tutti quei processi di revisione scalare che stanno investendo gli artefatti (materiali ed immateriali) o i loro dettagli. Processi motivati da nuove esigenze simboliche, funzionali ed esperienziali e soprattutto da una forte domanda di comfort. Ed ancora la sovversione delle regole della tradizione è rintracciabile nel nuovo fenomeno dell’estetica della numerosità10, in cui l’iterazione dell’oggetto, la sua presenza o la sua immagine replicata all’infinito, è certamente influenzata dalle logiche ripetitive intrinseche all’informatica e al mondo digitale, oggi alla base dell’immaginario collettivo contemporaneo. Al contempo però è figlia di una nuova estetica artistica delle culture emergenti dell’estremo oriente, in cui la massa, il molteplice è tema esistenziale. A ciò si aggiunge il fatto che l’estetica della numerosità si presta anche ad evocare una serialità ormai perduta, quella della produzione della grande industria otto-novecentesca. Nel design di prodotto come in quello della comunicazione visiva, infine, negli ultimi

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anni è stato completamente rivisto in questi anni anche il ruolo del colore. Quest’ultimo, grazie all’innovazione tecnologica e alla sua forza espressiva in alcuni progetti della contemporaneità, si è imposto come fulcro da cui far muovere l’intera concezione dell’oggetto, abbandonando il ruolo di variante ausiliaria del progetto stesso.

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– La poetica11 del difetto12. La cultura industriale ha sempre teso a riprodurre e a replicare il modello dell’oggetto progettato perseguendo un ideale di perfezione. Ogni elemento che si discostava dalla conformità al modello veniva interpretato come “difetto” e si trasformava quindi in motivo di scarto della replica stessa. Alla fine degli anni Sessanta però, in pieno movimento radicale, Gaetano Pesce dichiara che proprio nel difetto si concentra un grande potenziale di distinzione, di unicità, unica vera risposta alla nostra individualità: (…) ritengo che è la morte a renderci uguali, e che essere vivi significa essere differenti e, come ognuno di noi ha questo diritto, ritengo che gli oggetti stessi che ci circondano nel piccolo arco della nostra vita devono poter godere di tale prerogativa13. Da tale assunto muove la teoria della Serie Diversificata, secondo cui è possibile produrre in serie la differenza, e che lo stesso Pesce ha pienamente dimostrato attraverso tutta la sua opera, giungendo a definirne delle categorie: per manipolazione esterna, per casualità e per sistemicità combinatoria14. A distanza di più di quarant’anni, non solo il mondo del­ l’economia ha compreso il portato rivoluzionario della produzione in serie differenziata, arrivando a definirla come Mass Customization15 – personalizzazione di massa – ma gran parte dei progetti di questo inizio secolo prendono palesemente le mosse da processi costruttivi/produttivi che accolgono la casualità come elemento distintivo ed esistenziale. Un’oscillazione del gusto che, come direbbe Baricco parafrasando Focillon16, avvicina il design al vero17, cercando di rappresentare la realtà imperfetta della vita e delle attività umane.


Tale fenomeno si combina con la grande flessibilità offerta oggi dai processi produttivi, dalla disponibilità di materiali plasmabili anche in una logica di autoproduzione, e infine dalle suggestioni derivanti dall’ambito della Design Art, in cui il design sembra affrancarsi dalla serialità a favore della serie limitata o dell’unicità. E sembra non avere confini geografici e temporali poiché si ritrova nelle opere di designer olandesi, quali per esempio M. Baas (emblematico il progetto Clay) o nipponici, come T. Yoshioka, con i suoi esperimenti sul deposito di cristalli per la realizzazione di mobili, o ancora in Sudamerica con le opere dei fratelli Campana, tra cui le famose sedute Favelas. Il riferimento, più che mai condiviso, è la natura in tutte le sue espressioni, comprese quelle dei fenomeni fisici e atmosferici, ma anche “l’infanzia felice”, con le licenze alle regole che essa comporta. La già citata serie Clay di Baas è nei fatti una trasposizione di un’estetica della plastilina da noi tutti conosciuta da bambini. L’oggetto/immagine, che contempla la casualità, respinge le geometrie rigide e regolari ma è spesso espressione di sofisticati processi tecnologici, in cui le tecnologie digitali vengono messe a servizio della gestualità. Esemplificativo è il progetto Sketch del collettivo femminile svedese Front, in cui lampade sedie e tavoli sono generati da gesti eterei continui, letti da un sistema di motion capture, e tradotti in volumi, per essere infine stampati nella loro consistenza solida e tangibile in stereolitografia. – Multiculturalismo. In risposta alla globalizzazione e alla relativa omologazione, l’esasperata ricerca della differenza è divenuta un imperativo per il design contemporaneo: (…) il nucleo del successo nel business è la capacità di competere; la capacità di competere a sua volta, dipende da quella di differenziarsi dai concorrenti. O ti differenzi o muori18. Differenza nei costi, nel valore, nel posizionamento, ma anche differenza nell’aspetto e nella forma. Il rischio della ricerca esasperata della differenza però, è quello di incorrere in una omologazione, o di rendere poco percepibile la differenza stessa, la vera differenziazio-

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ne competitiva è diventata una rarità19. Da qui, in coerenza con quel multiculturalismo esito di una rinnovata alterità, l’interesse del design contemporaneo per ciò che le culture altre, lontane dall’occidente e oggi emerse anche a livello economico, possono offrire in termini di patrimoni morfologici e decorativi da saccheggiare e da rielaborare. La contaminazione della cultura occidentale con altre tradizioni artistiche e con saperi diversi non è cosa nuova, ma è certamente nuova la modalità con cui oggi questa si sta attuando. Una modalità che non ammette più una supremazia dell’occidente ma si fonda su un “reciproco riconoscimento” e con un conseguente “sostegno dell’alterità”20. Ne è testimonianza il grande successo di prodotti a firma di designer in grado di rielaborare i suddetti patrimoni estetici e di portarli nel mondo. Com’è ben visibile nel caso dei progetti dello studio anglo indiano N. Doshi e J. Levien, o dell’indiano S. Pakhale, del gruppo turco Maybe o ancora del rinnovato design nipponico che ha ritrovato nel rapporto con la natura, da sempre alla base della sua cultura, suggestioni apparentemente orientate al neo-minimalismo, come nei progetti dello studio Nendo, di N. Fukasawa, o ancora del più giovane T. Yoshioka. Un “trasferimento morfologico-culturale” che non è riducibile ai soli apparati decorativi, ma investe approcci differenti alle proporzioni, alle volumetrie e alle gerarchie tra l’intero ed il dettaglio, ma che è costantemente alla ricerca di archetipi morfologici originali e riconoscibili. Senza andare troppo lontano, un’importante lezione sulla valorizzazione e sulla citazione del patrimonio segnico della tradizione, sulla scia di un multiculturalismo europeo, è venuta negli ultimi 15 anni dal design olandese, come è palesemente visibile nell’opera di M. Wanders. Abile manipolatore sia delle tradizioni manifatturiere dei Paesi Bassi, sia della cultura visiva fiamminga, Wanders, utilizzando anche l’Off-Scale e il colore – due filoni estetici del design contemporaneo di cui trattiamo – è stato in grado di riproporre nei suoi prodotti e nei progetti di interior design, stuc-


chi, merletti e broccati da noi conosciuti attraverso i dipinti di Memling o van Eyck. Lui mischia metafore vecchie e nuove, rinnovando lo spirito di oggetti molto amati e prolungando la vita delle buone idee21. Una connessione con la tradizione così forte e potente che, lo stesso Wanders, l’ha voluta sottolineare attraverso progetti di comunicazione originali, elaborati con il fotografo Erwin Olaf. Immagini pubblicitarie che citano esplicitamente le nature morte fiamminghe, con l’unica differenza che tra il vasellame vintage e le cibarie di vario genere, sono proposti prodotti contemporanei del catalogo Moooi. Una lezione importante quella di Wanders o in generale del multiculturalismo che il design italiano dovrebbe emulare, ben conscio che non si tratti di un design postmoderno, né di un approccio vernacolare o nostalgico, quanto piuttosto di guardare indietro alla nostra storia senza subirne il peso, alla ricerca di un nuovo e fertile dialogo. – Design e Molteplicità. Numerosità Ordinata o Casuale. Sempre legato al mondo del digitale e dei bit è il fenomeno estetico che negli ultimi anni ha lavorato sul concetto d’iterazione del prodotto/soggetto e dell’immagine, o anche sulla composizione dell’unità/prodotto attraverso la sommatoria di parti o di frammenti. In un’epoca in cui la produzione in grande serie può dirsi conclusa a favore della valorizzazione dell’unicità dell’individuo attraverso la produzione di oggetti speciali22, le immagini da essa derivanti – catene di montaggio, depositi o magazzini – continuano a suggestionare l’immaginario dei designer, insieme a quanto il mondo del digitale offre ormai da anni in termini visuali, con le sue logiche intrinseche di ripetizione, replica e moltiplicazione. Il fenomeno dell’estetica della numerosità23 è fortemente influenzato anche dai canoni estetici di culture visive lontane dall’occidente, come per esempio quelle proposte attraverso l’arte contemporanea orientale e in particolar modo cinese, in cui il tema della molteplicità, della “massa”, è quanto mai evidente: la serialità e la moltiplicazione di un sog-

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getto è, infatti, tratto ricorrente nell’arte cinese24. Una ripetizione che ha fatto comprendere quanto si sia persa una delle caratteristiche fondanti dell’oggetto, “l’individualità”25 che voleva l’oggetto stesso unico attore della scena/ immagine, come Maldonado denunciava già nel 1992; e che sembra motivata da una potente strategia comunicativa, un repetita juvant secondo cui, visto l’inquinamento semiotico e l’eccesso di messaggi visivi che ci circondano, solo la ripetizione dell’immagine dell’oggetto o la sua presenza iterata (una tecnica espositiva molto diffusa) possa giovare alla sua riconoscibilità, cogliendo l’attenzione del suo distratto destinatario. Al filone dell’estetica della numerosità possono essere ricondotte tutte quelle sperimentazioni che organizzano l’interazione dell’oggetto o delle sue componenti in modo “ordinato”, come nel caso di prodotti modulari, ma anche quelle immagini o quegli artefatti che all’opposto compongono in modo libero e casuale l’iterazione, portando ad un’estetica della “numerosità casuale”. La prima trova una derivazione diretta dalla Minimal Art americana, con opere per esempio di Donald Judd – artista emblematico del movimento con importanti incursioni nel design – in cui soggetti identici vengono esibiti in regolari teorie ben intervallate26 e che, passando per il design minimalista degli anni Novanta del Novecento, giungono a suggestionare prodotti e progetti espositivi, nonché immagini pubblicitarie dei nostri giorni. Emblematici in questo ambito i progetti espositivi di M. Ferreri, i prodotti recenti di P. Lissoni, ma anche le immagini pubblicitarie: da quelle della Apple, in cui per esempio l’Ipod era indossato da una moltitudine di silhouette umane nere su fondo colorato, all’esplicita citazione di Judd nell’advertising dell’azienda spagnola Gandia Blasco. La seconda categoria, quella della “numerosità casuale”, muove da suggestioni più vicine alla natura e alle sue manifestazioni tangibili o intangibili, che contengono la molteplicità. Dalla natura cattiva, quella della giungla, che suggestiona le opere dei fratelli Campana in Brasile, alle


nuvole che influenzano l’immaginario dei fratelli Bouroullec in Francia, fino a nebbie e cristalli rintracciabili nelle opere del giapponese Yoshioka. In entrambe le categorie la numerosità o la molteplicità, che ne è sinonimo, – ordinata o casuale – tende a rappresentare una complessità tipica della nostra condizione culturale, sociale ed economica contemporanea, ma a questa aggiunge un portato innovativo per il design, e cioè l’integrazione della dimensione spaziale nella concezione dell’oggetto. La numerosità (…) trova proprio nella relazione con lo spazio il suo senso più profondo, trasformando l’oggetto iterato in oggetto “ambientale”, che usa il vuoto per esistere e per integrare una dimensione prima inusitata27. – Off-Scale. Uno dei più potenti espedienti di progettazione che il design contemporaneo ha largamente utilizzato in questi ultimi anni è quello della manipolazione scalare dei prodotti (e delle immagini) nella loro interezza o dei loro dettagli. Una manipolazione che, nonostante vada dall’infinitamente piccolo (nanotecnologie, ecc.) al molto grande (gigantismo, fuori scala, ecc.), acquista senso per il design solo nel secondo caso, nella scala del visibile. Diverse le concause. Se, infatti, il fenomeno inteso come atavica propensione all’immensità28 è legato alla natura umana e alla sua storia, negli ultimi anni l’Off-Scale, pur conservando le tradizionali motivazioni simboliche e ludiche, ha trovato una rinnovata spinta nella maggiore domanda di com­ fort – già avvertita come idea moderna29 da Maldonado nel 1987 – e nella scoperta di una più ampia esperienza sensoriale associabile alla grande dimensione. Tutta la storia dell’uomo può essere vista, infatti, come la costante ricerca di un riscatto dalla fatica fisica, perpetuata attraverso l’invenzione di artefatti e di strategie in grado di apportare maggiore comfort e neutralizzare l’ostile natura biologica: la comodità, come la conosciamo oggi, è il prodotto della sottomissione pervasiva, complessiva ed efficace della natura mediante artifici tecnologici sempre più sofisticati30. Per cui, in una cultura produttiva matura, l’evoluzione

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del comfort si associa alla maggiore comodità derivante dalle dimensioni più generose degli artefatti. In questo senso, negli ultimi anni si è assistito a una vera e propria rivoluzione dimensionale che ha fissato nuovi standard, facendo drasticamente invecchiare quanto non investito dal fenomeno, portando a sostenere che l’Off-Scale è la nuova condizione dimensionale “dell’arte-fare”, trasformandosi in norma, nell’In-Scale della contemporaneità31. Oggetti più grandi abitano, infatti, la nostra quotidianità, e la differenza è evidente quando pensiamo a quei prodotti della contemporaneità che citano pienamente modelli del passato (vedi i restyling automobilistici della New Beetle, Mini e Nuova 500), in cui la differenza più sensibile sta proprio nella variazione dimensionale, verso il grande, rispetto all’archetipo di riferimento. Accanto all’automotive che, in linea con l’Off-scale, ha generato anche nuove tipologie di automobile come per esempio i SUV, l’enfatizzazione scalare ha investito in modo sensibile il mondo del­ l’exhibit design, per cui accade spesso che l’oggetto ingigantito sia interpretato come un segnale di richiamo, una nota più alta, o ancora nei complementi d’arredo e nei casalinghi, dove per esempio anche i piatti da portata, in linea con un food design sempre più scenografico, sono oggi sensibilmente più grandi rispetto al passato. Lì dove l’indossabilità limita invece l’ingigantimento del­l’intero prodotto, per ovvi vincoli dettati dalla “misura” del corpo umano, sono i dettagli a confermare l’allineamento al fenomeno. Molti sono stati negli ultimi anni i prodotti del fashion che hanno rivisto le dimensioni di alcuni particolari divenuti punti focali del progetto: dai cappelli alle fibbie esagerate, dai tacchi impossibili agli enormi orologi da polso, ecc. Ma il bisogno di comfort cui l’Off-Scale sembra rispondere in modo rinnovato, si palesa in tutti quei prodotti dalla funzionalità incrementata, grazie appunto alle generose dimensioni dell’insieme o delle sue parti: maniglie più grandi e facilmente impugnabili, interruttori più comodi e visibili, oblò di lavatrici più ampi e accessibili, ecc. che allo stesso tempo sembrano rispondere anche ai


dettami del Design for All. L’oggetto ingrandito figlio del­ l’Off-Scale, rispetto al quale, come in passato, il fruitore può stare al di fuori (pensato quindi per una fruizione prevalentemente visiva), nella sua dimensione ingrandita si offre oggi anche ad un utilizzo dall’interno, tale da aprire nuove esperienze sensoriali oltre la vista (tatto, olfatto e udito). – Dal mono al policromatismo. Innovazione tecnologica (l’ampia offerta dell’industria chimica delle vernici) e suggestioni dal mondo estetico del digitale sono alla base di un altro dei fenomeni che hanno distinto il design di questi anni, il rinnovato ruolo del colore. Tranne in alcuni casi (De Stijl, Radical Design, Memphis, ecc.), il design nel Novecento ha posto l’accento sul colore in maniera discontinua, soprattutto nel product design, in cui tale componente veniva in molti casi lasciata come opzione finale del progetto. La novità di questi ultimi quindici anni sta nel fatto che il colore possa essere sentito, al contrario, come un punto di partenza per lo sviluppo di un’idea di prodotto: lo hanno abilmente dimostrato designer autorevoli attraverso originali sperimentazioni (cfr. Barber & Osgerby con i tavoli Iris o H. Jongerius con i Colored Vases, ecc.). La rinnovata attenzione verso il colore è strumentale a diverse esigenze del design contemporaneo, come quella di trovare una risposta a tutti quei nuovi materiali che non hanno una propria storia cromatica, un colore originario. Materiali ibridi che non hanno colori predefiniti e che spingono verso soluzioni di forzata artificializzazione e che hanno quindi portato alla realizzazione di tanti prodotti connotati da un unico colore. Un total color in grado di azzerare le differenze materiche e di far percepire il prodotto come un unicum. Una (…) monocromia pervasiva, estesa cioè a tutte le componenti tecnologiche del prodotto, come soluzione all’ibridazione dei materiali contemporanei32, abilmente utilizzata sulle più disparate tipologie da molti designer tra i quali per esempio M. Sadler o C. Grcic. Viceversa si è delineata, sempre in questo scorcio di se-

