Op.cit. 155

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gennaio 2016

numero 155

Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo Della omologazione in architettura - Arti visive: da zona franca a fronte comune - Ăˆ ste e mostre - Le pagine dell’ADI Campania


Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco

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P. Gregory,

Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia 5 D. Ferrara, C. Molinari, Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo 10 F. Izzo, Della omologazione in architettura 18 P. Balmas, Arti visive: da zona franca a fronte comune 28 A. MagistĂ , Ăˆ del designer il fin la meraviglia 36 Libri, riviste e mostre 49 Le pagine dell’ADI Campania 73

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Pasquale Belfiore, Marcella Camponogara, Jacopo Leveratto, Pietro Nunziante, Silvia Piccoli.



Nuovo Realismo/ Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia PAOLA GREGORY

Architettura e filosofia hanno avuto nel tempo diverse occasioni di incontro e di dibattito. In particolare nel corso del ’900, la cultura architettonica italiana, e non solo, ha intrattenuto diverse relazioni con il pensiero contemporaneo, a volte producendone traslitterazioni quasi dirette: basti ricordare, fra i molti, i debiti di A. Rossi verso lo strutturalismo di C. Lévi-Strauss, di G. Grassi verso il «realismo» di G. Luckács, di V. Gregotti verso l’estetica di T. Adorno, per non parlare dei debiti dell’architettura verso il pensiero fenomenologico di M. Merleau-Ponty e di M. Heidegger e, in un periodo più recente, verso la «decostruzione» di J. Derrida e la «piega» di G. Deleuze. Si tratta di rapporti che hanno inciso profondamente sulla disciplina architettonica, lasciando comprendere quanto sia connaturata nella formazione e nella pratica dell’architetto la questione teorica, dove questa non ne costituisce una sovrastruttura, bensì innanzitutto, come chiarisce Gregotti, «un modo di essere del progetto»1, luogo ideale di confronto fra una particolare «visione del mondo» e le prospettive che investono i grandi movimenti di pensiero propri di una particolare epoca storica. Per questo, il dibattito aperto dal filosofo Maurizio Ferraris con il suo Manifesto del nuovo realismo2 ha avuto sulla riflessione architettonica attuale un notevole impatto. Costituendo per l’A. una presa d’atto di un «cambio di stagione» rispetto al postmodernismo, ha innescato un fecondo

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confronto tra architettura e filosofia che questa breve introduzione – che ripropone, sintetizzandoli, alcune delle problematiche poste in esergo al convegno romano3 – intende presentare, evidenziando, con il successivo saggio sul «realismo sensoriale» di D. Ferrara e C. Molinari4, la possibilità di un esito diverso da quello largamente prospettato in ambito disciplinare (soprattutto italiano), orientato a sottolineare, prevalentemente, due aspetti cruciali sollevati dalla nuova koinè: la contrapposizione fra realismo e antirealismo, attribuibile all’atteggiamento antimetafisico proprio del pensiero postmoderno; l’associazione e (tendenziosa) identificazione fra realismo e razionalismo, secondo una connotazione dell’arte e dell’architettura come attività «rispecchiante» che ha nel «tipico» di Luckács un sicuro punto di riferimento. È lo stesso Ferraris a sottolineare il carattere antirealista del postmodernismo, denunciandone nel suo Manifesto la «fallacia trascendentale» o «fallacia essere-sapere» che avrebbe prodotto una pericolosa coincidenza fra ontologia ed epistemologia, riassunta nella famosa affermazione di Nietzsche «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni». È dunque contro il primato ermeneutico dell’interpretazione, latore di un atteggiamento culturale «relativista» e «nichilista», che si è sviluppata la polemica di Ferraris, il cui nuovo realismo intende riscattare l’inemendabilità della realtà, o meglio di una parte di realtà: quella attinente agli «oggetti naturali» che esistono nello spazio e nel tempo indipendentemente dai soggetti. Nella «trilogia» individuata da Ferraris – accanto agli oggetti «naturali», quelli «ideali» (che esistono al di fuori dello spazio e del tempo indipendentemente dai soggetti) e quelli «sociali» (che esistono nello spazio e nel tempo e dipendono da noi) – l’architettura occupa un luogo speciale: si tratta infatti di un «artefatto» che rappresenta una «forma mista fra gli oggetti naturali e gli oggetti sociali»5, secondo un intreccio che pare difficilmente sondabile. Da un lato, infatti, l’architettura costituisce un documento che lascia e conserva tracce, secondo un duplice regi-


stro: esiste come testimonianza, iscrizione durevole, capace di sopravvivere molto più a lungo di altri documenti (o scritture) prodotti dall’uomo, ma è anche generatore di testimonianze, di documenti più tradizionali, legati sia alla negoziazione dell’atto costitutivo, sia alle scritture critiche o storiografiche che su di essa si sviluppano. Dall’altro, come ogni artefatto, è il luogo per eccellenza di ogni nostra esperienza quotidiana: esiste e resiste alle nostre azioni, oppure le accoglie, le protegge, le incentiva. È cioè, come spiega Ferraris, anche un oggetto naturale che preesisterebbe, in quanto tale, alle nostre interpretazioni. Tuttavia, proprio a partire dalle pratiche quotidiane, l’architettura si rivela sempre come «esperienza in situazione» (richiamando una espressione di Enzo Paci), ovvero né un’idea o una sostanza, né un dato sensibile atomico – una realtà in sé – bensì «una situazione storica relazionata» in cui noi, come esistenti, siamo sempre «orientati secondo preferenze e repulsioni, mai semplicemente presenti in mezzo agli oggetti, ma attivamente situati e impegnati»6. Come tale l’architettura ha un carattere intrinsecamente procedurale, sia come generatore di testimonianze, sia come spazio in grado di «produrre effetti» (richiamando Charles S. Peirce), ovvero di esistere come parte inscindibile dell’esperienza e della storia. A questo aspetto si lega la seconda questione che abbiamo sottolineato nell’incipit della nostra introduzione: il presunto rapporto realismo-razionalismo, che intenderebbe sottolineare l’esigenza di una ri-fondazione illuminista del sapere, contrapposta alla «messa fra parentesi della ragione e dell’intelletto» portata avanti dal postmodernismo. Se non si può non essere d’accordo nell’auspicio di un «recupero privilegiato con l’Illuminismo e con le idee della ragione»7, dovremmo però chiarire quale idea di ragione sia possibile per noi, nell’assenza – oggi – di punti di riferimento certi. Se cioè il perseguimento di un’architettura razionale, con riferimento in Italia all’architettura neo-razionalista degli anni ’60-’70 del XX secolo, debba considerarsi – come auspicano alcuni dei sostenitori del nuovo realismo in architettura – l’espressione più autentica di una inscindibile rela-

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zione con la realtà, il cui «rispecchiamento» estetico, attraverso forme tipiche di luckácsiana memoria, si risolverebbe in un progressivo processo di riduzione dell’esperienza al necessario, all’atemporale, all’unico: in una parola al «classico», identificato come arte/architettura realista. In altri termini ci chiediamo se il razionalismo, nella sua astrazione e ricerca di fondamenti, possa fungere da metodo per una Architettura della realtà8, o se, invece, la sua essenza procedurale non indichi altre vie di sperimentazione, che abbiano al proprio centro «l’habitus, il costume, l’aver cura e quindi l’aver casa»9. Del resto è lo stesso Ferraris nel suo Realismo positivo a mettere in discussione la supposta identificazione fra realismo e razionalismo, poiché affermare che «il razionale è reale significa che la certezza va trovata nell’epistemologia […] e non nell’ontologia, [mentre] l’essere non è qualcosa di costruito dal pensiero, bensì è dato, offerto prima che il pensiero abbia inizio»10. Oggi declinazioni diverse di realismo e postmodernismo si confrontano, indicando a volte sovrapposizioni e interferenze difficilmente definibili in una supposta (e inemendabile) alterità. Fra queste, il «realismo sensoriale» di J. Pallasmaa rappresenta, secondo noi, un’interessante interpretazione ante-litteram di una possibile dialogica, in grado di recuperare, con la sua «visione periferica», da un lato prospettive oblique e mai zenitali della realtà per conoscerla, comprenderla e trasformarla, dall’altro di coltivare obiettivi comuni per offrire, attraverso il progetto, possibili orizzonti di senso: un progetto, dunque, la cui specificità non risiede in un corpus dottrinale definito una volta per tutte, un semplice adaequatio intellectus ad rem secondo l’idea di una realtà ultima e assoluta alla quale corrisponderebbe una verità eterna e immutabile, bensì in una attività ermeneutica continuamente dispiegata, «plastica» e mobile, capace di rinnovarsi in rapporto a tutti gli sconfinamenti, intersezioni, contaminazioni, capovolgimenti persino, con cui il progetto è continuamente sollecitato a confrontarsi.

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1  V. Gregotti, Contro la fine dell’architettura, Einaudi, Torino 2008, p. 6. 2  M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Ba­ ri 2012. 3   Il convegno dal titolo “Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia”, i cui atti sono in corso di pubblicazione, ha avuto luogo presso la Facoltà di Architettura della Sapienza Università di Roma nei giorni 28-29 ottobre 2014. Vi hanno partecipato, fra gli altri: M. Ferraris, C. Sini, H. Hohenegger, E. Rocca, P. Belfiore, R. Capozzi, M. Dezzi Bardeschi, G. Durbiano, S. Malcovati, F. Purini, A. Saggio, R. Secchi, G. Strappa. Coordinamento scientifico del convegno: P. Gregory; comitato scientifico: P. Gregory, C. Marras, S. Catucci. Per ulteriori informazioni, cfr. il sito: www. philarch.org. 4   Il testo presentato dai due dottorandi è una rielaborazione inedita del contributo dato al Seminario di Studi “Nuovo Realismo/Postmodernismo” tenuto dalla sottoscritta presso il Dottorato di Ricerca in “Architettura. Teorie e Progetto”, Sapienza Università di Roma, nei mesi di maggio-giugno 2014. 5   Cfr. M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari 2009. 6  G. Vattimo, Della realtà. Fini della filosofia, Garzanti, Milano 2012, p. 46. Il riferimento è al pensiero di M. Heidegger e alla sua idea di esistenza come progetto entro il cui orizzonte le cose si danno. 7   Cfr. S. Malcovati, S. Suriano, M. Caja (a cura di), Nuovo realismo e architettura della città / New realism and architecture of the city, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2013. 8   Cfr. A. Monestiroli, L’architettura della realtà, Clup, Milano 1979. 9   Il riferimento è al pensiero di Carlo Sini, agli spunti offerti durante il convegno romano, nonché esposti più volte nelle sue pubblicazioni, in particolare: Id., Il pensiero delle pratiche. La solidarietà delle pratiche e l’origine dell’autocoscienza, in C. Sini, Opere, a cura di F. Cambria, vol. IV, to. II, Jaca Book, Milano 2014. 10  M. Ferraris, Realismo positivo, Rosenberg & Sellier, Torino 2013, p. 26.

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Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo DOMENICO FERRARA, CARLA MOLINARI

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In una breve pagina de «Gli occhi della pelle» Juhani Pallasmaa utilizza per l’architettura di Aalto la nozione di realismo sensoriale1. Coerente con le tesi sviluppate nel libro, l’intuizione di Pallasmaa offre una preziosa chiave di lettura dell’opera del Maestro finlandese e punta dritta sulla corporeità del rapporto tra uomo e architettura. Nello stesso tempo, essa sconfina nel campo del dibattito tra realismo e postmodernismo e, forse al di là delle intenzioni originarie, sembra averne individuato uno dei nodi chiave. L’operazione critica è, a nostro avviso, promettente e chiama più o meno direttamente in causa entrambi gli schieramenti. Innanzitutto, collocare l’architettura di Aalto nel campo realista significa sottrarre a molti sostenitori del razionalismo, anche nelle sue declinazioni neo, l’esclusività su questo alveo della ricerca architettonica. In secondo luogo, il riferimento esplicito all’incontro tra realtà e soggetto come sostanza del fare architettura, rinvia a quel carattere relazionale della conoscenza che è alla base del postmodernismo, almeno nei suoi connotati più rigorosi e convincenti. Infine, e qui il riferimento ad Aalto si fa esemplare, non si cede al postmodernismo la prerogativa di rispondere alle ragioni del corpo e della piacevolezza. Del resto, lo stesso Maurizio Ferraris nel suo Manifesto legge in chiave realista la «trasformazione» in corso verso «il ritorno alla percezione, ossia a una esperienza tradizio-


nalmente negletta dal trascendentalismo filosofico culminato col postmodernismo». Tuttavia Ferraris esalta la «resistenza» ontologica offerta dai sensi agli schemi concettuali, vale a dire l’alterità della percezione rispetto al nostro costruire il mondo, puntualizzando la propria posizione antitetica rispetto al sensismo. Pallasmaa, invece, sembra elegantemente incoraggiare realisti e postmodernisti oltre i limiti dei loro steccati e, sulla scorta della filosofia fenomenologica, sostiene la natura insieme fisica e psichica del corpo. Ciò che appare indiscutibile è che il superamento del pregiudizio cartesiano verso i sensi, o almeno verso quelli considerati meno nobili della vista, è condizione indispensabile per una rivalutazione della ricchezza dell’architettura. Non a caso, anche Kenneth Frampton ricorre all’architettura di Aalto quando deve materializzare il conflitto visual versus tactile2: ed ecco che la Säynätsalo Town Hall diventa espressione di quella resistenza regionalista che attraverso la sottolineatura dei valori percettivi si spinge oltre l’informazione per diventare esperienza. Tuttavia è evidente che, pur essendo chiara l’idea di architettura cui Pallasmaa allude, la definizione di realismo sensoriale attende ancora un’adeguata argomentazione teorica per costruirsi una propria identità, senza limitarsi ad allungare il nutrito gruppo di etichette fiorite nel campo del realismo. Cercheremo quindi di individuare un possibile vocabolario «elettivo» e di coglierne le inclinazioni naturali, allo scopo di mettere a fuoco gli elementi degni di interesse e consolidarne alcuni punti. Allo stesso modo, esplorare le aree di condivisione o di semplice affinità con altre correnti di pensiero può aiutare a definirne gli elementi di originalità. Per il resto, l’assenza contingente di coordinate teoriche precise permette a questo saggio di esercitarsi nella tendenziosa definizione di cos’è – o cosa dovrebbe essere – il realismo sensoriale. Come già suggerito, le tesi di Pallasmaa sembrano a più riprese incrociare le posizioni del Regionalismo Critico. In

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effetti, per alcuni versi, il regionalismo architettonico ha colto meglio di molto realismo accademico il fatto che il perseguimento di un legame profondo, laddove non specchiato, con la realtà, non può prescindere dai nostri principali strumenti di immedesimazione con essa, vale a dire i nostri sensi. Altrimenti l’esito risulta paradossale. In altre parole, la riduzione estrema dei contenuti fenomenologici dell’architettura significa mutilare quella realtà dichiaratamente perseguita e mortifica ogni sforzo di identificazione, che, al contrario, il modello regionalista si prefigge, attraverso un’architettura fortemente contestuale, attenta alla topografia, alle caratteristiche tettoniche e alla memoria del luogo, nella ricerca di una molteplicità di risposte. Inoltre, condividendo il pericolo di derive verso un facile storicismo nostalgico, entrambi sembrano postulare un’interpretazione della tradizione quale terreno di sviluppo fertile quanto ambiguo, o fertile poiché ambiguo. Ed in questo li conforta l’etimo stesso legato al tradere che, rinviando alla necessità di formulare un modello trasferibile e quindi manipolabile, sottolinea l’esigenza inappellabile di ogni sforzo di innovazione nel campo della tradizione, muovendo dal valore rigenerante della negazione e da un’idea della contraddizione come principio creativo della realtà, secondo una splendida espressione di Franco Purini. Su questo punto la sfida del realismo sensoriale è quella di fare della tradizione un ideale spazio della memoria, dove mettere in discussione l’equilibrio acquisito tra problema e soluzione. Dentro questo non pacificato (quanto pericoloso) repertorio di esperienze, gli elementi di trasformazione devono saper trovare strumenti di verifica preziosi per delineare identità innovative e al contempo continuative. In altre parole, il realismo sensoriale dovrebbe assumere quella che Ferraris definisce la tradizionalizzazione delle scoperte come principio progressivo di innovazione. Del resto, portando in dote le qualità dell’architettura aaltiana, esso deve saper interpretare in chiave contemporanea il vincolo storico tra la forma dello spazio architettonico e i brani di vita che essa accoglie, col loro carico emozionale. Allo


stesso modo, non può che riconoscere e apprezzare il legame strettissimo tra l’intelligenza della tradizione e la persuasività dell’edificio come presenza, tra le ragioni della tecnica e la vocazione artistica dell’architettura, sulla base del loro carattere evolutivo. Infine, anche per evitare eccessi di vernacolarismo, il Regionalismo Critico dimostra una crescente attenzione verso la dimensione materica e fenomenologica dell’architettura3: in quella già complessa matrice dei luoghi che è categoria operativa dei modelli regionalisti, progressivamente si inserisce la relazione esperienziale con il soggetto e tutte le conseguenti discriminanti dell’esser-ci. Questa ricerca di categorie interpretative più efficaci per descrivere il contemporaneo ci sembra un’ulteriore legittimazione delle premesse teoriche alla base del realismo sensoriale. Al fondo di questo bagaglio di potenzialità, offerte dal confronto tra Regionalismo Critico e realismo sensoriale, ci pare ragionevole individuare come fondamentale il legame con la sedimentazione delle pratiche contestuali del costruire e quindi con le identità territoriali. Ciò significa riconoscere l’importanza capitale della produzione di tracce e di quella che è stata definita da Ferraris documentalità, legata – peraltro – a un’idea di architettura quale atto iscritto. Egli identifica, infatti, il reale come il campo fondativo sul quale agiscono i concetti di durata e di memoria, spingendosi a definire l’architettura come l’arte principale della società contemporanea, proprio perché «intensamente legata alla documentalità, al fatto di lasciar tracce, di conservar tracce»4. Per quanto questa significazione attribuibile alla deposizione e/o stratificazione di segni possa apparire nota inemendabile dell’architettura, è riduttivo vincolare l’esistenza dell’opera al solo processo documentale, ad arida catalogazione di fatti e azioni. Differentemente, il realismo sensoriale potrà, forse, farsi carico di allargare la prospettiva realista verso un’idea di traccia meno statica, ampliata ad azione sul territorio (oltre che sul tempo), in grado di significare lo spazio e produrre, conseguentemente, un luogo dell’abitare.

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Su questo fronte esso può attingere ad esperienze artistiche che sembrano saggiare ed estendere le dimensioni percettive proprio a partire dall’insieme del reale. La Land Art con gli earthwork di Smithson e le opere di Walter De Maria, come di Richard Long, ha già sperimentato la traccia, anche minimale, come azione antropica di fondazione e di appropriazione dello spazio. Il paesaggio risultante è al tempo stesso enunciazione dello stato di fatto e idea in divenire, e per questo si propone come opera aperta, come esplorazione estetica sempre nuova. Pur con le dovute differenze disciplinari, ci pare che anche il realismo sensoriale dovrà esercitarsi su una riduzione degli elementi linguistici e formali che non sia banale semplificazione, quanto sintesi in grado di dare rilievo a una «sostanzialità» del contenuto. Lo stesso Pallasmaa, in più occasioni, individua il carattere di intimità e di comfort di alcune architetture a partire proprio dall’essenzialità di immagini e memorie cui si riferiscono: la casa, ad esempio, è intesa quale riparo per eccellenza, culla, focolare, e dunque risultato dei ricordi di ogni esperienza dell’abitare. Da questo punto di vista, è particolarmente significativo il lavoro di Rick Joy, uno dei cinque architetti selezionati da Frampton nella sua Antologia del 2012: le opere realizzate negli ultimi anni da questo carpentiere/architetto americano, innamorato del Sonoran Desert di Tucson, propongono un approccio con il reale che nulla (o poco) condivide con il riduzionismo assolutista tipico dei realismi storici, dimostrando una sensibilità profonda legata all’azione del segnare il territorio. L’architetto stesso fa riferimento alle prime opere di James Turrell quale principale fonte d’ispirazione: la traccia e la scrittura divengono azioni sublimate proprio nel significato altro che comportano; atto di fondazione, piuttosto che semplice occupazione di suolo, con un preciso riferimento alla storia dei pueblos e, sullo sfondo, a un’idea in cui, seguendo Heidegger, l’abitare precede il costruire. In quest’ottica la traccia rivela finalmente le sue qualità documentali basate sulla memoria, su di un valore di stratificazione temporale, rielaborato spazialmente, che non può


prescindere dal rapporto con il soggetto. Così, come ben espresso da Paola Gregory, anche l’architettura del realismo sensoriale dovrebbe rivelarsi in grado di «evidenziare il significato fenomenologico dello spazio costruito, quella immaginazione materiale – per usare un termine di Bachelard – capace di integrare i pensieri, i ricordi e i sogni dell’uomo attraverso esperienze poli-sensoriali in grado di restituire allo spazio la sua dimensione di realtà vissuta»5. Seguendo questo quadro di dinamiche tra idea e manifestazione del reale, la nostra prospettiva critica si è progressivamente spostata verso «l’evidenza fenomenologica» del­ l’architettura in cui sembrano esprimersi, con maggiore vigore concettuale, le potenzialità operative del realismo sensoriale. Un preciso, e doveroso, confronto ci è offerto dal testo Questions of Perception. Phenomenology of Architecture del 1994, una prima dichiarazione di intenti dell’architettura fenomenologica scritta da Pallasmaa insieme ad Alberto Peréz Goméz e Steven Holl. Tutti e tre gli autori, sebbene basandosi su differenti concetti chiave, esplicitano e difendono fortemente il confronto dialettico tra empirico e razionale, tra percezione e logica, e definiscono la tensione fra termini quale fondamentale principio creativo da cui l’architettura non può prescindere. La necessità di questa presa di posizione nasce da due battaglie, condotte tanto dall’architettura fenomenologica quanto dal realismo sensoriale: la prima ha come bersaglio il personalismo e mira a rivalutare la realtà fenomenica come contesto di riferimento affidatario; la seconda combatte l’appiattimento epidermico dell’architettura e, conseguentemente, l’impoverimento dei suoi significati complessi. Differenti, però, sono le armi critiche con cui i tre autori scelgono di combattere e anche ciò illumina sulle potenzialità di sviluppo autonomo del realismo sensoriale. In particolare, sia la «chora» di Platone cui fa riferimento Peréz-Goméz, che la «parallasse» adottata da Holl finiscono per fondare l’elaborazione critica a partire da uno solo dei termini duali: una verso l’ambito delle idee, l’altra verso le configurazioni della realtà fenomenica. Solo la «vi-

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sione periferica» di Pallasmaa riesce, a nostro dire, a superare ogni sbilanciamento tra termini, suggerendo una chiave risolutiva basata sulla stratificazione di significati, più che su una seducente quanto improbabile sintesi unitaria. La posizione baricentrica riconosciuta alla dimensione sensoriale nella definizione dello spazio, diviene infatti una strategia per superare l’equivoco della presunta eterologia dei sensi, o se preferiamo della percezione sensibile, rispetto all’architettura. Questo punto è, e deve restare, un caposaldo del realismo sensoriale, se ambisce ad elaborare strumenti validi per declinare su basi nuove la tenzone tra nuovo realismo e postmodernismo, individuandone linee di contatto e superfici di sovrapposizione. Ecco perché questo saggio ha adottato la «visione periferica» come criterio operativo, come metodologia critica alternativa alla logica dell’esclusione che sembra identificare il dibattito attuale. Sperando che, come dichiara il suo Autore, il realismo sensoriale possa «schiudere nuovi regni di visione e pensiero» superando la volontà di separazione e distanza prospettica, la filosofia di Pallasmaa pare candidarsi ad assumere qualità proattive, performative, anticlassiche, mentre salva la necessità gnoseologica dell’interpretazione. Su questo punto sembra dichiarare, cautamente, che «non esistono fatti senza interpretazioni», anche se qui aspettiamo ulteriori spiegazioni. Così come le attendiamo sul fronte della prassi architettonica, del farsi opera di una visione del mondo. E su questo terreno, orizzonte fondamentale di ogni teoria di architettura, intendiamo valutarlo.

