maggio 2016
numero 156
Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» - Modern/post: un territorio inbetween - «Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradigma espositivo Moda: sistema e processi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Campania.
Selezione della critica d’arte contemporanea
rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco
Comitato scientifico Philippe Daverio Kenneth Frampton Giuseppe Galasso Vittorio Gregotti Juan Miguel Hernández León Aldo Masullo Vanni Pasca Franco Purini Joseph Rykwert
Comitato redazionale Roberta Amirante Pasquale Belfiore Alessandro Castagnaro Imma Forino Francesca Rinaldi Livio Sacchi Segretaria di redazione Emma Labruna
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F. Purini, P. Scala, J. Cerasoli,
Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» 5 Modern/post: un territorio in-between 14 «Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradigma espositivo 25 M.A. Sbordone, Moda: sistema e processi 33 Libri, riviste e mostre 45 Le pagine dell’ADI Campania 81
Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Michela Bassanelli, Alberto Calderoni, Alessandro Castagnaro, Jacopo Leveratto, Niroscia Pagano, Irene Pasina, Dario Russo.
Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» FRANCO PURINI
Nelle mostre di architettura non è mai veramente presente l’architettura stessa, tranne nei casi, in verità piuttosto rari, nei quali è proprio l’edificio che ospita la mostra l’oggetto che si espone. In effetti ciò che di solito si può osservare in queste occasioni è una parte dell’ipertesto di un’opera composto da schizzi, disegni, elaborati esecutivi, modelli, fotografie del cantiere e dell’edificio eseguito, relazioni, opinioni critiche, analogie con altre opere. Questo carattere composito e indiretto di una mostra di architettura richiede al visitatore la capacità sia di evocare con la mente ciò che è assente, ovvero la presenza dell’opera con la sua materialità, la sua orditura strutturale, l’avvicendarsi dei suoi spazi interni, la luce che la descrive e la commenta, la sua interazione con il contesto, sia il suo essere una sintesi di più ambiti conoscitivi. Le mostre di architettura, che sostanzialmente si dividono in mostre didattico-documentarie e in mostre di tendenza, si possono suddividere in più tipi, ciascuno dei quali polarizzato su un obiettivo particolare. Il primo tipo riguarda esposizioni a carattere informativo nelle quali vengono presentati alcuni esempi di architettura che il curatore o i curatori ritengono particolarmente significativi. Si tratta si rassegne tassonomiche che non si prefiggono finalità che non siano divulgative, anche se a volte di livello elevato, compilazioni non di rado complete e suggestive destinate a un pubblico vasto nel quale agli addetti ai
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lavori, di solito pochi, si affianca una moltitudine di persone interessate a conoscere e approfondire sistematicamente nuovi aspetti culturali. Un altro tipo di mostre ha come tema il dialogo tra le varie attività umane. In questo caso l’architettura viene immessa nel contesto storico in cui è stata pensata e realizzata chiarendo i suoi nessi con altri linguaggi. Ne discende di solito la ricostruzione critica di un certo periodo storico descritto per connessioni, interferenze e conflitti. Un terzo tipo di mostre è quello che ruota attorno a un protagonista dell’architettura. Queste monografie espositive costituiscono un fenomeno molto diffuso, forse quello più seguito. L’opera di un determinato autore viene analizzata decifrando i suoi riferimenti, confrontandola con esperienze antecedenti e contemporanee, proiettandola nel futuro per verificare le sue potenzialità generative di altre architetture che essa eventualmente possiede. Esiste inoltre un quarto tipo di mostre – per chi scrive il più interessante – nel quale, con l’esposizione di una serie di opere tematizzate, si tenta di produrre una mutazione, anche radicale, del paesaggio culturale di un determinato momento. Questo tipo di mostre è sempre sostenuto da un progetto critico importante attraverso il quale viene proposta una visione dell’architettura, o delle altre arti, alternativa a quella consolidata, al fine di individuare nuove prospettive di ricerca. Da questo punto di vista mostre come Architettura razionale, del 1973, ideata da Aldo Rossi per la 17° Triennale di Milano, che rappresentò il Manifesto della Tendenza; la Via Novissima, organizzata da Paolo Portoghesi all’interno della Biennale di architettura di Venezia del 1980, che aveva come tema La presenza del passato, la mostra che inaugurò, e non solo in Italia, la stagione controversa del Postmodernismo; Deconstructivist Architecture, curata per il Museum of Modern Art di New York da Philip Johnson e Mark Wigley, che segnò il declino del Postmodernismo prefigurando in qualche modo l’alleanza tra le poetiche architettoniche di derivazione derridiana e l’high-tech, rimangono esempi a tutt’oggi insuperati di quanto un’occasione espositiva possa cambiare, spesso improvvisamente e in un oriz-
zonte mondiale, la cultura progettuale. Esistono anche altri generi di mostre, ma per il discorso che si sta facendo in queste note i quattro modelli espositivi sono sufficienti. Rimane da ricordare non solo che spesso tali modelli si sono ibridati, sovrapposti e modificati in una stessa mostra, ma che in alcuni casi il loro effetto si è protratto a lungo influenzando non solo l’architettura ma anche l’insieme delle conseguenza dirette o indirette che essa produce. La recente mostra Comunità Italia, i cui autori sono Alberto Ferlenga e Marco Biraghi, che si è aperta alla Triennale di Milano il 28 novembre 2015 chiudendosi il 6 marzo 2016, rientra pienamente nell’ultimo tipo di queste manifestazioni. Prima di analizzarla nel suo programma, nel suo esito culturale e nella risposta del pubblico è necessario però fare una piccola premessa. Negli ultimi anni, ad opera delle ultime generazioni di storici dell’architettura e anche per merito del lavoro di molti allievi dei corsi di Dottorato, la ricerca storiografica ha intrapreso un nuovo e promettente cammino rimettendo in discussione una serie di certezze che avevano dato dell’architettura moderna una lettura costruita su alcune convenzioni interpretative consolidate e condivise. Senza addentrarsi in una ricognizione estesa sui tempi della storiografia concernente la modernità architettonica è abbastanza lecito affermare che essa è stata precoce, parziale e, soprattutto, ideologica. Le prime storie del l’architettura moderna vedono la luce negli Anni Quaranta del Novecento, a distanza di pochi decenni dalle vicende narrate, se si considera l’inizio del secolo breve come la data di esordio della stessa architettura moderna. In effetti sarebbe possibile datare tale inizio, come ha fatto Joseph Rykwert nel suo libro I primi moderni, alla seconda metà del Settecento o a un secolo dopo, considerando la realizzazione del Crystal Palace, del 1851, come la data fondativa di una modernità consapevole di sé. In realtà risalendo alla metà del Settecento o dell’Ottocento non emergono tanto gli elementi che caratterizzano l’architettura moderna, sebbene in embrione, ma un insieme di condizioni e di mutamenti che produrranno, a partire dalle avanguardie, un nuo-