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colo, una tendenza cromatica tesa a rappresentare la ricchezza del mondo dei colori, una sorta di celebrazione della gamma33, un policromatismo, reso disponibile dal mondo del digitale e dall’industria chimica. La postmodernità si caratterizza anche per la grande espansione delle possibilità espressive cromatiche, questo sia grazie alla chimica dei pigmenti, sia per le possibilità elettroniche del digitale che permettono il pronto impiego di milioni e milioni di differenti colori34. Oltre ai già citati progetti nell’ambito della Design Art, rientrano in questo fenomeno tutti quei prodotti o quelle immagini di grafica che hanno fatto ricorso al tema del “gradiente cromatico” e cioè a graduali passaggi da un colore a un altro. Il policromatismo sembra anche suggerire delle soluzioni morfologiche privilegiate come afferma Plotemy Mann, curatrice della mostra “Significant Colour” (Londra 2009): a chi lavora con il colore piace utilizzare cerchi o griglie (scacchiere)35. L’associazione tra policromatismo e forme è, infatti, al centro di progetti emblematici sviluppati per esempio dal duo inglese Barber & Osgerby, come la serie di tavoli Iris, commissionati dalla galleria Established & Son nel 2008, una serie di tavoli in alluminio, in cui ad ogni range cromatico corrisponde una forma differente. Ma la questione più interessante è che la volontà di rappresentare l’ampia gamma delle sfumature di un colore costituisca il punto di partenza del progetto Iris, come affermano gli stessi autori: pensiamo che dovrebbe essere interessante invertire il processo (progettuale) dalla testa ed iniziare dalla composizione dei colori36. Infine sono altrettanto interessanti, in questo filone di una rinnovata centralità del colore nel progetto contemporaneo, tutti quegli esperimenti che, in linea con quanto affermato a proposito della poetica del difetto, sia che tendano a valorizzare la casualità, sia dei fenomeni fisici di ossidazione di alcuni materiali (si veda il grande successo dei metalli ossidati, dall’acciaio corten al rame, ecc.), sia che coinvolgano organismi o microrganismi nei processi di colorazione degli artefatti, come nel caso delle sperimentazio-


ni sui tessuti di Natsai Kieza in cui una particolare specie di batteri genera spontaneamente delle texture. – Conclusioni. Cosa accomuna i filoni estetici del design contemporaneo sopra descritti? Sicuramente la trasversalità tipologica e merceologica. Sono temi che si ritrovano nelle più disparate tipologie di artefatti, così come nella grafica o nei linguaggi dei prodotti multimediali. Anzi sono proprio la massima espressione di un campo di applicazione del design che non ha più confini, per cui accade che l’Off-Scale è rintracciabile nell’automotive ma anche nel furniture o nel fashion design, così come nella pubblicità e nell’exhibit design. L’imperfezione e la casualità sono più che mai visibili nei prodotti ad alto contenuto “decorativo” ma anche negli oggetti figli delle stampanti 3d o in seriose texture per abiti e rivestimenti ecc. Una trasversalità che, come visto, non ha nemmeno confini geografici e che nei diversi filoni, trova riscontro in Giappone, così come in Europa o in Sudamerica. Sono fenomeni che certamente rispecchiano una realtà complessa in cui si è persa la visione monotona e monologica, a favore della pluralità e della compresenza di verità multiple, di cui l’alterità e il multiculturalismo sono espressioni emblematiche. Tutti i cinque filoni individuati sono l’esito di una ricerca della differenza che è alla base della competizione ma anche terreno fertile di contaminazione e di scambio. Sebbene rappresentino le punte più avanzate dell’innovazione, non sono l’esito di momenti di forte discontinuità con il passato, di strappi37, come li definirebbe Baricco, ma il risultato di un graduale processo evolutivo del gusto collettivo e dell’estetica contemporanea. Di fronte al dinamismo che tale scenario progettuale presenta, la ricerca scientifica, distratta dall’emulazione delle scienze esatte, deve quindi riappropriarsi dello studio della forma degli artefatti. Se da un lato viviamo un potente fenomeno di estetizzazione del design38, come affermano molti studiosi, proprio la ricerca scientifica dal versante del design (e non quello delle scien-

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ze della comunicazione e dei media o della sociologia), sembra ignorarlo. Non è poi così vero che le nuove generazioni di designer, soprattutto quelle italiane, non siano interessate agli esiti estetici dei loro progetti e che la questione dello stile è diventata inesistente39. Non è difficile senza nemmeno troppe forzature, far rientrare per esempio il lavoro di M. Adami o quello di P. Ulian nel filone della “poetica del difetto” così come quello di altri talenti italiani nel filone dell’Off-Scale (P. Urquiola e Joe Velluto). Numerosi sono invece i designer che in tutto il mondo sentono fortemente la responsabilità che deriva dalla manipolazione dei segni e delle forme, responsabilità verso i committenti e responsabilità sociale, verso i consumatori. Concludendo, le caratteristiche dei filoni estetico-morfologici sopradescritti non esauriscono lo scenario del design contemporaneo, che indubbiamente per complessità, dimensione e dinamicità, non si presta a letture riduttive, ma fanno comprendere come, nonostante le derive rappresentate oggi dalle eccessive aperture della disciplina verso ambiti non proprio di pertinenza del design, e nonostante l’apparente perdita di fisicità del mondo artificiale, il design continui a guadagnarsi un ruolo di primo piano nella storia delle espressioni culturali dell’umanità attraverso la forma.

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1   Il saggio riprende nei temi trattati e in alcune parti, il testo della voce “Design” della IX Appendice della Enciclopedia Italiana, del 2015 a cura dell’autore. 2  V. Margolin, S. Margolin, A “Social Model” of Design: Issue of Practice and Research, in «Design Issuses»: Volume 18, n. 4, 2002, Massachusetts Institute of Technology. 3  R. Verganti, Design-Driven Innovation, Cambiare le regole della competizione innovando radicalmente il significato dei prodotti e dei servizi, Etas Editore, Milano 2009, p. XII. 4  F. Trabucco, Design, Edizioni Bollati Boringhieri, Torino 2015, p. 21. 5  R. De Fusco, Parodie del design. Scritti critici e polemici, Umberto Allemandi & C editore, Torino 2008, p. 16. 6  V. Pasca, Il design nel futuro, XXI sec._ Istituto italiano del­


l’En­ciclopedia fondata da Giovanni Treccani; http://www.treccani.it/ enciclopedia/il-design-nel-futuro_(XXI-Secolo)/. 7  A. Mecacci, Estetica e design, Società Editrice il Mulino, Bologna 2012, pp. 7-8. 8  D. Russo, Il design dei nostri tempi. Dal postmoderno alla molteplicità dei linguaggi. Ed. Lupetti - Editori di Comunicazione, Mi­lano. 9   Ivi, p. 184. 10  C. Martino, L’Estetica della Numerosità, in Lezioni di Design, a cura di Federica Dal Falco, Rdesignpress, Roma 2013, p. 324. 11  “Poetica significa intenzione di poesia ovvero programma e manifesto di un movimento artistico collettivo o personale”; R. De Fusco, in Il Design che prima non c’era, Franco Angeli Editore, Milano 2008, p. 19. 12   Titolo dell’articolo comparso sul n. 57 della rivista Arte e Critica, a cura dell’autore, dicembre 2008 - febbraio 2009. 13  G. Pesce, in Un’industria per il Design, AA.VV, Lybra, Milano 1999, p. 324. 14  C. Martino, Gaetano Pesce Materia e Differenza, Testo e Immagine editore, Torino 2003, Marsilio Editore, Venezia, 2007. 15  J. Pine, Mass Customization: dal prodotto di massa all’industriale su misura, Franco Angeli, Milano 1997. 16  H. Focillon, Hokusai, edizioni Abscondita, Milano 2003, p. 38. 17  A. Baricco, Kate Moss, Palladium Lectures, 2013, https:// www.youtube.com/watch?v=_5YFQ-3lZbc. 18  Y. Moon, Differente. Il conformismo regna ma l’eccezione domina, Etas RCS libri, Milano 2010, p. 8. 19   Ivi, p.11. 20  C. Martino, Orienti Mitici, in MIXDESIGN, web magazine www.mixdesign.it, aprile 2010, www.mixdesign.it/Orienti-mitici_ think_x_4186.html. 21  S. Moreno, Once Upon a Time, in Marcel Wanders Behind the Celing, Gestalten, Berlin 2009, p. 13. 22  C. Martino, Design e Molteplicità. L’esuberanza numerica nel design contemporaneo, in Lectures 1, cit., p. 51. 23  Ibidem. 24  F. Salviati, D. Jones, a cura di, Arte Contemporanea Cinese, Mondadori Electa, Milano 2006, p. 15. 25   “Il fisico Alfred Kastler ha rilevato che, alla scala dei nostri sensi, siamo abituati a riconoscere in ciò che chiamiamo oggetti due proprietà fondamentali: la permanenza e l’individualità, proprietà che sono state caratteristiche nella meccanica classica e che oggi vengono a mancare nella microfisica”, In T. Maldonado, Reale e Virtiale, Feltrinelli Editore, Milano 1992, p. 11. 26  C. Martino, op. cit., p. 51. 27  C. Martino, op. cit., p. 56. 28  G. Bachelard, La poetica dello spazio, Edizioni Dedalo, Bari 1975. 29  T. Maldonado, Il futuro della modernità, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1987, p. 96.

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30  S. Boni, Homo comfort. Il superamento tecnologico della fatica e le sue conseguenze, Elèuthera Editrice, Milano 2014, p. 17. 31  C. Martino, Da Off-Scale a In_Scale, in DIID _ Disegno Industriale Industrial Design n. 31, Rdesignpress Editore, Roma, 2008, p. 12. 32  C. Martino, Dal Mono al Pluri, in DIID _ Disegno Industriale Industrial Design n. 53, Rdesignpress Editore, Roma, 2012, p. 32. 33   Ivi, p. 33. 34   P. P. Brunelli, Il messaggio cromatico. Semiotica e psicologia della comunicazione a colori, Ikon Editrice, Milano 2010, p. 34. 35  J. Szita, Crhoma Chaeleons, in «Frame 70», settembre-ottobre 2009. 36   Barber & Osgerby in J. SZITA, Rainbow gathering, in «Frame 70», settembre-ottobre 2009. 37  A. Baricco, op. cit. 38   Tra gli altri, Pasca, Russo, Carmagnola. 39  A. Branzi, Sette gradi di separazione, Electa Mondadori, Milano 2007.

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Libri, riviste e mostre

M. Panzeri (a cura di), L’intellettuale mal temprato. Scritti in onore di Paolo Fossati, Accademia University Press, Torino 2015. Se si volesse descrivere l’intera pubblicazione con un solo aggettivo il più appropriato sarebbe certamente “denso”. Densità di esperienze, di incontri, di ricordi. L’intensità di una vita che, per quanto breve, Fossati si impegna a vivere interamente con la curiosità dell’appassionato, l’umiltà di chi è disponibile a imparare, la determinazione a guidare il rischio della scoperta. Per tale ragione, a partire dal titolo scelto, L’intellettuale mal temprato si presenta piuttosto che come un’opera “in onore di”, come un racconto corale articolato tra nessi, rimandi e citazioni attraverso cui viene descritta l’esistenza mal temprata di Paolo Fossati, le sue amicizie e inimicizie, le sue note idiosincrasie e umoralità e scelte di vita decostruttive. A Miriam Panzeri è affidato il compito di curare la narrazione a

partire dalle relazioni presentate nel novembre del 2010 in occasione della giornata di studi dedicata al critico d’arte, organizzata presso la Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, a cui sono aggiunti nuovi contributi così da rendere il volume più rispondente alla complessità del tema affrontato, amplificando e approfondendo la conoscenza della figura di Paolo Fossati. Districandosi tra pareri discordanti sul carattere aspro ma generoso, pagine cariche di affetto e analisi critiche sul contributo offerto alla Storia dell’arte italiana e all’arte editoriale, la Panzeri organizza il percorso in quattro sezioni, rese autonome dalla scelta di dedicare ciascuna a un argomento specifico ma, allo stesso tempo, derise di rimandi tra loro. I 23 scritti si compongono fino a restituire alla fine una visione unitaria e completa della figura di Fossati. Per primo Gianni Contessi precorre la struttura del libro elaborando un excursus fossatiano attraverso il quale è già possibile

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scorgere l’irrequietezza che in tanti, forse in tutti i testi raccolti, risalta come principale connotazione della sua personalità e del suo operato. Ma a emergere in questa prima digressione sono anche altre due questioni considerate ancora “aperte”: una relativa alla condizione borderline del lavoro di Fossati, svolto tra la critica e la storia dell’arte, l’impegno nel campo dell’editoria e l’esperienza universitaria; mentre la seconda valuta la difficoltà di individuare degli eredi validi per questo patrimonio, delle personalità nelle quali sia possibile ritrovare il medesimo sguardo eterodosso e non perbenista, la complessità intellettuale e l’am­ piezza dell’orizzonte culturale. La cultura letteraria di Fossati era solo sua, continua l’autore. Affermazione riscontrabile nelle numerose riflessioni circa la militanza torinese o nei testi che analizzano la questione saggio, ovvero l’esatta collocazione della dimensione letteraria del­ l’intellettuale, caratterizzata dalla presenza di un approccio intui­ tivo, fatto di interpretazioni inedite e visioni nuove. Ma è con il ricordo dell’amico e collega Ferrero che si compie il primo passo nella memoria fossatiana, accompagnando il lettore tra gli scritti relativi alla collaborazione con la casa editrice Ei­naudi. Un ritratto che parte con lo spiegare le ragioni della sua alterità, interpretata dall’autore come complessità culturale analoga a quella riscontrabile in Calvino, ugualmente appassionato costruttore di reti, un creatore di sinapsi culturali, un ibridatore sempre proiettato nel futuro, e tradotta da Barberis in ten-

sione antiretorica, nel senso di tendenza a pensare fuori dal comune e a provocare. È questa la sfida dell’intellettuale, di stare dentro le cose rifiutando ogni genere di compromesso, prediligendo al contrario tutto ciò che possa stimolare incertezze e verifiche per generare nuova cultura e sapere. Ed è proprio tale approccio, unito al suo carattere, sottolinea Emiliani, a consentirgli di gestire la complessità del mondo dell’editoria riscontrabile anche nel progetto della Storia dell’arte italiana. La Panzeri ne rende un racconto preciso a partire dal parallelo con altre due opere pubblicate dalla casa editrice negli anni settanta: la Storia d’Italia e l’Enciclopedia. Mentre alla prima riconosce un particolare impatto innovativo e alla seconda il valore di strumento storico, la Storia dell’arte italiana per l’autrice ha il merito di ricercare un’apertura interna alla disciplina capace di rivelare e sostenere l’articolarsi di una storia dell’arte come materia complessa degli studi. Ma con L’einaudiano e il pioniere inizia anche a delinearsi il metodo di lavoro da lui adottato che trova in questi scritti i primi riscontri. Innanzitutto con il metodo einaudiano di cui, scrive Ferrero, Fossati è interprete perfetto coniugando impazienza emotiva e probità artigianale, attraversando molteplici linguaggi diversi come quegli esploratori di mondi incogniti, quelli che ti spiazzano, ti mettono in crisi, molto apprezzati da Einaudi. Ne derivano la stessa trasversalità e originalità di intrecci presenti nel contributo di Brusatin, la bozza rielaborata di una di-


scussione avvenuta tra lui e Fossati circa le origini del design italiano. Qui, come nella Storia del design, l’articolarsi della disciplina avviene parallelamente allo sviluppo dello scenario contemporaneo, stimolando maggiore interesse rispetto alle condizioni sociali e culturali di sfondo. Andando avanti emerge dalle Scritture fossatiane un ulteriore frammento del procedimento “in­ ­tellettuale” da lui concepito, relativo alla capacità di comporre una dimensione culturale che potremmo definire umanista e umana insieme. Umanista per il suo essere uomo di cultura rinascimentale, come lo definisce Marco Rosci. Un creatore di cultura in senso globale, al pari di Roberto Longhi, immerso nell’humus culturale del proprio tempo, desideroso di interagire con qualsiasi forma d’arte senza fare distinzioni. In particolare Marco Vallora, nel tentativo nostalgico di recuperare il ritmo della voce teorica di Fossati, richiama alla memoria l’escamotage degli exegues che consente all’autore di infittire la trama delle relazioni alla base del proprio operato, fino a creare un piccolo “prato” […] da cui trar­ re spunti e sopra cui pascolare. In questo modo, continua Vallora, annusava, carezzava, divorava con gli occhi i libri, con un trasporto morboso quale era il suo modo di impossessarsene stabilendo con essi una relazione di esclusività e appartenenza profonda. Ed è interessante constatare come il linguaggio che ne viene fuori sia concreto, paradigmatico, curioso, simile al codice anti-letterario di Federico Zeri, come lui interessato a dar vita a

una scrittura “mattamente” polimorfa, poliforme, polifonica, sempre nel senso “carnevalesco” di Bachtin: in-formata. La consistenza “umana” del lavoro è il risultato di tale apertura, nutrita costantemente dalle relazioni con gli artisti. Prendendo in prestito una citazione di Hegel, Dario Trento definisce il tempo in cui matura tale vicinanza la “domenica della vita”, momenti in cui cadevano le contingenze per dare spazio a scambi liberi e intensi. Nel più volte citato caso di Carol Rama, così come nei molti altri affrontati, ciò avviene con un ritmo lento, fatto di meandri, soste, pause, riprese e divagazioni. Il metodo, o se vogliamo chiamarla la strategia adottata, è di non arrivare a conclusioni immediate, ma, continua Rosci, di prediligere un confronto aperto con l’opera evitando interpretazioni personali. Osservando il percorso di Fossati alla luce delle dinamiche descritte e l’attitudine filologica fuori dal comune che lo contraddistingue, appare quasi scontata la presenza in lui di un coraggio, definito da Danilo Eccher “intellettuale”, inteso come forza di mente e d’animo con cui si orienta insistentemente e con curiosità verso itinerari meno scontati. Stessi percorsi citati nel testo come Gesta torinesi e non solo, attraverso i quali viene descritta la ricerca di un continuo corpo a corpo con l’opera con cui Fossati ama misurare innanzitutto se stesso. Riccardo Passoni riferisce que­ sto rapporto dialettico all’arte, come un processo di decostruzione, verifica e ricostruzione grazie