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1   “Aalto era più interessato all’incontro fra l’oggetto e il corpo di chi ne fruisce, che alla mera estetica visiva. […] Al posto dell’incorporeo idealismo cartesiano dell’architettura dell’occhio, l’architettura di Aalto si basa sul realismo sensoriale”, in J. Pallasma, Gli occhi della pelle, trad. it., Jaca Book, Milano 2007, p. 88. 2  In Towards a Critical Regionalism: Six Points for an Architecture of Resistance, in The Anti-Aesthetic. Essays on Postmodern Culture, Seattle 1983, Frampton conclude l’articolo con un paragrafo dal titolo The Visual Versus the Tactile sostenendo: “[…] it is clear that the


liberative importance of the tactile resides in the fact that it can only be decoded in terms of experience itself: it cannot be reduced to mere information, to representation or to the simple evocation of a simulacrum substituting for absent presences”, ivi, p. 29. 3   Si veda, ad esempio, K. Frampton, Five North American Architects: An Anthology by Kenneth Frampton, Zurich 2012. In occasione di una Lecture alla Columbia University, Frampton è stato invitato a selezionare l’opera di cinque architetti contemporanei nordamericani ed ha scelto: Steven Holl Architects (New York), Rick Joy (Tucson), Patkau Architects (Vancouver), Stanley Saitowitz (San Francisco), e Shim + Sutcliffe Architects (Toronto). 4   Si fa riferimento in particolare al testo di M. Ferraris, Lasciar tracce: documentalità e architettura, a cura di F. Visconti e R. Capozzi, Mimesis, Milano-Udine 2012. 5  P. Gregory, Teorie di architettura contemporanea. Percorsi del postmodernismo, Carocci, Roma 2010, p. 106.

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Della omologazione in architettura FERRUCCIO IZZO

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Il termine omologazione, dal greco homologos, traducibile come «convenzione», si usa in vari campi per unificare tra loro oggetti precedentemente differenti o per garantire che un prodotto sia corrispondente ad un campione depositato quale modello. Qui esso è usato nel linguaggio dell’arte e dell’architettura, dove assume una connotazione negativa, ovvero unificante quadri, sculture ed edifici a scapito della loro originalità. L’omologazione appare come uno dei sintomi più gravi del malessere contemporaneo, l’appiattimento delle differenze e delle peculiarità dei nostri paesaggi e delle nostre città è segno dell’avanzare di una società senza ideali, fermamente attaccata ai soli valori materiali. Lo sviluppo tecnologico e l’abbattimento dei confini nazionali (in alcuni casi metaforico e in alcuni casi effettivo) ha innescato un inevitabile processo di uniformazione anche delle metodologie di progettazione e dei risultati che ne conseguono per cui ha perso senso parlare di architettura definita, tra l’altro, da precisi caratteri territoriali e geografici1. Sul piano generale, a livello internazionale, interessanti considerazioni sull’omologazione sono state formulate da Kenneth Frampton. Il suo dire è preceduto da alcune motivazioni causali: «le multinazionali del petrolio, della chimica e dell’industria farmaceutica; l’industrializzazione del­ l’a­gricoltura e la modificazione genetica del cibo; il massic-


cio imporsi della grande distribuzione, elemento, questo, che porta alla scomparsa del commercio al dettaglio e della città di provincia quale potenziale, tuttora esistente, per lo sviluppo di una cultura locale e per la democrazia diretta: in breve, la massimizzazione a livello globale del profitto fine a se stessa, senza alcun riguardo nei confronti dei costi per la biodiversità, o persino per la sopravvivenza dell’homo sapiens, l’estinzione del quale è ora, per la prima volta, chiaramente prevedibile2. L’autore entra nel vivo del nostro argomento e, dopo una severa rassegna critica sull’operato degli archistar, prosegue: «In questa vena, la manhattanizzazione del mondo procede senza rimedio, mentre ogni nuovo grattacielo – non importa dove si trovi – diventa poco più dell’ennesimo codice astratto a testimonianza della presenza della speculazione globale. Nello stesso articolo, Frampton dichiara che in questa situazione socioculturale stiamo abbandonando l’idea di costruire nuove città e a tal proposito cita Mies van der Rohe, che agli inizi degli anni ’50 sembra aver detto: «In realtà non ci sono più città. Tutto va avanti come una foresta. È questo il motivo per cui non possiamo più avere vecchie città; città pianificate e tutto il resto sono spariti per sempre. Dovremmo pensare ai mezzi di cui disponiamo per vivere nella giungla e magari sistemarcisi bene». Quali che siano le motivazioni tecniche, sociali ed economiche, ciò che rende uniforme ed omologate città come New York, Tokio, Pechino, le megalopoli di tutto il mondo è l’uso diffuso della tipologia del grattacielo, vera speculazione edilizia, nata dal fatto di aver acquistato una limitata area di suolo e di costruirvi sopra all’infinito, vista la potenzialità della nuova tecnologia. La piatta e brutale evidenza speculativa delle torri rende risibile la «speculazione edilizia» italiana dei tempi di Antonio Cederna e di Italia Nostra che dice qualcosa sulla specificità del territorio italiano rispetto a un fenomeno potenzialmente omologante. E veniamo appunto all’omologazione relativa alla situazione italiana. Com’è noto, il suo maggiore avversario fu Pier Paolo Pasolini, sia nel campo del cinema, sia in quello

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letterario, ponendo l’accento non solo sulle forme omologate bensì anche sui contenuti che attengono all’omologazione. Nel documentario “La forma della città Orte-Sabaudia”, mandato in onda dalla Rai il 7 febbraio 1974, egli descrive, con una sensazione di assoluta sorpresa, trattandosi di una città di nuova fondazione costruita dal regime fascista, il carattere autentico di Sabaudia che definisce tra metafisico e realistico. «Metafisico in un senso veramente europeo della parola, cioè ricorda, mettiamo, la pittura metafisica di De Chirico, e realistico perché, anche vista da lontano, si sente che le città sono fatte, come si dice un po’ retoricamente, a misura d’uomo. Si sente che dentro ci sono delle famiglie costituite in modo regolare, delle persone umane, degli esseri viventi completi, interi, pieni, nella loro umiltà». Spiega questa che gli appare una contraddizione impossibile considerando che «è la realtà dell’Italia provinciale, rustica, paleo-industriale eccetera eccetera, che ha prodotto Sabaudia, e non il fascismo». E facendo un paragone con la contemporaneità ne denuncia l’appiattimento delle differenze e l’indifferenza alla vita degli uomini. «Oggi invece succede il contrario. Il regime è un regime democratico eccetera eccetera, però quella accumulazione, quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottenere, il potere di oggi, cioè il potere della civiltà dei consumi, riesce ad ottenere perfettamente: distruggendo le varie realtà particolari, togliendo realtà ai vari modi di essere uomini che l’Italia ha, che l’Italia ha prodotto in modo storicamente molto differenziato. E allora questa acculturazione sta distruggendo, in realtà, l’Italia; allora posso dire senz’altro che il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia. E questa cosa è avvenuta talmente rapidamente che, in fondo, non ce ne siamo resi conto, è avvenuto tutto in questi ultimi cinque, sei, sette, dieci anni. È stato una specie di incubo, in cui abbiamo visto l’Italia intorno a noi distruggersi e sparire. Adesso, risvegliandoci forse da questo incubo e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da fare».


In molte altre occasioni Pasolini ritorna sul tema dell’omologazione, legato, a suo dire, al consumismo, tracciando apocalittici quadri. In un famoso articolo sul «Corriere della Sera» del primo febbraio 1975 si legge: «l’edonismo del consumo e la “tolleranza modernistica” – erano i simboli di una profonda mutazione antropologica, di una borghesizzazione generalizzata, falsamente tollerante e americaneggiante – prevalsero e al tempo stesso gli strumenti di una omologazione culturale repressiva e destinata ad azzerare ogni differenza si imposero […]. I “valori”, nazionalizzati e quindi falsificati, del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più […]. A sostituirli sono i “valori” di un nuovo tipo di civiltà, totalmente “altra” rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale. Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati. Ma in Italia essa è del tutto particolare, perché si tratta della prima “unificazione” reale subita dal nostro paese; mentre negli altri paesi essa si sovrappone, con una certa logica, alla unificazione monarchica e alla ulteriore unificazione della rivoluzione borghese e industriale […]. Oggi in realtà in Italia c’è un drammatico vuoto di potere. Ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé […]. Tuttavia nella storia il “vuoto” non può sussistere: esso può essere predicato solo in astratto e per assurdo. È probabile che in effetti il “vuoto” di cui parlo stia già riempiendosi, attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l’intera nazione». Non si può non condividere la critica pasoliniana alla società dei consumi, anche se, come è stato recentemente dimostrato, la politica opposta ha generato più problemi che soluzioni. In altre parole, viviamo una condizione ancora più complessa di quella da lui profetizzata. Infatti, nella nota polemica tra Lyotard ed Habermas, le conclusioni di quest’ultimo sul «progetto moderno» e il suo stesso richia-

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mo al programma illuminista appaiono deboli e anacronistici: sono troppo poche le tracce lasciate da quel progetto perché basti solo completarlo. E tuttavia è innegabile che di esso qualcosa ancora vi sia; una delle maggiori difficoltà del nostro tempo sta nel fatto che tutti i passati disegni culturali e ideologici hanno lasciato delle tracce, ma nessuna è tale da poter essere completamente abbandonata e al tempo stesso da poter servire come modello e guida. Torneremo dopo sulle conseguenze di questa condizione a proposito del rappoto innovazione/recupero; ritornando ora all’omologazione, è opportuno richiamarsi ad altri precedenti relativi alla condizione italiana. Ma che cosa contrassegna que­ st’ultima? Che cosa, una volta colta la specificità dell’architettura e dell’arte italiane può arginare l’omologazione anche da noi in via di formazione? Nella letteratura della critica d’arte, una delle considerazioni più utili al proposito di contestare l’omologazione può ritrovarsi in un libro di Ferdinando Bologna, in cui si pone in sostanza l’alternativa se, da Giotto in poi, si possa parlare di una unità, sia pure tendenziale, dell’arte italiana oppure si debba sostenere la prevalenza del pluralismo nella nostra produzione artistica. L’assunto dominante nel libro, quasi costante per ciascun periodo, è che il carattere unitario del­l’arte d’Italia vada individuato nel sistema della sua diversità: già trattando del Medioevo, Bologna scrive: «L’italianità insomma, si viene sin d’ora definendo come policentrismo sistematico»3. Tra gli altri numerosi pareri di autori favorevoli e contrari all’unità dell’arte italiana, Bologna ricorda quello scritto da Giangiorgio Trissino: «Tedeschi, Spagnuoli e le altre nazioni, che hanno poco di cognizione delle lingue d’Italia, ogni cosa che vedono scritta in qualunque di esse, dicono esser scritta in lingua italiana; e dicono il vero; e questo avviene perché è più facile conoscere il generale, che il particolare». Espressa questa notevole intuizione, per la quale si può sostenere che soprattutto dall’estero, in un’ottica appunto più generale, si coglieva meglio il carattere d’italianità della nostra arte, il Trissino nota che le lingue delle singole città possono paragonarsi


allo “individuo” particolare; quelle delle regioni, alla “specie”; quelle delle nazioni, al “genere”. Donde deriva che «la lingua toscana è specie de la italiana; e se il genere de la specie con verità si può dire, adunque la lingua toscana si può con verità nominare italiana, ma non già la italiana si può nominare toscana»4. Il discorso del Trissino risulta fra i più razionali sull’impostazione contro il fenomeno dell’omologazione, in quanto tenta di graduare il livello di conoscenza e per esso l’azione omologante. Poiché siamo in tema di relazione fra l’Italia e l’estero sulla scorta di quanto affermato da De Fusco, è possibile cogliere la fenomenologia dell’architettura italiana secondo questi quattro punti: «a) la contestualizzazione delle fabbriche o, per usare un termine “proibito”, il loro “ambientamento”; b) la consistenza “piccola” delle nostre opere; c) la valenza classica delle nostre costruzioni; d) la spazialità, non tanto nel senso della pittura e della prospettiva, quanto come caratteristica dello spazio interno proprio della nostra tradizione architettonica»5. Seguiamo De Fusco nell’esame dei quattro punti caratterizzanti l’architettura italiana. Quanto alla condizione ambientale, non pochi autori nelle varie arti hanno fissato caratteri esponenti di fabbriche e città italiane. «L’immenso deposito di fatiche» che Carlo Cattaneo, nel saggio La città considerata come principio ideale delle istorie italiane del 1858, ritrovava nel paesaggio e nel territorio italiano e riconosceva come agente della rigenerazione di tante città decadute, ha subìto abbandono ed indifferenza, il che ha comportato la distruzione della natura dei luoghi e ha compromesso così quel «continuum indivisibile» di città e territorio, costruito ed ambiente, che ha costituito nel tempo un tratto distintivo del paesaggio italiano. Un paesaggio disegnato dalla storia, che evolve nel tempo, di cui già Ambrogio Lorenzetti, com’è noto, ben cinquecento anni prima di Cattaneo, ci aveva lasciato una superba interpretazione, quale traduzione in spazio architettonico dei valori della società agricola, nel suo ciclo di affreschi «Allegoria

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ed effetti del buono e del cattivo governo». Lorenzetti ritrae figure e simboli per parlare di istituzioni, di cittadini e diritto, di bene comune, di buona o cattiva amministrazione, di ordine e armonia, di disordine e rovina. Un’intuizione forte, ancora oggi in grado di offrirci una chiave d’interpretazione dell’esistente nella prospettiva di una sua trasformazione, una rappresentazione delle conseguenze del governo sulla città e sulla campagna, su mondi separati ma uniti in un necessario equilibrio reciproco, in un rapporto osmotico e sinergico, risultato della reciproca influenza. Relativamente al carattere «piccolo» della architettura italiana, è stato osservato: «a nessuno sfugge, soprattutto se di ritorno dagli Stati Uniti, ma anche da Parigi o da Berlino, che assistiamo ad un salto di scala considerevole tra quelle realtà urbane e le nostre minute città. Come non era sfuggito a Josef Hoffmann che durante il suo viaggio in Italia (1896) attratto, più che dalle tappe classiche del Grand Tour, dall’anonima architettura spontanea “unitaria e conchiusa”, anche Goethe nel suo Viaggio in Italia (1786-1788) aveva notato la ricorrente caratteristica dei piccoli nostri monumenti: il teatro Olimpico di Vicenza, afferma, “è un teatro a modello antico ma in piccole proporzioni ed indicibilmente bello”»6. Associando un testo di Gregotti al punto sulla «classicità» dallo schema di De Fusco, leggiamo: «l’architettura europea è comunque architettura della distinzione: distinzione delle figure come fondamento della loro relazione necessaria e distinzione analitica delle parti che costituiscono le figure. Anche quando le tracce di quelle relazioni costitutive diventano complesse, anche quando si riducono a rovine, non si cancellano mai. Le parti che costituiscono le figure si organizzano per mezzo della commensurabilità (la commensuratio vitruviana) delle parti stesse l’una nei confronti dell’altra, nei confronti del tutto e in relazione con il corpo umano. L’architettura europea è architettura della “simmetria” nel senso antico del termine, cioè di ordinata corrispondenza fra le parti. E questo è il fondamento delle regole che conducono non solo all’armonia dell’opera, non solo


alla sua corretta struttura ma alla sua universalità. La commensurabilità dei numeri e l’incommensurabilità della geometria fondano l’accordo tra linguaggio comune e ragionamento esatto, diventano intelligenza della mente resa visibile, soluzione ogni volta nuova del problema della relazione tra geometria e costruzione, tra bellezza dell’armonia universale e misure del corpo umano ideale»7. Sebbene Gregotti si riferisca all’Europa, in effetti descrive uno dei caratteri più propri dell’architettura italiana. Quanto alla spazialità delle fabbriche d’Italia, certamene L.B. Alberti è il primo trattatista che ci consente di ritenere l’architettura come l’arte dello spazio interno. Ma bisogna attendere il trattato di Palladio perché l’internità degli invasi assuma il suo vero significato. Egli fornisce norme generali circa le proporzioni dell’altezza degli ambienti rispetto alla lunghezza e alla larghezza, vale a dire circa il rapporto tra le tre dimensioni che definiscono la forma di un ambiente. La consapevolezza dell’esistenza di questi e forse anche di altri caratteri dell’architettura italiana che possono offrire indicazioni anche operative nel contesto all’omologazione, porta a sviluppare altre considerazioni in relazione al rapporto tra “cultura dell’innovazione” e “cultura del recupero”. Se, a quanto pare, abbiamo un patrimonio qualitativo e quantitativo di beni culturali da difendere tra i maggiori al mondo, si pone come prioritaria la necessità di prendersi cura di questa eredità. Il binomio recupero/innovazione va posto nell’ambito di un altro di più elevato valore concettuale, continuità/ discontinuità della storia. Al primo termine si attribuisce un continuum spazio-temporale di fatti e pensieri tra loro intimamente legati; al secondo (sulla base del concetto per cui gli eventi storici sono unici ed irripetibili) si attribuisce un’in­cessante interruzione di fatti e pensieri, una soluzione di continuità. Si è detto più volte che al primo fattore va associato il recupero ed al secondo l’innovazione. Tuttavia sappiamo che nella storia generalmente intesa, non esiste né la sola

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continuità né il sovrapporsi di punti di rottura, bensì un’alternanza dell’una con gli altri; il progetto di architettura, soprattutto quando interviene su edifici o su “ambienti” consolidati, reifica questa terza e più realistica condizione: l’intervento del nuovo nell’antico, l’opera modificatrice del progettista rappresenta sì un momento di rottura, ma nel­ l’ambito di un organismo che si pone per antonomasia come fenomeno di continuità. Un argomento dibattuto da decenni e lucidamente riassunto da Leonardo Benevolo in un testo che compie sessant’anni: «L’espressione “difendere” o “conservare” è soltanto un traslato, poiché ogni tipo di ambiente o di paesaggio è in continuo cambiamento; perciò “conservare” non può significare “astenersi dall’intervenire”, ma “intervenire in un certo senso”. L’esigenza di conservare gli ambienti antichi non significa pretendere di lasciare le cose come stanno, bloccando ogni iniziativa. Le cose, lasciate a se stesse, non restano affatto ferme, e per conservare occorre intervenire in un certo modo, e quindi modificare la realtà»8. In un discorso molto complesso, tratteggiato qui per frammenti, ciò che, in tema di omologazione, potrebbe tenere insieme le considerazioni di Pasolini, quelle di De Fusco e quelle di Benevolo è la messa in crisi del concetto di “autenticità” che viene prodotta dai caratteri più propri dell’architettura e delle città italiane, in relazione alla questione continuità/discontinuità. Certo, si tratta di un’autenticità ben complessa. In Italia la connessione tra le opere del passato e quelle di oggi si pone come una continua sovrapposizione. Come è stato osservato: «L’architettura italiana si distingue da sempre per il continuo lavorio a cui la necessità del mutamento ha sottoposto, e ancora sottopone, le preesistenze: ampliamenti, rifazioni, riusi, distruzioni, adeguamenti, inglobamenti realizzano nel tempo una continuità sovrastilistica, fondendo fra loro stili diversi, modificando distribuzioni spaziali, riadattando destinazioni d’uso. Si tratta di una sorta di continuum metastorico e arbitrario che, sfrondando, aggregando, costruendo, rettifica gli elementi antecedenti nel tentativo di rapportarli a quelli della con-


temporaneità, senza privarla del tutto delle sue vestigia ma piuttosto dialogando dialetticamente con esse. L’esistente – a proposito di modificazione – è divenuto patrimonio: al di là della passività della nozione di riuso, ogni operazione architettonica è sempre più azione di trasformazione»9. Considerazioni datate, anche queste, ma ancora utili rispetto al tema dell’omologazione. E allora, ancora più che in altri campi, in quelli dell’architettura e della città, la cultura italiana potrebbe dimostrare di avere una serie di “anticorpi” rispetto al tema dell’omologazione. La continua contaminazione minima alla base il concetto di “autenticità” e apre invece a un’idea di trasformabili, del costruito degli spazi, dei luoghi, immune dall’autorialità e della possibilità di meccanicismi e formalismi omologanti. Utile all’Italia ma forse anche al resto del mondo.