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vo orizzonte problematico consapevole dei propri paradigmi e dei propri mezzi. Sarà il primo conflitto mondiale a produrre le condizioni che renderanno necessario realizzare, in modo sistematico, anche se fortemente sperimentale, le visioni rinnovatrici delle avanguardie. Per chi scrive l’inizio del Novecento appare quindi come il riferimento temporale più agibile non solo per le ragioni appena ricordate ma anche perché segnato in profondità e con la necessaria tendenziosità problematica da fatti come la pubblicazione de La Cité industrielle, di Tony Garnier e del Manifesto dell’architettura futurista. Se si condivide questa scelta ci si rende conto che storie pubblicate negli Anni Quaranta non potevano essere state concepite con quel necessario distacco temporale che avrebbe consentito di vedere i fenomeni da ricostruire e da interpretare depurati da contingenze o da elementi accessori. Inoltre la conoscenza che si aveva allora degli eventi che si erano succeduti non poteva che essere incompleta. Ciò non è un paradosso. Solo quando un congruo numero di anni separa i fatti dalle loro interpretazioni è possibile raccogliere con una certa completezza i documenti concernenti un certo periodo storico. Per contro è stata proprio la parzialità della prima storiografia dell’architettura moderna a far sì che essa fosse in qualche modo semplificata rendendosi così più comprensibile, anche se in tal modo veniva considerata in modo schematico come la contrapposizione di pochi e rigidi punti di vista. Il terzo aspetto della storiografia dell’architettura moderna, il più determinante per le sue conseguenze sul dibattito disciplinare, è la sua impostazione ideologica, talmente accentuata da portare all’alterazione dei fatti, alla rimozione a volte radicale di personalità importanti, all’accentuazione immotivata del valore di avvenimenti e di opere. La finalità militante delle storie dell’architettura moderna tra gli anni quaranta e cinquanta è stata senza dubbio la causa delle ferrature critiche che hanno segnato, tanto per restare in Italia e limitandosi a due esempi, le storie di Bruno Zevi e di Leonardo Benevolo, strumenti di una battaglia per il rinnovamento dell’architettura prima ancora che narrazioni storiche dotate del ne-
cessario livello di corrispondenza a ciò che era accaduto. Se è vero, infatti, che non esiste una storia che non sia una storia di parte, ricostruzione tendenziosa di fatti derivata dal possedere una visione del mondo precisa e riconoscibile, è anche vero che tale visione non può avere come esito la damnatio memoriae di eventi, di cose e di persone. Ancora oggi alcuni grandi protagonisti dell’architettura del secolo scorso come Marcello Piacentini, Saverio Muratori, Luigi Moretti, fermandosi a tre nomi, ai quali se ne potrebbero aggiungere molti altri, sono in attesa di una interpretazione del loro lavoro che riconosca ad esso la sua importanza, il suo essere ancora oggi un patrimonio operante, il fatto che gli esiti delle loro ricerche sono state, per altre personalità centrali dell’architettura italiana, altrettanti riferimenti essenziali. L’accentuazione ideologica della prima storiografia del l’architettura moderna ha un’altra componente sulla quale occorre brevemente soffermarsi. Si tratta di una concezione finalistica della ricostruzione storica che tende per questo a occuparsi solo di quelle opere che assecondano l’ipotesi che l’architettura tenda a un certo esito. Per Bruno Zevi, ad esempio, l’architettura si sarebbe storicamente realizzata solo con il diffondersi dell’organicismo. Nel momento in cui l’opera di Frank Lloyd Wright sarebbe stata pienamente metabolizzata, l’architettura avrebbe in qualche modo concluso il suo ciclo evolutivo, in quanto avrebbe finalmente raggiunto il suo obbiettivo finale. Per Leonardo Benevolo tale fine si configurava invece come il confluire e al contempo il dissolversi dell’architettura nell’urbanistica, la dimensione nella quale, in ciò d’accordo con Giulio Carlo Argan, si sarebbe compiuta la missione sociale dell’architettura moderna. Anche queste visioni teleologiche hanno avuto un ruolo decisivo nel fare di alcune storie altrettanti dispositivi di esclusione di intere fasi della ricerca architettonica del Novecento. La storia non è quindi il racconto di un procedere nel tempo governato da intenzioni certe e, nonostante i contrasti, destinate a concretizzarsi, ma un percorso molte volte casuale nel quale alcune volontà di agire secondo un
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progetto convivono con fatti incidentali, con eventi del tutto imprevedibili, con fenomeni contraddittori affiancati da altrettanti avvenimenti congruenti. La mostra di Alberto Ferlenga e Marco Biraghi, che per inciso traduce nel linguaggio espositivo molti dei temi già presenti nel libro dello stesso Marco Biraghi e di Silvia Micheli, Storia dell’architettura italiana 1985-2015, è il tentativo più recente ed efficace di superare i limiti della “storiografia storica”, se così si può dire, dell’architettura moderna italiana. All’interno di una continuità critica con la ricerca di Manfredo Tafuri, ma anche con i risultati del lavoro di storici come Renato De Fusco, Francesco Dal Co, Alessandra Muntoni, Antonino Saggio, i due curatori hanno cercato di affrontare il tema dell’architettura italiana in modo originale e innovativo a partire dallo stesso titolo Comunità Italia. Tale titolo è ambiguo in quanto, evocando il movimento di Adriano Olivetti, finisce con l’assumere un significato positivo nel momento stesso in cui ogni comunità è nello stesso tempo conflittuale e solidale. Oltre a questa dualità oppositiva una comunità riconosce se stessa oltre la dialettica tra appartenenza ed estraneità, delineando una condizione identitaria che, di nuovo, non è qualcosa di stabile ma che risulta da continue ridefinizioni della relazione tra permanenze e mutamenti, tra continuità e discontinuità, tra unitarietà e molteplicità. Il senso della mostra è, per chi scrive, un azzeramento radicale dei canoni interpretativi più diffusi riguardanti l’architettura italiana. Tali canoni non sono in modo evidente sostituti da nuovi paradigmi critici, ma il vuoto che si determina nella lettura dell’ultimo trentennio dell’architettura italiana viene assunto come l’occasione di una rifondazione tentativa e plurale delle sue vicende. Ciò che è avvenuto non viene più visto e interrogato secondo i vari orientamenti critici che si sono formati nel corso del tempo, ma fatti, oggetti architettonici e protagonisti vengono accostati gli uni agli altri in una compresenza nella quale affinità e differenze appaiono intrecciate. In breve i curatori hanno evitato di elaborare per questa mostra categorie storico-critiche de-
finite, lasciando ai visitatori la possibilità di decidere quali percorsi interpretativi costruire. Tale scelta non ha comportato la negazione della necessità di un giudizio sulla recente architettura italiana nella sua generalità e nelle sue singole opere, ma ha articolato tale giudizio attraverso indizi riguardanti la lettura di un quadro aperto ed evolutivo, di temi e di problemi, rinunciando per questo motivo a premettere alla mostra una visione centralizzante ed esclusiva. Al contempo la mostra dichiara, nel grande numero di esempi diversi, che il problema non è la forma architettonica, ma afferma anche che senza di essa il problema di cosa è l’abitare e di come può trasformarsi in futuro non ha soluzioni. Dall’accostamento imprevedibile e a volte sorprendente tra linguaggi mai prima di queste occasioni messi uno accanto all’altro – ad esempio la vicinanza tra la tavola rossiana della città analoga e la prospettiva di Luigi Pellegrini di una città utopica – nascono nuove associazioni e nuove incompatibilità che non appaiono però come un fatto negativo, ma come la manifestazione di un endemico vitalismo della ricerca italiana. In essa la frammentazione delle tendenze come espressione di una matrice regionalista, una forte subordinazione al contesto, l’assenza di una chiara tematizzazione, una vocazione al compromesso tra tradizione e innovazione, una decisa propensione alla convivenza tra concretezza e idealizzazione appaiono aspetti profondamente radicati, espressi in vari modi a seconda delle aree geografico-tematiche. Aspetti proiettati su una pluralità delle proposte linguistiche talmente accentuata da porsi come una ricchezza di scritture architettoniche unica nel panorama contemporaneo e, nello stesso tempo, come un elemento di fragilità, quasi il sintomo di una sottostante e duratura incertezza. Forse ciò è il risultato del fatto che l’architettura moderna italiana è stata importata da fuori non essendo nata autonomamente dal tessuto culturale e produttivo nazionale. In ogni modo visitando la mostra, con la sua grande natura morta di modelli appoggiati su un piano di appoggio che allude a un vasto paesaggio, emerge l’idea di una cultura architettonica nella quale il problema dalla forma come