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al quale attraversa le opere alla ricerca di un problema linguistico comune da svelare fatto di dialoghi, dualismi e pluralità tra tensioni diverse, mentre Michela Scolaro volge il discorso verso il legame con la parola resa forma per descrivere i significati racchiusi nelle immagini. Ciò che colpisce l’autrice è la volontà di donarsi dimostrata da Fossati al di là della sua indole caratteriale. Un darsi con passione e generosità tradotto anche in abbondanza di parole: durante i corsi, nella corposità delle note bibliografiche, nel prediligere sempre la parola “nostro”, così come colto da Liliana Dematteis, perché Fossati, per quanto fosse un protagonista naturale, preferiva di gran lunga il dialogo alla voce sola. Fosse anche la sua. Non appare quindi come un caso che a chiudere la raccolta siano proprio Gli sguardi dell’amicizia provenienti nella maggior parte dei casi dal mondo del­ l’arte. La sezione è aperta dal breve testo di Marco Gastini, dove il rapporto di Fossati con la pittura è descritto come uno scavare sotto la pelle delle cose in maniera insoddisfatta, per scendere sempre più in profondità. Dialogo alimentato dall’attenzione a seguire la genesi creativa di ogni progetto, quello che Sandro De Alexandris chiama il divenire, il lavoro in atto che acuiva la sua attenzione. Quasi come a cercarne l’anima, la consistenza impalpabile che li rende vivi. Proprio per questa sensibilità e sincerità Sandro Prevanin lo considera amico atipico ma vero, capace di metterlo alla prova

ponendolo di fronte a prove difficili, non del sapere ma prove di vita, vita imparata nella vita. E così termina il libro, con l’au­ toritratto che Fossati nel 1935 dona a Prevanin, dove le parole ancora si legano all’immagine e prendono forma: linea spezzata, complessa, impietosa, difficile, spigolosa, sofferta, espressione limpida di quella che è la sua personalità. A. G. Cesare de Seta, L’Italia nello specchio del Grand Tour, Rizzoli, Milano 2014, 20152. Quest’ultimo volume di Cesare de Seta appare a oltre trent’anni dal saggio omonimo pubblicato nel 1982 nella einaudiana Storia d’Italia, e a più di venti da L’Italia del Grand Tour da Montaigne a Goethe (Electa, Napoli 1992), autentico seminal book riedito fino al 2001. Una “genealogia” che risulta doveroso richiamare per evidenziare la precocità con la quale l’autore ha contribuito a dissodare un campo di ricerche all’epoca ancora poco coltivato, laddove oggi al pioniere che perlustra la foresta della letteratura di viaggio si offrono luoghi lussureggianti di titoli in ogni lingua e secondo innumerevoli inclinazioni per quanti sono le molte centinaia di autori e gli altrettanto numerosi argomenti che vengono affrontati, annoverando studi di sintesi e monografie su particolari viaggiatori, bibliografie generali e analisi specifiche per temi o luoghi. E proprio su questo fortunato e prolifico filone fornisce un


bilancio critico il nuovo libro, che riprende, ma riordinandola e ampliandola, l’impostazione del volume del 1992, sacrificando le suggestioni dello splendido corredo illustrativo a favore di una densa e serrata struttura argomentativa sviluppata in oltre 370 pagine di testo, con un corposo apparato di note, che aggiorna i riferimenti agli incrementi bibliografici, e indici analitici, per un totale di circa 480 pagine. D’altronde, una riprova che quella dedicata al viaggio in Italia costituisca davvero una letteratura sconfinata viene fornita dall’entità della produzione, non solo complessiva, ma anche per singole aree linguistico-culturali, come attestano – tra i molti puntualmente citati – il monumentale volume pubblicato nel 2008 da Gilles Bertrand sui viaggiatori francesi dalla metà del XVIII agli inizi del XIX secolo e la nutrita Bibliography of British and American Travel in Italy to 1860, con successive aggiunte e correzioni, di Robert S. Pine-Coffin, ai quali si vanno recentemente allineando alcune indagini sugli stessi viaggiatori italiani, come quelle intraprese da Luca Clerici con Viaggiatori italiani in Italia 1700-1998: per una bibliografia. Nell’ambito di un settore di studi ormai ampiamente diffuso e consolidato, tra rassegne dedicate a determinate categorie di testi, come le guide, fino a saggi di approfondimento su autori o opere, emerge la peculiarità del­ l’approccio di de Seta al Grand Tour, che è possibile cogliere tramite alcune fondamentali differenze riguardanti le scelte metodologiche. Anzitutto la periodizzazione adottata, risalendo dal

troppo scontato Settecento alle origini del viaggio d’istruzione della nobiltà, istituzionalizzato già nel XVI secolo, e addirittura ai suoi precedenti, esaminando i profondi mutamenti nella fisionomia del viaggiatore, a partire dal pellegrino medievale e dall’umanista per giungere al viaggiatore “moderno”, non più alla ricerca di una realtà soprannaturale, simbolica o anche solo letteraria o erudita, ma interessato al Paese reale. E in questo senso, la svolta può fissarsi al primo decennio del Cinquecento, assumendo, come propone l’autore, il viaggio di Lutero a Roma nel 1510 quale autentico spartiacque; data peraltro di poco precedente a quella del sacco del­l’Ur­ be (1527) che, con la conseguente diaspora degli artisti, contribuì non solo alla diffusione del classicismo, ma anche a promuovere la conoscenza del nostro Paese come grande officina di una rivoluzione artistica di assoluto rilievo internazionale. E appunto sulla scorta della fortuna moderna del Paese de Seta analizza l’espansione del fenomeno e le sue successive modificazioni, comprese le variazioni dell’itinerario in Italia che, al mutare delle sollecitazioni, si estende dalle regioni settentrionali e dalla Toscana a Roma, all’escursione a Napoli, fino all’esplorazione di centri “minori”, delle restanti regioni del Sud e della Sicilia. Viceversa, il terminus ad quem viene anticipato rispetto alle rassegne che si addentrano nell’Ottocento o persino nel passato secolo: l’interruzione del Grand Tour come viaggio di formazione e istituzione d’origine aristocratica si determinerebbe, infatti, con il grande

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trauma della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche. E il successivo esaurirsi del fenomeno può ancorarsi a molteplici fattori progressivamente intervenuti: dalla campagna d’Egitto, che sposta la cognizione del Sud dell’Europa oltre il nostro Mezzogiorno e la Sicilia verso mete mediterranee e levantine; lo sviluppo delle ferrovie, che modifica non solo i tempi, ma la logica del viaggio, non più percorso e attraversamento, ma spostamento veloce verso una meta; infine, l’affermazione di una pratica socialmente assai più estesa del viaggio, con la nascita delle agenzie, che sopperiscono a quegli aspetti organizzativi ai quali il grandtourista doveva provvedere autonomamente, e l’affermazione di una nuova figura di viaggiatore, con minori disponibilità di tempo e di denaro, preludendo all’antitetico fenomeno del turismo di massa. Pertanto, per de Seta, agli inizi del XIX secolo si assisterebbe a una vera e propria mutazione genetica del viaggiatore, che inoltre, influenzato dalla temperie romantica, più che ai luoghi appare intento a guardare in se stesso e a registrare le proprie emozioni al cospetto delle esperienze soggettive che il viaggio propone. Una seconda differenza di base, ribadita in più punti del volume, risiede nella selezione delle fonti. Laddove nei repertori si elencano solitamente fonti edite e inedite, de Seta opera una rigorosa distinzione, non solo tra le opere manoscritte e quelle a stampa, ma, all’interno di queste ultime, tra quelle più o meno contestuali al viaggio e quelle pubblicate in un periodo di molto

successivo, che dunque non poterono influire sulla mentalità coeva: tra queste, le memorie di Goe­ the padre che, già oggetto di un suo ventennale lavoro di revisione, approdano alle stampe solo nel 1932, così come ritardi secolari scontano il cinquecentesco diario di Michel de Montaigne, edito nel 1774, o il settecentesco Journal di Edward Gibbon, pubblicato integralmente solo nel 1961, per limitarci a pochi casi ben noti. Una simile differenziazione è appunto funzionale al ruolo attribuito da de Seta alle testimonianze del Grand Tour e che, senza negare la ricchezza di altri spunti, costituisce l’apporto più originale della rilettura che egli ne propone. Per comprenderne la portata occorre, a nostro avviso, mettere in luce le motivazioni dell’interesse disciplinare rivolto fin qui alla letteratura ode­ ­porica. Nel 1924 Julius Schlosser Magnino, nel suo Die Kunstliteratur, la annoverava tra le fonti, sia pure secondarie e indirette, per lo studio della storia dell’arte, ripercorrendone lo sviluppo, dalla produzione periegetica medievale alla topografia artistica, alla “letteratura dei Ciceroni” alle descrizioni di viaggio: e certamente l’uso prevalente che si è fatto, da parte degli storici, di guide e resoconti è stato quello di ricavarne utili notizie sui monumenti menzionati e descrizioni preziose per ricostruire assetti e contesti spesso profondamente modificati. In ciò si trascurava in fondo un’indicazione dello stesso Schlosser, laddove questi segnalava che i testi letterari, a differenza di altre fonti scritte, come documenti, iscrizioni, inventari, costituiscono testimonianze


non “impersonali”, eloquenti, dunque, sia in relazione al proprio oggetto, sia anche all’autore che le redige, i cui giudizi ne rivelano la cultura, le inclinazioni, le preferenze. Pure de Seta ritiene opportuno spostare l’indagine dal lato del­ l’osservatore, distinguendo anzitutto i viaggiatori per ambiti di provenienza. All’Inghilterra spet­ terebbe la primigenia del Grand Tour, non solo per l’istituzione del viaggio d’istruzione nel continente già durante il regno di Elisabetta I (1558-1603), ma per il rifiuto della tradizione scolastica medievale e la ricerca della verità, che favorisce l’attenzione per il Paese reale, alimentando una folta schiera di viaggiatori che, accanto a meno noti rampolli dell’aristocrazia con l’esperta guida dei loro precettori, comprende esponenti di grande rilievo della vita intellettuale, spinti in Italia da un ventaglio d’interessi che vanno dall’Antico (privilegiato da Addison) o dalla sua reinterpretazione attraverso Palladio (da Inigo Jones a Lord Burlington), agli aspetti scientifici e antropologici (Berkley), senza trascurare le prerogative naturalistiche, dal pittoresco delle Alpi ai solari paesaggi mediterranei. La rassegna dei viaggiatori francesi tocca anch’essa nomi eccellenti, come Philibert de l’Orme, Michel de Montaigne, Misson, Mon­ t­esquieu, de Brosse, Cochin e Monsieur de Vandières, de Sade, mentre per i tedeschi si passa dalla letteratura apodemica in latino ai resoconti di Riedesel, Lessing, Goethe, Schinkel. A questi occorrerebbe sommare i viaggiatori provenienti dai Paesi Bassi, dalla Polonia, Ungheria, Russia e dai

Pesi Scandinavi, con l’eclatante esclusione della Spagna, dove il viaggio d’istruzione in Italia non divenne mai un fenomeno collettivo o un programma di Stato, sia perché gran parte dei suoi territori ricadeva sotto il proprio dominio, sia, soprattutto, per le prospettive che, rispetto al vecchio continente, offriva il nuovo mondo (attrattiva che, invece, la corona inglese cercò ostinatamente di contrastare). Il che non esclude alcune illustri eccezioni che confermano l’assunto, come nei casi di Cervantes e Velázquez, ricordati dall’autore, ai quali si potrebbe più tardi aggiungere l’abate Jaun Andrés, che affidò le memorie del viaggio in Italia del 1785 alle lettere inviate al fratello, tempestivamente pubblicate a Madrid (Cartas familiares, 178693), la cui permanenza in Italia si lega a circostanze particolari, ponendosi come conseguenza della dispersione di intellettuali gesuiti seguita alla soppressione dell’Ordine. Pur esplorando il Grand Tour nei suoi vari aspetti, compreso il rilevante epifenomeno del collezionismo, che spinge molti stranieri a perlustrare le nostre contrade per fare incetta di antichità, opere d’arte, edizioni pregiate o manoscritti, de Seta non si limita a individuare la mentalità, o anche le abitudini dei viaggiatori, come in altri approcci, di taglio più marcatamente sociologico. Non a caso il volume si conclude con un capitolo sul cosmopolitismo il quale, nei suoi riferimenti universali, tende a superare le differenze di lingua e di cultura di provenienza degli osservatori per cogliere valori condivisi. Il soggetto, come ben ribadisce il