R. Salvi, Identity Matters. Architettura tra individualismo e omologazione, FrancoAngeli, Milano 2014. 2  K. Frampton, Per un’architettura agonistica, «Domus», n. 972, settembre 2013. 3  F. Bologna, La coscienza storica dell’arte italiana, UTET, Torino 19, p. 14. 4  G. Trissino, Il castellano, Vicenza 1529, cit. in F. Bologna, op. cit., p. 80. 5   Cfr. R. De Fusco, Architettura italo-europea, Franco Angeli, Milano, 2005. 6   Cfr. A. de Martini, L’architettura piccola, in «Op. cit.», n. 115, 2002. 7  V. Gregotti. Il problema dell’identità dell’architettura europea e la sua crisi, in «Rassegna», n. 76, 1998. 8  L. Benevolo, intervento al dibattito dell’I.N.U., La difesa del paesaggio urbano e rurale, in «L’architettura, cronache e storia», n. 21, 1956. 9  V. Gregotti, op. cit. 1

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Arti visive: da zona franca a fronte comune PAOLO BALMAS

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In uno scritto di qualche tempo fa1 ho già avuto modo di osservare come sempre più ai giorni nostri con l’espressione «Arti Visive» si tenda ad indicare una sorta di «zona franca» all’interno della quale, per tacita convenzione, è lecito far convivere discipline artistiche storicamente consolidate come la pittura, la scultura e l’architettura, con ambiti comunicazionali e professionali di più recente affermazione, quali il disegno industriale, la fotografia, il cinema, la televisione, la pubblicità, il fumetto, il video, l’immagine elettronica e via discorrendo, il tutto senza un vero e proprio obbligo di specificare il gradiente di intenzionalità estetica perseguito da chi al loro interno produce immagini ed elaborati di varia natura, sempre a patto, naturalmente, che vi profonda una vis creativa non trascurabile. Per rendere conto della diffusione di tale tendenza e cominciare a ragionare sull’opportunità o meno di riaprire una discussione che ha già avuto modo in passato, anche se sotto diverse angolazioni, di mettere sul tappeto questioni di indubbio interesse, la miglior cosa da fare, ovviamente, sarebbe quella di documentarla in maniera metodologicamente irreprensibile e cominciare ad esaminarne eventuali conseguenze in ambiti la cui rilevanza vada al di là della pura e semplice registrazione di un nuovo costume linguistico2. Lancio l’idea e per ora mi limito a riferire i risultati di una prima indagine informale svolta, per così dire, «a tap-


peto», in rete da chi scrive tramite alcuni dei più accreditati motori di ricerca. Che si tratti di home pages di scuole d’arte, siti di fondazioni culturali, o dizionari enciclopedici, più o meno popolari, la tendenza di cui sopra ci appare subito ampiamente confermata e, peraltro, più o meno ovunque, sottoposta a un medesimo effetto deformante rispetto ad analoghe situazioni del passato. Un po’ dappertutto, infatti, riscontriamo la stessa certezza che le nuove discipline appena citate possano essere accostate alle tradizionali «Arti Belle» grazie alla loro pura e semplice appartenenza al dominio del «visivo» e quasi sempre ci imbattiamo nello stesso mancato approfondimento circa le implicazioni teoriche delle varie proposte di classificazione avanzate. Una forma di inadeguatezza, quest’ultima, che, in un modo o nell’altro, gira sempre attorno agli stessi nodi irrisolti: quello della definizione di arte cui si fa riferimento, quello del senso in cui va inteso il concetto di visione (se meramente sensoriale, neurofisiologico, psico-percettivo, semiotico, culturologico o altro ancora), quello della conciliabilità o meno tra i propri presupposti e quelli che hanno portato attraverso i secoli alle più celebri forme di classificazione accademica o estetologica e, infine, quello del rapporto tra effettiva novità delle tecnologie adottate dai vari artisti chiamati in causa e reale consistenza delle specifiche poetiche loro attribuite. Un panorama non entusiasmante, ma anche, per qualche verso rivelatore, dal quale si distacca per contrasto la voce «Arti Visive» dell’Enciclopedia Italiana, anch’essa venutaci incontro come possibile risposta agli input adottati per la ricerca da noi condotta sul Web3. Qui, infatti, l’aver adottato, come ipotesi di lavoro, l’idea che la legittimazione culturale dell’opera altro non sia che il prodotto dei criteri di validazione interni al cosiddetto «Sistema dell’Arte» rende tutto meno problematico e più diretto. Non solo nel senso che se si accetta il principio che a determinare il successo di un determinato artista sia l’interrelazione favorevole (o ben coordinata) tra agenti come i musei, le mostre, gli sponsor, i curatori, il mercato, i premi,

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il collezionismo e solo da ultima la scrittura critica, non vi è più ragione di meravigliarsi del fatto che, nonostante il linguaggio dell’arte contemporanea resti criptico e di difficile interpretazione per il profano, l’attenzione verso di essa, rispetto agli inizi del ’900, sia notevolmente cresciuta, soprattutto da parte delle amministrazioni pubbliche e del mercato privato; ma anche e soprattutto nel senso che diviene agevole seguire tutti i successivi passaggi attraverso i quali artisti e correnti storicamente susseguitisi tra loro si sono appropriati in maniera sempre più disinvolta di tutte le possibili tecniche e tecnologie, sentite come adeguate a trattare i più pressanti (o coinvolgenti) temi legati all’evolversi della nostra civiltà. In altre parole, stando allo scritto in questione, il campo di azione dell’arte sarebbe divenuto, col definirsi e rafforzarsi del «Sistema dell’Arte» straordinariamente selettivo quanto a possibilità di affermazione professionale, ma anche straordinariamente libero quanto a modalità di sperimentazione. In questa logica, però, va da sé che le arti da cui siamo partiti e la loro messa a dimora nella zona franca di cui si è detto non c’entrano per nulla. L’unico territorio preso in con­ siderazione è quello abitato dall’artista-demiurgo di sempre, inteso come continuatore delle imprese dei suoi più o meno celebri antenati che si sono affaticati a suo tempo sul terreno della Pittura e della Scultura (con annessi e connessi), e questo anche laddove egli arrivi alle più convinte forme di fustigazione dell’ego o alla più ben meditata rinuncia all’autorialità. Detto in altre parole dopo il cubismo, il dada e il ready made duchampiano l’artista dei nostri tempi non avrebbe più avuto remore a legare il senso dei propri prelievi oggettuali o linguistici al solo criterio del contesto, sconfinando un po’ dappertutto, ma rimanendo comunque entro i limiti originari di un agire kantianamente disinteressato, introiettati per definizione dall’opera stessa. Questa posizione, perfettamente legittima e sicuramente condivisa da molti, quale che sia la nostra posizione rispetto ad essa, può comunque essere presa in considerazione, ai fini della presente indagine come una sorta di polarizzazio-


ne estrema, equivalente all’affermazione che la «zona franca» in questione, anche se molti ne danno per scontata l’esistenza, in realtà non ha diritto ad esistere come tale. Le pratiche creative da cui l’artista viene attratto nel tempo possono risiedere ovunque, avere qualunque natura e fare capo a qualunque tipo di professionalità, ma il fatto che molte di esse abbiano a che fare con i processi della visione non le qualifica come discipline artistiche. Accettare una simile polarità estrema equivale però in qualche modo a cominciare a dar corpo in maniera più definita a quel qualcosa di rivelatore che abbiamo più sopra cominciato a intravedere nell’aspetto, in un certo senso, «deformante» che caratterizza il panorama delle più diffuse modalità di riferimento alle presunte nuove Arti Visive da noi descritto più sopra. Di qui l’idea di provare a cercare all’interno dell’attuale riflessione sulle arti la polarità opposta, quella stando alla quale disegno industriale, fotografia, cinema, televisione, pubblicità, fumetto, video, immagine elettronica ecc. sarebbero già di per sé «arti» indipendentemente dalla possibilità o meno di trovare una omologia puntuale fondata sulla visività, con lo statuto artistico delle più tradizionali pittura, scultura e architettura. Bene, una simile «polarità opposta» sembra indicarcela già perfettamente delineata e sviluppata Maurizio Vitta in un suo volumetto del 2012 intitolato Il Rifiuto degli Dei4. Vitta, infatti, sulla falsariga di una brillante rilettura del De Nuptiis Philologiae et Mercurii, di Marziano Capella, (un’operetta del V secolo d.C. tenuta in gran conto sia nel Medio Evo che nel Rinascimento in quanto fonte assai completa e attendibile di notizie sull’ordinamento delle arti presso gli antichi), adotta una strategia che rimette in discussione tutto il problema della liceità o meno di ammettere nel novero delle «Arti Belle» le discipline creative di cui ci stiamo occupando, mantenendo sì il sottinteso che esse abbiano tutte a che vedere con la visione, ma mettendo assai più in rilievo un’altra loro caratteristica in grado di accomunarle e ricompattarle in un unico blocco, quella della loro relazione costitutiva con l’universo dell’Industria basata su

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una serie di caratteri primari: «lo stretto rapporto con la tecnologia, la produzione e la distribuzione, la funzioneautore parcellizzata in un organigramma sempre più complesso, un godimento che ingloba tanto le pratiche del consumo e dell’utilità quanto quelle del puro piacere»5. Disegno Industriale, Fotografia, Cinema, Televisione, Pubblicità e Immagine Elettronica, ribattezzate «Arti Industriali» diventano così protagoniste e testimoni di un serrato riesame di tutte le ragioni che, attraverso la Storia, a partire dall’antichità hanno portato ad una qualche levata di scudi nei confronti di qualsiasi opera portatrice di bellezza che non potesse essere considerata immune da scopi utilitari o dall’intervento nel suo concepimento di forme di soggettività non depurabili concettualmente dal substrato fisiologico dell’essere umano. Un riesame che dimostra in molti casi come la difesa della purezza incontaminata anche di un’arte per altri versi coraggiosa fino allo scandalo e tutt’altro che tradizionalista non sia quasi mai immune da antichi retaggi ideologici assai più direttamente concatenati tra loro di quanto si sarebbe portati a pensare. Retaggi inattuali e, quel che più conta, incompatibili con l’idea che vi siano tuttora dei margini di ribellione al nostro assoggettamento da parte della cosiddetta «industria culturale» di adorniana memoria. Tutto questo potrebbe spiegare assai bene anche il ritorno, o forse sarebbe meglio dire il riemergere di una proposta di titolazione e classificazione in cui la visività fa da collante ad una prima linea d’impatto e di pressione che vorrebbe marcare un luogo privilegiato di incontro (o, se si vuole, di scontro), tra un’arte che assedia ed una che è assediata, dove però l’assediante ha un potere di contatto con la reale complessità del sociale che l’assediato, per quanto si ritenga idealmente più libero, non ha. Si chiarirebbe anche così il perché dello scarso interesse di chi accetta e diffonde oggi la dizione «arti visive» per le implicazioni teoriche di essa dizione e, per converso, il suo dare per scontata la liceità di applicarla a delle pratiche in cui il ruolo dell’intreccio tra professionalità rivolta al quotidiano e trasgressione crea­


tiva capace di riflettere su se stessa risulta quasi sempre problematico. Potrebbe essere; così come potrebbe anche essere, che l’aggettivo «visiva» sia, a conti fatti, poco più di una coloritura superficiale con cui si tenta di far stare insieme ancora per un po’ delle pratiche espressive che, invece, tendono a divaricarsi tra loro secondo logiche combinatorie esponenziali, giocando la carta di un blando riferimento all’universo della comunicazione e dell’immagine riguardato come attuale sì ma, tutto sommato, non vincolante. Potrebbe essere, ma qualcosa, sembra contraddire con forza l’ipotesi: il fatto che da Picasso con i suoi collages cubisti a Schwitters con il suo Merzbau, da Balla e Depero con i loro Complessi plastici moto-rumoristici ad El Lissitskji con i suoi Proun, da Malevitch con i suoi Architectona a Tatlin con i suoi Rilievi e Controrilievi, da Duchamp con i suoi Ready Made a Man Ray con i suoi Rayogrammes, da Pollock con il suo Dripping a Vedova con i suoi Plurimi, da Fontana con i suoi Concetti spaziali a Manzoni con i suoi Acromes e le sue Basi magiche, da Smithson con i suoi Heartworks e i suoi Non-Sites a Warhol con i suoi Disaster e le sue Brillo Boxes da Judd con i suoi Unintitled ad Andre con i suoi Equivalents, da Beuys con le sue Sculture sociali a Kossuth con le sue Investigations, quando l’arte moderna (o contemporanea) ha inglobato la realtà esterna, è fuoriuscita dalla cornice o è scesa dai suoi piedistalli, lo ha sempre fatto con serrata consequenzialità ed estrema lucidità, non abbandonandosi ai capricci dell’ispirazione, ma ristrutturando i suoi protocolli e rigenerando il proprio rapporto con tutte le forze, le spinte e i saperi che andavano animando il sociale. Il che significa da ultimo che essa già vive nella città e nella sua crescita contraddittoria, già opera nella ricerca di nuovi orizzonti del sapere tecnico e già struttura i flussi di una comunicazione che deve difendersi continuamente dai rischi dell’autoreferenzialità. E significa anche che chi sceglie di andarle incontro, o di andarle contro all’insegna del visivo è già in qualche modo sintonizzato con essa e se la ritrova già nel proprio patrimonio genetico.

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Un insieme di considerazioni queste che tuttavia sarebbe errato riguardare come una sorta di fiducioso auspicio di ascendenza vetero-progressista. Al contrario, proprio il fatto che qui si stia parlando di Arti Visive, come possibile punto d’incontro tra ricerche che hanno specificità diverse, ma su entrambi i fronti non possono che essere maturate sul terreno di una irreversibile perdita di sostanza della realtà, dovrebbe aiutarci a penetrare in un nuovo territorio d’indagine entro il quale l’insistere sulle coordinate guida della visività potrebbe essere un modo di procedere più solidale e meglio condiviso che nella prima metà del secolo scorso. Non a caso, come si sarà notato, ci siamo fermati, nel nostro elenco di esperienze e raggiungimenti artistici logicamente legati tra loro, alle Investigations di Joseph Kosuth, ovvero ad una forma d’arte ormai spogliata del suo corpo estetico, ma proprio per questo pronta ad apparire in diversi luoghi della città e ad entrare in comunicazione diretta con chi la abita senza mediatori interpretativi. All’insegna della tautologia incarnata nei processi di autointerrogazione dell’opera, l’arte del XX secolo, a metà degli anni ’60 penetra con l’Arte Concettuale nella strozzatura centrale di una clessidra al di la della quale sarà ben presto l’intero patrimonio visivo dell’Occidente a riversarsi, dando vita ad una sorta di Regno dei Simulacri, che anticiperà all’insegna della leggerezza e della multidirezionalità le fantastiche possibilità che oggi ci offrono i nuovi media. La Globalizzazione, oggi con il suo immenso e anonimo carico di dolore da scaricare su milioni di malcapitati, ha oramai fagocitato il giocoso e un po’ irresponsabile Postmodernismo. Ma l’esperienza fatta da migliaia di artisti prima e milioni di operatori professionali poi, potrebbe servire proprio ad elaborare a getto contino nuove armi specifiche e nuovi antidoti per deviarne e dissolverne i veleni. La trasmissibilità senza più limiti di un’immagine su cui tutti possono intervenire contribuendo ciascuno a proprio modo a rivelarne e metterne in moto le potenzialità strutturalmente rigenerative potrebbe essere allora il nuovo senso dell’aggettivo qualificativo «visiva» da affiancare al nome comune «arte».


1  P. Balmas, Arti visive zona franca, in AA.VV., Lezioni di Design, Rdesignpress, Roma 2013 pp. 112-120. 2   Inutile sottolineare come non sia questa la sede in cui riprendere in esame le principali teorie che in epoca moderna catalizzarono l’attenzione di storici, critici e artisti sul tema della visione ovvero quella della “Pura Visibilità” (reiner Sichtbarkeit) che ha la sua scaturigine nel pensiero di Konrad Fiedler (1841-1895), quella dell’“Iconologia” che prende le mosse dall’attivismo di Aby Warburg (1866-1929) e quella del “Visual Thinking” che provenendo da diversi ambiti di riflessione psicologica cominciò ad essere convogliata verso l’esperienza artistica da Rudolph Arnheim (1904-2007). Volendoci qui attenere strettamente al solo universo di discorso della terminolgia usata dalla Critica d’Arte con intenti classificatori, ci limitiamo a segnalare come già nel 1959 Gillo Dorfles nel suo fortunato volumetto intitolato il “Divenire delle Arti” interrogandosi sul “vezzo recente, di di raggruppare sotto l’unica etichetta di «arti visuali» pittura, scultura, architettura, disegno ecc.” concluda che esso “si può probabilmente riallacciare ad una rinnovata urgenza psicologica posta alla base di molte indagini estetiche”, ma poi non solo adotti lui stesso tale tipo di terminologia all’interno di quella che ci propone come una dinamica rimappatura di tutte le Arti attive nel “nostro dinamico e inquieto periodo”, ma se ne serva, con una certa discrezione, sia per affiancare alla vecchia “Architettura” “la breve e oggi necessaria appendice dell’arte industriale” che per riplasmare tutto il resto della materia affrontata in funzione di nuove aperture di pensiero saggiamente non proposte all’interno di una unitaria gabbia Teorica, ma ridisegnate caso per caso in modo da poter rispondere a vigorose spinte in avanti e segnalare evidenti anacronismi. 3   Arti visive, Enciclopedia Italiana, VII Appendice (2006) di A. Vettese. 4  M. Vitta, Il rifiuto degli dèi. Teoria delle belle arti industriali. Einaudi, Torino 2012. 5  M. Vitta, op. cit., p. 281.

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È del designer il fin la meraviglia AURELIO MAGISTÀ

Premessa e ipotesi di lavoro

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Per secoli studiosi, saggisti, ricercatori e, ovviamente, giornalisti, sono andati alla ricerca di informazioni. Oggi se ne devono difendere. In realtà, essi continuano a cercarle, ma la facilità con cui qualsiasi informazione può essere prodotta e messa in circolazione nell’infosfera (per infosfera intendiamo uno spazio virtuale formato dall’insieme delle informazioni a disposizione di chiunque, costituito da contenuti veicolati con qualsiasi medium esistente, secondo la fortunata definizione di Luciano Floridi) ha radicalmente ridotto il tempo della ricerca e abnormemente esteso il tempo della selezione. Ogni giorno gli esseri umani sono raggiunti, o perseguitati, da una quantità crescente di messaggi attraverso numerosi media, dagli sms alle mail, dalle telefonate ai tweet, e naturalmente anche dai libri e dai giornali, benché la carta stampata sia una quota sempre minore al­ l’interno del crescente volume di informazione che ormai chiunque può far circolare nell’infosfera. Una società in comunicazione perenne si scopre vivere nel costante brusio di fondo che la circolazione di atti comunicativi (con quale e quanto contenuto comunicativo andrebbe chiarito) crea come in un immenso, iperattivo alveare. Pertanto la gestione della comunicazione sta diventando strategica in qualsiasi contesto, e quindi anche nel design.