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rappresentazione dell’istituzione costituisce l’elemento unificante di esperienze che risultano, almeno apparentemente, quanto mai lontane. In un articolo del Corriere della Sera, Vittorio Gregotti ha esposto le sue considerazioni sulla mostra affermando che per un verso essa “vuole descrivere più di sessant’anni nel loro intero dispiegarsi, senza poi offrire giudizi sulle diverse opinioni, fondamenti e successioni di idee e sulla discussione dei diversi punti di vista”, in quanto “non è un racconto storico ma una mappa”; per l’altro che è una “mostra importante, con un ottimo allestimento, che descrive una condizione in cui l’architettura era al centro della cultura italiana e che oggi sembra invece suscitare scarso interesse”. Leggendola come un “ritratto filologico” Vittorio Gregotti interpreta il risultato del lavoro di Alberto Ferlenga come un “punto e a capo” che muove dalla constatazione che oggi l’architettura “vive la dispersione di ogni riflessione su qualche elemento di verità del presente”. Con queste parole l’autore di uno dei più avanzati progetti urbani italiani, la Bicocca a Milano, afferma due concetti contrastanti, vale a dire la necessità che un nuovo discorso sull’abitare e sui modi con i quali può essere continuato e migliorato debba rinnovare la ricerca architettonica in tutti i suoi aspetti, ma che nello stesso tempo tale discorso non può non apparire per molti architetti obsoleto, inattuale, e probabilmente inutile. A questa difficoltà si può ovviare solo con una modificazione che non sia più “incessante e provvisoria” ma “ragionevole, possibile e necessaria per la vita collettiva e per la sopravvivenza dell’architettura”. Le parole di Vittorio Gregotti sono senz’altro da condividere, ricordando però che è stata proprio la mostra Comunità Italia a mettere in evidenza la presenza di una situazione la cui superficiale complessità, nella quale tutto sembra allo stesso tempo assoluto e relativo, in cui non si può più trasgredire una regola perché tutto è lecito, dove qualsiasi scelta si rivela interscambiabile, approssimativa, priva di durata, nasconde forse l’insuperabile impossibilità di costruire una nuova e più operante architettura disciplinare nella quale gli architetti
siano in grado di riconoscersi. Non è un caso che nel catalogo della mostra non siano presenti progetti, ma solo disegni di architettura e saggi, a volte persino troppo erratici e volutamente ermetici, quasi a segnalare la difficoltà di colmare con i progetti e con le opere la distanza tra l’immaginario architettonico e le sue ragioni. Comunità Italia ha aperto nel modo più complesso e creativo una nuova stagione della Triennale la quale, recuperando la sua tradizione, inizia un ciclo nel quale l’attività espositiva sarà ricondotta in modo sistematico alle problematiche dell’architettura e del design. Ciò dopo anni nei quali le esposizioni internazionali erano state sostituite da iniziative, anche se di notevole qualità, più discontinue e casuali. Questo rinnovamento, che nasce da ciò che la Triennale è stata per circa un secolo, si confronterà nei prossimi anni con un pubblico – i giovani di adesso – abituato a formarsi più sull’astrazione e sulla genericità della rete che sulla materialità delle cose reali. La mostra di Alberto Ferlenga e Marco Biraghi costituisce per questo una sfida agli architetti, italiani e stranieri, a coloro che sono interessati all’architettura, ai critici e agli storici, non solo a pensare a una nuova storia della ricerca italiana sull’abitare che superi le antiche visioni ideologiche in quanto motivo di occultamento, di omissione e di alterazione di temi e motivi. Una nuova narrazione storiografica ma che riavvicini soprattutto le giovani generazioni alla verità delle cose, alla suggestione profonda di un autentico che è ancora in grado di parlare il linguaggio della realtà e insieme dell’emozione e del mistero, di una concezione dell’architettura nella quale la globalizzazione non rappresenti più una condizione economica ma un nuovo rapporto tra diverse e a volte lontane concezioni della conoscenza del mondo, delle pratiche artistiche che lo riconoscono e lo modificano, del ruolo che tali pratiche hanno nel rendere più libera e felice la vita umana.
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Modern/post: un territorio in-between PAOLA SCALA
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Nel complesso panorama della ricerca architettonica, in particolare in Italia, spesso si lavora per coppie oppositive, dicotomie che obbediscono, citando non a caso Robert Venturi, all’imperativo dell’“o-o”. Questa logica dell’esclusione, che consente di precisare con molta chiarezza il proprio punto di vista, rischia però talvolta di slittare sulla realtà, fal sificandola non sempre a vantaggio dell’architettura e rappresenta forse una delle ragioni della crisi di una disciplina sempre più lontana dalla realtà fisica, sociale e culturale nella quale dovrebbe operare. La condizione di “superfluo” alla quale l’architettura sembra essersi autocondannata, sarebbe, secondo alcuni, l’esito prevedibile dell’effetto più evidente e conclamato (benché probabilmente non il più rilevante) di quella condizione post-moderna nella quale il mezzo televisivo, il computer e l’immagine, oggetti dell’esaltazione estetizzante, diventano i simboli di una cultura che ha abolito la profondità (spaziale e temporale), riducendosi a un vissuto superficiale e puntuale, in cui tutto viene immediatamente trasformato in immagine1. Tra le logiche che potrebbero costruire delle risposte alla presunta “irrilevanza” dell’architettura, quella che si richiama a una cultura più specificamente “disciplinare” fa appello a un possibile ritorno alle “cose stesse”, alle regole e alla tradizione non transitoria dell’architettura capace, come poche altre at-
tività umane, di determinare e condizionare in termini di longue duréé il nostro stare al mondo2. Un ritorno a una “condizione pre-postmoderna” e a un controllo metodologico del processo architettonico che assicuri la coincidenza tra la dimensione etica e quella estetica dell’architettura. In una società come quella contemporanea non sembra realistico pensare che il giudizio di questa coincidenza possa oggi essere affidato solo a una ristretta cerchia di “cultori della disciplina” e l’allargamento del diritto di giudizio, come si può immaginare, provoca un analogo allargamento dei valori dell’etica e dell’estetica. Partiamo dall’etica. Nella sua “Storia della bruttezza”, Umberto Eco, nel raccontare le diverse interpretazioni del concetto di bellezza che hanno caratterizzato ciascuna epoca, avverte il lettore, già in prefazione, che queste interpretazioni traducono le idee estetiche di una “cultura dominante”, che le ha fissate attraverso scritti e immagini, mentre il gusto dell’uomo comune scompare con lui; noi possiamo soltanto supporre che i gusti delle persone comuni corrispondessero in qualche modo ai gusti degli artisti del loro tempo3. Partendo da queste considerazioni appare evidente che nella società contemporanea, già di per sé crocevia di culture diverse dove distanze e barriere fisiche vengono cancellate dalla potenza dei media, la bellezza non può che essere plurale ed evanescente anche perché il “bello contemporaneo” annovera tra i suoi giudici molti non addetti ai lavori che forse, più che in passato, hanno voglia di partecipare e, soprattutto, voce per urlare. Dunque, se noi architetti, nell’epoca della globalizzazione e della diffusione mediatica, avessimo in qualche modo l’assurda pretesa di definire il bello in architettura in maniera oggettiva, potremmo incorrere in qualche brutta sorpresa, perché, dal momento che l’unica cultura dominante sembra essere quella del mercato e dell’immagine, rischieremmo di vedere oggettivati proprio quei fenomeni contro i quali, da tempo, parte dei cultori della materia architettonica si schierano: l’architettura dello spettacolo e delle nuove icone nelle quali sembra prevalere l’esposizione della tecni-