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titolo, resta l’Italia, o meglio, in un paese frazionato in tanti stati da giustificare la riduzione propostane da Metternich a mera espressione geografica, la costruzione della sua immagine. Proprio lo sguardo “esterno” dei viaggiatori, attento a cogliere differenze, come le punte di sviluppo e di arretratezza che presenta il Paese reale, ma anche in grado di riconoscere una superiore unità culturale, può infatti meglio approdare alla coscienza di un’identità che gli italiani attinsero pienamente solo in epoca risorgimentale: un’identità che de Seta ci invita a leggere nello specchio, più o meno deformato o fedele, dei resoconti dei viaggiatori. Anzi, diremmo in un gioco di specchi, dal momento che la letteratura odeporica si alterna tra le guide, le quali creano le aspettative dei viaggiatori, e le loro reazioni che, affidate a memorie, relazioni, diari, epistolari messi a stampa, influenzano, a propria volta, nuovi viaggiatori, in una catena che, mutuando la terminologia di Hans Robert Jauss, possiamo definire di “ricezioni” e di “orizzonti di attesa”. La proposta di individuare nella letteratura di viaggio l’incubazione di una coscienza nazionale dell’Italia riverbera così nuovo significato e valore allo studio delle fonti del Grand Tour, e considerando la loro diversificata provenienza, fa emergere anche la dimensione europea della costruzione di tale identità. E proprio in ciò ci sembra risieda la principale lezione che de Seta affida al volume, riuscendo a trasmetterla senza retorica ai lettori, cittadini della nuova Europa, la cui attenzione è piacevolmente

catturata dalla galleria di personaggi e dalla straordinaria messe di “storie” che l’autore sapientemente intreccia “sotto il bel cielo italiano”. C. L. C. Jencks, Storia del Post-modernismo. Cinque decenni di ironico, iconico e critico in architettura, Postmedia Books, Milano 2014. Dopo quarant’anni dall’edizione del suo primo libro (Architecture 2000: Predictions and Methods, 1971), durante i quali ad una vasta produzione bibliografica si è accompagnata una prolifica attività pubblicistica, il critico e storico dell’architettura statunitense redige la sua prima Storia del Post-modernismo (edita in lingua originale nel 2011 da John Wiley and Sons), un manuale anticonvenzionale in cui l’autore traccia gli sviluppi del­ l’architettura postmoderna attraverso cinque decenni, dal 1960 al 2010. Più che un libro di storia tradizionalmente inteso, in cui ci si aspetterebbe una registrazione sistematica dei fenomeni più rilevanti presenti sulla scena internazionale, il testo manifesta, ancora una volta, l’attitudine di Jencks ad operare una critica che, in maniera operativa, continua a sostenere le ragioni di un’architettura, ma più in generale, di una cultura postmoderna all’interno della quale i fenomeni architettonici vengono interpretati e selezionati per spiegare l’evoluzione della parabola postmodernista. Pertanto, il lettore potrà stupirsi per l’assenza o per la posizione di


scarso rilievo attribuita ad alcuni protagonisti della cultura architettonica degli ultimi cinquan­ t’an­ ni tra cui Oscar Niemeyer, Alvaro Siza, Tadao Ando, Rafael Moneo ed altri. Facendo una breve e parziale indagine dei precedenti, ovvero dei testi che hanno segnato lo sviluppo del Postmodernismo in architettura, dopo Complexity and Contradiction in architecture, il “manifesto gentile” di Robert Venturi che nel 1966 giocò un ruolo pionieristico, fu nel 1975 che, con The Rise of PostModern Architecture, Charles Jencks adoperò per la prima volta il termine “postmoderno” all’interno di un suo testo, dandone una diffusione planetaria nel 1977 attraverso il bestseller The Language of Post-Modern Architecture e le successive traduzioni in undici lingue. In ambito italiano, si deve a Paolo Portoghesi un importante contributo sull’argomento con la pubblicazione di Dopo l’Architettura Moderna nel 1980. In seguito, fu il libro di Heinrich Klotz, The History of Postmodern Architecture, a tentare una sintesi dell’architettura postmoderna nel 1988, una data emblematica in cui, ad esempio, Bruno Zevi vide la fine del movimento. Lontano da questa posizione, Charles Jencks, attraverso il libro in esame, sintetizza gran parte della sua produzione storiografica, a partire da argomenti consolidati nelle edizioni successive del bestseller sopracitato, fino ai testi più recenti che ha definito “tomi-evolutivi”, perché effettivamente si evolvono insieme agli eventi. Si delinea un quadro storico in cui il Postmodernismo assume,

secondo la definizione di Umberto Eco apparsa recentemente sulle pagine de L’Espresso, la connotazione di un termine “ombrello” sotto cui si affollano diversi fenomeni, dall’architettura alla filosofia e alla letteratura, e non sempre in modo coerente, ma anche movimenti e personaggi che, in virtù del proprio carattere oppositivo, rispecchiano la natura ibrida e inclusiva del Postmodernismo, capace, attraverso una doppia codificazione, di comunicare ad una società informata ai dettami della differenza e dell’eterogeneità. Di conseguenza, il pensiero dell’autore si articola all’interno di una lettura storica complessa, attraversata da flussi di breve, media e lunga gittata, in cui si intrecciano diversi livelli interpretativi che, contrariamente ad una cultura di stampo modernista, riflettono una visione discontinua e frammentaria della storia, in accordo con le filosofie pluraliste e le scienze della complessità. È, infatti, a partire dalle sei tradizioni di fondo, historicism, straight revivalism, neo-vernacular, adhoc urbanist, metaphor metaphisical e post-modern space, che si dipartono i movimenti principali, gli architetti più significativi ed alcune parole chiave che attraversano tutta la vicenda postmoderna, come il contrappunto contestuale e il concetto di eteropoli. Per riassumere l’andamento di questa storia cinquantenaria, oltre a procedere per grandi categorie, come quelle sopraindicate, l’autore individua due periodi portanti, un Postmodernism I e un Postmodernism II, intervallati da una fase calante, manifestatasi alla metà degli anni Ottanta, in

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cui l’architettura postmoderna, dopo aver raggiunto il successo, è stata afflitta dall’establishment e dalle mode che hanno prodotto una volgarizzazione del linguaggio. La prima stagione prende avvio dai fallimenti morali del movimento moderno, per le implicazioni di alcuni suoi protagonisti con i regimi totalitari, e dal cambio di rotta di Le Corbusier il quale, attraverso la Cappella di Ronchamp, primo edificio iconico postmoderno, scardina definitivamente l’International Style prefigurando una molteplicità di strade. Ma fu Louis Kahn […] ad aprire quella nuova via, consolidatasi attraverso le posizioni venturiane, in ambito architettonico, e quelle di Jane Jacobs, in ambito urbanistico, e che ebbe il suo riconoscimento con la Biennale di Venezia del 1980, intitolata La presenza del passato, la quale segnò il debutto del Postmodernismo sulla scena globale. Va ricordato, inoltre, che questa prima fase evolve, per i primi due decenni, parallelamente ad una fase tardo-modernista di cui, nel presente lavoro, l’autore non tratta. La seconda stagione è anticipata, invece, da una fase che, come precedentemente accennato, si caratterizza per una riflessione interna del movimento che spinge Jencks a parlare di modernismo critico, una sorta di sintesi tra cultura moderna e postmoderna che manifesta l’interpretazione, condivisa da Jean-François Lyotard, secondo cui il Post-modernismo è pur sempre una forma di Modernismo. Ma è all’inizio del nuovo millennio che il critico statunitense individua una rifioritura del movimento il quale, supportato dal forte carattere

scientifico raggiunto dalle scienze non lineari, trova nelle nuove possibilità generate dalla progettazione computerizzata il punto di partenza per affermare inediti gradi di ornamento e il conseguente trionfo dell’edificio iconico. Questi ultimi due fenomeni, sostenuti da una visione cosmogenica dell’universo, ovvero da una costante allusione ai processi naturali, hanno trovato nell’edificio museale il primo canale di veicolazione, come dimostrato dai progetti di Frank Gehry, Daniel Libeskind e Norman Foster, per citare i più noti. Il fine è sempre il raggiungimento di un elevato livello di comunicabilità dell’architettura, la quale, attraverso codici multipli, può penetrare in maniera profonda i diversi strati culturali offrendo livelli interpretativi plurimi. In ultima analisi, l’autore individua nel simbolismo cosmico e naturale il genere principale emerso in cinquant’anni di Post-modernismo, da Louis Kahn e Le Corbusier al Nido d’Uccello di Herzog & de Meuron fino all’Isola di Saadiyat. Nella parte conclusiva del testo, oltre a sottolineare l’ampliamento del repertorio linguistico come contributo pregnante del postmodernismo architettonico, Jencks non esita a nasconderne i fallimenti, dichiarando che il Post-modernismo è stato spesso descritto come “sovversione dall’interno dell’élite al potere”, ma di fatto si traduce anche in una forma di collaborazione con gli obiettivi del potere, unitamente alla mancata difesa di una cultura locale autentica in un’epoca di globalizzazione esasperata. Quest’ulti-


mo punto sembra essere il coagulo delle maggiori contraddizioni dell’architettura postmoderna la quale, affermatasi combinando tecnologia universale moderna e cultura locale, in un “doublecoding”, pare non essere più in grado di interpretare i valori caratteristici dei luoghi in cui insiste, proponendo icone che, volte al perseguimento di un simbolismo cosmico, assurgono ad un livello di iconicità universale; invero, si ripetono sempre più spesso fenomeni al limite del plagio, come nel caso della Agbar Tower di Jean Nouvel e della Swiss Re Tower di Norman Foster, esempio annoverato, insieme ad altri, nel numero trentasette della rivista d’architettura olandese Mark, proprio per evidenziare le sempre più ricorrenti architetture analoghe. Lungi dal voler supporre che un edifico iconico sia di conseguenza atopico, sembra prospettarsi un nuovo International Style, caratterizzato dallo scollamento del binomio forma-funzione, in cui la scelta di involucri leggermente variabili per racchiudere funzioni complesse diventa il nuovo stile postmoderno, generando, spesso, una discrepanza tra struttura portante e struttura portata, orientata alla modellazione di una forma esterna allusiva ed enigmatica nella sua immagine complessiva. È possibile infatti, seguendo lo sviluppo spazio-formale desunto dall’analisi delle opere architettoniche tracciata da Jencks, individuare un’evoluzione che, dalle sovrapposizioni venturiane, passando per le disarticolazioni spigolose, giunge ad architetture caratterizzate da spazi decisamente fluidi e ininterrot-

ti, come nelle opere di Greg Lynn e Lars Spuybroek, evocative della metafora baumaniana di modernità liquida. La Storia del Post-modernismo di Charles Jencks si inserisce in un contesto storico in cui si registra l’attualità del dibattito sul Postmoderno, come dimostrato dalle iniziative culturali (mostre, pubblicazioni, convegni) e dalle interpretazioni provenienti da più parti del panorama intellettuale contemporaneo, in cui si contrappongono sostenitori e detrattori, confluite nel ciclo di conferenze tenutosi presso l’Institute of Classical Architecture and Art di New York nel 2011, intitolate Riconsidering Postmodernism. Ma a scuotere il dibattito internazionale sono soprattutto le posizioni di chi invoca la fine del Postmodernismo, tra cui ricordiamo quella di Ed­ ward Docx espressa attraverso il noto articolo del 2011, Postmodernism is dead, edito in italiano nello stesso anno sulle pagine de La Repubblica, in cui l’autore dichiara conclusa l’era postmoderna in ragione di un’epoca del­ l’autenticità; e quella di Maurizio Ferraris pronunciata nel Manifesto del nuovo realismo, edito nel 2012 da Laterza, attraverso cui il filosofo contrappone alla cultura dell’interpretazione la presa di coscienza di un mondo oggettivo indipendente dalle nostre facoltà cognitive. Distante da queste posizioni, Charles Jencks considera il Postmodernismo un movimento non concluso attivo da cinque decenni, il quale, per dirla con Gaetano Chiurazzi, indica un diverso modo di rapportarsi al moderno che non è né quello dell’opposizione (nel

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senso dell’“antimoderno”) né quello del superamento (nel senso dell’“ultramoderno”). A. T. A. Bassi, Food design. Progetto e comunicazione del prodotto alimentare, Electa, Milano 2015.

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Spesso le Esposizioni Universali concludono più che aprire un fenomeno sociale, artistico o di costume. È quanto è accaduto al­ l’Exposition internationale des Arts Décoratifs et Industriels mo­dernes nel 1925 che, inaugurata con almeno un decennio di ritardo a causa del conflitto mondiale, si ritrovò a sancire la chiusura o, quanto meno, l’inizio della parabola discendente del Déco. E forse è anche questa la sorte che spetterà al grande tema del cibo una volta conclusa l’Expo milanese: dopo almeno un decennio in cui l’alimentazione imperversa come fenomeno culturale e mediatico, probabilmente l’argomento vivrà un periodo di ribasso. Viene allora da domandarsi cosa resterà della grande euforia mediatica che ha caratterizzato questo fenomeno. Nel mondo del Design quello del Food è ambito di progetto sempre esistito, in grado di muovere una delle più solide e storicizzate filiere del prodotto, soprattutto nel nostro paese. Oltre gli chef e l’artigianalità dell’alta gastronomia, il Food Design si occupa del progetto della forma del cibo e di quanto questa incida a livello di distribuzione, commercializzazione, fruizione dei beni alimentari. Al tempo stesso,

il cibo, così come la parola Design, è un grande contenitore nel quale trovare non solo margini di invenzione e creatività per risolvere uno specifico progetto, ma più in generale è per un autore un ambito nel quale testare una più ampia teoria del progettare o riflettere lo Zeitgeist della sua epoca. Su argomenti che vanno oltre questa moda del cibo si basa il libro di Alberto Bassi. Un saggio completo sull’argomento, che si apre con una prima parte nella quale l’autore scandaglia il senso del progetto del cibo inquadrandolo storiograficamente a partire dalla più ampia dimensione del bene materiale. Qui il prodotto alimentare viene sezionato per argomenti, considerando anche tutte quelle altre storie extra-progettuali che esso genera con gli aspetti produttivi, le componenti e dinamiche riguardanti fattori funzionali, estetici e simbolici legati all’immaginario collettivo e che si affiancano al produrre. In questa parte una prima macro divisione, specifica l’autore è: fra design “con il cibo” (per esempio, un certo modo di preparare ricette, piatti o portate), design “per il cibo” (tutti i prodotti o altro legati alle modalità di consumo e servizio, dalle posate alle pentole, ai bicchieri) e design “del cibo”. Sulla materialità del cibo e sulle altre attività che esso condiziona e dalle quali viene condizionato, Bassi sottolinea puntualmente come al food design sia correlata, ad esempio, la storia tecnica: La progettazione degli artefatti alimentari si può appropriatamente collocare nella storia della cultura materiale. Nel suo fondamentale Mechanization takes command


del 1948 – che reca nell’edizione originale il sottotitolo «a contribution to anonymous history» – indaga la meccanizzazione della produzione del pane e della macellazione della carne: insomma il nuovo sistema e il contesto produttivo che cambiano definitivamente il cibo e, assieme, quantità e qualità per la vita delle persone. Altro ingrediente fondamentale rilevato nel saggio è quello della mutazione del gusto in base ai cambiamenti della storia antropologica e del costume. Il gusto, infatti, – specifica Bassi – è generato dalla storia e si modifica nel tempo, nel suo duplice significato di “sapore” («l’esperienza storica del cibo è irrimediabilmente perduta») e di “sapere. A questo punto il saggio si addentra nella disamina delle componenti del progetto cibo. Tra queste è particolarmente interessante quella dedicata al concetto di involucro/contenitore che non può essere scissa dal contenuto: Il contenuto-cibo non è sfuso ma è posto dentro un contenitore, un imballaggio esito di un apposito progetto, più o meno direttamente collegato a materiali, tecnologie, forme. Sul packaging, ma di frequente anche direttamente sul prodotto, si declina l’identità di marca e la comunicazione visiva: etichetta e brand, informazioni sul contenuto organolettico e gli ingredienti fino alle istruzioni per l’uso. Affermazione e diffusione dei prodotti passano attraverso la loro possibilità di uscire dalla condizione e dimensione locale per essere apprezzati su mercati più ampi.

Per fare questo, in particolare nella fase pre-industriale – con ridotti strumenti di informazione e comunicazione che non siano visibilità e reperibilità fisica –, è necessario che i prodotti siano trasportabili e scambiabili. Principe di questo specifico approfondimento è – ci piace ricordarlo – l’intervento di Bruno Munari che utilizzò la descrizione del packaging naturale dell’arancia e dei piselli come grande metafora della relazione contenuto/contenitore nell’attenzione progettuale. Entrando nella più precisa dissertazione sulle specifiche componenti del prodotto alimentare, Bassi sceglie di seguire una suddivisione in quattro periodi cronologici e tematici: il cibo prima dell’industria; l’avvento della macchina e traduzione del prodotto da artigianale a industriale; il cibo modernista; l’era contemporanea con nuovi modi di produrre e consumare il cibo. Per ogni epoca viene ricostruito l’intreccio che il cibo genera, così come era stato impostato nella parte teorico-saggistica iniziale. Per esempio, viene notato che: Il periodo fra le guerre, dal punto di vista della cultura, è segnato dalla consapevolezza e dall’orgoglio del ruolo che possono assumere gli strumenti progettuali nel percorso di costruzione di una società moderna (dalla pianificazione all’architettura, al design), ma anche quelli espressivi (arte, musica, cinema, fotografia o teatro), perché in grado di dialogare con le epocali trasformazioni in campo scientifico, tecnologico, economico e sociale. Più avanti vengono accennati

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campi disciplinari correlati al cibo e a volte nati principalmente dalla sua distribuzione e consumo: Il periodo fra le guerre, dal punto di vista della cultura, è segnato dalla consapevolezza e dall’orgoglio del ruolo che possono assumere gli strumenti progettuali nel percorso di costruzione di una società moderna (dalla pianificazione all’architettura, al design), ma anche quelli espressivi (arte, musica, cinema, fotografia o teatro), perché in grado di dialogare con le epocali trasformazioni in campo scientifico, tecnologico, economico e sociale. E ancora: Alla definizione del prodotto modernista, e poi consumista, forniscono un contributo decisivo gli strumenti della progettazione visiva, della comunicazione e della pubblicità. Le aziende alimentari si dotano di uffici interni dedicati a questi aspetti oppure si avvalgono di studi e agenzie esterne. (…) La grande distribuzione fornisce anche nuovo spazio di lavoro per architetti, visual e product designer. Per esempio, per Esselunga lavora Max Huber, per il sistema cooperativo Coop – che inaugura il primo supermercato a Reggio Emilia nel 1963 – prima Albe Steiner e poi Bob Noorda. La seconda parte del volume è interamente dedicata a un Inventario dove singoli progetti divengono veri e propri exempla, case histories per narrare una storia particolare che si allarga sino a toccare la cultura del progettista, dell’impresa, di un distretto industriale oppure di un momento tecnologico o sociale. È forse questa la sezione più

godibile, oltre che corposa, anche per un lettore trasversale e generalista, non solo grazie al carattere del registro narrativo, ma anche per il supporto di un imponente apparato iconografico di rara qualità. Ogni alimento viene inquadrato dai suoi caratteri organolettici alla sua forma, dai sistemi tecnologici e organizzativi per la produzione a come si colloca in un contesto di valorizzazione, comunicazione e consumo, fino alla gestione completa del ciclo di vita. Qui, nella selezione degli artefatti alimentari della tradizione italiana, viene seguita una suddivisione tipologica oltre che cronologica dove a brillare è la storia del design anonimo sulla quale l’autore ha già investito ricerche fondamentali. Un modo per affermare che le “cose” del cibo, soprattutto se ben progettate, hanno vita più lunga della mondanità televisiva di qualche chef stellato. Tra le maglie della tessitura della storia alimentare è possibile rintracciare quella del passato più o meno recente del nostro pae­se, con un impatto emozionale che solo il cibo è in grado di muovere nelle memorie di chi legge, nettamente superiore a ogni altro oggetto della cultura materiale. Merito principale di questo volume è quindi nell’aver ricostruito una storia fatta spesso di altre storie, selezionando temi, casi argomenti che di certo sopravvivranno alla moda del momento, incidendo sul senso di compartecipazione profondo e duraturo a questo racconto di oggetti quotidiani che va oltre ogni effimera astuzia mediatica. D. D.