Vengono raffinate le tecniche per comunicare, descrivere, e ormai, effettivamente, narrare gli oggetti. Che cosa sono infatti i moderni storytellers se non abili utilizzatori di tecniche retoriche per portare al successo cose e persone, moderni creatori di effimeri – ma non sempre effimeri – miti ed epiche contemporanei? Ma una particolare arma a disposizione del design è la comunicazione intrinseca all’oggetto stesso. Varie modalità consentono di stressare, di collocare un accento forte, sulla potenzialità comunicativa di un oggetto fino a farne esso stesso non più oggetto, ma soggetto di un atto comunicativo, ovviamente con caratteri dove le funzioni di Jakobson, per adattarsi al nuovo contesto, dovrebbero essere modificate come un abito fatto su misura. Ma questo aspetto verrà toccato, anzi appena sfiorato, solo in chiusura. Intanto, chiariamo l’obiettivo principale: esaminare alcuni casi di design particolarmente comunicativo, espressivamente efficace in maniera rilevante, e verificare come questa forza sia conseguita trasferendo l’attenzione dai contenuti funzionali a quelli artistici, al punto che con l’obiettivo prioritario di comunicare, di sovrastare il brusio della comunicazione in cui siamo immersi, nei casi più deteriori si finisca per ignorare, diminuire o, paradossalmente, negare il valore d’uso dell’oggetto stesso. Gli esempi sono volutamente eterogenei, e la loro efficacia comunicativa non viene dimostrata poiché si ritiene di poterla dare per acquisita, in base alla notorietà e al successo che gli esempi stessi hanno innegabilmente raggiunto. Questo spostamento di attenzione dai tratti distintivi funzionali – propri della progettazione – a quelli estetici – proprio dell’espressione artistica – non deve sorprendere, considerata l’ampia casistica di personaggi che, a causa della loro produzione, è impossibile ascrivere rigorosamente a un campo. Lo sposamento di identità, quasi una trasfigurazione, è peraltro legittimato anche in sede teorica ed è utile riportare le parole di Vilém Flusser che in Sulla parola design, primo saggio della raccolta pubblicata in Italia con il titolo Filosofia del design, si concentra proprio su un aspet-

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to che riguarda il nostro tema. La citazione, l’unica così ampia considerata la brevità di questo nostro testo, è la seguente:«come ha fatto la parola design ad assumere il suo attuale significato internazionale? Non si tratta di una questione da intendersi da un punto di vista storico, nel senso cioè di dover andare alla ricerca di fatti che testimonino dove e quando la parola ha acquisito il suo attuale significato. Si tratta di un interrogativo di natura semantica, nel senso che vuole indurre a riflettere sul perché questa parola abbia assunto tale significato nel dibattito contemporaneo sulla cultura. La parola si trova in contesti associati alle idee di astuzia e di insidia. Un designer è un subdolo cospiratore che tende le sue trappole. Negli stessi contesti compaiono altri termini molto significativi: in particolare meccanica e macchinario. Il greco méchos indica un dispositivo escogitato per trarre in inganno, quale una trappola, di cui il cavallo di Troia è un esempio. Ulisse viene chiamato polymechanikos, che a scuola viene tradotto come “astuto”. Il termine méchos stesso deriva dall’antica radice MAGH, che possiamo riconoscere nel tedesco Macht (“potere”, “forza”) e mogen (“volere”, “desiderare”). Perciò un macchinario è un dispositivo ideato per trarre in inganno; una leva, per esempio, inganna la forza di gravità, e la “meccanica” rappresenta la strategia per “imbrogliare” i corpi pesanti. «Un’altra parola che compare nello stesso contesto è “tecnica”. Il greco téchne significa “arte” e si collega a tékton, “falegname”. Il concetto di fondo, in questo caso, è che il legno (in greco hyle) è un materiale informe al quale l’artista, il tecnico, conferisce una forma, in modo tale che essa appaia in primo luogo. L’obiezione di fondo mossa da Platone nei confronti dell’arte e della tecnica era che esse tradiscono e distorcono le forme intelligibili (le Idee) quando le trasferiscono nel mondo materiale. Per lui gli artisti e i tecnici sono traditori delle idee e imbroglioni perché inducono subdolamente le persone a percepire idee distorte. «L’equivalente latino del greco téchne è ars, che in tedesco si traduce con Dreh (“idea”, “espediente”, “trovata”, “trucco”, nel gergo della malavita). Il diminutivo di ars è


articulum (“piccola opera d’arte”) e indica che qualcosa ruota, verte intorno a qualcos’altro (per esempio il polso). Perciò ars significa “agilità”, “destrezza”, e artifex, l’artista, indica, innanzitutto, un “imbroglione”. Il vero artista è il prestigiatore, come testimoniano parole quali “artificio”, “artificiale”, e persino “artiglieria”. Il termine Kunster suggerisce che l’artista è ovviamente una persona “in grado di fare qualcosa”, poiché il termine tedesco per arte, Kunst, deriva dal verbo konnen, potere, ma anche in questo caso l’aggettivo gekünstelt, che significa “artificiale”, “artefatto”, “affettato”, ha la stessa radice. «Queste considerazioni costituiscono già di per sé una spiegazione esauriente della posizione che la parola design occupa nel discorso contemporaneo, I termini design, macchina, tecnica, ars e arte sono strettamente collegati l’uno all’altro, ognuno è impensabile a prescindere dagli altri, e tutti traggono origine dalla stessa visione esistenziale del mondo»1. Così il designer prestigiatore, l’agile imbroglione che, pur restando nel perimetro di azione che gli è proprio, almeno secondo l’assunto stabilito dal ragionamento di Flusser, si allontana dal lato della funzione e si avvicina a quello dell’estetica, pur tradendo un carattere fondativo del design, ovvero trovare un’efficace risposta a un bisogno d’uso attraverso un oggetto, gli resta fedele in una maniera diversa. Perché l’oggetto diventa più potente, più espressivo, più comunicativo e finisce per rispondere ad altri e più profondi bisogni del proprietario. Bisogni che sono sintetizzati in almeno due aspetti: il primo è la soddisfazione estetica, la gioia del bello, e l’altro è la narrazione di sé che l’oggetto ci consente: possedendolo diciamo a noi stessi e agli altri chi siamo, vogliamo svelare dei tratti della nostra identità e il ruolo nel mondo che desideriamo attribuirci. Il neo radical design Il movimento del design radicale, o più esattamente l’in­ sieme di movimenti segnati da specifici attori, come nella

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prima fase Archizoom e UFO, o nella seconda Memphis e Alchimia, non è solo uno degli esempi di questo breve saggio, ma anche il punto di partenza, perché segna il momento in cui la storia del design vive un momento di rottura segnato dall’azione di alcune avanguardie che, di fatto, rivendicano un ruolo propriamente artistico. Infatti, se già Bruno Munari scriveva che «il designer è un progettista dotato di senso estetico” in un saggio dal titolo Artista e designer, poi teneva pudicamente a specificare che “il designer non ha stile alcuno e la forma finale dei suoi oggetti è il risultato logico di una progettazione che si propone di risolvere in modo ottimale tutte le componenti di un problema progettuale»2. L’affermazione è oggi clamorosamente smentita dai fatti, ovvero dalla riconoscibilità di uno stile attribuito ai designer più celebri, anche se l’idea di un bello legato a una eccellente funzionalità resta vera e continua a essere rappresentata dai migliori casi del cosiddetto design anonimo. Il Radical Design mette a nudo il conflitto che la progressiva industrializzazione ha creato sull’equivoco di una presunta forma ideale, ottimale, delle cose: «Al suo nascere, all’inizio del XX secolo, la cultura razionalista sembrava corrispondere spontaneamente alla natura dell’intero ciclo industriale, un ciclo che andava dalla macchina, alla fabbrica, fino al mercato e alla forma degli oggetti. Il futuro sembrava coincidere con uno scenario di ordine e di riduzione progressiva di tutte le varianti e delle eccezioni individuali. Il futuro proposto dalla società dei consumi (che verrà più tardi chiamata postindustriale) consisteva invece in un teorema opposto, costituito da un’altissima complessità interna, ricco di varianti, eccezioni, anarchia e innovazione continua»3. Il lavoro di Ettore Sottsass o Alessandro Mendini, ovvero di due significativi esponenti della seconda fase del Radical Design, quella databile intorno agli anni Ottanta, è ben rappresentativa della nuova modalità: «Sottsass creò una serie di oggetti che sembravano prendersi amabilmente gioco delle certezze moderniste, e che minavano intenzionalmente le idee di ordine e coerenza: scaffali troppo inclinati per reggere dei libri, televisori con una finitura rosa da bebé che


sembravano giocattoli»4. La libreria Carlton di Sottsass, la poltrona Proust di Mendini, sono oggetti fortemente espressivi perché parlano un linguaggio emotivo e spostano, come è stato scritto, «la logica progettuale sul piano di un diverso rapporto con l’oggetto, fondato sull’affettività, la comunicazione, la sensorialità intesa come relazione estetica con le cose5. Fra i tanti oggetti esemplari dello spostamento progettuale verso il fronte dell’estetica, vogliamo citare la caffettiera firmata da Alessandro Mendini, Paola Navone e Franco Raggi e presentata alla mostra «L’oggetto banale», durante la Biennale di Architettura del 1980, formata da una base altissima, palesemente sovradimensionata rispetto alla capacità della parte superiore, e colorata con tinte diverse per ciascuna delle facce del poliedro. Rispetto al modello funzionalista, l’esito è capovolto. Nota Branzi che il risultato più profondo ottenuto dal Radical Design è stata «quella sorta di anarchia progettuale che non si è più ricomposta durante gli ultimi cinquanta anni. Città, architettura e universo oggettuale costituiscono ancora oggi realtà che non si ricompongono se non esaltando la propria diversità rispetto al contesto. La discontinuità, l’innovazione perenne, la diversificazione ha da allora preso il posto dell’ordine, della sistematicità, dell’unità dei linguaggi»6. E non deve sorprendere che questo percorso segua la via della produzione industriale. Il Radical Design ha fatto propria la lezione della Pop Art, e inoltre quel che resta di produttivo oggi si può avvalere del nuovo modello sperimentato dai makers, in cui si fondono la replicazione seriale e l’originalità artigianale. Va sottolineata la concorde insistenza dei diversi studiosi sull’originalità, l’espressività ottenuta attraverso forme sorprendenti e largo uso di colori forti (elementi ricorrenti anche negli altri esempi che saranno esaminati), l’affettività e la forza comunicativa degli oggetti nati dall’azione dirompente del Radical Design. Che abbiamo voluto inserire in questa sintetica casistica non solo per il primato che gli si deve riconoscere nell’aver trasferito la creatività del progettista nei territori dell’espressione artistica e della comunicazione, ma anche perché molti di tali oggetti sono tutt’ora

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desiderati e, di conseguenza, prodotti, anche in numerose varianti d’autore. E questa capacità di attraversare il tempo, indenni o scarsamente sensibili ai cambiamenti del gusto, se per un verso è uno dei caratteri dell’arte, per un altro ci consente un passaggio di continuità verso il secondo esempio. L’eccezione del design vintage

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Il grande interesse per il vintage non accenna a diminui­ re, e meriterebbe di chiedersi perché una società così proiettata verso il futuro, in cui gli studi storici sono ormai marginalizzati, sia nello stesso tempo così ossessivamente appassionata per le cose che provengono dal passato. Sarebbe ottimo argomento per un saggio diverso, ma in queste righe, prendere in considerazione tale contraddizione ai limiti del paradosso, viene almeno utile per sottolineare un aspetto essenziale: il grande interesse per gli oggetti del passato, avulsi da una precisa storicizzazione del loro carattere e della loro identità, si concentra esclusivamente sugli oggetti-testi in quanto macchine evocative di una storia. Ovvero, il pubblico avverte più o meno confusamente l’appartenenza di un abito o di un oggetto a un passato, ma per subirne la fascinazione non gli è necessario attribuirlo in modo preciso a un’epoca, uno stile o, perfino, a un autore. È la stratificazione implicita dovuta al suo passato a renderlo seduttivo, ad aprire un canale di comunicazione. Questo è particolarmente vero per gli oggetti definiti con l’abusato aggettivo di «iconici», ovvero ad alta riconoscibilità perché ampiamente vulgati nell’infosfera, al punto da appartenere ormai all’immaginario collettivo ed essere parte integrante del­ l’enciclopedia visiva della società presente. Si sottolinea che i caratteri di forte espressività tipici di tutti gli altri casi – le forme originali, bizzarre, inconsuete, l’ampio uso del colore, il distacco della forma dalla funzione con effetto sorpresa – nel caso del design vintage sono sostituiti proprio dalla “storia” riconosciuta all’oggetto stesso. Lo storytelling implicito è dato dalla stratificazione che il tempo ha compiuto sull’oggetto, proprio come il tes-


suto stinto e lacero dei jeans o la pelle invecchiata di borse e scarpe nelle vetrine dei negozi, che la storia la recano scritta addosso. Chiaramente, il meccanismo funziona meglio nei casi in cui l’oggetto è più spesso riproposto dal sistema mediatico. L’esempio inevitabile è la lampada Arco di Achille e Pier Giacomo Castiglioni per Flos, presente in molte ambientazioni e sfruttata fino al logoramento dall’advertising, ma potremmo citare la radio Cubo di Marco Zanuso e Richard Sapper per Brionvega, la chaise longue LC4 di Le Corbusier… Da notare che il design vintage non fa leva sull’argomento della funzionalità, concedendo al limite di darlo per scontato, ma in generale ignorandolo. Peraltro l’argomento della funzionalità sarebbe perfino controproducente nel caso di oggetti che integrano tecnologie ormai obsolete come una lampada o una radio (in realtà le tecnologie sono state aggiornate, ma restano invisibili nel corpo della cosa). Il meccanismo di attrazione è quello delle grandi star, un divismo dell’oggetto che si ritrova nella moda, benché meno marcato, in quanto per la moda a funzionare come elemento chiave è la griffe piuttosto che la singola creazione (con ovvie eccezioni, ricordiamo le borse Kelly di Hermès e Speedy di Louis Vuitton). La passione per il vintage non ha solo aumentato le vendite degli oggetti di design che avevano saputo attraversare il tempo, ma ha anche convinto molti produttori a cercare negli archivi i disegni tecnici di vecchi prodotti che possono tornare a essere attuali in questo contesto di nostalgia, e altri ad avviare indagini specifiche. Come ha fatto Molteni&C che, con l’obiettivo di rieditare creazioni di Gio Ponti, ha visitato case private e hotel (in particolare il Parco dei Principi di Sorrento) alla ricerca di esemplari originali da riprodurre. Il marchio che ha legato maggiormente il proprio successo al design vintage è Cassina, che nella collezione “I Maestri” annovera creazioni di Le Corbusier, Jeanneret, Perriand, McIntosh, Wright. Uno sguardo così attento al passato, inevitabilmente, rischia di perdere di vista il presente e, soprattutto, il futuro. La scelta di Patricia Urquiola come art director, fatta a ottobre, dimostra che l’azienda ha focalizzato il

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problema, anche se lo stile della Urquiola, che entra in questo saggio a pieno titolo, è lontano da quello di Cassina, e la dialettica fra l’identità della designer e quella del marchio sarà argomento di interesse dei prossimi mesi. Pesce, Starck, Urquiola

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Dal Radical design al design vintage, passiamo a esaminare tre designer che, nella loro diversità, esprimono tre diversi modelli di un design di grande forza comunicativa ed emotiva che finisce per adombrare, ignorare o negare la funzione: l’architetto-artista Gaetano Pesce, il designer-divo Philippe Starck e la poetessa del progetto Patricia Urquiola. Gli esordi di Gaetano Pesce sono nel segno della ricerca sui materiali. La serie di sedute Up per C&B, anno 1969, esplorava le possibilità offerte dal poliuretano espanso che avrebbe poi avuto enorme fortuna in vari ambiti produttivi; inoltre l’azienda, oggi B&B, aveva provato a metterle in vendita con grande successo in una confezione sottovuoto che richiedeva molto meno spazio. Ma a osservare la sua storia è facile comprendere che l’interesse per i nuovi materiali proviene da una profonda curiosità di artista. Artista certamente, ben prima che architetto e designer, anche se certe sue intuizioni architettoniche, per esempio il verde verticale del grattacielo a Osaka, verranno poi riprese da altri con clamorosa fortuna, e la poltrona Up5, della serie ideata nel 1969, diventata uno degli oggetti simbolo di un’intero periodo, resta un invidiato longseller. Ma artista più nel senso che intende Flusser: quello per il quale le arti liberali non hanno ancora divorziato da quelle meccaniche e sono ancora e solo «arti». L’attenzione verso i sistemi produttivi e i materiali innovativi è un tratto distintivo fondante dello stile di Pesce, che però li interpreta essenzialmente come ulteriori strumenti per la sua ispirazione creativa, al crocevia fra arte, design e passione civile con accenti polemici più o meno forti. Up5 e Up6, le due sedute più fortunate di quella prima serie, nelle intenzioni dell’autore rap-


presentano una donna seduta (ritratta in realtà nelle forme archetipiche delle antiche statue dedicate alle dee della fertilità) ma vincolata a una palla da carcerato: il pouff sferico Up6: «Volevo denunciare il problema della condizione femminile», ci ha dichiarato di recente, «e mi sembra che anche se dal 1969 a oggi ci sono stati tanti progressi, la questione resti sul tavolo». Da tavoli metaforici a tavoli letterali: nel 2011, per il 150 anni dell’Unità d’Italia, Pesce ha realizzato in serie limitata 61 tavoli in resina colata (tutti in verde, bianco e rosso); ciascuno è anche parte di un puzzle che va a formare la penisola italiana. Il patriottismo è argomento ricorrente di Pesce, forse anche perché vita, carriera e successi li ha costruiti all’estero. Sempre nel 2011, alla Triennale di Milano è stata esposta una sua polemica opera in legno e resina raffigurante un’Italia messa in croce. Tutti i lavori di Pesce, quasi sempre serie limitate o pezzi unici, sono caratterizzati dai tratti distintivi segnalati all’inizio: forme originali e spesso bizzarre, aggressive, colori forti; oggetti emozionanti, di impatto comunicativo così forte che spesso ogni ulteriore intervento esplicativo suona inutilmente didascalico o vuotamente retorico. Lavori che, dal­ l’industrial design all’esemplare unico, continuano a riscuotere enorme attenzione e grande successo. Parlando di successo nel design ci si imbatte sempre in un nome ingombrante, Philippe Starck. Il designer-divo è uno specialista in progetti di grande potenzialità comunicativa, che nello stesso tempo si rilevano beffardi nei confronti della funzione. Piaccia o non piaccia (per onestà dichiariamo che a noi non piace), trattando l’argomento è impossibile ignorarlo. Il suo oggetto icona, come piace dire oggi, è lo spremiagrumi Juice Salif per Alessi. Un’astronave tripode che con il suo segno forte sa dare carattere alla più anonima delle cucine. Naturalmente, come è ormai ben noto, la capacità di questo oggetto di assolvere alla funzione per cui sarebbe stato creato è scarsa: i sostegni sono inutilmente alti, e i semi vanno poi tolti pazientemente dal succo. Ma non importa, Philippe Starck è certamente un grande comunicatore, come dimostrano i nanetti da giardino tra-

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sformati in sgabelli per Kartell o l’inquietante serie Gun per Flos, lampade che come sostegno hanno mitra e pistole, o, ancora, le micropale da giardino con cui nel 2010 l’architetto ha «scoperto» l’eolico domestico, chiamate modestamente Revolutionair: soluzioni di dubbia praticabilità, ma abili operazioni di marketing per l’azienda produttrice. Naturalmente Starck non è solo questo, ma questi oggetti sono divenuti manifesti del suo stile e della sua idea di progetto. Un’idea in cui distinguersi, far sentire la propria voce al di sopra dell’eterno ronzio dell’infosfera, ovvero affermare la propria capacità espressiva comunicando al destinatario emozioni e sensazioni, è ragion d’essere e fine ultimo. Forme sorprendenti, colori di tendenza, voglia di stupire: a Philippe Starck possiamo ben riadattare le parole di Giambattista Marino: è del designer il fin la meraviglia. Poesia sono quasi sempre le creazioni di Patricia Urquiola. Spagnola d’origine, ma di fatto italiana, anzi milanese di formazione, la progettista negli ultimi anni ha conosciuto un successo così straordinario da farle rischiare l’inflazione produttiva. D’altra parte, se Starck incarna l’esempio deteriore di un design che assegna il primato alla comunicazione ostestando disprezzo per la funzione, la Urquiola rappresenta il fronte di quei designer che legittimamente si chiedono se sia necessaria un’ennesima sedia, o se invece, dato per acquisito l’elemento funzionale, una nuova sedia non debba soprattutto significare una nuova emozione. Emozionante è il tavolino iridescente Shimmer per Glas Italia; emozionante è la poltrona Crinoline per B&B; emozionante è la lampada Caboche per Foscarini; emozionante è il tavolino T-Table per Kartell. Un marchio, Kartell, che sarebbe stato contemplato fra gli esempi di questo saggio, se lo spazio lo avesse consentito, considerato il ruolo guida che detiene nel settore di quelle che De Fusco ha definito «le plastiche dell’opulenza»: «è distinguibile una prima fase imitatrice (le plastiche storiche) da una fase del materiale come surrogato di altri (le plastiche della penuria), fino agli sviluppi sorprendenti di esso a opera dell’avanzamento tecnologico (le plastiche dell’opulenza)»7.


Le soluzioni formali della Urquiola sono sempre ricercate, elaborate, spesso materiche e comunque mai inconsapevoli del materiale utilizzato e anche i colori, pur dovendo corrispondere alle esigenze commerciali di un’impressionante quantità di marchi, sono sempre molto attenti alle tendenze al gusto della moda. L’energia espressiva è sintonica con il carattere della Urquiola, estroverso, ma in particolare ricettivo verso ogni input, dalla ricerca su un’innovazione all’opinione di un operaio che conosce la macchina con cui si andrà a produrre. Quindi l’universo creativo che ne risulta, nella sua articolata varietà, esemplifica in sintesi i tratti distintivi di quel design che ha saputo integrare la comunicazione come elemento prioritario senza negare l’esigenza funzionale, ma considerandola come un corollario da prevedere in serena souplesse. Per (non) concludere Completata la sintetica casistica, torniamo all’obiettivo di queste righe: riteniamo di aver sufficientemente dimostrato che esiste e si afferma soprattutto oggi un design che, nell’epoca della comunicazione permanente, sa farsi esso stesso comunicazione dialogando con modalità dell’espressione artistica che possiamo sintetizzare nelle forme, originali, fortemente riconoscibili, dirompenti, oppure citazioniste, ovvero in grado di costituire gli oggetti come testi, narrazione di una storia che ci sta alle spalle ma torna attuale nel presente, e in un uso aggressivo o comunque sapiente e spesso “di tendenza” delle scelte cromatiche. Altro spazio richiederebbe a questo punto sia una integrazione e una sistematizzazione della casistica, sia, soprattutto un’analisi di questa attività di comunicazione. Perché se comunicazione esiste, doveroso è chiedersi quale sia il messaggio, e chi il mittente (forse mittente collettivo?), quali elementi servano a mantenere aperto il canale per trasmetterlo, e se e quale tipo di risposta provenga dal destinatario; ma saranno questioni utili per futuri approfondimenti.