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ca, del pensiero creativo e della poetica personale dell’architetto. Eppure questa è l’architettura che piace alla gente comune, che subisce il fascino di forme inusuali e sorprendenti e ai media, che costruiscono l’aura non dell’opera ma del suo autore, non solo sulla stampa specializzata e di settore ma anche attraverso quotidiani e riviste e soprattutto attraverso il web. Navigando su internet è possibile scoprire (con qualche sgomento) che la Torre Velasca, considerata dall’accademia uno dei capolavori del moderno italiano, è inserita al 21° posto nella classifica (stilata non solo dal popolo profano ma anche dai giornalisti del Daily Telegraph) delle architetture più brutte del mondo. Di contro, il Bosco Verticale, di Stefano Boeri, oggetto di più di una critica da parte del mondo accademico, si aggiudica l’International Highrise Award 2014. Indipendentemente dalla propria personale opinione sulle due opere, proviamo a ragionare sulle possibili motivazioni di questi giudizi. La Torre Velasca, progettata dai BBPR, nell’immediato dopoguerra, viene considerata una delle opere che meglio interpreta e traduce in forma la teoria di Rogers delle “presistenze ambientali”. L’edificio coniuga la tradizione del moderno con la dimensione storica delle città italiane senza indugiare su questioni di stile o di linguaggio, ma attraverso una riflessione sui caratteri del l’ambiente nel quale si inserisce e rappresenta, come ha sottolineato lo stesso Rogers, un omaggio a Milano, alla ricerca di una sintesi tra le energie autoctone e le correnti che formano il patrimonio universale del pensiero4. A proposito delle Torre Velasca, Luca Molinari scrive: considerata uno dei monumenti indiscussi della modernità post bellica italiana, a detta di Robert Venturi, la Torre Velasca è stata uno dei punti di partenza della post-Modernità e della messa in crisi degli strumenti tradizionali del modernismo5. Del resto il progetto definitivo della Torre, inizialmente più aderente ai canoni dell’International Style e poi modificato per ragioni di costi, sostituendo l’originaria struttura in acciaio con quella in cemen-
to armato, suscitò grande scalpore al Congresso dei CIAM di Otterlo del 1959; Pevsner la definì espressione del “Neo Art Noveau”. Nella recente Storia del Postmodernismo di Charles Jencks, l’“immagine” della Torre viene riportata come uno degli esempi di stili regionali e nazionali del revisionismo6, una definizione che probabilmente avrebbe turbato Rogers e che sicuramente farebbe rabbrividire i suoi allievi divenuti a loro volta maestri. Leggendo i commenti alla classifica del Daily Telegraph sembra che sia proprio l’”immagine” postmodern della torre, sospesa come hanno detto alcuni tra “neo-liberty e brutalismo”, a “dispiacere” a un pubblico vasto e a relegare l’opera tra le architetture più brutte del mondo. Se ci si muove tra i diversi blog che commentano il risultato, è facile distinguere i post indignati degli architetti (soprattutto italiani) e dei milanesi da quelli di un pubblico “globale” che conosce la Torre Velasca solo attraverso le fotografie pubblicate su internet e che spesso concorda con il giudizio riportato dal giornale britannico. Tra i milanesi schierati in difesa della torre c’è anche Stefano Boeri, autore del Bosco verticale. L’edificio, che pur avendo vinto un prestigioso premio internazionale, è stato, talvolta, aspramente criticato. In un’intervista dal titolo “le ipocrisie verdi delle archistar”, Vittorio Gregotti scrive, presumibilmente alludendo anche al bosco verticale, nel caso della produzione architettonica la parola «eco» è sovente diventata un obbligo mercantile. «Construction durable» ed «éco quartier» sono definizioni che indicano soprattutto il tentativo di ridurre a slogan popolari una serie di problemi assolutamente seri e reali ma certo dai quali non è, né potrebbe essere, legittimo dedurre una nuova morfologia organizzativa della città e ancor meno una forma architettonica delle sue parti. La deduzione è sempre una metodologia anticreativa7. Dunque si potrebbe dire che l’edificio di Boeri non rappresenta una reale riflessione sull’architettura del grattacielo in epoca contemporanea ma è sostanzialmente un’operazione deduttiva attraverso la quale un problema assolutamente serio e reale “in-forma” l’architettura usando un elemento orna-
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mentale come medium cui affidare un messaggio. Un po’ come avviene con i Media Building, edifici caratterizzati da una “pelle” sensibile su cui vengono proiettate informazioni. Sembrerebbe dunque che proprio i motivi per cui il Bosco Verticale piace a una giuria e a un pubblico internazionale siano quelli per i quali non piace ai cultori dell’architettura e viceversa. La Torre Velasca è la traduzione in forma di una serie di riflessioni e di una teoria che rappresenta uno dei fondamenti della cultura architettonica italiana a partire dal dopoguerra, tradotti anche in un’“immagine” che non piace al grande pubblico; l’immagine del grattacielo di Boeri, pubblicata su giornali e riviste anche non specializzate, veicola il messaggio di un’architettura “eco”, “green”, “sostenibile”, un edificio che, come si legge nelle motivazioni della giuria dell’Highrise Award 2014, rappresenta sicuramente un modello per lo sviluppo di aree ad alta densità di popolazione in altri paesi europei. Queste immagini sono come slogan pubblicitari comprensibili e condivisibili da tutti. Tutti vorrebbero città più green e infatti, dopo la costruzione del Bosco verticale, una nota marca di vino italiano ha lanciato una campagna pubblicitaria in cui tutte le città diventano vigneti. Partendo da queste considerazioni si potrebbe sostenere che così come l’immagine della Torre Velasca sembrava aderire alla logica della post-modernità, il Bosco Verticale aderisce a quella della surmodernità. In entrambi i casi, l’opera sembra veicolare un messaggio: ma mentre nella Torre l’immagine è ancora espressione di valori interni all’architettura e traduce la costruzione storica e geografica di una continuità disciplinare, nel caso del Bosco l’immagine rimanda sostanzialmente alle urgenze della contemporaneità e alla necessità di fronteggiare le numerose emergenze del nostro tempo, tra cui anche quella ambientale, articolando risposte nelle quali l’architettura talvolta sembra riuscire con difficoltà a trovare il proprio ruolo e definire il proprio “specifico” apporto. La surmodernità è, secondo Marc Augè, la condizione antropologica contemporanea caratterizzata dall’“eccesso” – di tempo, spazio e individuo – che trae origine dalla “so-
vrabbondanza” di informazioni propria della nostra epoca8. Questo flusso rende difficile “pensare il tempo” come una successione di istanti a causa della sovrabbondanza di avvenimenti in cui siamo immersi e modifica l’idea di spazio “restringendo il pianeta”. Nelle intimità delle nostre dimore immagini di tutti i tipi, diffuse dai satelliti, captate da antenne poste anche sui tetti del più lontano villaggio, ci danno una visione istantanea di avvenimenti in atto in un altro capo del pianeta. Certamente avvertiamo gli effetti perversi e le possibili distorsioni di un’informazione le cui immagini sono inevitabilmente selezionate: non solo possono essere manipolate ma l’immagine – che è solo una fra le migliaia possibili – esercita un’influenza e possiede una forza che eccede di molto l’informazione obiettiva di cui è portatrice9. In questa condizione, di per sé complessa ma anche potenzialmente produttiva, “la cultura dominante”, quella veicolata dalle informazioni, propone modelli e stili di vita propri della società dei consumi e impone un modello di sviluppo che è, ancora troppo spesso, espressione di una cultura globale che si diffonde su tutto il pianeta indifferente alle identità locali: Dubai come Shangai e come Milano. La crisi ambientale, economica e oggi, anche socio-politica che sta investendo il nostro pianeta mette in evidenza i limiti di questo modello ormai al collasso. Tuttavia la crisi di questa condizione “surmoderna”, nella quale con enorme rapidità si è evoluta quella post-moderna, rischia di diventare un possibile terreno per un acritico ritorno alla modernità, alla ricerca di canoni e certezze proprie di un cultura tendenzialmente dominante in nome di una competenza disciplinare, in grado di arginare le derive dell’interpretazione proprie di un mondo dominato dall’ego, nel quale l’individuo non si riconosce più in alcuna narrazione collettiva. Non pochi infatti sostengono che la stagione delle archistar, dell’architettura delle immagini, sia finita e ipotizzano il ritorno a un nuovo realismo, dimenticando che il realismo si è sempre prestato, paradossalmente, a diverse “interpretazioni” e offrendo così il fianco a nuovi possibili equivoci.