La provocazione del reale. Nuovo realismo e razionalismo, un dibattito architettonico e filosofico tra Italia e Germania, Convegno Internazionale di Studi, Villa Vigoni, Menaggio (Como), 31 marzo - 3 aprile 2014. Il Convegno, con il coordinamento scientifico di Günter Abel, Maurizio Ferraris, Silvia Malcovati e Fritz Neumeyer, ha rappresentato, dopo l’uscita del Manifesto del Nuovo Realismo di Mau­ rizio Ferraris, una delle numerose iniziative attorno al rapporto tra architettura e realismo e più in generale tra architettura e filosofia susseguitisi a partire dal 2012. In particolare i convegni Nuovo realismo e architettura della città (Torino, 4 dicembre 2012), Uno spazio reale e adeguato. Architettura e realismo (Na­poli, 11 dicembre 2012), Nuo­vo Realismo e Razionalismo (Torino, 30 maggio 2013) e Neuer Realismus und Rationalismus (Berlin, 14-15 novembre 2013) avevano stimolato un intenso dibattito tra filosofi e architetti per cui, come affermano i curatori, l’obiettivo delle giornate di studi lariane era quello di far emergere più chiaramente i momenti inter- e transdisciplinari della discussione e di definire più precisamente l’importanza e il significato della nozione di realismo come strumento critico nella teoria e nella pratica. Il convegno, che aveva visto confrontarsi architetti e filosofi del calibro di Hans Kollhoff, Fritz Neumeyer, Annegret Burg, Carlo Moccia, Nicola Di Battista e Maurizio Ferraris, Günter Abel, Petar Bo­ janic, Vincenzo Costa, era artico-

lato in varie sessioni: Perché il nuovo realismo in filosofia? [Il punto di vista tedesco e quello italiano]; Cosa significa Realismo in Architettura? [Il punto di vista tedesco e quello italiano]; Cosa significano razionalismo e realismo per l’architettura e la città?; Cosa si aspetta l’architetto da un filosofo? Cosa pensa un filosofo che l’architetto si aspetti da lui?. Se i convegni precedenti in qualche modo avevano mostrato la tendenza a identificare, nel dibattito italiano, il concetto filosofico di “realismo” con quello architettonico di “razionalismo” nella sua definizione più generale, quest’assunzione era stata considerata in particolare da parte di varie posizioni della cultura archiettonica tedesca, limitativa, se non contraddittoria, e aveva sollevato una questione decisiva: cioè fino a che punto l’astrazione razionalista possa considerarsi necessariamente un metodo adeguato per un’architettura realista, dunque “concreta”. I tre livelli su cui si è articolata la discussione hanno riguardato: Il rapporto tra razionalismo e realismo nella storia dell’architettura moderna; Il rapporto fondamentale tra architettura e filosofia, e anche tra alcuni architetti e filosofi nell’architettura del XX secolo; Il rapporto tra Germania e Italia. I vari interventi hanno sondato in modo articolato le polarità individuate nelle sessioni rispetto alle declinazioni alternative e complementari del portato del realismo in filosofia e in architettura e al significato di razionalismo all’interno delle due culture messe a confronto, quella italiana e quella tedesca, e dei loro mutui

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scambi ed influenze. Riguardo al rapporto, complementare o escludente tra realismo – “nuovo realismo” o “realismo positivo” (M. Ferraris, Realismo positivo, Rosenberg & Sellier, Torino 2013) che dir si voglia – e il razionalismo in architettura, sia i filosofi (M. Ferraris, G. Abel, P. Bojanic, E. Ficara) che gli architetti (S. Malcovati, F. Neumeyer, H. Czech, N. Di Battista, I. Vollenweider, H. Kolloff, A. Burg, C. Moccia, M. Fagioli, R. Capozzi, F. Visconti) intervenuti nelle prime due sessioni hanno fornito numerose chiavi di lettura sovente divergenti ma mutuamente con­ frontabili, in particolare, riguardo al rapporto tra realismo e razionalismo dal punto di vista architettonico. In ambito tedesco (Neumeyer, Kolloff, Burg) il realismo conduce ad una attenzione per il recupero delle forme della tradizione sia della costruzione che della città e ad una loro possibile risemantizzazione, quindi distinto fortemente dall’astrazione razionalista; in ambito italiano, ma con più sfumature, il realismo risulta invece indissolubilmente legato alla conoscenza razionale della realtà o attraverso la conoscenza dei processi di costruzione dell’architettura e della città e la capacità di riconoscerne le leggi costitutive e di lavorare con esse in continuità (Malcovati) o utilizzando la specifica procedura dell’astrazione come disvelamento delle essenze contenute nel reale e da rappresentare attraverso le forme (Moccia). In quest’ultima opzione, condivisa da chi scrive, per rapporto con la realtà, in architettura, si vuole intendere un atteggiamento critico – che per operare sul reale non

può prescindere da una sua conoscenza necessaria. Una conoscenza che non constata semplicemente lo status quo ma che vuole produrre su di esso una trasformazione/modificazione ef­ ficiente e progressiva, muovendo dal riconoscimento che le pratiche architettoniche debbano produrre oggetti concreti e duraturi (artefatti prodotti da oggetti ideali prima che oggetti sociali), forme stabili e non racconti o narrazioni. Allo stesso modo si deve riaffermare come ineludibile il riferimento alla ragione, alla razionalità più che a un equivoco razionalismo (termine ismatico mutuato dalla storia). In tale opzione razionale l’architettura nel suo inevitabile rapporto con il reale, con il “mondo esterno” (M. Ferraris, Il mondo esterno, Bom­ piani, Milano 2013), non può ridursi a una sua mera descrizione o a una presa d’atto – se pur necessaria – ma deve opporre e contrapporre allo stato di cose esistente [se del caso] la costruzione di un diverso stato di cose e mettere in questa costruzione la potenza necessaria per imporlo (G. De Michele, New realism vs Postmodern – oltre l’Accademia: le strade, in: http:// www.minimaetmoralia.it/wp/ new-realism-vs-postmodern-oltre-laccademia-le-strade/). Del resto per Mies van der Rohe, di cui ricordiamo la bella definizione di architettura che la identifica con una costruzione portata alla sua espressione esatta, l’atto del costruire in altri termini significa proprio dare forma [con chiarezza] alla realtà. Una costruzione razionale in grado di costruire forme intelligibili poiché solo attraverso la ragione (R. Ca-


pozzi, “Architettura, ragione, real­tà” in S. Malcovati, S. Suriano, M. Caja (a cura di), Nuovo realismo e architettura della città, Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna 2013) si è in grado di analizzare, descrivere (ma anche di criticare) compiutamente la realtà che ci circonda ricavando da essa – come avverte Antonio Monestiroli – i suoi tratti essenziali attraverso una specifica procedura astrattiva in cui per “astratto” non si deve intendere lo “slegato dal reale” o una concettualizzazione, [che] ci porta sempre più lontano, “fuori” dalla realtà (Renato Rizzi) ma piuttosto ciò che è “estratto” da essa superandone le particolarità e le contraddizioni. L’astrazione in tal senso è appunto Ἀφαίρεσις, abstractio (da abs-trahĕre), che appunto denota l’attività selettiva della mente che si applica sulle cose, sugli enti nel loro rapporto con le altre datità, da cui trae le qualità specifiche ovvero, come in Aristotele, “l’intelligibile nel sensibile”, o per Peirce, quell’aspetto prescissivo, che sottolinea il carattere selettivo proprio del procedimento astrattivo, diverso da quello ipostatico, che caratterizza la creazione di enti astratti, specie nel campo matematico. Astrarre quindi è un’attività eminentemente analitica che mette in campo una Krisis, un giudizio e una decisione (peraltro falsificabile) sulla realtà, individuandone i tratti essenziali non per constatarli, estetizzarli o per determinare da parte dei soggetti un improponibile costruzionismo alla Kant, di enti slegati dalla condizione ilemorfica, ma per produrre su di essi e con essi (con la loro comparteci-

pazione accettando l’invito che le cose ci offrono) una rinnovata possibilità di ordine e di relazione in vista di un miglioramento di ciò che c’è. Una ipotesi operativa progressiva con forti richiami ad un certo “neo illuminismo” (J. Petitot, Per un nuovo illuminismo, Bompiani, Milano 2009) in cui l’ordine non è qualcosa di sovra-imposto alle cose ma appunto la capacità di svelare la natura – l’“in sé” si sarebbe detto qualche secolo fa – delle cose stesse attraverso le forme. Il problema quindi diventa quello di rivelare, disvelare con affordances, quell’ordine che è incorporato agli oggetti che è causa et index delle cose e delle azioni possibili su di esse. In tal senso il progetto diviene strumento fondamentale sia per la conoscenza e il riconoscimento del valore delle forme sedimentate nella città e nell’architettura sia per una loro necessaria innovazione. Il progetto – inteso come «sistema ordinato di scelte» che si applica alle forme e non ai loro significati – è naturalmente razionale. Infine a proposito dell’ultima sessione: “Cosa si aspetta l’architetto da un filosofo? Cosa pensa un filosofo che l’architetto si aspetti da lui?”, nei vari interventi susseguitisi di giovani dottorandi e ricercatori architetti e filosofi messi a confronto (L. Caffo, M. Tubbesing, G. Wegener, A. Mauro) e nelle conclusioni affidate a Federica Visconti si sono determinate posizioni molto interessanti che a partire dal proprio specifico disciplinare hanno provato a gettare ponti e a produrre sconfinamenti, spesso rischiosi e non sempre appropriati, con la disciplina complementare. In partico-

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lare, soffermandosi sulla prima delle due domande, come è emerso in altre sedi, La cultura architettonica italiana e non solo italiana, nel secolo scorso ha intrattenuto parecchie liaison con il pensiero contemporaneo, producendo su questo terreno tante traduzioni, spesso a-critiche, parecchi tradimenti e parecchie infatuazioni spesso finite in grandi delusioni. Si pensi ad esempio agli scambi e ai debiti contratti da alcuni maestri: tra Mies van der Rohe e Romano Guardini, passando per una grande e sapiente lettura di Sant’Agostino; tra Ernesto Nathan Rogers e De­wey; tra Roberto Pane e Benedetto Croce e un certo idealismo crociano; tra Gregotti e Adorno o Husserl per il tramite di Antonio Banfi e Enzo Paci; tra Grassi e Lukács; tra Aldo Rossi e Lèvi-Strauss e gli strutturalisti e i formalisti russi; di molti altri con Heidegger, Deleuze, Barthes, Foucault; fino appunto ai recenti e “tortuosi” rapporti tra Tschumi/ Eisenman e Derrida e la sua ‘decostruzione’ tradotta troppo frettolosamente sub specie architecturae». (R. Capozzi, “Presentazione”, in M. Ferraris, Lasciar tracce: documentalità e architettura, a cura di R. Capozzi e F. Visconti, Mimesis, MilanoUdine 2012). In conclusione si può affermare che il dialogo con i filosofi e l’interesse per le loro filosofie da parte degli architetti siano stati spesso (e siano) strumentali. E che alcune assunzioni teoretiche dei filosofi, al di là di rarissime adesioni/comprensioni coerenti e consapevoli, sovente siano servite (e serviranno) agli architetti – lungi dal proporsi co-

me veri e propri strumenti e materiali per il progetto – piuttosto come leva d’appoggio di posizioni e affermazioni specificamente disciplinari: come cunei per affermare e consolidare posizioni che venivano maturandosi dall’interno stesso della disciplina. Il rapporto tra discipline in genere può essere e deve essere produttivo se avviene su “territori di confine”, sul limes, [che] al tempo stesso separa ed unisce – congiunge – “campi di pertinenza” differenti e non confondibili: senza indurre in tal modo a indebite e frettolose trasposizioni e translitterazioni. Tradurre dei ‘pezzi’ o frammenti di ragionamento che stanno in una disciplina in un’altra senza capirne e contestualizzarne opportunamente le valenze rischia di avere poco senso. Ciò nonostante va riconosciuto al dialogo continuo tra discipline – che questo convegno con grande rigore e ricchezza di contributi ha ancora una volta consentito – un ruolo fondamentale e inrrinunciabile in cui la Theoria diviene luogo del “pensiero e del confronto” in cui la filosofia e il filosofo si pongono e pongono domande su una certa disciplina cui la disciplina stessa non saprebbe rispondere con i soli propri mezzi. (R. Casati, Prima lezione di Filosfia, Laterza, Roma-Bari 2010). Tali risposte, trovate a partire da un punto di vista più generale [prorio della filosofia], possono [forse] consentire anche all’Architettura di progredire nelle sue specifiche ed autonome indagini sulla realtà e sul mondo. R. C.


G. Cutolo, Breviario di formazione, Aracne, Roma 2014. Nella forma del compendio, una pubblicazione concisa e di stampo manualistico, Giovanni Cutolo ha ripreso alcuni temi che aveva già affrontato e ha sistematizzato una sua originale visione del mercato del design (G. Cutolo, L’Edonista Virtuoso, Franco Angeli 1989) aggiornata in base alle dirompenti conseguenze della comunicazione digitale. Per la verità il titolo rende ancora più esplicita la volontà didascalica dell’autore e, si immagina, il carattere di testo rivolto alla preparazione dei giovani che nei diversi ruoli si potrebbero applicare ai molteplici aspetti della disciplina. In conseguenza della premessa bisogna subito riconoscere che l’obbiettivo è stato raggiunto e, sebbene la volontà di “fare istruzione” mascheri un vero saggio sull’argomento, i contenuti sono resi in modo chiaro e ben esplicitati con l’ausilio di schemi e figure (talvolta elementari) secondo una formula che riprende il progetto grafico dei sussidiari illustrati degli anni ’60 e che dimostra, nonostante la contemporaneità dei banner e dei menù a tendina, la forza esplicativa di tipologie di comunicazione, ritenute arcaiche, che invece consentono notevoli risultati e che oggi sono ingiustamente trascurate nelle impaginazioni più diffuse. Altrettanto efficace risulta la spendibilità del volumetto presso le diverse categorie di apprendisti. Probabilmente il fatto che Cutolo sia l’espressione di una professionalità, e di un pensiero, trasversale che, partendo dai

punti vendita, attraversa la consulenza alla produzione e la frequentazione di designers e pensatori, conferisce alla fatica editoriale diverse prospettive di lettura e attribuisce ad essa una valenza multipla presso diverse figure. In pratica la formazione che il volume prevede è quella dei consumatori, dei mercanti, dei produttori, dei professionisti e degli studenti, senza tralasciare i consulenti, i sociologi del mercato e i marketing man, di cui peraltro si prevede un deciso ridimensionamento. Per questo motivo il commento che qui si vuole articolare riguarda appunto le esigenze formative delle diverse categorie implicate nel processo di design, superando come già acquisite le tesi riferite al progetto di consumo (che disegna la sagoma dell’edonista virtuoso) e al rapporto con i costi del design (risolti con l’individuazione del prodotto di design come lusso autentico dei nostri tempi). Inoltre il Breviario ha un’altra peculiarità. Argomenta insistentemente sulla necessità di educare gli acquirenti che tendono comunque a circondarsi di arredi trash (e continuano ad abitare improbabili villette tirolesi sui lungomari), i venditori che svogliatamente propongono quello che si vende “sicuro” non fosse altro che per l’alto costo delle superfici immobiliari, la grande parte dei produttori – soprattutto meridionali – che si “dopano” con la copia e la riduzione dei costi. Sembra sopravvalutare viceversa la preparazione dei designers e degli architetti (questi ultimi definiti anche “prescrittori” dei prodotti). Probabilmente