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1  V. Flusser, Filosofia del design, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp. 2-3. 2  B. Munari, Artista e designer, Laterza, Bari 1971, p. 28 3  A. Branzi, Capire il design, Giunti, Firenze 2007, p. 210. 4  D. Sudjic Il linguaggio delle cose, Laterza, Bari 2009, p. 61. 5  M. Vitta, Il progetto della bellezza. Il design fra arte e tecnica 1851-2001, Einaudi, Torino 2001, p. 73. 6  A. Branzi, op. cit., p. 211. 7  R. De Fusco Storia del design, Laterza, Bari 1985, p. 333.

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Libri, riviste e mostre

Le Corbusier, L’arte decorativa, Quodlibet, Macerata 2015 a cura di Domitilla Dardi. Tra le numerose iniziative editoriali e critiche dedicate a Le Corbusier nel cinquantenario del­ la scomparsa, la ripubblicazione integrale del libro L’art décoratif d’aujourd’hui (nella versione dell’ultima edizione del testo rivisto e ampliato dallo stesso autore nel 1959) occupa un posto singolare, sia dal punto di vista editoriale che da quello più strettamente storiografico. La pubblicazione di L’art décoratif d’aujourd’hui nel 1925 quando resistevano ancora in seno anche ai più schietti modernisti alcuni equivoci, che oscillavano tra il gusto per l’artigianato e le nuove teorie dell’architettura rappresentò un punto di svolta per la cultura del progetto moderno. Il testo era costituito da una raccolta di articoli apparsi prevalentemente nel 1924 su «L’Esprit nouveau», la rivista che lo stesso Corbu fondò con il pittore Amé­ dée Ozenfant e il poeta Paul Der­ mée. Questo libro fu il secondo

tassello di quella trilogia che con­ sacrò la fama e l’identità di Le Corbusier, (Vers une architecture del 1923, Urbanisme del 1925). L’art décoratif d’aujourd’hui rappresenta un punto essenziale del suo discorso teorico sulle funzioni prime, in particolare esso riveste un ruolo nevralgico nella maturazione del Le Corbusier che da artigiano diventa architetto, da polemista si fa teorico. L’importanza di questo testo nella biografia corbusiana è rafforzata ulteriormente dalla scelta dello stesso autore di riproporla in forma ampliata nel 1959 con l’aggiunta di note chiare che ricostruiscono il suo percorso formativo e biografico. Nell’analisi critica dei paradossi del decorativismo, Le Corbusier troverà alcune delle chiavi essenziali per la conquista di una cifra autentica di ricerca, sistematizzando anche una serie di riflessioni frammentarie legate al suo viaggio di formazione in Oriente, ad alcune letture di sistemi primitivi e anonimi di produzione e di arte applicata. Sarà proprio sul primo numero della

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rivista «L’Esprit Nouveau» nel 1920 che Charles-Edouard Jeanneret assumerà lo pseudonimo di Le Corbusier, e proprio sulle pagine della rivista espressione del movimento purista preciserà la relazione tra bisogni-tipo e mobili-tipo, tra la scala umana e la lezione della macchina. Nel 1925 con il padiglione realizzato per l’Exposition Internationale des Arts Decoratifs a Parigi, realizzerà un prototipo manifesto di queste tesi, il padiglione dell’Esprit Nouveau appunto, che gli consentirà di raggiungere la notorietà e sarà l’espressione più convincente di quella ricerca programmaticamente unitaria sull’abitare che svilupperà per tutto il corso della sua vita. Una ricerca in cui la serialità si sviluppava a partire dai fattori elementari del­ l’uso (membra artificiali) e dalla composizione di forme pure ed essenziali. Non possiamo non apprezzare la ripubblicazione di testi esauriti che rappresentano le pietre angolari del pensiero moderno, soprattutto se sono curate in modo pregevole come nel caso dell’editore Quodlibet. Tra questi testi quelli di Le Corbusier sono sempre di estremo interesse, fondativi perché si rivolgono ad affermare i principi di un’avanguardia progettuale, artistico-culturale, in modo più ampio e complesso del movimento moderno in senso stretto. Nello stesso tempo la rilettura dei temi corbusiani, il tono apodittico delle sue tesi e le esemplificazioni polemiche ci riportano ad un contesto culturale e ad un operare che, pur combattendo a viso aperto contro il gusto dominante, implicitamente affermava i limiti stessi di quella

battaglia. A ben vedere la Legge della Biacca e il Latte di Calce sono espedienti orientati alla formazione della committenza più che all’insegnamento del­ l’arte del progettare; e in particolare tutta l’esperienza del movimento purista era orientata alla definizione di una nuova committenza, più evoluta nell’apprezzamento dei valori moderni e orientata ad una vera rivoluzione del gusto. In Francia infatti era avvenuta la trasformazione dello stile Liberty da movimento eterogeneo internazionale ad uno stile nazionale ben definito, il Decò appunto, e la Francia appariva come ebbe a dire Giedion un paese paralizzato dal conformismo. Il motore primo della polemica di Le Corbusier “l’arte decorativa moderna non comporta nessun tipo di decorazione” sorgeva da circostanze sociali, economiche e artistiche nazionali, provocate soprattutto dalla mancata collaborazione tra artisti e industriali francesi, mentre in Germania la vicenda moderna si dipanava in modo più concreto e maturo grazie agli accordi di cooperazione sviluppati dal Deuts­ cher Werk­ bund, raggiungeva significativi successi nel supporto al progresso dell’industria così come pure nell’affermazione dei nuovi valori nell’architettura. E qui sta il più grande limite del­ l’operazione editoriale e storiografica: se la condanna di tutta la produzione estetica del­ l’arte decorativa pone fine all’arte decorativa stessa, e alla cosmesi formale viene a sostituirsi un funzionalismo della forma per cui la razionalità dell’utensile si erge a manifesto del razionalismo; se per Le Corbusier le ra-


gioni della ricerca purista e formalista coesistevano con quelle utilitarie e funzionaliste, come si può attualizzare la composizione di queste due spinte propulsive? Diventano essenziali per la comprensione storica della formazione complessa della personalità di Le Corbusier ma sono insufficienti a giustificare una riedizione critica che non aggiunge molto al già noto e in parte consumato delle argomentazioni del maestro svizzero e dei suoi esegeti. La ragione d’interesse principale di questa edizione risiede invece nelle motivazioni curatoriali ed editoriali, nella tensione alla rilettura di un passaggio storico, di uno dei momenti fondativi del moderno alla luce delle derive contemporanee, di buona parte del design contemporaneo, ai tentennamenti teorici e critici di parte dei protagonisti di oggi della riflessione critica, ai quali le note canzonatorie e ironiche del miglior Le Corbusier potrebbero essere rivolte senza timore di smentite. La questione centrale è sempre la stessa: come progettare in un’epoca in cui tutto è mutato? Cosa corrisponde a questo mutamento? Perché il moderno impone la profonda revisione di tutti i valori architettonici e ambientali con i quali misurarsi? In questo senso Le Corbusier è il primo architetto (con un dichiarato debito verso Adolf Loos) che afferma l’unità di arredo e architettura, di architettura e industria (il postulato usato all’interno del padiglione del 1925 “la grande industria s’impadronisce dell’edilizia”), è proprio da qui che un’intera schiera di decoratori, arredatori e scuole d’arte applicata sarà definitivamente messa in soffitta.

Quelle che sono oggigiorno le parole chiave di tanto design di successo impallidirebbero di fronte alla semplice demolizione dell’idea di design inteso come attività autoriale, come sale in più da iniettare nel mercato consunto di merci obsolete, come tassonomia di pseudo correnti stilistiche, o nella versione più ideologica nell’idea del design come lusso che un’industria priva di creatività ma piena di marketing propone alle masse di consumatori oggi. Il meccanismo della polemica corbusiana è semplice e chiaro: smontare il mondo simbolico della dimensione rassicurante dell’abitare, imporre una riflessione sul senso tecnico che ha la conoscenza e fondare (probabilmente anche solo sul piano ideologico) uno statuto assertivo nonché consolatorio della funzione del progetto e dell’abitare. Le Corbusier assume questa responsabilità e ce la ripropone ancora attuale, con le sue caustiche osservazioni, direttamente dagli anni venti del secolo scorso: “sbarazzarsi delle abitudini acquisite, depositare nel caveau della banca, al terzo piano sotterraneo dietro una porta d’acciaio, il proprio capitale di ricordi, e abbandonando ogni ‘poetica’ del passato, formulare desideri terra terra”. P. N. C. Melograni, Architetture nel­ l’Italia della ricostruzione. Mo­dernità versus modernizzazione 1945-1960, Quodlibet, Macerata 2015. Sette anni dopo il suo saggio sul­ l’architettura del fascismo

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(1926-1945), l’A. pubblica ora il naturale (e per certi versi atteso) successivo capitolo di storia che si chiude con il 1960. Sono stati anni che, di certo, Melograni ha dedicato prevalentemente a questa ricerca, considerate la mole del libro con le sue 440 pagine di testo e foto ben editati, la cospicua messe di idee, fatti, autori e progetti analizzati, la chiarezza espositiva che, com’è noto e tranne rarissimi casi, è frutto di un lungo e paziente lavoro sulla scrittura. Quanto al merito critico, il giudizio del recensore è positivo per almeno due ordini di considerazioni: ci conferma che questo periodo è stato il più importante nella storia del Novecento italiano (un’opinione diversa non l’avremmo condivisa); riequilibra pesi e misure, ovvero autori e opere, scompensati nella storiografia dei decenni successivi. Ci ritorneremo più diffusamente su questi punti nodali. Intanto, una sintetica descrizione della struttura del saggio. Libro di storia, classicamente organizzato con le tre partizioni temporali che qui titolano i principali capitoli: L’urgenza del presente, La persistenza del passato, L’incertezza del futuro. Precede una Avvertenza e segue un bilancio finale con il citato tema Modernità versus modernizzazione. Il contenuto dei singoli paragrafi non procede per argomenti omogenei e in sincrono ma intreccia questioni, problemi, opere e autori solo in apparenza separati e discontinui ma connessi nella real­tà da un comune orizzonte tematico. È una tipologia storiografica ormai consolidata da tempo, almeno dalla Storia del secondo Novecento curata da Dal

Co per Electa. Così, in questo libro, la ricostruzione negli anni subito dopo la guerra non può che cominciare con i due celebri Memorial, milanese dei BPR e romano del gruppo Perugini, proseguire con il densissimo capitolo dei programmi dell’edilizia residenziale pubblica e chiudersi con Matera e La Martella. Allo stesso modo, la persistenza del passato non può che esprimersi con il tema delle preesistenze ambientali che conduce all’annosa diatriba, milanese di scenario ma internazionale nei risvolti critici, tra grattacielo Pirelli e Torre Velasca, ai CIAM con il cuore della città, alla nascita della grande scuola museografica italiana, alle città storiche per antonomasia di Roma, Venezia, Firenze, alla Genova con i progetti di Albini. E, infine, l’incertezza del futuro, il capitolo che presenta la modernità degli anni Cinquanta all’insegna del gropiusiano “unità nella diversità”, della paziente ricerca collettiva e soprattutto dell’impegno sociale degli architetti, il tutto illustrato con una rassegna della migliore produzione architettonica, urbanistica e del design italiano: dagli architetti e fabbriche “olivettiani” all’architettura degli ingegneri che ha fatto scuola in Europa, dal villaggio olimpico a Roma al progetto di insediamento residenziale per dipendenti ANIC a Gela di Geellner. Alla scadenza del decennio, chiusura obbligata con il concorso CEP di Venezia (1959), che non vinse Quaroni, come un eccesso di attenzione storiografica porterebbe a credere. Lo vinse Muratori, ma Melograni giudica provvidenziale la mancata esecuzione dei pro-


getti dell’uno, vuote architetture ripete con Tentori, e dell’altro, pericoloso per la stessa Venezia storica, ripete con Benevolo. La tecnica di prendere posizione (anche) riportando e condividendo il giudizio di altri storici e critici, l’uso frequente dell’io narrante, la presenza nel racconto storico di eventi autobiografici, i riferimenti costanti e ideologicamente orientati a contesti po­litici, letterari, economici, una scrittura essenziale ispirata al precetto albertiano del nihil addi, sono tratti distintivi d’un metodo che per la sua originalità merita un breve cenno. Qui nell’Avvertenza, come già nel precedente libro del 2008, Melograni precisa che non è uno storico di professione, che non scrive libri di storia, che è parziale, non esauriente e partigiano delle vicende narrate. La sua, scrive, è una semplice raccolta di osservazioni e opinioni di un testimone, avendo in questo caso vissuto da architetto militante i due terzi del quindicennio 1945-1960. A parte un certo understatemen che è nel carattere dell’A., un accento memorialistico in effetti si avverte, ma non è invasivo e pervicace al punto da revocare in dubbio l’impianto scientifico dei suoi saggi. Quanto alla parzialità del punto di vista, non si tratta di eretica devianza dall’ortodossia, rappresentando esso uno dei capisaldi della storiografia. Non c’è necessità di scomodare Zevi e la sua stella polare Wright per validare questo principio. E veniamo alle due considerazioni in precedenza delineate. Il periodo 1945-1960. Sono i quindici anni più importanti del Novecento architettonico italiano.

Nessun altro periodo è stato più denso di eccellenti architetti, di opere paradigmatiche, di contrapposizioni e polemiche, di rivolgimenti del gusto, dei metodi di produzione edilizia e del design, delle stesse idee di architettura. Che sia stato un singolare crogiuolo di esperienze architettoniche senza precedenti, pro­babilmente irripetibili, del dopoguerra italiano, sembra tuttavia che lo stiamo scoprendo solo di recente perché nella storia complessiva del Novecento questo periodo è stato sempre considerato una fase di incubazione verso maturità espresse poi nei decenni successivi. È vero il contrario, sostiene Melograni, perché allora si manifestarono appieno i segni della modernità fatta di impegno sociale per ridurre le diseguaglianze, di ricerca di soluzioni economiche e semplici, di impiego virtuoso di risorse, di progetti adeguati ai bisogni, di rifiuto dell’eccesso. Questa definizione di modernità è molto lontana da quella esclusivamente figurativa che, da sempre si può dire, ha segnato la cultura architettonica italiana. Risulta una presa di distanza polemica e necessaria perché – e siamo alla seconda considerazione – il riequilibrio di autori e opere non valutati dalla storiografia nella loro reale portata, viene operato proprio sulla base del concetto di modernità, senza riguardo o indulgenza per titolati autori che quella modernità hanno tradito o disatteso. I risultati fanno registrare più d’una novità valutativa, scritta con prosa limpida e qualche goccia di arsenico. Già dalla copertina sono evidenti le opzioni di merito, con la

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scelta degli Uffici Zanussi a Porcia (Pordenone) di Gino Valle e poi, citando le cose più significative, il ricorrente dualismo tra la Milano del funzionalismo e dell’MSA che convincono e la Roma d’un generico razionalismo e dell’APAO che convincono di meno, una Torre Velasca che guarda al passato e traveste “i dati della speculazione con Filarete” (Valle) e un grattacielo Pirelli progettato pensando al futuro, simbolo dell’ottimismo contro “la maggioranza lamentosa dei colleghi di Ponti”, Carlo Scarpa che rappresenta bene “l’orgogliosa alterità” dell’architettura italiana ma ha “frenato la nostra cultura progettuale in vista del futuro”, il celebrato padiglione italiano all’Expo di Bruxelles considerato l’opera “più ambigua realizzata in questo periodo” (Aymonino e Benevolo). Albini è, senza perifrasi, il “migliore architetto del Novecento italiano”, Piano il più bravo tra quelli operanti. Quanto alle polemiche, oltre a quelle ricorrenti sull’asse Roma (Zevi) e Milano (Rogers), quella unica e celebre tra Togliatti e Vittorini vide silenziosi gli architetti che “non fecero quasi nulla” per far prevalere l’orientamento di Vittorini, “compreso Gregotti” che pur aveva elogiato il ruolo dello scrittore siciliano. La chiusura del saggio non può avere una tesi confinata nei soli quindici anni dell’architettura della ricostruzione. Lo sguardo si allarga agli ultimi novant’anni, da quando cioè l’architettura italiana entra nella modernità architettonica, sebbene per il primo ventennio “sotto il fascismo”, ad oggi. Non sono mancati autori e opere di assoluto rilievo, ma l’in-

vadente edilizia scorretta ha inondato città, periferie e paesaggi. Credo che per la cultura architettonica italiana uscire da una tale contraddizione sia tuttora la questione centrale e più urgente. Una questione che richiede inevitabilmente come premessa una svolta nella politica edilizia e urbanistica. Gli architetti per primi dovrebbero impegnarsi perché il cambiamento avvenga. P. B. C. Ratti, Architettura Open Sour­ ce. Verso una progettazione aperta, Einaudi, Torino 2014. Curiosamente, da un po’ di tempo a questa parte, il racconto sul rapporto che lega lo sviluppo tecnologico all’evoluzione dello spazio costruito sembra avere preso una direzione sempre più apertamente deterministica. Dalla metà degli anni Novanta, per esempio, nel campo dell’analisi urbana, il modello interpretativo più utilizzato si basa sulle onde di Kondratiev, un sistema di sinusoidi capaci di descrivere oscillazioni economiche regolari, corrispondenti a successivi cicli di progresso tecnico nel campo delle comunicazioni e del trasporto. Secondo questa teoria, cioè, se dopo la metà degli anni Sessanta – sul finire dell’«era del petrolio» – la città ha iniziato a reagire all’enorme incremento della mobilità personale con una dispersione territoriale senza precedenti, oggi – sul finire dell’«era telematica» – non possiamo non aspettarci un simile sviluppo legato, però, all’evoluzione delle


tecnologie digitali. L’idea, certo, è davvero elegante nella sua semplicità. Ma nel suo riduzionismo causale tende a sorvolare sul fatto che un miglioramento tecnologico libera solamente quelle domande e quei desideri che già esistono e che indirizzano le tecniche in quella stessa direzione. E così facendo, rischia di far passare in subordine ogni possibile domanda a una risposta assunta come di fatto inevitabile. È lo stesso rischio, d’altronde, che corre anche Carlo Ratti, nel suo saggio sull’Architettura Open Source pubblicato da Einaudi; anche se, certo, non per caso. Il libro, infatti, nasce dichiaratamente come trasposizione analogica di un «manifesto» digitale per l’architettura del XXI secolo. Qualcosa di ibrido, partecipato, in perenne trasformazione, ma pur sempre un manifesto. Tutto inizia nel 2011, con la richiesta di Domus – diretta allora da Joseph Grima – di un editoriale dedicato alla progettazione open source. La risposta di Ratti, architetto e ingegnere, fondatore del Senseable City Lab del MIT, è semplice e insolita; un testo open source in cui l’autore venga sostituito da una pluralità di curatori. In poche ore, quindi, viene creata una pagina su Wikipedia a cui prende parte un primo gruppo di collaboratori – fra cui Paola Antonelli, Alex Haw, John Habraken, Nicholas Negroponte, Hans Ulrich Obrist e Mark Shepard – e dopo una settimana Domus «fissa» nel suo editoriale il risultato momentaneo di questa specie di scrittura condivisa. Da qui, nel giro di due anni, prima con Joseph Grima e Tamar Shafrir, poi con il solo Matthew

Claudel, Ratti inizia ad arricchire le idee contenute nel testo e a stendere lo schema di una pubblicazione più ampia, per affrontare il tema con più agio. L’idea è comunque la stessa, anche se inserita in una cornice disciplinare più articolata e in una struttura narrativa più discorsiva. Quella, cioè, di descrivere un paradigma emergente per la progettazione ambientale che, prendendo spunto dai modelli partecipativi nati sulla rete, sia in grado di restituire all’architettura la sua rilevanza sociale. Secondo l’autore, infatti, in gioco c’è una marcata asimmetria: le persone conoscono i propri bisogni e i propri desideri, eppure l’architettura finisce con il guardarsi l’ombelico; si allontana sempre di più dalla possibilità di dare un contributo sostanziale alle comunità che, in teoria, dovrebbe servire. […] Oggi le persone sono più lontane che mai dal percorso progettuale e modelli nuovi di approccio collaborativo open source potrebbero sortire effetti interessanti. […] Il quesito più urgente riguarda il reindirizzamento della pratica architettonica verso le persone, e la risposta sarà quella di mettere l’architettura nelle mani di quelle stesse persone (pp. 111-113). Non è, però, un tradizionale concetto di partecipazione quello a cui Ratti si riferisce; lo stesso a cui, d’altra parte, dedica due efficaci capitoli per metterne in luce le aspirazioni e i limiti. È, invece, un ideale di creazione condivisa che ha in mente, qualcosa di impensabile prima del pieno sviluppo del web. Ratti, infatti, descrive la nascita dei software open source e