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Nel 1975 nel numero 13 della rivista «Archithese», von Moos definiva realismo l’atteggiamento antimodernista dell’architettura americana di Venturi e Scott-Brown che appoggiano la loro teoria al tempo stesso sul mondo triviale e sul passato e criticano duramente l’accademismo post-lecorbusieriano e post-miesiano; solo l’anno successivo la stessa rivista pubblica un nuovo numero, curato da Bruno Reichlin e Martin Steinmann in cui il termine realismo serve a una revisione critica della nozione stessa di architettura e si pone decisamente e direttamente in rapporto con le formulazioni del realismo socialista10. Oggi la storia sembra ripetersi visto che “realisti” sono coloro che pensano l’architettura come espressione anche linguistica (estetica) e come attività che si relaziona con bisogni personali e sociali. Ovvero, che si relaziona con il soddisfacimento di bisogni e piaceri individuali, ma anche con il disegno urbano come esito di una riflessione collettiva11 ma realiste sono anche le le archistar che provano a riciclarsi inventando i nuovi “paradigmi” del l’eco, del green e dello smart. Qualche spirito maligno ha scritto di trasformazione della eco sostenibilità in ego sostenibilità degli architetti12. Ancora una volta dunque, a giocare la partita, in nome di un preteso realismo sarebbero degli “opposti”: quelli che, in fondo in fondo promuovono il ritorno a un pensiero moderno, opportunamente selezionato in senso latamente normativo e coloro che, con maggiore o minore coerenza personale, considerano ineluttabile la deriva verso la surmodernità. Recentemente Renato De Fusco ha scritto che il Post Modern è stato qualcosa capace di inventare una brutta architettura ma una convincente “condizione di pensiero”13, quella descritta da Lyotard nel 1979 e che ancora oggi, secondo alcuni, caratterizza la nostra contemporaneità segnata da crisi profonde. Il termine postmodernismo o (postmodernità) […] forse grazie alla sua complessa significazione, meglio di altri sembra identificare la condizione attuale, rappresentando con Frederic Jameson la logica culturale del tardo capitalismo. Una lo-
gica tanto ambivalente e contraddittoria da non poter apparire che imperfetta e impura, nutrita di contrapposte tendenze e interpretazioni che a volte ne esaltano i voli concettuali […] a volte ne condannano gli aspetti di deliberata superficialità, cinismo e feticismo […] che tuttavia rivelano la coesistenza di caratteristiche molto diverse fra loro e soprattutto la presenza di un «antifondazionalismo che rifugge tutti i fondazionalismi», di un relativismo profondo e costitutivo, specchio e riflesso della concreta e attuale pluralizzazione della realtà14. Già negli anni novanta, De Fusco aveva affrancato la “condizione postmoderna” dall’omonima architettura, sottraendola all’interpretazione in termini stilistici e di linguaggio e aprendola a una logica inclusiva più interessante e feconda che confluiva nel “codice delle micrologie”, l’artificio storiografico da lui inventato per descrivere tutte le ricerche e i movimenti architettonici “accomunati” dalla tendenza a occuparsi delle “cose minori” tipica di tutta quell’architettura che muove contro il “Movimento Moderno”15, Architetti profondamente distanti fra loro come Rossi, Stirling, Portoghesi, Venturi, De Carlo, venivano inclusi in questo “codice”, colto nella sua flagranza cronachistica, profondamente inclusivo, nato in evidente opposizione delle sole grandi narrazioni universali. Una flagranza cronachistica che forse addirittura prefigurava il rischio che il rifiuto delle metanarrazioni potesse portare a un ripiegamento della disciplina nel mondo delle cose di poco conto, estranee al corpus disciplinare16. Una fuga che si è tradotta da un lato in un’architettura sempre più autoreferenziale e dall’altro in una ricerca teorica sempre più orientata alla descrizione della realtà contemporanea, capace di interpretarne o anche solo di registrarne la complessità, che si è però progressivamente allontanata dal progetto. Come scrive Alejandro Aravena a partire dagli anni sessanta, forse settanta, si è creato un bivio. Da una parte, il gruppo che, sin dagli esordi del Movimento Moderno, pretendeva libertà artistica, i cui componenti chiedevano alla società che li lasciasse essere geni e concedesse loro quel
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privilegio. Il prezzo che hanno pagato è stata l’irrilevanza. L’altra strada è stata imboccata da chi voleva occuparsi di questioni complesse, difficili. Per fare questo, però, hanno smesso di essere architetti e hanno abbandonato il centro della disciplina: il progetto17. La logica oppositiva che ha sempre animato il dibattito architettonico, a partire da questa consapevolezza e dalla necessità di lavorare anche nel campo dell’architettura nel “riciclo” delle idee e delle condizioni (moderno/postmoderno) potrebbe finalmente indicare una via d’uscita che consiste nel praticare il territorio “interno” alle opposizioni, approfittando anche dell’avvicinamento degli opposti determinato dalla comune consapevolezza dell’appartenenza a una condizione post-moderna. Alejandro Aravena, vincitore del Pritzker Price 2016, è il curatore della prossima Biennale di Architettura con la quale proverà a tracciare una possibilità di riscatto a quella condizione di superfluo alla quale l’architettura sembra, ormai da anni, essersi condannata. Architetto in equilibrio tra due culture18, quella cilena che non possiede architetture […] ma ha la natura e alcune strutture spaziali e quella occidentale, studiata attraverso i libri e sperimentata già in età matura, Aravena riesce a ingerire il corpus disciplinare dell’architettura, che è corpo di conoscenza, senza fare indigestione19. La sua Biennale segue quella diretta da Rem Koolhaas, staffetta interessante da molti vista (ovviamente) come una vera e propria contrapposizione. E tuttavia, se per una volta provassimo a porci in una logica di maggiore dialettica, nella quale non sempre ciò che avviene oggi contraddice quanto detto ieri, potremmo provare a leggere questa staffetta come un’evoluzione invece che come una contrapposizione. In Absorbing modernity, Koolhaas voleva sostenere che la modernità, “assorbita” dal flusso caotico della storia di ciascun paese, ha perso il suo carattere universale e assoluto e si è decomposta (decostruita) in tante “interpretazioni” nelle quali il ruolo dell’architettura è considerevole, ma forse non fondamentale quanto gli architetti auspicherebbero20. Con Reporting from the Front Aravena sembra voler richia-
mare gli architetti alla loro responsabilità sociale e tuttavia questo richiamo non necessariamente deve tradursi in un generico “rappel à l’ordre” alla ricerca di soluzioni totali o universali. I progetti Elemental, che hanno reso Aravena famoso e che presumibilmente rappresentano il punto di partenza del quadro concettuale della sua mostra, sono progetti “aperti”, perfettibili, che spostano l’architettura verso un’idea di welfare nuova, fatta di un ibrido tra costruzione assegnata e autocostruzione, di dialogo con gli abitanti, di negoziato tra libertà individuale ed economia di scala, di uso di materiali poveri e soluzioni inattese, di profit sostenibile21. Questi progetti non sono espressioni di concetti astratti e universali ma l’esito di un lavoro che si sviluppa dentro specifici contesti fisici, culturali, economici e sociali nei quali operare, elaborando non risposte complicate a problemi semplificati ma risposte il più semplici possibile a questioni complesse22, rinunciando a gesti effimeri ma anche a soluzioni che abbiano una presunzione di universalità e assolutezza. Uno spazio “in between” che potrebbe rappresentare una possibile via d’uscita dalla crisi e il principale orizzonte di riferimento di tutta quella ricerca architettonica che, cercando di uscire finalmente dalla “condizione di superfluo”, cerchi di misurarsi realmente con la complessità della condizione contemporanea in cerca di una relazione diversamente sostanziale tra estetica ed etica.
1 G. Chiurazzi, Il Postmoderno. Il pensiero nella società della comunicazione, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 17. 2 S. Malcovati, F. Visconti, M. Caja, R. Capozzi, G. Fusco, Architettura e realismo, Clean, Napoli 2012, p. 13. 3 U. Eco, Storia della Bruttezza, Bompiani, Milano 2007, p. 8 4 E.N. Rogers, La responsabilità verso la tradizione, ora in Id., (ed. 1997), “Esperienze d’Architettura”, Skirà, Milano 1954, pp. 276279. 5 A. Giannetti, L. Molinari, Continuità e crisi: Ernesto Nathan Rogers e la cultura architettonica italiana del dopoguerra, Alinea, Firenze 2010, p. 13. 6 C. Jencks, Storia del Postmodernismo. Cinque decenni di ironico. Ironico e critico in architettura, Postmedia, Milano 2014, p. 37.
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7 V. Gregotti, Le ipocrisie verdi delle archistar, in “Corriere della Sera”, 11 febbraio 2011. 8 Cfr. M. Augé, Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, trad.it (2009) Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 1992, p. 45. 9 Ivi, p. 46. 10 S. Malcovati, Nuovo realismo, antica architettura, in S. Mal covati, F. Visconti, M. Caja, R. Capozzi, G. Fusco, cit., pp. 93-94. 11 P. Panza, Pensare l’architettura ripartendo dai maestri, in “Corriere della Sera”, 15 gennaio 2013. 12 V. Gregotti, cit. 13 R. De Fusco, Realismo vs finzionismo, in S. Malcovati, F. Visconti, M. Caja, R. Capozzi, G. Fusco, cit., p. 292. 14 P. Gregory, Teorie di Architettura contemporanea. Percorsi del Postmodernismo, Carocci, Roma 2010, pp. 14-15. 15 R. De Fusco, Storia dell’architettura contemporanea, Laterza Roma-Bari 1992, p. 459. 16 Ibidem. 17 A. Aravena, Rilevanza vs shock, in A. Aravena, Progettare e costruire, Electa, Milano 2007, p. 13. 18 Ha studiato architettura in Cile, dopo la laurea ha trascorso un periodo di studi in Storia e Teoria allo IUAV entrando in contatto diretto con l’architettura europea che fino ad allora aveva conosciuto soltanto attraverso i libri di storia 19 A. Aravena, Schizzi di lavoro e linee di studio, in A. Aravena, cit., p. 166. 20 R. Koolhaas, Fundamentals. 14.Mostra Internazionale di Architettura, Marsilio, Venezia 2014, p. 17 21 P. Ciorra, Architetti in prima linea, in “Il Manifesto”, 15 settembre 2015. 22 A. Aravena, Rilevanza vs shock, cit., p. 13.