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ciò dipende dal fatto che i professionisti, prima di praticare il design, frequentano doverosamente le prestigiose sedi universitarie o le numerose istituzioni private della didattica. Bisogna riferire che Cutolo argomenta con dovizia il formarsi del sistema design, ripercorrendo i passaggi cruciali fra tecnologia e geopolitica, e i risvolti nella macroeconomia dei paesi pionieri e nella microscala dei desideri dei fruitori, riporta il tema della rozzezza industriale che contraddistingue i prodotti fino all’inizio del Novecento, l’autenticità dei manufatti artigiani contrapposti ai “meccanofatti” imitativi delle prime industrie ottocentesche, il ruolo straordinario delle grandi scuole europee, dal Werkbund a ULM, nel fornire un paesaggio estetico finissimo alla prorompente produzione delle fabbriche. Il libro riafferma la distinzione dall’arte pura e la peculiarità dell’opera di design tra l’hardware della rispondenza funzionale e il software dell’esperienza culturale: accomodarsi su una Eames Lounge Chair per leggere alla luce di una lampada Arco senza sapere chi fosse Charles Eames e chi fossero i Castiglioni, non diminuisce il piacere funzionale derivante dalla comodità della seduta e dalla buona qualità della luce. Ma ne riduce o ne annulla certamente quello estetico, che è tutto ed esclusivamente intellettuale (G. Cutolo, Lusso e Design, Abitare Segesta 2001). Interviene con acutezza sulla peculiarità del design italiano dell’arredo (e non solo) e sul­ l’altrettanto specifica inadeguatezza della diffusione nei nostri edifici pubblici, oltre

che nelle case, degli oggetti di design nel momento in cui, pur mettendo mano all’ennesima riforma dei lavori pubblici, nessun parlamentare della Repubblica propone di arginare lo scandalo delle forniture scadenti e imitative, pagate con i soldi dei contribuenti di quel paese che il mondo vede come centro universale della qualità formale associata alla tecnica. Una riflessione che non nasce da un ragionamento colto, ma dall’osservazione delle statistiche economiche e degli incrementi del PIL che assegnano percentuali “cinesi” alle esportazioni del Made in Italy quando è orientato al design. Cutolo ritorna anche su un tema social quando, partendo dai teoremi di Silvio Gesell, sull’Economia Libera prefigura il ruolo civilizzante della conoscenza e della conseguente scelta (libera) e approda alla teleonomia di Jacques Monod che rimette l’uomo al centro del progetto, come autore e fine ultimo dello stesso. E neppure si può tacere, visto che già si è deciso di non parlare dei comportamenti virtuosi al­ l’acquisto, della persistenza delle aziende marketing oriented che, anziché prefigurare nuovi prodotti per nuovi comportamenti, si appiattiscono sulle attese dei consumatori di ieri. Con il risultato che la “domanda” chiede prodotti sempre uguali, mentre sono i nuovi prodotti che stimolano consumi oggi non manifesti. Infine, sul rapporto tra artigianato e industria, si ripercorrono utilmente i secoli in cui, prima della rivoluzione industriale, la produzione di beni era affidata alle botteghe artigiane dove il


Maestro sintetizzava tutte le figure esplicitate nel “quadrifoglio” messo a punto da Renato De Fusco. Infatti era Lui che immaginava cosa si dovesse costruire, organizzava la produzione e manualmente la eseguiva, che mercanteggiava e conseguiva la vendita al cliente. Ma ancora di più, si aggiunge volentieri, era sempre l’artigiano il depositario di una formazione efficientissima ed economicamente funzionale che si configurava con gli apprendistati di una schiera di allievi motivati. In effetti, il gradimento per questo Breviario potrebbe essere espresso con le parole che Umberto Eco ha riservato al Monod de Il caso e la necessità: “il libretto mi è piaciuto e si legge bene”; la trattazione è complessa e suggerisce spunti per immaginare oggetti e scenari di vita, mercati e sviluppi tecnologici, secondo una elaborazione stimolante a cui l’autore ci aveva già abituati. Quello che invece sorprende di questo volume è la strutturazione di un innovativo percorso di progressione della esperienza attorno al prodotto di design mutuato dall’originale tesi di due economisti statunitensi e definita come “La parabola del caffè”. La sintesi di questa intrigante teoria prevede la convinzione che nel sorbire un classico caffè si operi in uno stadio basic in cui ci si può procurare i chicchi nella piantagione come “materia prima” e quindi bisogna tostarli e macinarli, fino a preparare la nota bevanda. Il passo successivo è l’acquisto, direttamente, della cialda e la rapida esecuzione del­ l’espresso in un contesto di “beni

trasformati”. Più recentemente si è arrivati a utilizzare un sistema di “servizi” prendendo al bar sotto casa non solo il liquido, ma anche tutti gli accessori per il consumo e quindi passando dai pochi centesimi della materia prima agli 80 centesimi della cassiera loquace. A questo punto il costo può impennarsi e il consumo diventare una liturgia del­ l’iperscelta tra le migliori miscele del mondo, svolta in un sofisticato ristorante stellato al costo di circa 6 dollari, con la premessa di un pasto delizioso e un contorno di posateria d’argento. Il finale del percorso prevede, sempre lo stesso caffè, sorbito sotto i riflessi dorati del Palazzo dei Dogi nel Caffè Florian a Venezia al costo di 15 dollari. Gli ultimi due passaggi descrivono l’evoluzione attuale del mercato delle merci che, dal criterio dei servizi, si è spostato a quello delle esperienze memorabili (il ristorante), fino a quello delle “trasformazioni irreversibili” che segnano per sempre il fruitore nel languido e sconvolgente scenario lagunare. Cutolo propone per il design una evoluzione dello stesso tipo, che peraltro già si osserva per il food design e con alcune forme di turismo estremo. Dopo il primitivo approccio per prodottimateria, si è passati alla combinazione di materia prima e di manodopera per beni diffusi con una comunicazione oculata; arrivando al mercato dei servizi si scopre il valore dell’immaterialità e si evidenzia il potere economico di chi, invece dei beni, produce prestazioni intangibili. Il futuro immediato vede il successo di aziende che sapranno offrire il valore delle esperienze, ac-

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quisibili dal consumatore con la conoscenza e la ricerca. Successivamente si prospetta un mondo di simultanee e complesse fruizioni fondate sulla abilità di combinare le esperienze e di saper cogliere la bellezza. “Quando l’esperienza diviene durevole essa provoca una trasformazione, con la quale raggiungiamo l’ultimo e più alto livello nella scala dei valori economici, al quale fa riscontro la saggezza come massimo livello della scala dei valori culturali. Nella nascente economia delle trasformazioni il consumatore è il pro-

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dotto e la trasformazione è lo strumento per riuscire a modificare i comportamenti individuali” (B. J. Pine, J. H. Gilmore, L’economia delle esperienze, Etas 2000). Ecco perché risulta così importante formare-guidare i consumatori e generare le trasformazioni: cioè delle esperienze indelebili che ci cambiano. Ecco perché esiste un’alternativa al baratto impersonale dell’economia di­ gitale e al commercio arido della Grande Distribuzione Organizzata. S. C.


Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 51.  Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, riviste e mostre N. 52.  L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre N. 53.  Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54. Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55.  Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56.  Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57.  Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58.  E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59.  Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60.  Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61. Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62.  Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del

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successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63.  Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64.  Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65.  Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre N. 66.  Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre N. 67.  Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre N. 68.  Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69.  Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70.  Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71.  Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72.  Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73.  Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74.  Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75.  Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76.  I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre

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N. 77.  Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre


N. 78.  L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79.  Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80.  Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81.  Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82.  Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre N. 83.  Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre N. 84.  Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85.  Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86.  Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87.  Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88.  L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89.  Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90.  L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91.  «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92.  Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93.  La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre

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N. 94.  Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95.  Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96.  Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97.  Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98.  Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99.  Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre N. 100.  Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101.  Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102.  Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103.  Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104.  La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105.  L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106.  Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107.  Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108.  Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre

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N. 109.  Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre


N. 110.  Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111.  Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112.  Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113.  Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114.  L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115.  L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116.  Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117.  Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118.  Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119.  L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121.  La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122.  L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123.  Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­ l’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 125.  Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126.  L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127.  Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128.  Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129.  Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131.  Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132.  Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133.  Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134.  Abitare la razionalità - Per una nuova clas­si­ficazione delle arti - Il design ae­ro­nautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135.  Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 137.  Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI


N. 138.  Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­ l’ADI N. 139.  Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti

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in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI N. 152. Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre N. 153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazione Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre

Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998

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«Grafica Elettronica» - Via Bernardo Cavallino, 35/g - 80128 Napoli


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Le pagine dell’ADI Associazione per il disegno industriale Campania a cura di Salvatore Cozzolino

Presentazione Percorsi e ricorsi La storia della rivista Op.Cit. incrocia stabilmente quella dell’ADI nel 2005; da quel momento la prestigiosa rivista di riflessione sull’arte, l’architettura e il design, sarà stampata per 10 anni con il supporto economico dell’Associazione per il Disegno Industriale e conterrà un “sedicesimo” di notizie e contributi associativi. Dopo quella lunga collaborazione, seguita da una breve parentesi di vita esclusivamente online, oggi è intervenuto il contributo di una azienda campana per consentire di nuovo la stampa cartacea e un sistema di diffusione che permettesse a ogni Delegazione territoriale del­l’Associazione di ricevere le copie in sede, oltre alla consueta diffusione in libreria e presso gli abbonati. Il ritorno delle 16 pagine di confronto e informazione associativa coordinate dalla Delegazione della Campania, reso possibile dalla sponsorizzazione di un’industria aerospaziale di rilievo internazionale, coincide con l’anno forse più cupo della crisi della produzione manifatturiera che investe il Mezzogiorno d’Italia e con il momento in cui il direttore Renato De Fusco completa la sua ultima fatica editoriale e pubblica un saggio dal titolo significativo “Design e Mezzogiorno tra storia e metafora”. Certamente sono eventi autonomi e solo il tempo saprà dire se comunque segnano l’inizio di un mutamento nella storia industriale e culturale della macroregione meridionale, rimarcato dal recente intervento di Roberto Saviano che, visto il decremento demografico e l’emigrazione persino delle mafie1, incalza il governo centrale affinché formuli strategie per il Sud. Il libro, non solo ripercorre la storia dei primati (e delle spoliazioni) dell’industria manifatturiera e culturale del meridione, inteso con i confini del Regno delle Due Sicilie, ma stabilisce una chiave di lettura dei fenomeni in cui il design che è la “metafora del progresso” spiega la parabola di ieri e il destino futuro del Mezzogiorno che invece è la metafora dello sviluppo mancato. Con l’avvio della Rivoluzione Industriale, viene fuori un quadro del terzo stato in  Roberto Saviano, Caro Premier il Sud sta morendo, La Repubblica, Roma 1° agosto 2015. 1


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dustriale europeo, quello borbonico, che è equivalente, se non anticipatore, di strategie produttive e soluzioni tecnologiche che a quel tempo si vedono a Londra e a Parigi. Si rintraccia perfino la presenza di un design che dalle fonderie ai cantieri navali, dai laboratori del Liberty palermitano alle seterie reali di S. Leucio a Caserta, definisce il suo ruolo strategico per lo sviluppo e traghetta quei territori dall’agricoltura ad un “artigianato industriale” di qualità. Ruolo dei distretti periferici Ed è curioso che proprio pochi mesi prima sia stato presentato un altro volume che propone ancora una visione originale delle opportunità delle aree più periferiche rispetto ai centri storici del disegno industriale. “Con il Sud si riparte” è un libro scritto a più mani che nella introduzione propone gli interventi di due protagonisti della politica meridionale di profilo nazionale: Michele Emiliano (governatore della Puglia) e Luigi De Magistris (sindaco di Napoli). I saggi contenuti non analizzano solo le questioni già note, ma propongono ricette inedite fondate sulla convinzione che sia la parte più in difficoltà del paese che deve diventare protagonista della nuova stagione di sviluppo. Sembrerebbe proprio che, se esiste un’ipotesi di futuro per il benessere e lo sviluppo di questa parte di mondo, questa vede comunque protagonista il design espresso da aree geograficamente marginali pur accomunate da una visione del progetto, inteso alla maniera di Francesco Trabucco, come risorsa nella sfida competitiva e come moltiplicatore di valori dell’oggetto2. In effetti da quasi venti anni l’offerta di questo specifico prodotto intellettuale è decuplicata ed esistono corsi di design molto affollati, presso le università pubbliche e negli istituti privati. Solo al Sud sono stati così formati oltre un migliaio di professionisti, ma, nello stesso tempo, l’industria meridionale ha stentato molto a usare il contributo innovativo di questa compagine creativa, sopratutto se si confronta il pigro atteggiamento nostrano, con la rapida consapevolezza maturata in altri paesi poco inclini, per storia sociale e politica, alla spinta innovativa del design. Non si dimentichi che il tessuto produttivo esterno al centro nord, e ad alcune mirabili realtà come le Marche, è connotato dalla produzione per conto terzi e dai manufatti imitativi che ripropongono merci pensate altrove. Di conseguenza il management di queste imprese non pratica il rapporto con il design e ne teme, oltre i costi, l’avventurosità e la propensione a sondare materiali e tipologie di oggetti inconsueti. Ma sopratutto non ne vede l’utilità per una proposta imprenditoriale che punta a ripercorrere, con un prezzo più basso, territori commerciali di più sicuro affidamento. In questo contesto il risultato più eclatante è che lo sforzo formativo, pagato dai contribuenti italiani, va ad alimentare la capacità produttiva del   Francesco Trabucco, Design, Bollati Boringhieri, Torino 2015.

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resto d’Europa o, peggio, fornisce valori tecnici e formali alle produzioni asiatiche altrimenti di basso profilo culturale e spesso orientate alla copia. In effetti, come sosteniamo da tempo, insieme ai designers bisogna sempre far crescere la domanda di design e quindi formare la classe di imprenditori abili nel saper utilizzare il design, nella piccola e media industria, nel commercio, nell’artigianato e ovunque possa servire un progetto di cose materiali e virtuali, che non si uniformi a quanto già disponibile sul mercato, ma che aggiunga valori nuovi o, meglio, inventi un mercato. In questo scenario la permanenza di una rivista peculiare di considerazioni sul progetto, e l’appendice di “pagine gialle” che rappresenta quanto si muove nelle periferie del paese, rimane un impegno civile prima che associativo. Obbiettivi ADI Campania si organizza per questa nuova opportunità insieme alle Delegazioni presenti in tutto il paese, con l’obbiettivo di dare voce alle iniziative dei territori, ma soprattutto per far emergere il lavoro migliore delle aziende, non importa se industriali, artigianali o digitali, che devono essere promosse e tutelate come un presidio di produzioni belle, buone e giuste. Intendiamo diventare sostenitori di una particolare concezione del prodotto, che è tipica della visione italiana del design, in cui è l’azienda il cuore fattivo del processo dove si incontrano l’innovazione nelle tecnologie e nell’uso, la ricerca espressiva e la cultura materiale, le strategie di comunicazione e di distribuzione, il saper fare con la testa e anche con le mani, le vocazioni delle comunità locali e le sperimentazioni dei linguaggi. In questo habitat complesso la pratica del progetto può trovare nuovi statuti di esistenza nel senso di riguadagnare un rapporto autentico con le esigenze di sostenibilità ambientale dell’opera, per la salute di chi costruisce e di chi usa le cose, per il benessere diffuso, per la congruità dei budget. Design geograficamente eccentrico In Italia, e principalmente al Sud caratterizzato da scarsità di risorse, l’innovazione progettuale diventa una materia prima essenziale e concorre allo sviluppo civile purché attinga alle dinamiche sociali e diventi consapevole di essere una missione complessa fatta di comunicazione pesante e di costruzione poetica. In questo quadro la relativa distanza dai centri economici, se ben interpretata, consente una ricerca più libera e risultati meno influenzati dall’ossessione del business. Tra le componenti più pressanti di un orientamento progettuale più sperimentale, e sensibile a questi temi che confluiscono nella Responsabilità Sociale del Progetto (RSP), figurano: la valorizzazione di un equilibrato rapporto tra l’opera e la cultura tecnica locale; la tutela delle condizioni minime di sicurezza