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dei fenomeni di crowdsourcing, per tratteggiare una specie di intelligenza diffusa e ramificata capace di sfidare ogni logica di mercato. L’esempio migliore è quello di Linux, un sistema operativo basato su un codice sorgente aperto a tutti e pensato per essere liberamente utilizzato, modificato e implementato. Ma lo stesso discorso vale anche per Wikipedia, così come per ogni altra opera collettiva in rete, basata su una sorta di «economia della reputazione». L’idea di fondo è che la spinta formidabile che le dinamiche di interazione umana hanno subito grazie ai nuovi mezzi di connessione basati su Internet possa finalmente arrivare a toccare la produzione del mondo fisico. Da qui, il passo verso l’hardware è breve. Attraverso i Fab Lab, Arduino, le stampanti 3d e tutti gli altri mezzi pensati per dare voce a chi vuole esprimersi con la tecnologia, Ratti descrive un’emergente cultura hacker e maker che non può più esimersi dal pensare alla propria architettura. In tutto il mondo [infatti] c’è gente che si unisce per cocreare all’interno di un ecosistema di fabbricazione open source in continua espansione. L’idea di demolire la tradizionale distinzione tra progettista e utente sembra farsi definitivamente realtà nell’architettura open source. Perché non agire come un hacker sulla propria casa? Dov’è il centro commerciale open source? […] Le nostre vite quotidiane sono plasmate da questi spazi… che cosa cambierebbe se assumessimo un ruolo attivo e fossimo noi a modificarli? (pp. 96-97). I mez-

zi, d’altra parte, sembrano ormai essere a disposizione. E non solo per condividere le competenze, ma anche per modificare i progetti in tempo reale, per trovare fonti di finanziamento alternative, per sperimentare nuovi mezzi costruttivi. Resta un’unica cosa da fare; e resta agli architetti farla. Bisogna, cioè, secondo Ratti, che gli architetti si riconoscano in una nuova specie di ruolo di tipo «curatoriale», vicino a quello di un intermediario o di un programmatore; una figura plurale che chiama «architetto corale» (p. 118). Il suo compito non sarebbe più quello di predisporre un progetto definito e concluso, ma quello di strutturarne il processo, generando l’impulso collaborativo, per poi indirizzarlo e coordinarlo. Gli architetti, cioè, dovrebbero pensare a orchestrare interazioni più che a creare oggetti, a mettere a disposizione eventi più che spazi. Il contenuto, invece, scaturirebbe naturalmente dalla collaborazione dei suoi utenti/ progettisti, in forme caratterizzate da una chiara dominanza del codice sulla materia, dei sistemi relazionali sulla composizione architettonica, dei network sulle griglie strutturali, della capacità di adattarsi sulla statica, della vita stessa rispetto alla pianificazione (p. 138). Questo, certo, implicherebbe l’uso di quei nuovi sistemi di condivisione e scambio permessi dalla rete. Ma prima di tutto richiederebbe un cambiamento di natura essenzialmente culturale; l’abbandono, cioè, dello statuto autoriale proprio dell’architetto moderno. È proprio qui, però, in que­ st’atto di ribellione contro quel­


l’architetto «demiurgo» che tiene insieme i padri del Movimento Moderno e le nostre archistar, che il libro mostra il suo maggior limite, almeno dal punto di vista argomentativo. Ratti, infatti, parte dalla sostanziale irrilevanza quantitativa della produzione architettonica nel settore dell’industria edilizia globale, ma dà per scontato che la ragione di questo dato di fatto sia la mancanza di partecipazione attiva da parte degli utenti e che tutto sia dovuto a un preciso atteggiamento culturale degli architetti che pensano ancora di poter dare forma al mondo con un unico gesto progettuale. Come se le forze di mercato e i rapporti di produzione non contassero nulla davanti al narcisismo o alla miopia degli architetti; come se bastasse solamente la loro forza di volontà per cambiare le cose. È qui che i conti non tornano in maniera così limpida come l’autore vorrebbe. Perché, certo, la tesi è chiara, ma mano a mano che il racconto se ne allontana, le ipotesi sembrano sempre più deboli nella loro consequenzialità. E se il libro, come lo era stato l’editoriale, è ancora straordinariamente efficace nel­ l’intercettare quel senso di frustrazione che la rete fa nascere davanti a ogni forma di intermediazione, non riesce mai, però, a diventare teoria. In altre parole, ci dice come l’architettura potrebbe essere, ma non ci dice il perché. Probabilmente, il problema principale è che, in effetti, all’idea di architettura che emerge dal testo sembra mancare qualcosa di sostanziale. All’immagine patinata dei blog di design, infatti, Ratti contrappone implicita-

mente una specie di design dei servizi, chiamato a risolvere specifici problemi funzionali con specifiche risposte tecniche. Non resta nulla della possibilità di immaginarsi un mondo in cui sentirsi pienamente rappresentati. Non viene minimamente toccata la dimensione estetica, simbolica e identitaria del problema dell’abitare, pubblico o privato che sia. Non ci sono, cioè, indicatori di direzione di natura culturale diversi da quell’idea di disintermediazione suggerita dalla rete. E allora, ancora una volta, il rischio è quello di subordinare le domande alle risposte; un rischio davvero grande se le risposte, poi, sono determinate da un’evoluzione tecnologica caratterizzata da una rapidissima obsolescenza. Perché se, per esempio, il mercato delle stampanti 3d è già in crisi prima di essere decollato, non è perché lo sviluppo tecnico nel campo non è ancora sufficientemente maturo. È solo perché una stampante 3d è come una macchina da cucire. E se uno, per mille motivi, preferisce comprarsi i vestiti in un negozio piuttosto che farseli da sé, non c’è innovazione tecnologica che tenga. J.L. R. Pasini, Fare e non fare. Arte, cultura, società, Mursia, Milano 2014. Fare e non fare. Già dal titolo, l’ultimo libro di Roberto Pasini dichiara un’attraente tendenza al­ l’ossimoro, o per lo meno un’in­ clinazione a impostare l’analisi su tendenze di segno opposto e apparentemente inconciliabile. I

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concetti di fare e non fare costitui­ scono il nucleo tematico, la linea guida che permette di orientarsi lungo i percorsi in cui si dipana la ricerca, avventurandosi anche in territori privi di espliciti legami con la storia del­ l’arte. L’autore infatti ha compiuto una scelta inedita, deviando rispetto alla strada più usuale del testo storico-artistico tout court, per dare vita a un libro in cui la ricerca scientifica corre parallela a – e, di conseguenza, prevede anche l’incontro con – ambiti eterogenei. D’altra parte, il lettore viene messo immediatamente sull’avviso: il carattere poliedrico del testo è messo in chiaro a partire dal sottotitolo (Arte, cultura, società), proseguendo con un’ammissione dell’autore stesso, che scopre subito le carte: si tratta di un libro sull’arte contemporanea, quindi non si può perdere di vista il filo conduttore di tipo scientifico in senso storico-artistico che ne costituisce la struttura. Tuttavia, proprio il titolo induce a riflettere in tal senso. È un libro sull’arte ma affronta un tema che sembra prescindere dall’arte stessa. Mica facile capire subito di che cosa si vuole argomentare (p. 12). In effetti la complessità del discorso affrontato deriva dalla matrice che lo innerva, l’idea di libertà: questa entra in gioco non soltanto a livello tematico, come auspicata liberazione da un fare egotico e acefalo, ma anche sul piano metodologico, incarnandosi nella pratica di un’analisi che si svincola da claustrofobiche strettoie disciplinari e insegue riferimenti e accostamenti inediti nella loro veste di originalità. Cinema, letteratura, teatro, filosofia, discipli-

ne orientali; e ancora, maschile e femminile, liberazione dall’Io e ricerca del Sé, progetto e realizzazione, funzioni optica e aptica, perdita e acquisto, Logos e Pragma, in un processo di scavo entro il solco sociale, umano, culturale: sono solo alcune delle sfaccettature in cui si articola la prima parte dello studio, che riconduce, nella seconda parte, nei ranghi della storia dell’arte, considerando alcune ricerche artistiche della contemporaneità sulla base del loro movimento tra i poli opposti e complementari del fare e del non fare. La domanda, più che lecita, è, a questo punto, quale sia il trait d’union tra tanti e così multiformi ambiti. La risposta la fornisce l’autore: il filo rosso che collega armonicamente i vari campi illuminati dalla ricerca, evitando così una fastidiosa frammentazione, è lo yoga. Affermazione che può risultare inaspettata, così come è inaspettato l’accostamento tra lo yoga e le ricerche artistiche considerate nell’ultimo capitolo. Duchamp, Manzoni, Klein, Gil­ bert&George che cosa hanno a che fare con la pratica e la filosofia yogica? Il titolo del libro fornisce una prima, fondamentale risposta, riconducibile all’ambito del fare e, soprattutto, del non fare, matrice che conia in senso privativo le ricerche trattate, tese a svuotare l’opera della componente materiale, manuale, pratica: nel poiein di questi artisti il fare e l’essere tendono a coincidere, in forme varie e differenziate a seconda di chi li esprime, ma con una analoga tendenza a diminuire l’incidenza del fare fino a portarlo al grado zero dell’essere (p. 20).


L’autore ci accompagna nel­ l’a­ nalisi dei due ambiti, esplorando il fare e il non fare nelle loro numerose sfaccettature di applicazione – e di non applicazione –. Così, in prima battuta la riflessione illumina il concetto di fare nella sua valenza etimologica, antropologica, eziologica, chi­rologica, teleologica e logica (altrettanti titoli dei paragrafi del capitolo iniziale): qual è la natura del fare? Quali le sue tipologie? Perché si fa? Con quale scopo? Questi alcuni degli interrogativi che si dipanano nel corso del primo capitolo, fornendo l’occasione per una serie di interessanti considerazioni che investono il fare nella sua forma biologica, erotica, lavorativa, sociale, psicologica, creativa. Il secondo capitolo è dedicato al non fare, “territorio” in cui con­ fluiscono figure provenienti da campi eterogenei: Oblomov incontra idealmente Bartleby ed entrambi stringono la mano a Chance Giardiniere, con il Tao e Lao-Tzu a fare da basso continuo, in un caleidoscopio di riferimenti all’applicazione a vari livelli del non fare. Sfatiamo alcuni idola che si reggono sulla logica occidentale dell’horror vacui, dice Pasini, e cambiamo la prospettiva: il non fare, che in Occidente si colloca sulla sponda della non realizzazione, colorandosi di inettitudine e sfociando nel fallimento, può essere rovesciato in un’azione di segno positivo; come dire che sì, si tratta di un vuoto, che però non va per forza colmato, ma accettato come plaga di infinite potenzialità, le quali, se si incarnano, diventano res mondane e perdono quindi la loro natura essenziale; il fare-arte

non sfugge a questa logica, essendo una delle tante vesti del fare: traducendosi in un poiein la scintilla creativa affonda nella notte delle cose: venendo al mondo, perisce (p. 189). Entriamo così nel cuore della trattazione più strettamente storico-artistica, contenuta nel terzo e nel quarto capitolo, rispettivamente Fare-arte e Non-fare arte. Fare-arte dunque come fare, anche se si tratta di un fare atipico, svincolato dal telos e dall’utilità, in un conflitto tra pratica ed estetica, dove la seconda ha la meglio sulla prima. Viene quindi analizzata quest’altra facies del­ l’universo fattuale, nella causa che la muove, nel suo (inutile) scopo, nella ricezione finale, partendo dall’input di una definizione tautologica – Fare-arte è tutto ciò che non è fare altro (p. 180) –, la migliore delle definizioni possibili, l’unica che non corre il pericolo di essere modificata dal metabolismo culturale. L’autore ci porta all’interno dei territori della storia dell’arte, ponendoci e ponendosi una serie di questioni relative al fare-arte, techne posta al servizio del pensiero, con rapporto oscillante tra i poli della sfera pratica e di quella mentale, della gioia (o dolore) del fare e di quella (o quello) del pensare, dell’istinto processuale e dell’affilatura progettuale. Arriviamo così all’ultimo capitolo, Non-fare arte: quel trattino tra il “non” e il “fare” complica la questione, facendosi discrimine che differenzia il non-fare arte dal non fare arte, cioè il non fare di chi si muove nell’esistenza facendo le tante cose che lo stream dei giorni porta con sé, ma non fa arte. Diverso il caso

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dell’artista che sceglie di non-fare arte, riducendo ai minimi termini il manuale (il gesto pratico) e il visivo (l’opera finale tradizionalmente intesa), e compie così una non-azione (di fatto, un’azione) che rientra a pieno merito nell’ambito artistico: non-fare arte significa quindi farla, in real­tà. Solo che si tratta di un nuovo tipo di arte, del tutto inintelligibile se ci si ancora ai metodi di lettura tradizionali […] Siamo su un piano diverso, che non esclude l’arte, piuttosto la ribattezza nelle forme di un’avventura altra, scevra di credenziali tradizionali, semplicemente assisa su un filo (p. 277). Questa la tesi proposta da Pasini, il quale, per sostenerla, individua una linea artistica che, affondando le radici negli albori della contemporaneità (il non-finito di Cézanne è il “cavallo di Troia” che permette al non-fare di entrare nell’arte contemporanea), arriva al secondo ’900, con gli alfieri del non-fare arte. L’analisi svolta muove da una visuale del tutto irrituale, dal momento che la storia dell’arte ha sempre percorso i binari del fare: un artista è tale perché fa, ovvero plasma la materia, si sporca (chi più, chi meno) le mani, dà forma a un’opera. In effetti, però, argomenta l’autore, anche i nostri non facendo fanno: nella loro opera il fare prende un segno negativo o, per meglio dire, rovesciando i termini della questione, il non fare assume segno più, diventa non-fare e così si riempie di potenzialità innervate dal flatus artistico. A partire da Duchamp, che intende non-fare opere d’arte e appone la sua firma sui ready made

con attitudine demiurgica, passando per Manzoni che, essendo artista, realizza arte semplicemente quando emette fiato o – rivolgendosi a sfere meno eteree – produce escrementi, e per Klein, il quale, aderendo alla logica orientale, non vuole fare l’artista ma essere artista e svuota la sede espositiva di opere per riempirla di energia immateriale, arrivando a Gilbert&George che praticano il più assoluto non-fare nulla, esponendo semplicemente i loro corpi apatici e afasici: si disegna una linea che conduce nel cuore della più audace sperimentazione artistica del ’900 e colpisce la tradizione – mai disattesa, nemmeno dalle Avanguardie più spericolate – del fare, dirigendosi con disinvoltura verso le regioni libertarie del non-fare. S. P. Mostra Cucine & Ultracorpi, a cura di Germano Celant, allestimento Italo Rota, VIII edizione del Museo del Design, Triennale di Milano, dal 9 aprile 2015 al 21 febbraio 2016. Nei mesi della manifestazione Esposizione universale a Milano, l’edificio della Triennale ha avuto il ruolo di Padiglione di Expo in città, l’unico caso di esposizione di arti applicate. Se la mostra Arts & Foods, sempre a cura di Germano Celant con l’allestimento di Italo Rota, dispiegata in tutto l’edificio di Giovanni Muzio, si presenta come un’esperienza «bulimica», Cucine & Ultracorpi ovvero la VIII edizione del Museo del Design è estremamente dettagliata, delineata e


chiara e il suo allestimento è uno dei momenti più alti e stimolanti legati all’Expo che ha coinvolto la città di Milano negli ultimi sei mesi. Il percorso espositivo, che prende ispirazione dal libro L’invasione degli ultracorpi (1955) di Jack Finney e dall’omonimo film (1956) di Don Siegel, si concentra sul rapporto tra l’uomo e gli elettrodomestici, nello specifico quelli che riguardano l’ambito alimentare e culinario. Grazie all’introduzione di piccole invenzioni dovute allo sviluppo della rivoluzione industriale, le principali operazioni casalinghe – dal lavaggio delle stoviglie e dei panni, dalla stiratura e pulitura di elementi di arredo sino alla conservazione e preparazione degli alimenti – hanno modificato nel profondo la vita degli uomini e soprattutto delle donne. La mostra cerca di tracciare «l’evoluzione in Italia dei cospiratori», dalle prime emergenze fino ai giorni nostri. È noto che, in questo ambito di ricerca, all’architettura, era stata affidata una duplice funzione: da una parte, lo studio dell’organizzazione tayloristica degli spazi (soprattutto attraverso l’opera dei maestri tedeschi Bruno Taut, Alexander Klein, Margarete Schutte-Lihotzky, fatta conoscere in Italia da Enrico Griffini, prima attraverso le pagine di «La casa bella», successivamente nel volume del 1931 Costruzione razionale della casa); dall’altra, l’inserimento dei nuovi meccanismi all’interno dell’arredo per migliorare l’accoglienza degli spazi e regalare tempo alla donna di casa. Proprio riguardo a questo aspetto è stata fondamentale nel­

l’ambito della V Triennale di Milano la Casa Elettrica del Gruppo Sette con Piero Bottoni, anche se non va dimenticato che già nel 1929 la Edison aveva incaricato Luigi Figini e Gino Pollini di rea­ lizzare l’Appartamento elettrico (Esposizione dell’Alto Adige, Bolzano), dove comparivano numerosi elettrodomestici della stessa azienda. In questo progetto troviamo elementi comuni alla mostra monzese: utilizzando arredi di serie Pollini configurava l’ipotesi di uno spazio abitativo in cui, come metafisici manichini moderni, elettrodomestici e utensili figuravano silenziosi protagonisti dello spazio: una messa in scena degli effetti della elettrificazione sulla vita di tutti i giorni a dimostrazione di quello stretto legame che, nell’ideologia dell’esprit nouveau, delle avanguardie europee, di fatto avvolgeva estetica e razionalità, cultura materiale e forme della visione (F. Irace in V. Gregotti, G. Marzani, Luigi Figini Gino Pollini: Opera Completa, Milano 1996, p. 33). Si può dire che la mostra Cucine & Ultracorpi parta da qui: gli elettrodomestici aumentano in maniera esponenziale di numero e acquistano competenze più raffinate; non si limitano ad affiancarci nella vita quotidiana, ma iniziano a sostituirci e, a mano a mano, a occupare il nostro spazio vitale. Si comportano quindi da occupanti, da invasori. Il loro aspetto può vagamente in alcuni casi ricordare parti del corpo umano, ma spesso ne mostra una trasformazione decisamente inquietante. Non più solo macchine né protesi del nostro corpo, ma veri e propri «ultracorpi».

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Uno tra gli aspetti più positivi riguarda la precisione della scelta del tema e la chiarezza con cui la mostra si è sviluppata coerentemente con questo: il percorso si apre con un inquietante cartello (la grafica è a cura di Irma Boom) che, attraverso i dati della NFPA (The National Fire Protection Association) preannuncia la pericolosità di quello che in genere è considerato l’ambiente domestico più familiare e accogliente della casa: la cucina. Partendo da tale premessa, il tragitto si snoda narrativo e coinvolgente e lo spettatore si trova coinvolto in un percorso curiosamente ancestrale, in cui la colonizzazione del nostro mondo da parte degli elettrodomestici viene ricondotta alla trasformazione de­ gli stessi elementi primigeni: acqua, aria fuoco e terra. E tutto risulta amplificato ed enfatizzato da tratti anch’essi fondanti del­ l’esperienza umana, i sensi del­ l’u­dito, l’olfatto, il tatto. La Futuro House, visionaria unità abitativa prefabbricata progettata da Matti Suuronen nel 1968, è per esempio una navicella aliena dietro la quale un esercito di frigoriferi ci osserva (dalle ante socchiuse degli elettrodomestici una luce abbagliante osserva il visitatore e lo porta immediatamente in uno stato di soggezione e reverenza). Poco distante, un allarmante cartello espone gli inquietanti dati sul livello di mortalità dell’ambiente domestico. Segue un corridoio lampeggiante nel quale i rumorosi allarmi aumentano la sensazione di pericolo, precarietà e paura. Si giunge quindi alla sala dedicata al freddo per la conservazione degli alimenti dove lo spazio è

dominato da un immenso re dal mantello di ghiaccio, che silenzioso osserva il nostro passaggio mentre controlla i suoi sudditi (i frigoriferi) diversi per età, forma e dimensioni. Questi spaziano da prototipi di ultima generazione, come il frigorifero-lavagna Chalk Chalk di Antonio Villas per Ardo, a elementi che hanno segnato momenti storici della nostra nazione, come il Milione di Ignis (1962) così chiamato in onore dei sei zeri raggiunti dalla casa di produzione in un momento di grande sviluppo economico, quando in tutte le case iniziavano a comparire gli elettrodomestici. Dal freddo al caldo, un esercito di blocchi cottura invade lo spazio sia in orizzontale che in verticale, quasi come una compatta e battagliera falange pronta all’attacco. All’elemento terra è abbinato il tema del compostaggio, argomento sempre più drammaticamente attuale e forse unico messaggio di speranza per il futuro del pianeta. Ma l’atmosfera si presenta nuovamente inquietante in quanto dominata da una congerie di rumori di ogni tipo che ricordano le serenate per intonarumori del futurista Luigi Russolo. Infatti eccoci immersi in una grande esposizione di piccoli e medi aggeggi meccanici: frullatori, tostapane, bollitori emergono da una sorta di teatro delle ombre: con i loro corpi e, ancora di più, con le immagini riflesse sui muri suggeriscono terrore e angoscia. L’aria viene messa in scena attraverso l’esposizione di numerosi e diversi aspiratori e cappe tra cui emerge la figura colorata e insolita progettata da Gaetano


Pesce per l’azienda Elica. Tale elemento tecnologico attraverso il suo rivestimento costituito da frutti, ortaggi e legumi ci appare, secondo le parole dello stesso artista, come un magico cappello di umori odorosi, di un passato freschissimo di memorie. All’aroma prodotto da cento macchine da caffè che hanno invaso una grande libreria, è affidato invece il richiamo all’olfatto. Il percorso si conclude con il grande spazio allestito da Pesce: La cucina. Luogo di passione. Questo ambiente con i suoi odori, profumi e colori è, secondo la descrizione che ne fa l’autore, un lungo centro di attività, di passione nel creare e inventare ricette, sperimentare, luogo di ritrovo, per ricevere, per sedurre, per amare e farsi amare, per esibire, per intimidire, per provocare, per intimorire, ma un senso di spaesamento colpisce il visitatore divenuto troppo piccolo, un elemento alieno. Alla mostra così inquietantemente giocosa si unisce un catalogo serissimo, nel quale i temi esposti vengono raccontati, ana-

lizzati attraverso saggi di diversi studiosi. A un’analisi storica, sociale, filmica e televisiva dell’epos degli elettrodomestici, che ha condotto al loro insediamento nei luoghi delle nostre vite quotidiane fa così da contrappunto un dizionario, una rigorosa analisi storica e scientifica. La lettura e la visita alla mostra costituiscono una felice «narrazione emozionale», che ha come obiettivo non solo quello di spingere il visitatore a fare ciò che di solito non fa (non facciamo…) nella vita: interrogarsi sul rapporto che ha (e che tutti noi abbiamo…) con gli oggetti tecnologici che abitualmente usiamo in cucina e che sono legati alle funzioni della nutrizione (S. Annicchiarico, cat. mostra, p. 6), ma soprattutto a riflettere su come il modificarsi di questi arredi non si limiti a «sconvolgimenti dello schema spaziofunzionale tradizionale», ma sia un «rinnovamento introdotto nella forma mentis» della società contemporanea (A. Dell’Acqua Bellativis, cat. mostra, p. 10). M. C.