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«Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradigma espositivo JACQUELINE CERASOLI
Ambienti immersivi di luce, musica, suoni, proiezione di paesaggi mix-media, ibridi come forma di perfomativizzazione degli spazi in cui non le singole opere, ma l’allestimento architettonico mix-media è l’opera. In generale l’arte del presente, così come è stata concepita nella modernità, non basta più a se stessa, seppure punti sulla relazione e condivisione di progetti inclusivi attraverso opere, ambienti, spazi fisici e virtuali, azioni, gesti diffusi in rete, che attivano scambi in maniera dialettica tra l’artista e la società, la città e l’architettura, l’ambiente e il territorio, sembra alla ricerca di una legittimazione autoreferenziale. La domanda è: quale valore artistico stanno assumendo progetti di allestimento ipertecnologici di mostre sovente più interessanti delle singole opere esposte? E ancora in che modo gli eventi perfomativi, modificando la percezione e la funzione del museo o di altri luoghi non istituzionali, stanno mettendo in atto una nuova prospettiva di concepire le mostre? Queste e altre domande si generano intorno al fenomeno del “mostrismo” e della moda dell’arte contemporanea, cioè una forma di bulimia di mostre proposte da enti pubblici e privati per soddisfare il marketing mondano-culturale, all’insegna del mescolamento di generi, linguaggi ed esperienze diverse. Si promuovono una quantità esorbitante di mostre, artisti, notti bianche e notti al museo, eventi consu-
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mati rapidamente come un hamburger da McDonald’s. Mostre “usa e getta” che condizionano in modo significativo la cultura globale. Tale fenomeno è riscontrabile nei fatti: da Venezia, a Miami, a Mosca o altri luoghi asiatici dove si consuma il rito della mostra, della fiera, della biennale, l’arte è feticcio di lusso. Per esempio basta sfogliare il “Giornale dell’Arte” nella seconda parte dedicata alle mostre e non a caso all’economia, per capire come la “mostra mania” caratterizza la produzione industriale culturale contemporanea. Anche le riviste specializzate online si reggono sulla calendarizzazione e la mappatura di mostre o con siti da scaricare direttamente sul cellulare sempre più sofisticato, con sistemi aggiornati d’immediata consultazione. Confluenze, contaminazioni, riappropriazioni dell’arte globale, le mostre sono macchine straordinarie di produzione di concetti o di sensazioni effimere autoreferenziali?1 Paradossalmente si trovano più fondi pubblici e privati per mostre di vario genere, per lo più inutili, dall’identità ibrida che sovvenzioni per la ricerca scientifica o medica. Ci sono più mostre, festival, eventi, kermesse di tutto e di più che sardine nel Mediterraneo, l’arte contemporanea è diffusa, è un brand della produzione industriale globale, ostentazione di vacuità ridotta a merce, anche oltre i confini istituzionali dei musei e gli artisti seducono il pubblico in modi innovativi che sovvertono i codici legati allo spazio espositivo, inserendo dimensioni temporali, olfattive, visive e sonore. Nella contemporaneità le mostre si sono insediate ovunque, cartografano nuove aree urbane in via di trasformazione, interagiscono con la città ed esercitano una funzione di attrazione turistica, aprendosi a una sorta di shopping experience, sconvolgente. Bastano come emblematico esempio le installazioni ambientali ingegneristiche d’impatto scenografico di Olafur Eliasson, Carsten Holler, Doug Aitken, Philippe Parreno, e molti altri artisti che operano nell’ambito della percezione degli ambienti tradizionali o di edifici industriali e sorprendono con opere sensoriali coinvolgenti. La mostra come presupposto concettuale per fare arte si fa con tutto, è paradigma della cultura globale, tutti sono
artisti, compresi i curatori, alla ricerca di modalità operative che valicano confini linguistici e puntano sulla trasnazionalità. Ad Harald Szeemann, che concepiva le mostre come “poemi dello spazio” e credeva poco nelle potenzialità del museo si deve la nascita della figura del “curatore indipendente”. Oggi, al contrario, il contenitore “vetrina” di un’industria dell’intrattenimento, è più importante del contenuto. Nel mostrismo prevale oltre alla contaminazioni dei linguaggi, una vocazione al monumentalismo scenografico e alla spettacolarizzazione dei nuovi musei o di altri luoghi espositivi. Fa riflettere sull’equivoco tra industria culturale e industria del turismo, sotto l’egida dell’intrattenimento, la mostra multimediale dal titolo emblematico “Caravaggio Experience” ospitata a Palazzo delle Esposizioni di Roma, dove 57 riproduzioni di tele del pittore realista declinano i temi chiave della sua ricerca: la luce, il naturalismo, la teatralità, la violenza, che non convince perché se la progettazione non è supportata da una narrazione, da una sceneggiatura, da un pensiero dominante, la coreografia mutimediale per quanto sorprendente possa essere non basta. Nelle mostre del presente, non sono importanti i manufatti o le singole opere, bensì l’allestimento architettonico spettacolare che inscena le potenzialità creative dello spazio, in cui il medium è la tecnologia. Mai come negli ultimi dieci anni, Europa, Usa e Asia sono stati competitivi nella corsa al primato di realizzazione di nuovi musei che trasformano il paesaggio urbano, concepiti come dispositivi più che visuali, sociali o dell’intrattenimento, ideati per attirare folle di visitatori, tanto da rendere secondaria l’esposizione di oggetti. Il fenomeno della edificazione di nuovi musei dal 1997, dal Guggenheim Museum di Bilbao, disegnato da Frank O. Gehry, “scolpito” come una monumentale scultura, ha avviato un processo inesorabile di modificazione di punti di vista e funzione del museo. È cambiato l’approccio ai luoghi espositivi, lo spazio espone se stesso e la centralità del museo come luogo più accreditato e ambito per normalizzare l’arte contemporanea o altri sedicenti artisti rispecchia le
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fantasmagorie della post-modernità, elude concetti di meditazione, riflessione e raccoglimento. Mecenati, industriali, imprese, stilisti, collezionisti, designer, architetti, brand sembrano affetti dall’ambizione di museificarsi; sono fenomeni che rispecchiano l’attitudine della cultura del progetto del nuovo millennio applicata all’architettura, al luogo, all’ambiente, alla città, alla promozione turistica sempre più finalizzata alla costruzione di spazi di informazioni flui de, di reti ed esperienze condivise. Dalle seconde avanguardie storiche del Novecento, l’arte si è orientata verso una inesorabile smaterializzazione e a tale concettualizzazione, che trova la sua massima espressione nella “Conceptual art”, negli anni “00”, si affianca una tendenza contraria, che vira verso la costruzione di nuovi musei da una parte e dal l’altra trasforma edifici, spazi, luoghi e ambienti in “mac chine esperienziali”, investendo nel potenziale delle tecnologie complesse, che interagiscono tra loro, come espressione di una nuova sensibilità. Comunicazione, informazione, massificazione, connessione globale. Il pensiero progettuale intorno al fare mostre assegna all’esteriorità, all’effimero, all’immediata riconoscibilità, alla superficialità valori estetici, invece che all’interiorità e all’arte come espressione del processo concettuale, linguaggio filosofico o antropologico2. Il nuovo millennio sembra porre al centro del suo interesse modalità espositive multimediali come feticcio del nostro tempo, che punta sulla costruzione dell’artista-divo, sul museo di marca e di mostre brand pensate per assecondare richieste del mercato, rispondere ai bisogni del marketing. È il sintomo di un procedere costruttivo che potenzia l’impatto dell’iconico, dove contano rapidità di identificazione e valore comunicativo di ambienti immersivi diffusi nella città, come forma di promozione turistica culturale o di riqualificazione e valorizzazione del territorio. E in questo mare magnum della creatività tra un’opera dipinta e una parete o architettura trasformata in maxi schermo, con mostre basate su significati instabili e aleatori, la quantità vince sulla qualità. Complice di un’economia edificata sulla noto-