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e salubrità del lavoro; l’impegno ad usare processi, materiali e tecnologie non energivori o tossici; il migliore uso delle risorse economiche in un quadro di durabilità dell’opera, con accettabili livelli di manutenzione; lo studio di una obsolescenza gradevole e controllata dei componenti, il disassemblaggio coordinato dei componenti e il minimo impatto al termine del loro ciclo di vita; la considerazione che è l’uomo – consumatore e costruttore – al centro del progetto. Human Design In questo momento storico ci si deve convincere che per immaginare un ruolo alto e futuro per i progettisti e, contemporaneamente, individuare una prospettiva di senso per le produzioni manifatturiere europee, bisogna operare con l’obbiettivo di rivolgersi all’uomo e alle sue esigenze e quindi secondo un protocollo di “design responsabile” che escluda i gesti eclatanti e tenda a prodotti belli, buoni e giusti. Vale a dire dotati di linguaggi espressivi contemporanei e stabili, utili e aderenti alle esigenze attuali, equilibrati per compatibilità ambientale, durabilità e costo. In sostanza si tratta di considerare l’uomo nella duplice prospettiva di consumatore e di costruttore. Analizzare le necessità degli acquirenti, partendo da quelle sempre meglio espresse per la sicurezza e per l’utilità, passando per quelle sottaciute per gli stili di vita corretti e non bulimici, fino ad applicarsi a casi di sobrietà formale ed economica, che comunque possono essere oggetto di pensiero creativo nelle strategie e nei prodotti. Allo stesso tempo occorre valutare i bisogni del “costruttore”, di chi produce, disegnando prodotti particolari, oltre che per strategie commerciali, per tutelare la salute e la sicurezza del lavoro, per garantire ritmi e modalità operative rispettose dei diritti fondamentali. In questo quadro assume un forte rilievo il design che promuove e valorizza le capacità che esprime un territorio, i saperi tecnici, i materiali sicuri, le tipologie autentiche, i processi corretti rispetto all’ambiente3. Sono prodotti di aziende che esprimono una capacità specifica e le potenzialità delle collettività manifatturiera, usando un linguaggio che ne interpreti i valori più attuali. E magari, provandosi su oggetti di uso consolidato, si riesce a scoprire che il miglioramento delle performance, anche per gli utensili più antichi e spontanei, che potrebbero sembrare a “evoluzione conclusa”, rappresenta un’opportunità di cultura e di business e che, forse, perfino un cucchiaio può essere immaginato diverso e più aderente alle attese contingenti della comodità attraverso il piacere e l’esattezza nell’uso. Salvatore Cozzolino ADI Campania   Salvatore Cozzolino, Visioni e Costruzioni, marketing del progetto tra Assisi e Pechino, Alinea, Firenze 2007. 3


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Ceramica e design William Morris, tra i principali fondatori del Movimento Art and Crafts, nel 1860 scriveva “ciascuno di noi è impegnato a sorvegliare e custodire il giusto ordinamento del paesaggio terrestre, ciascuno con il suo spirito e le sue mani, nella porzione che gli spetta, per evitare di tramandare ai nostri figli un tesoro minore di quello lasciatoci dai nostri padri “, e chissà se già allora era consapevole di aver definito il concetto di “sviluppo sostenibile”. Molte risorse, in questi anni, sono state spesso usate e abusate, per poi essere riciclate e rimesse in circuito. Materie prime come pietra, marmo, vetro, carta, ceramica unitamente a materie tecniche, ma soprattutto la capacità di lavorazione tramandata all’interno di piccole botteghe artigiane, da padre in figlio, sino ad arrivare ad oggi e alla grande industria. Ma c’è ancora qualcosa da recuperare: il grande patrimonio produttivo, economico-commerciale e culturale che fa riferimento alla moltitudine di oggetti in ceramica, nati per rappresentare, celebrare, mangiare, raccontare, e infine ricordare. Oggetti spesso nati per esprimere i caratteri della cultura territoriale, oltre che materiale, legati ad usi, costumi, riti e colori di un territorio, normalmente realizzati con tecniche locali e artigianali. Oggi più che mai c’è spazio per una nuova valorizzazione e una nuova sperimentazione sul materiale ceramico nelle sue diverse forme e rappresentazioni, oltre che nei nuovi colori e nelle nuove decorazioni. Quando mi riferisco al Design Territoriale, mi viene sempre in mente la risposta di Enzo Mari rilasciata a Francesca Esposito durante una recente intervista. Alla domanda “quale è il vero segreto che custodisce e che nessuno ha ancora compreso?” il Maestro rispondeva così: “il design italiano non lo hanno inventato i designer di Milano, ma gli artigiani meridionali che poi hanno perso il loro lavoro a causa dell’inurbamento e della diffusione della tecnologia. Gli artigiani producevano oggetti essenziali per tutte le classi sociali. Per esempio, da una lastra piana ricavavano un secchio. Il problema è che quel secchio non si chiamava DESIGN, ma era il mero frutto di un lavoro artigianale di grande qualità”. Come sempre il bicchiere può apparire mezzo pieno o mezzo vuoto, tuttavia questa risposta mi fa ritornare con i piedi per terra e ragionare … Finora le maioliche, sono state considerate un’arte minore rispetto alla pittura, alla architettura, alla scultura. Non avevano una storia autonoma, ma spesso erano l’espressione della capacità e dello sforzo dei singoli artigiani che nello loro botteghe inventavano, trasformavano, sperimentavano forme e colori, decorazioni e linguaggi, per lasciare una visione storica dello sviluppo nei secoli dell’artigianato ceramico. Pensiamo solamente ai reperti archeologici trovati e alla narrazione che essi ci hanno portato sino ad oggi, di greci, romani, assiri babilonesi, turchi, giapponesi. Una moltitudine di cultu-


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re, di modi diversi di lavorare e di rappresentare un comparto che oggi al Nord Italia non esiste più a causa della crisi globale. Nel Sud dell’Italia invece, in quel Bacino del Mediterraneo generatore di tutte le culture, esiste ancora con la capacità ceramica e la sua splendida storia ancora tutta da raccontare: Capodimonte e Vietri in Campania, Caltagirone in Sicilia, Deruta in Umbria, Grottaglie, Fasano, Laterza e Cutrofiano in Puglia, realtà diverse tra loro, ma con un unico messaggio: tradizione e cultura tramandate nei secoli. A tale fine dopo riunioni e appuntamenti con i miei colleghi Salvatore Cozzolino, Gianni Di Matteo e Alessandro Fancelli, abbiamo pensato di unire le forze delle delegazioni ADI che rappresentano il Sud dell’Italia e organizzare una grande mostra itinerante attraverso i 4 territori interessati che raccontasse una storia di operosità e di diversa tradizione, sottolineando che anche attraverso questo comparto il nuovo Rinascimento Economico e Culturale partirà proprio dai territori del Sud dell’Italia. Per il raggiungimento dell’obbiettivo bisognerà lavorare in modo innovativo, superando cioè le strettoie della concezione tradizionale di come presentare ed esporre al pubblico i manufatti ceramici prediligendo scelte che spostino la fruizione degli stessi spazi espositivi da un piano puramente informativo a una dimensione in cui le emozioni diventano protagoniste: in altre parole, dovrà essere l’involucro architettonico a farsi carico dei concetti che si vorranno condividere. Seguendo questo filo conduttore, i progetti che le 4 Regioni/Delegazioni ADI presenteranno dopo un ampio lavoro di selezione, dovranno essere imperniati sull’interagire di quattro fattori fondamentali: – – – –

La natura fisica degli spazi; La percezione che ne avranno i visitatori; Il potere evocativo degli oggetti selezionati posti in mostra; La cultura territoriale e mediterranea che deve essere messa in evidenza. Roberto Marcatti ADI Puglia e Basilicata

ADI: Il design a Expo 2015 Cuocere è stato il primo progetto dell’umanità Con questo titolo Arkeda 2013 inaugurò il primo ciclo di conferenze destinate a designers e architetti della Campania. La riflessione sul significato fondativo e caratterizzante della cultura alimentare italiana seguiva un decennio di attività sorte a Napoli attorno alla Fabbrica del Lunedì di Giusi Laurino, un caso di inseminazione territoriale per colelgare produttori e creativi.


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L’ultimo frutto di questo percorso, che con esiti contraddittori ha contagiato una miriade di eventi in tutto il paese, è stata la mostra “Human Design For Food” che si è tenuta al Castel dell’Ovo di Napoli il 10 maggio scorso. Con l’occasione espositiva si è inteso precisare che il centro di interesse del progetto per il cibo rimane l’uomo, con le sue necessità come consumatore, sempre più consapevole, articolato e critico, con le sue difficoltà come produttore manifatturiero degli alimenti e degli utensili. Il contributo di ADI all’Expo Nutrire il pianeta, energia per la vita, è questo il tema scelto per EXPO 2015 con la legittima preoccupazione per la qualità del cibo, ma anche per riflettere sull’educazione alimentare e la fame nel mondo. Per la verità queste riflessioni erano state avanzate da tempo con le ricerche di pregevoli istituzioni internazionali come il MIT di Boston e il Club di Roma, nonché con l’allarme militante di tante organizzazioni volontarie e per tutte da Slow Food. Ma insieme al colpevole trascurare gli effetti delle eccedenze nei consumi del cosiddetto occidente sviluppato e delle disponibilità carenti in altre parti del mondo, l’Esposizione Universale di Milano ha posto l’attenzione sulla sicurezza alimentare e sulla corretta comunicazione del cibo, sugli stili di vita, sulla conservazione e le tecnologie dei prodotti edibili, sul rapporto tra innovazione e tradizione che impegnano la cultura di un popolo e la creatività applicata agli alimenti e agli utensili. Collegandosi a questi argomenti l’Associazione per il Disegno Industriale ha istituito una Commissione presieduta da Mauro Olivieri, Menzione al XXIII Compasso d’Oro per i “Campotti” del Pastificio dei Campi di Gragnano, per definire i contenuti e il programma di una “design vision” sui temi dell’Expo. Le diverse iniziative confluiranno in eventi che si terranno nella Casa del Design, il nuovo distretto della creatività che si trova nel centro di Milano. La futura sede dell’ADI, aperta in occasione dei giorni dell’esposizione, per valorizzare il design come elemento qualificante e strategico della produzione di beni e servizi, è uno spazio disponibile di oltre 1.000 metri quadrati per mostre e conferenze, per dare visibilità alle imprese che hanno il design al centro della loro strategia, per riaffermare presso il pubblico internazionale il valore delle sinergie tra capacità produttive e creatività. Tra gli eventi in calendario oltre le mostre tematiche figurano: – la BEDA Week, che riunisce i rappresentanti delle associazioni europee del design organizzate nel Bureau of European Design Associations; – le manifestazioni per il 70° anniversario di fondazione di AIAP, l’associazione dei progettisti italiani della comunicazione;


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– una serie di eventi regionali culminanti con le mostre e la conferenza di ottobre negli spazi della Casa del Design in via Bramante a Milano; – la prima edizione dell’ADI Compasso d’Oro International Award che si terrà a ottobre. Il Compasso d’Oro internazionale Il premio internazionale affianca, con tempi sfalsati, il Compasso d’Oro riservato alle aziende italiane e, per la prima volta, prevede una call internazionale collegata alla nutrizione e alla sostenibilità. Con il tema “Design for Food and Nutrition” il design è inteso come strumento di innovazione e di sviluppo sostenibile (in senso culturale, sociale, ambientale e economico) della produzione alimentare e dei sistemi di comunicazione, di distribuzione e di consumo del cibo, ma anche di valorizzazione del sistema design come un vero e proprio metodo per uno sviluppo responsabile planetario. Lo sviluppo dei temi di confronto Il lavoro della Commissione è cominciato nel dicembre 2014 con il Manifesto del progetto intorno al cibo. Dieci chiari principi per definire che cosa sia il Food Design e che cosa il progetto possa fare in concreto per migliorare la vita di tutti, per stabilire un percorso da condividere con i progettisti, le imprese e gli utenti, per mantenere lo sviluppo economico nel rispetto delle risorse legate all’alimentazione e il miglioramento delle condizioni di vita di tutti. Il Food Design esamina preventivamente i motivi per i quali si compie un atto alimentare per meglio comprendere come progettarlo e soddisfare in maniera adeguata l’esigenza dell’utente, occupandosi di prodotti edibili, comunicazione, packaging, servizi e luoghi legati alla vendita e al consumo di cibo secondo un vero e proprio Manifesto per gli operatori coinvolti. Food Design Manifesto 1. Il Food Design si occupa di progetto in campo alimentare. 2. Il Food Design è una specifica area del progetto che si propone di produrre soluzioni efficaci per la fruibilità del cibo in precisi contesti e situazioni. 3. Il Food Design si propone di dare forma alle interfacce e ai servizi nel modo più adeguato alle circostanze in cui il prodotto viene consumato. 4. La producibilità e la serialità di un prodotto o di un servizio sono le condizioni per le quali un progetto può definirsi di Food Design. 5. I principali criteri ai quali un prodotto edibile di Food Design deve


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sottostare sono: porzionabilità, modularità e formato adeguati al contesto e agli strumenti con i quali verrà consumato. Un progetto di Food Design è realizzato per offrire un servizio ad una o più persone che manifestino determinati bisogni o per rendere più efficace un’azione legata al cibo attraverso uno strumento derivato dal progetto. Food Design significa progettare secondo le modalità tipiche del Design che, ben oltre la ricerca puramente formale o decorativa, implicano la ricerca per l’innovazione dei processi di produzione, distribuzione, consumo. Il Food Design è uno strumento privilegiato e particolarmente efficace per la riqualificazione e la promozione del Territorio attraverso la sua ricchezza enogastronomica. Il progetto di Food Design, per le sue peculiarità legate alla nutrizione, può rientrare nell’area del Social Design e contemplare collaborazioni con enti e associazioni no-profit. Un prodotto di Food Design viene studiato con l’unico scopo di generare benefici al suo utente. Tutto il processo deve interagire per impedire che l’utente sia esposto a rischi derivati da cattiva progettazione o dalla non adeguata attenzione alle norme di conservazione, alla tecnologia produttiva, all’ergonomia e alla microbiologia legata agli alimenti.

Workshop a Perugia e Terni L’azione design oriented dell’ADI per EXPO 2015 è partita da Perugia il 15 marzo con un workshop internazionale sul tema del Food Design. Il momento didattico fa parte di un progetto di formazione per i giovani, selezionati nelle scuole di progettazione italiane e internazionali, e avrà un seguito importante a Milano. Il Centro Estero Umbria, associazione non-profit costituita tra la Regione e le Camere di Commercio di Perugia e di Terni, lo ha promosso insieme all’ADI Umbria. La formula, ideata da Francesco Subioli e Marco Pietrosante, è quella di un workshop di perfezionamento per laureati o laureandi in Industrial Design, Interior Design, Communication Design, Web Design, con l’obiettivo di incoraggiare approcci costruttivi tra aziende del territorio e designer, favorendo la consapevolezza che Food Design significa produrre soluzioni efficaci per la fruibilità del cibo in precisi contesti. Il workshop perugino, con la partecipazione dell’Università dei Sapori e dell’Accademia di Belle Arti di Perugia, si svolge in vari luoghi della città. Venti giovani designer provano a progettare la presenza dell’Umbria a Milano durante EXPO 2015, in uno scenario segnato dalle gigantografie di Steve McCurry, dedicate al cibo e al territorio umbro. Tra i docenti, oltre Subioli


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(coordinatore) e Pietrosante (art director), è presente Mauro Olivieri con vari ospiti e alcuni cuochi dell’Università dei Sapori. I Tutor sono Karolin Larsson e Sara Costantini. Un secondo Workshop di progettazione si è svolto a Terni, dall’8 al 21 luglio, per tentare di avvicinare i bambini all’educazione alimentare attraverso l’utilizzo del colore e per aggiungere l’undicesimo punto al Foodesign Manifesto dedicato al Kids. I risultati del workshop saranno due mostre: un tavolo espositivo per la fiera dell’HOMI (Milano, Rho) e un tavolo interattivo per Foodesignlab (Milano, via Bramante). Gli eventi sono realizzati con il contributo di Alce Nero, Oikos, Pantone e Stokke. Per tutti gli eventi una crew si occuperà di documentare le attività che si svolgeranno attraverso reportage fotografici e video, verrà inoltre svolta un’intensa comunicazione sui social network. La Casa del Design Entro il 2016 l’ADI avrà una nuova sede nazionale a Milano, e soprattutto l’Associazione e la Fondazione ADI per il Design Italiano saranno finalmente riuniti in una sede con un museo, aperto al pubblico, destinato ad esporre la Collezione Storica del Premio Compasso d’Oro. La nuova sede nazionale di ADI sarà ospitata in un complesso di edifici industriali e per uffici a poche centinaia di metri dall’attuale sede di via Bramante, costruiti all’inizio del secolo per ospitare le rimesse dei tram a cavalli milanesi e successivamente utilizzati per molti anni dall’Enel. Si tratta di oltre 1.500 metri quadrati per esposizioni permanenti e temporanee, una sala congressi, un bar ristorante, una galleria-giardino d’inverno, con i relativi uffici e servizi. In totale 4.600 metri quadrati di superficie, su tre piani fuori terra e uno interrato. Pur non essendo ancora conclusi i lavori di restauro, per il periodo di Expo Milano 2015, l’ADI ha messo a disposizione due aree della futura sede, per organizzare eventi, mostre, incontri, in un luogo dove si discute sul metodo e sulla rappresentazione di quei valori che continuano nel tempo a rendere distintivo il design italiano. Un nastro che unisce Nel suggestivo contesto il 29 giugno è stata inaugurata la mostra “The Ribbon Opening” che racconta alcuni case history significativi ispirati al Foodesign Manifesto. Fra i partner che hanno reso possibile l’iniziativa: IFICarpigiani, D’Abate, Mogi Caffè e Nonino. Un lungo nastro in Fenix NTM, materiale super opaco di interior design, si snoda in diverse forme in grado di creare uno specifico percorso funzionale: dall’accoglienza all’area B2B, dagli spazi in cui mangiare a quelli in cui organizzare un workshop, oppure