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Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 35.  Attualità dell’iconologia: alcune questioni metodologiche - R. Barilli, Difficoltà di un approccio semiotico alla culturologia - L’editoria architettonica - Libri, riviste e mostre N. 36.  I centri storici nella prospettiva semiologica - Le idee di teatro, oggi - Una riproposta del «multiplo» - Libri, riviste e mostre N. 37.  Dialettica del «piacere» e identità dell’architettura - Assenza-presenza: due modelli per l’architettura - La «storia dell’arte» nelle scuole - Libri, riviste e mostre N. 38.  Le ricerche di architettura più attuali ed insolite - Dalla fotografia al videotape - Analisi di un corso di laurea: il Dams - Libri, riviste e mostre N. 39.  La sociologia del gusto di Jean Baudrillard - Le posizioni di […] su alcuni temi della critica architettonica in Italia - Libri, riviste e mostre N. 40.  «Aforismi» sui centri storici - Note sulla simmetria in architettura Bataille e la “svolta” di «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 41.  Dipartimento e «architettura» - La «rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica - La critica d’arte in «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 42.  L’idea di pittura in Lévi-Strauss - Sul concetto di gusto - Alcuni contributi alla critica dell’inconscio - Libri, riviste e mostre N. 43.  La post-avanguardia - Luoghi e luoghi comuni della recente critica d’arte - Narciso e «l’altro»: note sul dibattito architettonico - Libri, riviste e mostre N. 44.  Architettura: la «rimozione del nuovo» - Ipotesi per il segno iconico - Storia dell’arte, storia delle cose - Libri, riviste e mostre N. 45.  Topologia e architettura - La casa: norma e «deroga» - Artisti e cinema - Libri, riviste e mostre

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N. 46.  I quindici anni della nostra rivista - L’Architettura all’Ecole des Beaux-Arts - La Storia dell’arte Einaudi - Una griglia che non sia una grata


N. 47.  Architetto e ingegnere - Le scuole di critica d’arte in Italia - L’immaginario nella cultura di massa - Libri, riviste e mostre N. 48.  Prima e dopo il Post-Modernism - L’iconizzazione del mobile - Civiltà del ’700 a Napoli - Libri, riviste e mostre N. 49.  Il restauro architettonico: ricchi apparati e povere idee - F. Menna, La Biennale di Venezia. Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti - Critica d’arte e processi produttivi - Libri, riviste e mostre N. 50.  Fortuna critica della «Tendenza» - R. Bonelli, Storiografia e restauro - La fotografia: indice o icona? - Libri, riviste e mostre N. 51.  Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, riviste e mostre N. 52.  L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre N. 53.  Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54. Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55.  Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56.  Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57.  Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58.  E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59.  Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60.  Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61. Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62.  Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del

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successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63.  Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64.  Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65.  Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre N. 66.  Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre N. 67.  Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre N. 68.  Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69.  Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70.  Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71.  Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72.  Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73.  Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74.  Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75.  Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76.  I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre

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N. 77.  Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre


N. 78.  L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79.  Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80.  Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81.  Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82.  Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre N. 83.  Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre N. 84.  Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85.  Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86.  Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87.  Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88.  L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89.  Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90.  L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91.  «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92.  Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93.  La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre

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N. 94.  Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95.  Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96.  Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97.  Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98.  Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99.  Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre N. 100.  Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101.  Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102.  Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103.  Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104.  La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105.  L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106.  Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107.  Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108.  Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre

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N. 109.  Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre


N. 110.  Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111.  Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112.  Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113.  Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114.  L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115.  L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116.  Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117.  Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118.  Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119.  L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121.  La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122.  L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123.  Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­ l’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 125.  Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126.  L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127.  Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128.  Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129.  Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131.  Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132.  Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133.  Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134.  Abitare la razionalità - Per una nuova clas­si­ficazione delle arti - Il design ae­ro­nautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135.  Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 137.  Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI


N. 138.  Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­ l’ADI N. 139.  Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti

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in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI N. 152. Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre N. 153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazione Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre N. 154. Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione - Ancora sul rapporto tra arte e pubblico - Design: scenari morfologici della contemporaneità - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998

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«Grafica Elettronica» - Via Bernardo Cavallino, 35/g - 80128 Napoli


Le pagine dell’ADI Associazione per il disegno industriale Campania a cura di Salvatore Cozzolino

Opinioni L’anno che si è chiuso induce a qualche riflessione orientata almeno al tempo variabile, dopo il clima pesante degli anni scorsi, sia per la dimensione nazionale dell’andamento produttivo, sia per la vivacità che si riscontra in genere nella periferia del design e particolarmente in Campania. L’ottima performance della Campania al Compasso d’Oro International Award con il primo premio assegnato alla pasta “Canna di Fucile” del Pastificio F.lli Setaro, disegnata da Michele Cuomo, ne rappresenta il sigillo migliore che premia una storia di tecnologie industriali e di raffinate intenzioni progettuali. La cultura del progetto eccentrica rispetto all’area milanese, manda segnali interessanti riscontrabili in diverse occasioni. Le nuove presidenze delle Delegazioni ADI della Puglia-Basilicata e dell’Umbria, ma anche del Lazio e delle Marche, per non dire della Sicilia, sembrano interpretare con dinamismo il ruolo nelle regioni degli iscritti e di quelle sedi che rappresentano autentici presìdi per promuovere il prodotto bello, pulito e giusto, ma contemporaneamente collegato alle capacità del territorio e aperto alle sperimentazioni e ai mercati di tutto il mondo. Inoltre nel recente volume “ADI Design Index 2015” si riscontra la prova di questa atmosfera con la presenza di decine di prodotti interpreti delle manifatture autoctone dentro una visione universale del design. Tra le iniziative più significanti per contenuti e ricerca tecnica e formale, già consapevoli di misurarsi con contesti internazionali emergono alcuni lavori di indubbio valore. Il progetto “Ceramica Made in Umbria” di Elisabetta Furin che ha visto 21 aziende sperimentare le abilità tradizionali con i nuovi riti della tavola e del convivio, è un esempio riuscito nel saper coniugare le peculiarità delle capacità produttive con i target più estesi e le usabilità più contemporanee. Un evento peraltro ben riassunto nel catalogo che ne evidenzia l’innovatività delle proposte e la solida radice regionale. Per la Campania la selezione Index 2015 al sistema di giunzioni elettriche sicuro, reversibile e straordinariamente “fast”, della “Serie 68” di Etelec Italia spa, su disegno di Michele Perchiazzi, rappresenta il riconoscimento di un primato manifatturiero storico oggi appannato, ma ancora robusto nell’al-


ta tecnologia industriale diffusa nel settore aerospaziale, come nella piccola industria ai margini dell’automotive e della chimica applicata. Monitillo Marmi, sfruttando la tradizione lapidea pugliese, realizza un amplificatore passivo per smartphone, efficace ancorché privo di ogni componente elettronico, su disegno di Andrea Maldifassi e May Day design, mentre, nella vicina Calabria, Gianluca Seta e Salvatore Leo raccontano la stupefacente storia imprenditoriale del Lanificio Leo, in un BrandBook che coniuga processo produttivo e risultati materici e formali molto originali. La Sicilia di domani si annuncia con le piastrelle di polvere di marmo, ricamate come centrini artigianali, prodotte da MIND su disegno di Peppino Lopez e con I-Design di Daniela Brignone per Nike, un format non originale per la promozione del design locale con un concentrato di eventi, questa volta però declinato proponendo l’uomo come soggetto centrale del design: fruitore, produttore e progettista. Il segnale diverso sta proprio nella visione Human Design di questi lavori, un modello originale di pensiero frutto di una cultura del progetto orientata verso significati sociali e non solo di sostenibilità ambientale della produzione. In ogni caso progetti essenziali collegati alla persona, ma anche il ripensamento attorno a tipologie della tradizione. Prodotti innovativi e tecnologie d’avanguardia tese al recupero di antiche lavorazioni, magari mediante la rilettura in chiave contemporanea di sottilissime manifatture, fino ai programmi strategici di tutela del tessuto produttivo attraverso progetti responsabili, caratterizzati però, da tecniche accurate e da abilità senza tempo difficilmente riproducibili, un buon argine alla concorrenza asiatica per le produzioni italiane. In questo quadro figurano anche altri prodotti di design per il cibo che sono stati scelti tra i “selezionati” per il Compasso d’Oro Internazionale come i performanti banchi frigo della IFI (Marche), le Porcellane di Salvatore Spataro dalla Sicilia, la VillegePump per estrarre acqua pulita nei villaggi rurali privi di acquedotti, il piatto per la pizza “Convesso” prodotto da Fabbrica delle Arti di Giusi Laurino e, ancora per la Campania, la Capresella del Caseificio Starace messo a punto da FA&D Studio Lab. Per ragionare ancora su un differente orizzonte per il design prossimo venturo vale la pena di riflettere, infine, su due contributi del volume Index 2015. Il primo è di Vittorio Sun Qun che promuove progetti e cibi responsabili con lo Slow Food Beijing Festival e la Beijing Design Week. Il secondo è di Roberto Marcatti che, mira a “formare una generazione di designers capace di progettare in armonia con la società e l’ambiente”. Salvatore Cozzolino ADI Campania


Food Design Il Food Design di questi tempi è dappertutto e viene il sospetto che ci sia un po’ di confusione nella definizione che se ne dà e nella percezione che ne danno i mezzi di comunicazione di massa. Per molti è Food Design l’abilità creativa di uno chef nell’impiattamento di un specialità culinaria. Per altri è sufficiente che il binomio cibo-creatività dia luogo ad un qualsiasi prodotto, ad un quadro realizzato con il sugo di pomodoro, ad un capo di abbigliamento in cui le mandorle siano usate al posto dei bottoni, alla riproduzione fotografica di figure umane realizzate con frutta e ortaggi. Nel campo del design abbiamo poi lampadari realizzati con caschi di finte banane, divani a forma di tavoletta di cioccolato, cioccolato a forma di confezione di medicinali… Potrebbero avere tutti ragione ma a noi piace pensare che per Food Design si intenda qualcosa di affine alla modalità progettuale del Design dedicata al concepimento di un manufatto alimentare, alla sua comunicazione, ai modi e ai luoghi del suo consumo. Detto questo c’è da chiedersi per quale motivo il design applicato alla filiera di produzione e consumo del cibo debba avere una sua precisa catalogazione e non possa essere semplicemente annoverato come uno dei tanti settori della progettazione. L’uomo è ciò che mangia, diceva Feuerbach, e forse questa coincidenza tra essere e mangiare potrà sembrare un po’ eccessiva, ma è innegabile il fatto che, se siamo, è perché mangiamo. Del resto non si può pensare con la pancia vuota, recita un detto, e Aristotele stesso ci ricorda che la stessa filosofia (o il pensiero, l’astrazione) nasce quando l’uomo ha risolto i suoi bisogni primari. Motivazioni difficilmente confutabili e sufficienti per intuire come l’argomento sia assolutamente unico e in un certo senso privilegiato per la sua funzione legata alle necessità vitali della specie. La cultura del Design e la sua storicizzazione ci hanno abituato ad avere dei parametri di giudizio e di comprensione del progetto legati a canoni funzionali ed estetici. È per questo che se mi trovo di fronte la Chaise Longue di Le Corbusier o la lampada Tizio di Richard Sapper non ho dubbi che i parametri di giudizio con cui le catalogherò sono universalmente riconosciuti perché passano attraverso canoni ormai acclarati. In più mi trovo a giudicare oggetti che sono ‘altro da me’ cioè che vivono prima durante e dopo il nostro incontro, immutati. Perché il cibo è diverso Il cibo non sempre è bello, almeno quello cucinato, si pensi a una zuppa di fagioli, a un polpettone, a una bistecca al sangue.


Ma è lo stesso anche se pensiamo a cibi industriali: prodotti in cui l’appeal è un ingrediente indispensabile. La Nutella è forse bella? Ma neanche una più genuina marmellata può avvalersi di tale appellativo. Inoltre. Ho di fronte un progetto di cui il cibo è parte fondante. Fino a che io debba solo giudicarlo od osservarlo nulla di strano ma, nel momento in cui dovessi usufruirne, c’è qualcosa di anomalo che accade. Il cibo non sarà più “altro da me” e quindi immutabile parte di un progetto, ma sarà, all’opposto, dentro di me. In un attimo si stravolgono due assiomi dell’interazione fra persone e oggetti: l’oggetto che avevo di fronte non esiste più o quantomeno esiste in maniera menomata, trasfigurata. Inoltre lo stesso oggetto è nel mio corpo e da quel momento in poi modifica la mia essenza e influisce nel mio parametro di giudizio e nella mia vita. Dunque può accadere che il progetto tradizionale si volatilizzi letteralmente, venga mangiato faccia parte di noi in un modo che non sia replicabile con nessun’altra esperienza, nessuno mangerebbe mai una sedia. Nuovi parametri La considerazione facile da fare è che per parlare di Food Design bisogna fissare concetti nuovi, regole innovative rispetto a quelle storicizzate fino ad oggi dal Design. Meno facile individuare i nuovi parametri che potrebbero far capire meglio come affrontare un progetto di Food Design. La metodologia tipica del Design è in grado di proporre in maniera innovativa tutto ciò che ruota intorno al cibo: alimenti, comunicazione, oggetti e servizi. Ma il segreto è univoco e semplice, si tratta sempre di design dei Sistemi e senza questo tipo di schematizzazione non si riesce ad avere l’elasticità necessaria per giudicare e descrivere l’argomento. Da circa dieci anni esiste un gruppo di lavoro composto da Designer ed esperti di Alimentazione e Comunicazione che cerca di creare dei punti di riferimento attorno alla materia. Si possono individuare in Italia in particolare i prodromi di una nuova teorizzazione che associ in maniera sistematica il Cibo e il Design in due differenti esperienze: – la costruzione di un primo Manifesto del Food Design da parte di Paolo Barichella all’interno dell’ADI nel 2006. – la nascita nel 2007 del primo Master Internazionale di Food Design allo IED di Roma, costruito e gestito da Marco Pietrosante e Francesco Subioli insieme all’inestimabile apporto di Mauro Olivieri. Tutto questo a buon diritto in Italia, e dove altrimenti?


Il connubio fra Food e Design riesce a esprimere la sintesi di due settori di eccellenza italiana universalmente riconosciuta su cui puntare per la valorizzazione del nostro territorio La community cerca un’identità Si inizia a creare una Community composta da Progettisti, Imprenditori, Giornalisti, Professori, che per dieci anni discute e rimette continuamente in gioco i concetti adattandoli in tempo reale al cambiamento imposto dalla quotidianità. Si aggiungono i contributi essenziali di Nerina di Nunzio, ex Gambero Rosso, poi Ilaria Legato, Sara Costantini e Raffaela Scognamiglio. La commissione tematica dell’ADI sul Food Design passa da sette a circa quaranta soci ed è in continua crescita. Sarà questo lo strumento operativo con cui si costruiscono nell’arco dell’anno dedicato a Expo, una serie di iniziative che si pongono come pietre miliari nella storia di questa materia. Il primo appuntamento è a dicembre 2014 al Pirellone di Milano in cui, con un evento sostenuto da importanti istituzioni tra cui il Commissario per Expo, viene pubblicato ufficialmente il Manifesto del Food Design. Uno strumento di riferimento per i progettisti che non vuole assurgere a modello intoccabile ma che suggerisce delle regole per capire meglio come possa essere definito il Food Design. Food Design è la progettazione degli atti alimentari (Food Facts), ovvero l’attività di elaborazione dei processi più efficaci per rendere corretta e gradevole l’azione di esperire una sostanza commestibile in un dato contesto, ambiente o circostanze di consumo. Il Food Design prende in analisi i motivi per i quali compiamo un atto alimentare, per meglio comprendere come progettarlo e soddisfare in maniera adeguata l’esigenza dell’utente. Il Food Design si occupa di prodotti edibili, comunicazione, packaging, servizi e luoghi legati alla vendita e al consumo di cibo. Nei punti che seguono sono elencati alcuni prodotti esistenti per chiarire meglio i concetti. 1) Il Food Design si occupa di progetto in campo alimentare. esempi: Spaghetti, Coca Cola, Bacio Perugina 2) Il Food Design è una specifica area del progetto che si propone di produrre soluzioni efficaci per la fruibilità del cibo in precisi contesti e situazioni. esempi: Insalata Bonduelle Agita e Gusta, Sofficini Mini Findus 3) Il Food Design si propone di dare forma alle interfacce e ai servizi nel modo più adeguato alle circostanze in cui il prodotto viene consumato.


esempi: Lunch Box per Italo Treno, posate in Mater-bi Moscardino 4) La producibilità e la serialità di un prodotto o di un servizio sono le condizioni per le quali un progetto può definirsi di Food Design. esempi: Nutella, Biscotti Mulino Bianco, format Starbucks 5) I principali criteri che un prodotto edibile di Food Design deve soddisfare sono: porzionabilità, modularità e formato adeguati al contesto e agli strumenti con i quali sarà consumato. esempi: Heinz Beck piatti innovativi, Magnum Algida, format Grom 6) Un progetto di Food Design è realizzato per offrire un servizio ad una o più persone che hanno un bisogno o per rendere più efficace un’azione legata al cibo attraverso uno strumento derivato dal progetto. esempi: Illy Caffé confezione, Illy Caffé gadgets, Illy Caffé format di consumo 7) Food Design significa progettare secondo le modalità tipiche del design che vanno ben oltre la ricerca puramente estetica o decorativa. esempi: Tetrapack, distribuzione Coop, format Eataly 8) Il Food Design è uno strumento privilegiato e particolarmente efficace per la riqualificazione e la promozione del territorio attraverso la sua ricchezza enogastronomica. esempi: Sud Tirolo Quality Brand, Presidi Slow Food 9) Un progetto di Food Design può rientrare nella logica del design sociale e della nutrizione no-profit del pianeta e non necessariamente è legato ad una attività commerciale. esempi: Grameen Bank con Danone, Banco Alimentare 10) Un prodotto di Food Design viene studiato con l’unico scopo di generare benefici al suo utente. Tutto il processo deve interagire per impedire che l’utente sia esposto a rischi derivati da cattiva progettazione o dalla non adeguata attenzione alle norme di conservazione, alla tecnologia produttiva, all’ergonomia e alla microbiologia legata agli alimenti. esempi: Marchi di Qualità e Controllo, Piramide alimentare Barilla


ADI per Expo Nell’anno in cui Expo presenta al mondo il tema dell’alimentazione e della nutrizione, l’ADI ha realizzato nella sua futura splendida sede milanese del Museo del Compasso d’Oro, una stazione di posta dei cavalli del 1800, sei mesi di eventi dedicati in gran parte al tema di Expo. Circa una cinquantina le aziende e gli eventi, molti di più coloro che hanno contribuito con il loro lavoro alla buona riuscita del programma. La Conferenza Internazionale A conclusione di un palinsesto intenso e qualificato sono state proposte due iniziative che, insieme al Manifesto, potranno definitivamente inserire il Design Italiano tra i precursori e teorizzatori della nuova disciplina in questione: – il Convegno internazionale European Conference on Understanding Food Design organizzato come una full immersion di tre giorni, con tre location differenti, insieme a relatori provenienti da tutto il mondo e con la partnership della Scuola Politecnica di Milano e del Politecnico di Milano. Sonia Massari e Valentina Auricchio hanno svolto il compito più difficile nella strategia organizzativa. Il Compasso d’Oro Internazionale Il “gioiello” che ha concluso l’anno dedicato è stata la prima edizione del Compasso d’Oro Internazionale il cui tema abbiamo voluto indicare come Design for Food and Nutrition e che ha decretato i vincitori lo scorso 2 dicembre al palazzo della Triennale. Il design come strumento d’innovazione e sviluppo sostenibile – in senso culturale, sociale, ambientale e economico – della produzione alimentare e dei sistemi di comunicazione, di distribuzione e di consumo del cibo. La partecipazione è stata aperta a imprese, designer e studenti di tutto il mondo secondo 8 categorie tematiche: Design for Quality Food Process Design for Food Packaging Design for Food Distribution Visual Communication for Food and Nutrition Design Food Preparation and Instruments Design for Food Consumption and Eating Design for Food and Local Heritage Design for Agriculture, Fishing and Breeding (per aderire www.foodesignmanifesto.org)