rietà dell’artista o del museo inteso come marca, macchina esperienziale o sull’appeal spettacolare della città, del paesaggio più o meno suggestivo, è l’appiattimento della critica d’arte che si è conformata alle necessità di promozione di eventi di comunicazione più che mostrare processi di ricerca di un’artista o individuare narrazioni poetiche, interazioni tra l’opera, lo spazio e la società. Jerry Salz, veterano critico d’arte nel newyorkese «Village Voice», tre volte nominato per il premio Pulizer per la critica, dice: «Negli ultimi cinquant’anni il giudizio dei critici d’arte non ha mai goduto di una considerazione minore di adesso. Posso scrivere che un’opera è brutta senza quasi sortire alcun effetto, ma anche sostenere che è bella con conseguenze quasi inesistenti. Idem se non scrivo proprio niente». Del resto, già alla fine degli anni Sessanta, l’influenza dei critici sul trend dell’arte e sulle scelte dei collezionisti era stata soppiantata da galleristi come Leo Castelli e André Emmerich e collezionisti influenti. Le cause di tali cambiamenti sono imputabili al rapido sviluppo delle conoscenze umane, alla rivoluzione digitale che negli ultimi anni hanno radicalmente modificato la percezione del mondo. Il concetto di mostra così come ci è stato tramandato dal passato è ormai superato, è il valore economico e non il giudizio dei curatori a determinare ciò che viene appeso alle pareti dei musei. Anche i materiali utilizzati per fare arte e produrre mostre non sono più solamente quelli tradizionali, ma per lo più sono immateriali, prelevati dal mondo dell’informazione e delle tecnologie sofisticate in grado di produrre eventi diversi che rispecchiano una condizione di esperienzialità. Centro di interesse del “mostrismo” sono progetti sinestetici mirati che oggi impiegano oltre alla luce, il suono, sensazioni olfattive, Led, modellazione digitale con sistemi ad alta tecnologia, interattività e altro. L’obiettivo è di materializzare dimensioni virtuali, di na miche, fluide, punti luminosi di connessione a tempo reale con spazi fisici e in rete. Le mostre inscenano anche luoghi attivi, aperti alle ibridazioni tra luce, suono, architettura e design, spazio e ambiente, integrate al conte-
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sto fisico: sono piattaforme cinetiche sviluppate in una rete di flussi, di scambi e di possibilità ancora tutte da esplorare. Complice di un mostrismo diffuso che teatralizza i luoghi urbani, è la Light Art fuori e dentro spazi pubblici e privati, considerata non più un’appendice decorativa o una macchina visiva legata a operazioni di marketing esperienziale, che mira ad effetti spettacolari ad alta definizione, ma come una pila fotovoltaica del nuovo millennio. Multimedialità, ambienti immersivi, interattivi sono l’espressione delle industrie culturali, nate sotto il segno dell’immaterialità, della volontà di creare desiderio, simultaneità e il sincretismo multimediale, in cui il World Wide Web diventa pelle, “texture” della cultura contemporanea. Ne è un esempio il Museion, a Bolzano, di KSV Kruger Schuberth Vandreike, inaugurato nel 2008, centro d’arte contemporanea, vetrina catarifrangente dell’arte, edificio fluido e aperto che ha investito nella luce e nel vetro, mettendo in relazione l’interno con l’esterno. L’architettura, come sempre, rivela le forme del suo tempo: questo museo cubico, concepito come una scultura minimalista luminosa, costruito in acciaio, apparentemente svuotato su due lati, interamente composto di vetri, che vive di luce naturale di giorno e artificiale di notte, materializza il concept di ricerca di smaterializzazione degli edifici e dei luoghi interattivi, in cui la luce e la tecnologia potenziano l’effetto tridimensionale dell’architettura. Il mostrismo poggia sulla Light Art che utilizza sofisticati sistemi di collegamenti con laser, web, suoni liquidi, proiezioni di nuvole frattali e di reti interconnesse, rovesciamenti di colori, flash che fluttuano ad intermittenza o piogge di raggi laser, diagonali luminose che costellano un universo immateriale. Il mostrismo diventa un modello connotativo di spazi fisici e digitali, piattaforme di informazioni legate alla sua rappresentazione tramite nuovi principi dell’interattività, intercambiabilità e mutabilità, anche di sistemi ottici con laser, fibre ottiche e Led, che materializzano spazi “liquidi” performativi. Percezione dello spazio fisico. Dal 1851, con il Crystal Palace, costruito in Hyde Park da Joseph Paxton per ospita-
re la Great Exihibition di Londra, prende forma l’arte del l’esporre: è questa ricerca che non si è ancora esaurita. La mostra-mania rappresenta una sintesi tra percezione artificiale e naturale, sperimentando materiali fototropici che vivono di luce, in cui l’informazione, e la sua spettacolarizzazione, rendono visibili dimensioni emozionali e trasversali, per mostre che dovrebbero contenere nuovi valori cognitivi, emotivi, formali, tecnologici e sinestetici. Andiamo verso sperimentazioni sempre più protese verso una interattività “illuminata”, tecnologica ed emotiva. Tutte le mostre si generano in relazione con lo spazio e la società, rispecchiano progetti specifici e le opere esposte al di fuori di questi contenitori non sono autonome poiché si ibridano con l’architettura. Dove c’è una mostra c’è comunicazione, informazione, scambio, riqualificazione di edifici o aree abbandonate; diventa il messaggio che attiva un sistema complesso di persuasione della cultura di massa, fondata sull’intrattenimento come promozione di uno spazio attitudinale che pone al centro della ricerca l’esperienza in cui lo spettatore vive. Il mostrismo massifica la tecnologia a tutti i livelli per corrispondere al mercato emozionale, giocando sullo stupore e sull’effetto performativo di vedere apparire dal buio spazi virtuali, immersivi, con l’obiettivo di trascinare gli spettatori dentro a visioni cosmiche sorprendenti, d’impatto, che incantano e materializzano possibilità di evasione in un Eden multimediale attraverso interfaccia tattili o altri sistemi di modellazione e dispositivi digitali sofisticati che trasformano gli ambienti virtuali in amplificatori di potenzialità oniriche. Magia e tecnologia, stupore e ingegneria, sono paradossi che si ibridano nel fenomeno del mostrismo, con lo scopo di mettere in evidenza relazioni visive dalle potenzialità estetiche sorprendenti, in cui lo spettatore diventa attore e s’immerge con tutto il corpo che “vede e sente” altro dalla realtà. Mostre “allucinogene” stranianti mettono in scena l’evasione dalla realtà come potenzialità virtuale nella sconfinata area dell’antimateria che democratizza il desiderio di
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lieux fluidi all’insegna di una Estetica sociale diffusa che massifica la multimedialità e la complessità della cultura informatica. La moda del consumo delle mostre è l’espressione di arte condivisa, un happening collettivo, un rito di partecipazione a processi relazionali, più rapidi in rete, che annulla la barriera tra reale e artificiale. Le mostre contemporanee hanno successo quando puntano sulla partecipazione e l’interazione dello spettatore, valorizzando un circuito di scambi e forme di identità complesse, seppure effimere in bilico tra eccesso informativo e narrazioni poetiche.
1 A. Abruzzese, Spazi museali. Le discariche del mondo moderno e il loro perturbante, in “I musei dell’Iperconsumo”, a cura di P. Ciorra e S. Suma, Atti del convegno, Accademia di San Luca e Triennale di Milano, Roma 2002. 2 M. Perniola, L’arte espansa, Einaudi, Torino 2015. 3 D. Thompson, Lo squalo da12 milioni di dollari, Mondadori, Milano 2009, p. 297.