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esporre prodotti. Nel complesso un’originale esperienza in cui il cibo diventa scambio culturale ed esercizio del palato fra alcuni dei migliori progetti intorno agli alimenti degli ultimi anni. L’allestimento prevede un banco multisensoriale che permetterà di presentare le eccellenze territoriali italiane attorno a una serie di format alimentari sviluppati dalla Commissione Food Design ADI. Attraverso i 5 sensi verrà presentato il rapporto virtuoso che il design sviluppa con il territorio: prodotti, imprese, istituzioni. Understanding Food Design A conclusione delle iniziative per Expo 2015 l’ADI organizza a Milano, dall’8 al 10 ottobre, il primo convegno dedicato a questo speciale settore del progetto: “Understanding Food Design: from User Experience to People Centered Design”, che intende sondare i rapporti delle istituzioni formative e della ricerca con i produttori del food design, concepito come risorsa strategica e territorio del pensiero creativo oltre che del mercato e della cultura imprenditoriale. Inoltre sono dedicati alla formazione altri appuntamenti. Il primo è l’incontro internazionale a inviti “3FD X Education”, una piattaforma per diverse attività e azioni che mette insieme persone e luoghi interessati a dare un senso a ciò che sta accadendo dentro e intorno all’educazione FD. È un’opportunità per articolare lo scambio di idee ed è aperto a pensatori e produttori del FD interessati al contesto educativo. Il primo evento si è svolto a Bogotà nel 2014 e ci sono tre eventi in programma per ottobre 2015: Milano, Porto Alegre e New York. Il Food Design Symposium invece è un incontro centrato sul Master in Food Design di SPD (Scuola Politecnica di Design) che ospita diverse manifestazioni. Il 10 ottobre si tiene poi un workshop destinato agli studenti che avranno la possibilità di esplorare diversi modelli di pensiero e di sviluppare tecniche aggiornate per gli alimenti. Al centro delle giornate rimane il convegno internazionale che si svolge l’8 e il 9 ottobre e dà il titolo alla manifestazione “Understanding Food Design”, il primo in Europa che mette insieme aspetti progettuali, sociali e produttivi. La conferenza è multidisciplinare e riunisce studiosi e progettisti provenienti da tutto il mondo per presentare la ricerca accademica e professionale sul ruolo del food design come risorsa strategica nella costruzione di imprese competitive orientate al pensiero creativo e all’innovazione nei settori del progetto, del business, del management, del marketing. In parallelo a questi appuntamenti sono previste presentazioni della prima edizione dell’ADI Compasso d’Oro International Award, dedicato que­ st’anno al progetto dell’alimentazione, e del Food Design Manifesto pubblicato dall’ADI.


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Human Design Percorsi e coincidenze Il circuito del cibo in Campania intercetta stabilmente il design nel maggio del 2010 quando si organizzano a Napoli alcuni happening per la terza edizione di Wine and the City, una variegata serie di eventi legati ai vini campani che si snoda per le vie del centro. In quel periodo, per una coincidenza fortuita, in via Martucci si consolida un agglomerato di studi professionali, uno showroom insolito e sperimentale (RARO design), un Museo delle plastiche (PLART) e tanti negozi minimi che concorrono ad animare una nuova “strada del design”. “Martucci Design” si sviluppa per alcuni anni sull’entusiasmo di Roberto Liberti, sempre con l’amplificazione della kermesse inventata da Donatella Bernabò per il FuoriSalone di Vitigno Italia, e proponendo la connessione tra buone espressioni alimentari campane e il design sperimentale che si concretizza anche in alcuni fortunati prodotti. Probabilmente, con l’occasione, tutti i designer della regione e le nuove microproduzioni affrontano per la prima volta il food design e ne risultano esiti intermittenti, ma il momento è propizio per ogni tipo esercizio. Nello stesso anno Laura Cristinzio inventa al Castel dell’Ovo la mostra di arte e design “Un tuffo nel vino” dove Salvatore Cozzolino organizza, attorno alla sagoma di tovagliette per il convivio, il lavoro di 6 autori tra i quali Marcello Panza, Giuseppe Coppola e Alfonso Vitale. Nuove formule espositive Dopo alcuni mesi ADI Campania propone un salto organizzativo sviluppando un particolare format espositivo, “It’s Mine”, che, come in una specie di instant exhibition, permette di mostrare e spiegare quanto ognuno ha prodotto o preparato. Successivamente nel giro di un’ora si smonta tutto e si recuperano i pezzi, eliminando in colpo solo il peso organizzativo di una qualunque mostra: espositori, etichette, luci, manodopera specializzata. It’s Mine One si tiene per la prima volta nel novembre del 2011 allo spazio 137A di Corso Vittorio Emanuele a Napoli, che diventerà un luogo cult per gli appuntamenti di questo tipo, e si replica diverse volte fino a spostarsi, per iniziativa di Carla Giusti che ne seguirà tutti gli sviluppi con ADI Campania, nella splendida Villa Campolieto a Ercolano con gli eventi di “Vini, Ville e Sapori”. I grandi saloni del gioiello architettonico del Settecento ospitano nel novembre 2012 “FoodForDesignForFood” che comprende un convegno e, sempre secondo lo spirito “instant”, la mostra “A tavola” con opere, tra gli altri, di Riccardo Dalisi e Fabrizio Mangoni, nonché un “It’s Mine Food” riservato ai giovani.


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Azione territoriale e cultura del progetto L’anno successivo si opera un aggiornamento della formula con una performance: gli autori dispongono su un unico desk 24 microallestimenti per la tavola. Tante Mise en place accostate e comparabili, frutto del pensiero di designers, chef, scrittori, urbanisti, attori, perfino economisti e medici. Un ordinato mosaico di visioni sul cibo e il convivio, unificate dal forte accento sperimentale. Con la cura di Fabio Borghese, Carla Giusti, Salvatore Cozzolino e il patrocinio di ADI Campania, del Dipartimento DICDEA della Seconda Università e del Laboratorio Creactivitas dell’Università di Salerno, si struttura un vero evento partecipato e si stabilisce che il posto d’autore a tavola “è un luogo esperienziale e di sense making dove è possibile combinare elementi, fisici e concettuali, per dare forma alle proprie geo­grafie di valori”. La performance è raccontata e diffusa attraverso un video di Creactivitas. La trasversalità degli autori e la progettazione transdisciplinare dell’evento, sopratutto nell’apertura alle scienze socioeconomiche orientate all’economia creativa, segnano un punto molto alto dell’elaborazione concettuale intorno alla cultura del progetto del cibo. L’impatto è notevole, ma la sede rimane troppo eccentrica, per cui si decide di replicare a Natale al Palazzo delle Arti di Napoli. Il salone al piano terra del PAN risulta invaso da un pubblico sorpreso dalla formula, istantanea e fluida, senza un vero “inizio e fine”, ma rapida nella cronologia, che vede 24 performer che dispongono, apparecchiano e spiegano, circondati da diverse centinaia di ospiti attivamente interessati e con la presenza dell’assessore alla Cultura del Comune di Napoli, Nino Daniele, che patrocina l’iniziativa. Bisogna riferire che, nel frattempo, è cresciuta anche la rassegna Wine and the City, organizzata ogni maggio da DiPunto Studio, con il sostegno di aziende grandi e piccolissime e con performance e installazioni in oltre 100 location. Nel 2013 si affianca agli eventi il Concorso Convivium, con il patrocinio di ADI Campania, riservato ai designers giovani e concepito per premiare i progetti più interessanti di cibo e di oggetti per consumare il cibo e le bevande. Alla Giuria del premio nel tempo hanno contribuito Carlo Forcolini, Enrico Baleri, Domitilla Dardi, Chicco Cerea, Patrizia Ranzo, Matteo Vercelloni. In tre anni sono state selezionate decine di proposte e premiate 15 idee con il contributo del Pastificio dei Campi, un’azienda speciale che ha innovato il consumo della pasta tipica di Gragnano (NA) con una serie di packaging originali destinati ai nuclei di consumo contemporaneo e con nuove tipologie di stampi, fino alla definizione del formato speciale “Campotti”, disegnato da Mauro Olivieri e premiato con una Menzione Speciale al XXIII Compasso d’Oro ADI.


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Design per l’uomo tra ricerche e prodotti L’ultimo evento è stata la mostra “HUMANDESIGNFORFOOD. ricerca, prodotti, suggestioni di convivio”. La rassegna è stata ideata e organizzata dall’ADI Delegazione Campania, con AIAP Delegazione Campania e il patrocinio del Comune di Napoli, del Dipartimento DICDEA-SUN, della Fondazione Città della Scienza e dell’ANIAI. L’esposizione del 18 maggio 2015 ha raccolto, nella Sala Sirena di Castel dell’Ovo a Napoli, il lavoro di oltre 30 tra aziende e designers della Campania impegnati nel rinnovamento dei linguaggi espressivi. Nella roccia di tufo del magnifico monumento, sono state presentate opere di giovanissimi autori e di affermati designers, oggetti per il consumo, il confezionamento e la conservazione degli alimenti, ma anche il cibo stesso. La mostra, articolata in tre sezioni che riflettono le tendenze del design campano quando sperimenta progetti innovativi e tecnologie d’avanguardia, prevede anche oggetti tesi al recupero delle antiche lavorazioni mediante la rilettura in chiave contemporanea di sottilissime porcellane, fino ai programmi strategici di tutela del tessuto produttivo attraverso progetti responsabili, caratterizzati però, da tecniche accurate e da abilità senza tempo difficilmente riproducibili altrove. Una sequenza di oggetti creativi e di alimenti nuovi che in alcuni casi, oltre agli slanci stilistici, promuovono l’educazione alimentare e l’equilibrio nutritivo. Una particolare sezione è dedicata alla ricerca sviluppata da Giusi Laurino con la Soprintendenza Regionale della Campania e con Slow Food per applicare arte e design all’antica manifattura settecentesca della Porcellana fine svolta nell’ambito del programma di valorizzazione del sito reale di Capodimonte. Numerosa infine la partecipazione degli studenti del DICDEA, Dipartimento di Ingegneria Civile Design Edilizia e Ambiente della Seconda Università di Napoli, con i prototipi sviluppati nei corsi di laurea. Con HumanDesignForFood il mondo del progetto diventa anche consapevole che un sesto del pianeta patisce la mancanza di cibo e che, viceversa, centinaia di milioni di bambini rischiano l’obesità a causa del cibo spazzatura. Tra le proposte dell’area “ricerca” figurano i tentativi migliori per arginare la scomparsa di tecniche radicate nel territorio che, di fronte alla crisi e alla concorrenza asiatica, soffrono la mancanza di innovazione e replicano modelli superati. Forme e funzioni che qualche volta si spingono a suggerire un’alimentazione più sana e armonica. La sezione “prodotto” mostra un design aderente alle filosofie aziendali, ma ugualmente ricco di innovazione, un lavoro che si sviluppa nel dialogo tra il progettista, l’azienda e la rivalutazione delle risorse dell’intero territorio, che recupera il concetto di democrazia del bello e diffonde ipotesi di civile business.


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Nell’area “suggestioni” sono evocati gli ambienti emotivi del consumo visto come momento di socializzazione, qualche volta di intimità, come l’occasione per una pausa costruttiva da lavori stressanti e concitati. Il convivio diventa un evento comunicativo attorno al focolare-tavolo, ma anche in piedi con amici, spesso agevolato dall’euforia indotta dagli alimenti. Tra i progetti in esposizione figurano i lavori di Sergio Catalano, Michele Cuomo, Luca De Bartolomeis, Marianna Di Fiore, Ferrucci-Vitale, Maria Luisa Firpo, Claudio Giunnelli, Andrea Jandoli, Valentina La Tilla, Guido De Martino, Roberto Monte, Mauro Olivieri, Maria Antonietta Sbordone, Oreste Zevola. Tra le aziende presenti: Pastificio dei Campi, Fabbrica delle Arti, PlasticaSud, Pastificio Setaro. Programmi e sviluppi HUMANDESIGNFORFOOD ha avuto una buona eco e si avviano i contatti con una esperienza decennale di promozione nel territorio flegreo: Malazè. Un format nato da un’idea di Rosario Mattera, infaticabile promotore del territorio a nord ovest di Napoli, che promuove le bellezze e le proposte turistico-culturali della Costa del Mito: i Campi Flegrei. La manifestazione si svolge nelle prime settimane di settembre nei comuni di Pozzuoli, Bacoli, Monte di Procida, Quarto, Isola di Procida, per mettere in evidenza il meglio dei prodotti tipici di una zona poco conosciuta, ma di grande potenzialità quando il patrimonio artistico, archeologico e ambientale incontra il cibo sano. Nel tempo Malazè è diventato un laboratorio diffuso di innovazione territoriale che sperimenta e attiva nuovi percorsi di sviluppo a base creativa e culturale che combinano la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale, ambientale e paesaggistico con il food, il sociale, le nuove tecnologie digitali, il design e il fare impresa. Una dimensione in cui si coniugano sviluppo, identità e sostenibilità. Nella edizione 2015 della kermesse flegrea l’ADI Campania sarà presente con la mostra HDFF integrata con alcune significative produzioni locali tra cui si segnalano espositori per i vini e barattoli per conservare i migliori Cru di Origano e di altre spezie flegree. Migliori futuri per il progetto più antico Da queste multiformi esperienze condotte in Campania, appare evidente che per definire un ambito nobile per il ruolo dei progettisti e, contemporaneamente, individuare una prospettiva di senso per le produzioni agroalimentari, anche per il cibo si deve prevedere la “progettazione consapevole di contesti, interfacce e strumenti funzionali, complementari all’atto di alimentarsi”, che può essere il disegno dell’alimento stesso, ma che spesso diventa la


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creazione di un contesto di utensili e di cibo strategicamente orientati al “buono, pulito, giusto”, ma anche alla ricerca di nuove modalità per il Convivio del terzo millennio, mettendo sempre l’uomo al centro delle strategie. Si tratta di considerare le necessità dei consumatori, da quelle sempre meglio espresse per la sicurezza alimentare, a quelle sottaciute per gli stili di vita corretti dell’alimentazione equilibrata e non eccedente, fino ad arrivare alla considerazione dei casi di carenza alimentare, che comunque possono essere oggetto di pensiero creativo. Allo stesso tempo occorre valutare i bisogni di chi produce ridisegnando, oltre le strategie commerciali, i prodotti per tutelare la salute e la sicurezza del lavoro, per garantire ritmi e modalità operative rispettose dei diritti fondamentali. E magari, applicandosi alla rivisitazione degli oggetti di uso, si riesce a scoprire che il miglioramento delle performance, anche per gli utensili del cibo, che sono tra i più antichi messi a punto in tutte le civiltà (e che per questo potrebbero sembrare a “evoluzione conclusa”) è una opportunità aperta e che, forse, perfino un cucchiaio può essere immaginato diverso e più aderente alle attese contingenti della comodità attraverso il piacere e l’esattezza nell’uso. I prodotti che ne derivano mettono insieme aziende che esprimono una capacità tecnica collettiva e le potenzialità dei commestibili, spesso dello stesso territorio. Cibo e utensili devono essere pensati per riscoprire i valori identitari e rituali della alimentazione, dalla dispensa alla tavola, dando vita a una sequenza di prodotti, anche ad ampia diffusione, che però abbiano il valore aggiunto della sperimentazione culturale, dell’innovazione tecnologica e degli usi, della storia e dei saperi manifatturieri. Lo scopo è di rinnovare la (supposta) perfetta prestazionalità esistente attorno al cibo con la ricerca di prodotti aperti a nuovi valori estetici e funzionali. I prodotti dovranno comunque essere caratterizzati da alta qualità formale e tecnica, ma possono essere il frutto del lavoro di aziende manifatturiere di interesse storico, tecnico o sociale, oppure tese alla rispondenza ai protocolli di consumo consapevole del cibo ed anche alla valorizzazione di produzioni e lavorazioni alimentari specifiche, s empre c oniugando t ecnologie avanzate – o tradizionali riproposte – ed esigenze di consumo innovative. S. C.



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