Conclusioni Si è parlato di Expo, di Design for Food and Nutrition, di Food design e, per evitare che possano crearsi malintesi sulla diversa natura dei tre temi, vorrei chiarire che ognuno è un sottoinsieme dell’altro. Feeding the Planet di Expo è il “concetto madre”, quello in cui rientra tutto ciò che contribuisce a produrre e realizzare le risorse per sfamare il Pianeta. Il tema del Compasso d’Oro Internazionale rappresenta la vasta area in cui il design può intervenire in questi processi, dalla progettazione di un trattore o di una nuova serra, a quella di nuovi cibi o di nuove pratiche di consumo, ma anche a sistemi per la cucina o a robot per impastare. Il Food Design mi piace pensarlo come un sottoinsieme di quest’ultima categoria e confinarlo, come accennato inizialmente, nello studio e progettazione di oggetti commestibili, nella loro comunicazione per la vendita e nei modi e luoghi innovativi in cui questo possa avvenire. Il Manifesto credo sia esaustivo dell’argomento. In conclusione mi piace pensare che dopo anni di sofferenza innovativa italiana a livello Internazionale possa essere proprio il Food design, con la sua straordinaria capacità di reinventarsi, la nuova proposta che l’Italia offre al mondo del Design. Francesco Subioli ADI Executive Board Member Riflessioni dopo EXPO Una economia fondata sul consumo indiscriminato delle risorse naturali, sui consumi di massa a basso costo, sui prodotti immessi sul mercato a discapito delle risorse, che crea un enorme debito ecologico: consumiamo più beni (compreso l’acqua) di quanto la Terra sia in grado di (ri)generare. Per far crescere l’economia usiamo un terzo in più delle risorse che il nostro pianeta rinnova ogni anno, prendendo la differenza dalle risorse non rinnovabili. Se nel 2030 l’umanità conterà 9 miliardi di persone e se queste consumeranno quanto attualmente consuma oggi un cittadino degli Stati Uniti, avremmo bisogno di altri sei pianeti, pari ad altri 2.000 chilometri cubi di acqua dolce per sfamarci tutti. Una sfida impossibile: la produzione del solo cibo assorbe 7.500 chilometri cubi di acqua dolce, già oggi di difficile reperimento. Non abbiamo un pianeta di scorta e poiché la nostra esistenza dipende proprio dalle sue sorti, dovremmo cominciare a preoccuparcene di più. Per questo molti professionisti, e molte associazioni tra cui “H2O nuovi scenari per la sopravvivenza” da anni è impegnata in una lotta di sensibilizzazione


a più livelli e attraverso la cultura del progetto cerca di salvaguardare e tutelare la risorsa acqua. Non ci sono solo problemi e consumi legati all’agricoltura (vedi gli ultimi sconcertanti dati presenti in EXPO Milano oramai finito, e quasi dimenticato, perché già proiettati al prossimo evento EXPO 2017 ad Astana in Kazakhstan dal 10 giugno 2017 al 10 settembre 2017 e nel 2020 a Dubai negli Emirati Arabi Uniti dal 20 ottobre 2020 al 10 aprile 2012), ma anche consumi e sprechi nella vita quotidiana di tutti noi. In Italia si consumano circa 215 litri di acqua pro capite solo per l’igiene personale. Nel dettaglio: normalmente in Italia un rubinetto eroga 12 litri di acqua al minuto, al contrario le stesse aziende per poter esportare all’estero i loro prodotti devono osservare il limite di erogazione di 4,5 litri al minuto. In più c’è da aggiungere l’acqua che si perde per una cattiva gestione del servizio idrico, pari ad una media nazionale del 35-40% circa. Il riassunto è semplice e chiaro: il 70% viene consumato in agricoltura, il 20 % nell’industria manifatturiera, ed il 10% circa per usi civili domestici. È una esemplificazione scarna, ma che rende bene l’idea dei consumi della risorsa acqua, e dove e come i progettisti e i designers dovrebbero impegnarsi a trovare soluzioni più smart. L’Italia è al primo posto in Europa per il consumo dell’acqua minerale in bottiglia, ed è terza al mondo dietro i Paesi Arabi e il Mexico. Non ci siamo fatti scappare però il primo posto nella produzione di acqua minerale: in Italia esistono più di 280 marchi di acqua minerale in bottiglia. Siamo anche primi in Europa per la produzione di rifiuti di bottiglie in PET e secondo l’Istituto di Ricerca Beverage Marketing Corporation di New York solo nel 2011 ne abbiamo consumati 6 miliardi di pezzi. In alternativa al nostro mondo occidentale viziato dalle comodità, c’è un’altra parte del mondo che non ha acqua, ha pochi servizi e necessita di progetti di collaborazione, di prodotti per il trasporto, di potabilizzazione e di sanificazione dell’acqua. Noi professionisti della cultura del progetto dobbiamo impegnarci a cambiare il modo di progettare e il dato che a tanti fa storcere il naso è che a oggi il rinomato e blasonato DESIGN lavora solamente per il 10% del mondo. È una strada impercorribile e i progettisti obbligatoriamente si devono occupare già nell’immediato di progetti e prodotti, etici e sociali, sicuramente più attuali e significativi dei soliti oggetti esposti all’annuale Salone del Mobile. È ora che le Aziende diano più spazio alla eticità e sostenibilità dei loro cicli produttivi e prodotti, con una responsabilità di impresa e sociale diversa. E nel contempo anche i consumatori devono capire l’importanza di non sprecare le risorse ambientali, di avere maggior rispetto e cura di elementi


fondamentali per la nostra vita come l’aria, la terra e l’acqua che sono alla base della nostra sopravvivenza sin dai tempi remoti. Nei sei mesi di EXPO non si è palesato un programma che lasci il segno. Dopo il grande evento internazionale si dovrebbe ripartire proprio dalla risorsa acqua e dai modi di usarla, con un focus sugli sprechi, su una educazione sociale ed etica che parta in primis dai bambini, i veri consumatori responsabili del domani. Meglio di EXPO ha fatto riflettere sui temi sociali l’enciclica di Papa Francesco, che in modo semplice, comprensibile e per tutti, si sostituisce anche ai Capi di Stato e alle Organizzazioni nate per sensibilizzare il mondo verso azioni etiche e sostenibili, per un vero cambiamento della qualità della vita e per riappropriarsi del tempo per sé, per la famiglia e per la riscoperta dell’ambiente che ci circonda. Roberto Marcatti ADI Puglia-Basilicata Il design “imprevedibile” Qualche giorno fa sono andato, con l’ansia e l’aspettativa tipica del neofita, nella bottega di un “torniante” di Vietri sul Mare, un paese in provincia di Salerno dove la ceramica quasi ti accoglie, venendoti incontro nei tanti segni leggibili nelle strade, nelle mille botteghe e nello stesso arredo urbano. Il torniante è la figura tipica della ceramica, è colui che “tira” le forme al tornio, modellandole con le mani. Dovevo ritirare alcuni prototipi che avevo fatto realizzare per un nuovo progetto. Il forno dove questi erano stati cotti, aveva appena raggiunto la temperatura che ne rendeva possibile l’apertura e i pezzi, deposti su un banco di legno, erano ancora caldissimi. Preso dalla curiosità di saggiarne peso e spessore ne toccai uno. “…non dovete toccarli”, mi disse con tono perentorio l’artigiano, “…mi scusi, ha ragione”, risposi, “sono ancora caldissimi”, “…ma non è per quello”, fu la risposta, “…è per il sudore, il grasso che ha sulle mani, essendo il pezzo ancora caldo, si può depositare sulla parete facendo si che in quel posto la smaltatura potrebbe non risultare perfetta”. L’episodio che ho appena raccontato è occasione per una riflessione. Abbiamo appena realizzato e sta per partire “Future Village”, un progetto con il quale abbiamo l’ambizione di portare una sia pur piccola innovazione nel modo di produrre e vendere il prodotto ceramico. Partendo da una materia “povera” abbiamo infatti cercato di conferirle valori di design, non solo, ma anche di proporla all’attenzione del mercato con metodi e strategie mai prima d’ora applicati a questo comparto. Al progetto hanno lavorato un certo numero di architetti e designers che hanno creduto e voluto misurarsi con questa materia, altri, da varie parti del


mondo, ci lavoreranno. Il sistema, in fondo è semplice: il designer che sceglie di misurarsi con questo materiale, ci invia un suo disegno dal quale, grazie a un computer e una stampante 3D sarà facile realizzare uno stampo che a sua volta servirà a produrre tanti pezzi. Tutti uguali? È proprio qui il nodo, vediamo perché. Nel XIX secolo assistiamo alla nascita della produzione seriale e con essa, tra le altre conseguenze, alla scissione tra processo progettuale e processo realizzativo, a tutto svantaggio di una prassi consolidata che aveva visto affermarsi un linguaggio, in questo senso unificante, legato a conoscenze condivise. Altra conseguenza fu, più avanti, la nascita del “disegno delle cose” avente lo scopo di sposare forma e funzione in modo da ottenere oggetti esteticamente e funzionalmente validi. Lodevole e democratica intenzione che però rapidamente si trasformò nel mezzo per poter assegnare agli oggetti un diverso valore di mercato attraverso l’affermazione di nuovi valori, anche simbolici, che andavano all’epoca, via via affermandosi. E l’artigiano? L’artigiano, e con lui l’artigianato artistico, perde il ruolo di vertice, di avanguardia nella ricerca e nell’innovazione, che si era occupato da sempre dell’intero processo di creazione dell’oggetto, dall’invenzione alla progettazione, dalla sua realizzazione alla promozione. L’artigiano affonda le proprie radici nel contesto, è “genius loci” del proprio tempo, testimone cosciente della realtà che gli si muove intorno. Da qui una progressiva omologazione dei linguaggi e una altrettanto progressiva e inarrestabile dequalificazione dei territori. Dopo l’esperienza del Bauhaus che tentò di superare la distinzione tra arte, artigianato e produzione industriale ricercando nuovi linguaggi, ma che ebbe d’altra parte strettissimi rapporti proprio col mondo artigianale, e superata l’illusione di produrre oggetti come perfetta sintesi tra forma e funzione a discapito di componenti decorative e simboliche, l’artigiano oggi torna a essere figura centrale di molti processi di produzione, anche se va chiarito da subito che quella a cui si fa qui riferimento, è una forma di realismo lontana da una idealizzazione oggi di moda della sua natura, capace di mescolare fantasia e innovazione, magia e razionalità. Un artigiano che, come in passato spesso accadeva, è anche un po’ artista. Oggi però l’artista sembra cercare più la gratificazione dello sguardo, la meraviglia dell’osservatore, che non la profondità, manifestando amore, non per la ricerca, ma per le sensazioni, riducendo l’opera a qualcosa che deve stupire. Sarebbe invece necessario ridare un ruolo alto all’arte, là dove si gioca il dramma di ogni vita, là dove è possibile far partecipe l’osservatore di un rito che si compie e non costringerlo solamente alla passiva visione di un oggetto. Perché la bellezza non ha niente di consolatorio o tranquillizzante, ma è azione, rivoluzione, sacrificio, sofferenza e premio. E impegno. Al contrario oggi gli artisti sembrano essersi fatti portatori di significati che il fruitore delle loro opere ha, in qualche modo, già assimilato, vanificando proprio


quel potere rivoluzionario e innovatore, quella capacità di farsi continua rinascita che, oltre che all’arte, appartiene soltanto all’amore. È a questo punto che la ceramica può riaffermare i suoi significati simbolici, ritorna ad essere la “terra rossa” che ci appartiene. E che resta appunto “terra”. La terra madre che contiene dentro di sé tutto ciò con cui si fa: la fatica fisica, le mani, i colori, i materiali, tutte cose che dalla terra traggono origine. Ritorna quindi questo artigianato della ceramica che trasforma la terra, materiale vile, in materia nobile e preziosa, attraverso un percorso che è conoscenza profonda e sperimentazione. Trasformazione non solo di elementi, ma della stessa anima dell’artigiano, vero padre creatore, pronto come tutti i buoni padri, una volta che sia cresciuta, a congedarsi dalla sua creatura. Ben si comprende ora perché la ceramica si presti a diventare esempio e sintesi di creatività, di sapienza, di design democratico e affatto narcisista, che accetta di buon grado il confronto con la tecnologia senza farsi sopraffare dalla “tecnica”, vero e straniante “moloch” dei nostri tempi. Perché si presti ad essere sintesi perfetta di quei processi che pur essendo al servizio del “produrre” non restano orfani di senso, permettendo di vivere quella tensione spirituale che da tempo si è persa e che invece costituisce un elemento fortemente costruttivo per ognuno, essendo certamente efficienza e profitto, cose importantissime, ma da raggiungere senza tradire se stessi! Dario Palumbo Compasso d’Oro Internazionale 2015 Design for Food and Nutrition. I temi dell’International Award La prima edizione del nuovo concorso internazionale dell’ADI, Compasso d’Oro International Award, è stata dedicata al design come strumento d’innovazione e di sviluppo sostenibile per la produzione alimentare e dei sistemi di comunicazione visiva, di distribuzione e di consumo del cibo. La partecipazione alla competizione, aperta nel 2014, si è chiusa il 30 aprile 2015 con la candidatura di centinaia di prodotti per il concorso che, nell’anno di Expo, indaga il tema il cibo per focalizzare l’attenzione sulle capacità del progetto consapevole di migliorare e di innovare prodotti e processi produttivi in ogni fase della filiera alimentare: dalla produzione alla vendita e al consumo del cibo, considerando anche il sistema dell’informazione e dell’educazione. La nuova formula prevede un vincitore per ogni categoria e una serie di selezionati (nomination) individuati tra i migliori prodotti e servizi inerenti al cibo, gli strumenti e le tecniche per la produzione, la trasformazione, la preparazione e la vendita degli alimenti, i più efficaci metodi per la distribuzione


e il consumo del cibo, compresi i luoghi di distribuzione, i supporti merceologici e gli strumenti comunicativi. I candidati hanno affrontato il tema del Design per il Cibo e la Nutrizione nei seguenti ambiti, ognuno dei quali individua una specifica categoria oggetto di premiazione e di menzione: – Design dei processi di trasformazione. Produzione industriale di alimenti e semilavorati alimentari. – Design per l’imballaggio degli alimenti. Confezione, trasporto, presentazione del cibo. – Design per i sistemi distributivi del cibo. Strumenti e servizi di intermediazione tra produttore e consumatore: filiere corte ed etiche, recupero di scarti e rifiuti alimentari. – Design della comunicazione visiva. Brand design, advertising, labelling per la grande e piccola distribuzione e per l’educazione del cibo. – Design per la preparazione degli alimenti. Utensili per la preparazione domestica e professionale degli alimenti. – Design per il consumo individuale e collettivo. Ambienti di vendita e di ristorazione. – Design per i prodotti alimentari tipici. Valorizzazione delle produzioni e delle tradizioni enogastronomiche. Caratteristiche dei prodotti Al premio hanno partecipato le aziende e i designer che hanno applicato alla produzione una progettualità avanzata e culturalmente consapevole delle qualità materiali e immateriali dei prodotti, che sia responsabile verso l’individuo, la società e l’ambiente e sia propulsiva di nuovi comportamenti eticamente sostenibili, vantaggiosi per il benessere dei territori, delle popolazioni e delle economie. Il tema del premio è stato volutamente ampio per stimolare la più estesa partecipazione e per richiamare l’attenzione sulle competenze che il design ha sviluppato nel tempo, nella sua pratica e nella sua riflessione disciplinare, anche con approcci intersettoriali. Il premio comprende anche un’edizione internazionale della Targa Giovani, riservata ai giovani progettisti che si stanno formando nelle scuole di design e che in questa prima edizione avranno anche un premio in denaro, per consentire la produzione o l’avvio di una startup. Tra i prodotti che hanno beneficiato della Nomination e quelli che hanno ricevuto il Premio, figurano prodotti, processi e servizi inerenti al cibo, gli strumenti e le tecniche più innovativi per la produzione, la trasformazione, la preparazione, l’esposizione e la vendita degli alimenti, i più efficaci metodi per la distribuzione e il consumo, compresi i luoghi di distribuzione, i supporti merceologici e gli strumenti di comunicazione.


Sono stati ammessi a partecipare prodotti fisici e digitali, realizzati con metodi industriali o autoprodotti (anche in pezzo unico, purché predisposti alla riproduzione seriale), i servizi e le ricerche. ADI Compasso d’Oro International Award si affianca al premio Compasso d’Oro ADI, il tradizionale riconoscimento, prima triennale e oggi biennale, che dal 1954 seleziona i migliori prodotti del design italiano. Diversamente il premio internazionale, anch’esso biennale, prevede ogni volta un tema specifico che nel 2017, dopo il Cibo, sarà lo Sport. La Giuria Internazionale Il gruppo dei giurati è stata coordinato da Denis Santachiara, il designer noto per il suo lavoro sul prodotto tecno-poetico, e composto da: Ron Arad, star di origini israeliane membro della Royal Academy of Art di Londra, Aurelio Magistà direttore del supplemento di la Repubblica RCasa&Design, Daniela Piscitelli presidente dell’AIAP l’associazione del design della Comunicazione Visiva, Livia Pomodoro magistrato e membro della Commissione Unesco per l’Italia, Paolo Sorcinelli ordinario di Storia Sociale all’Università di Bologna. La Giuria ha conferito l’ambito Compasso d’Oro alla pasta “Canna di Fucile” del Pastificio F.lli Setaro di Torre Annunziata, disegnata da Michele Cuomo, al frigorifero a doppio sportello Door-in-Door prodotto e disegnato da LG Electronics Inc. e alla mezzaluna da cucina Shy disegnata da Paolo Metaldi per Viceversa. La Targa Giovani è stata assegnata a Bodin Hon, studente cinese dello IED Istituto Europeo di Design di Milano per il fornetto portatile Solari. Nel corso della Convention di premiazione, che si è svolta il 2 dicembre nel Salone d’Onore del Palazzo della Triennale a Milano alla presenza del direttore generale per la Promozione del Sistema Paese del Ministero degli Esteri Andrea Meloni, il presidente di ADI, Luciano Galimberti, ha richiamato il senso del Compasso d’Oro International Award come strumento per indagare, nel mondo del design globalizzato, il sistema di valori profondi e condivisi che ha contraddistinto il design italiano e per comprendere l’influenza che questa visione ha nel modo di progettare alle altre latitudini e dentro altre culture. La pasta e il patrimonio culturale* Il forte legame tra l’identità del territorio campano e la pasta, soprattutto quando il progetto è innovativo per tecnologie e risultati, rende necessario riportare le specifiche caratteristiche del primo, e per ora unico, Compasso * Il testo è tratto dalla scheda di candidatura del prodotto al Compasso d’Oro International Award 2015.


d’Oro ad un prodotto edibile, peraltro attribuito al Sud Italia, descrivendone lo scenario culturale. La storia dell’archeologia romana e quella industriale si fondono nel complesso urbano dl sito UNESCO della Villa A e B di Oplontis, del seicentesco Canale Sarno di Domenico Fontana e della Real Fabbrica d’Armi di scuola vanvitelliana. Nei tre secoli di attività della Fabbrica d’Armi, le capacità tecniche della meccanica di precisione hanno consentito la diffusione di botteghe artigiane che producevano trafile per i tanti pastifici del territorio. Il nuovo formato “Canna di Fucile”, prodotto dal Pastificio F.lli Setaro, viene commercializzato e promosso dal Consorzio Terre di Oplontis per eventi, aste benefiche e fundraising finalizzati alla costituzione di una “Fondazione Terre di Oplontis”, soggetto attuatore delle iniziative di restauro e rigenerazione urbana del Sito UNESCO di Oplontis e del complesso edilizio Borbonico della Real Fabbrica d’Armi. Tecnologia e innovazione di prodotto Nella storia della produzione delle armi da fuoco l’innovazione è consistita nella rigatura interna elicoidale della canna di sparo. La nuova trafila per la pasta “Canna di Fucile” affronta e supera il limite tecnico di produzione industriale di pasta, ritenuto da molti addetti ai lavori invalicabile, realizzando per la prima volta un profilo cavo con rotazione elicoidale delle rigature interne. Dalla dimensione minima del diametro, sono state elaborate le lunghezze dei vari formati con l’impiego della sezione aurea. Il nuovo prodotto si differenzia dalle altre forme consolidate, con rigature esterne (elicoidali o diritte) od interne (diritte) ottenute per sottrazione dello spessore principale, per l’incremento della sezione con spessore aggiunto. Nella fase di trafilatura ad alta pressione la rotazione interna, applicata al materiale in fase elastica, è tale da eliminare tutte le parti lisce a favore di una superficie particolarmente ruvida, corrispondente ad una fase di prestress del materiale dovuto anche al contrasto con la rotazione, in reazione con verso opposto, derivante dalla combinazione dell’effetto “memoria” e dal peso proprio in fase di uscita del prodotto nella trafila verticale, che consente comunque il permanere di una formazione residua elicoidale delle rigature interne nelle successive fasi di lavorazione e cottura. Sono stati effettuati molti test di produzione (sui formati corti e lunghi) e diversi collaudi dopo l’essiccamento lento a bassa temperatura, per valutare la resistenza al taglio (formato lungo), la manipolazione e l’imbustamento, il tempo e la tenuta di cottura, la quantità di assorbimento dei condimenti, le qualità organolettiche all’assaggio. Tutti con esito positivo.


Per la produzione è stata utilizzata una trafila di bronzo su impianti storici “Braibanti IV Serie” del 1939, ma ancora in uso per la produzione corrente del Pastificio F.lli Setaro. La pasta è prodotta in diverse varianti di colore: Bianco paglino (solo semola), Verde pastello (basilico), Rosso pastello (peperoncino), Nero pastello (nero seppia). Il packaging prevede la tipica confezione di carta/cartoncino con finestra trasparente. La grafica è bicolore su fondo bianco, secondo la tradizione del produttore. Nelle prove sono state evidenziate, in confronto con formati analoghi, le principali caratteristiche del nuovo prodotto consistenti in: – sostenibilità ambientale ed alta permanenza dei valori nutrizionali per la riduzione drastica dei tempi di cottura di circa il 60%; – esaltazione organolettica per l’incremento di assorbimento dei condimenti dal 10% al 40% dovuto essenzialmente alla modifica strutturale del materiale, con elevata permeabilità, risultante dall’impiego della nuova trafila con rigatura interna elicoidale. S. C.


ISSN 0030-3305

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