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Moda: sistema e processi MARIA ANTONIETTA SBORDONE
Premessa L’indagine sulla Moda si avvale di contributi di autori provenienti da settori disciplinari diversi che analizzano il fenomeno per la sua capacità intrinseca di incidere profondamente nella società, manifestandosi nelle forme di una cultura transitoria dai caratteri elitari, viceversa quotidiani che sconfinano nella cultura urbana Pop. I luoghi comuni sul fenomeno Moda ne sottolineano il lato effimero1, corrispondente allo strato superficiale della contemporaneità, nonostante condensi i significanti più profondi di un passato continuamente interpretabile. Ha il potere di sancire l’inizio e la fine di uno stile e decidere incondizionatamente cosa è alla moda e cosa non lo è più. Da strumento di differenziazione sociale2, ascrivibile al manifestarsi della moda del primo industrialesimo che agisce come elemento di esclusione, si assiste, contemporaneamente, al fenomeno della sua diffusione che attraverserà trasversalmente le classi sociali fino ai giorni nostri. La moda dilaga, si diffonde in modo istantaneo, agisce sulla componente comunicativa e psicologica, dà conferma del l’appartenenza ad una élite e paradossalmente determina la dinamica distintiva dell’esclusività. Dinamiche variabili che anticipano il fenomeno della moda come ‘discorso sociale’3 alimentato, soprattutto, da-
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gli apparati pubblicitari delle riviste e degli eventi collegati. Viceversa il sistema moda è tra le realtà produttive manifatturiere più complesse che produce senso e lo rinnova continuamente a ritmi sostenuti, da cui la locuzione ‘tempo impaziente della moda’4. I processi del sistema moda, nella loro complessa fenomenologia, sono l’esempio calzante dell’esperienza della con temporaneità, prestandosi alla definizione di ambito delle attività umane che introduce nello scorrere lineare del tempo una sostanziale discontinuità. Nell’attribuire un valore nuovo a materiali, processi e linguaggi si sperimentano e si creano narrazioni riconducibili ad ambiti progettuali differenziati che sconfinano nella biologia, nella tecnologia, nella nuova estetica, nello spettacolo, ecc., che seguono vari filoni di ricerca, quali; il remunufacturing, il pro-user innovation, lo human beautyconnection, il pro-creation, l’hi-performative dress e il body apparel. Dinamismo corpo-moda-società
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L’indagine sulla Moda si avvale di contributi di autori provenienti da vari settori disciplinari che analizzano il fenomeno attraverso la capacità di incidere profondamente nella società, di modificarla e di influenzare la concezione del corpo; la formalizzazione di comportamenti nuovi e la concretizzazione di un’estetica del contemporaneo rendono espliciti i risultati dello sviluppo culturale, scientifico e tecnologico, nell’attualità del loro prodursi. Compito gravoso se si pensa ai luoghi comuni che nella Moda leggono un fenomeno che si nutre dell’effimero5 e del transitorio che sancisce l’inizio e la fine di uno stile e decide incondizionatamente cosa è alla moda e cosa non lo è più. La moda da strumento di differenziazione sociale6, nel primo industrialesimo agisce come leva per l’esclusione, trasformandosi in fenomeno pervasivo, la cui diffusione attraverserà trasversalmente le classi sociali fino ai nostri giorni. Gli strumenti di diffusione agiscono sulla compo-
nente comunicativa e psicologica, affermando l’appartenenza ad una élite, ad un gruppo pur nella paradossale ipotesi di distinzione e incontrollato piacere dell’effimero che provoca la reazione al consumo compulsivo. Il piacere per le forme dell’effimero è considerato, tra gli altri, un aspetto generalizzato di una prassi che si esercita nella pratica materiale del consumo. Il corpo è materia viva dove la nuova immagine attecchisce facilmente: la sua evoluzione determina nuove tecniche di rappresentazione. Esse si distinguono come entità separate nei “regimi suntuari” rispetto ai cosiddetti “regimi della moda”7. Nella società europea, dove all’origine si stabiliscono le regole in base alla ‘legge suntuaria’, il concetto evolve, transitando attraverso l’interdizione ad una società detta “della moda”, così come noi la conosciamo. Il passaggio da uno stato in cui lo scopo principale è quello di reprimere il lusso esagerato, invenzione dell’impero romano, ad uno segnato dall’affermarsi generalizzato al dominio della moda, determina la rivoluzione dei consumi. Nei domini a regime suntuario, il corpo è il piano neutro sul quale iscrivere e trasmettere i valori dell’identità e della differenza; nei regimi detti della moda il corpo è un sito per l’iscrizione di un desiderio generalizzato di consumare nel contesto dell’estetica dell’effimero8. Secondo Laura Mulvey9, le tecniche di cui il corpo si serve per affrontare il moderno consumo, fanno riferimento alla scopofilia (il piacere dello sguardo) in relazione alle diete che sconfinano nella chirurgia estetica, fino alla transizione sessuale. Si tratta di tecniche che associano al corpo un ruolo effimero e manipolabile, come desidera il consumatore, al quale associare un sistema di pratiche di moda in cui l’impersonificazione (di altri generi sessuali, classi, ruoli e occupazioni), e non l’indicizzazione, diviene la chiave della distinzione. Il corpo è al centro della rivoluzione dell’accelerazione dei consumi di massa; materia prima modellabile per l’applicazione di nuove tecnologie che influenzano e reciproca-
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mente sono influenzate dai nuovi comportamenti, a cui corrisponde l’immagine della moda, espressione della necessità di una estetica del quotidiano. Lo status plurale
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Laboratorio di creazione di scenari evolutivi, la moda attualizza il senso ininterrottamente, determina i valori che transitano nella società e attraverso la creazione di forme sancisce la nuova immagine; elabora linguaggi, li rinnova, adotta il lifestyle che migra nella sua forma più contemporanea ed elitaria di mindstyle in chiave di personalizzazione avanzata dello stile. Il passaggio graduale e progressivo da una concezione dell’abito come garanzia per il raggiungimento di uno status esclusivo, ancorato ad un brand di riferimento, ad uno che utilizza in maniera atemporale e simultanea più stili e brand, rappresenta la deriva inevitabile per il marketing customer satisfaction degli anni ’80. Il primo stadio è comunemente identificato con il fenomeno moda che, non prevedendo repliche o similitudini, è tutto interno all’industria del fashion più consolidata, l’altro, partendo dalla costruzione di un proprio codice di rappresentazione, utilizza il brand o più brand come approdo personale ed esclusivo. Meccanismo, caratterizzato da una progressione lineare che dalla moda passa allo styling, determinato da un radicale cambiamento nel modo di avvicinarsi al fenomeno moda. Cambiamento che identifica nell’utente un consumatore che, non riconoscendosi più nell’acquisto di un capo riconducibile per manifattura e per linea ad un brand, rincorre l’idea di concretizzare un proprio stile attraverso l’acquisto diversificato e trasversale. Questa tendenza ben presto si afferma come la chiara volontà di denunciare uno stile originale, provocando quel distacco programmato dalla moda come espressione del mutamento costante e graduale che si rinnova ad ogni stagione, ad una moda propria, allo styling, risposta alla diversificazione plurale.
Scenario che segna il passaggio da un acquirente passivo portatore di un brand riconoscibile, ad uno interprete di se stesso, grazie all’appartenenza, tanto più identificabile, ad una moltitudine di stili. La tendenza da marginale, diffondendosi, assume dimensioni significative e determina nelle case di moda il fenomeno della proliferazione di ex tention e, in taluni casi, di parental brand con il chiaro obiettivo di presentarsi sul mercato con una pluri-offerta in cui diversi stili convivono senza sovrapposizioni, capaci di integrarsi trasversalmente tra loro e addirittura con altri provenienti da contenitori diversi. Il processo inizia verosimilmente con la proliferazione dell’offerta e quindi di marchi che propongono ognuno un proprio stile, fenomeno identificato come cross dressing. L’utente si appropria del proprio spazio di co-design ed esibisce la propria identità secondo una stratificazione di appartenenze alle quali dà voce ed evidenza a proprio piacimento: la creatività dell’utente finale determina gradualmente nuovi significati accanto a quelli programmatici del marketing aziendale, portando la moda da generatrice di status symbol ad una che provoca style symbol. Uno style symbol che procede secondo la dinamica della costruzione quotidiana del sé, dal recupero di una dimensione che, non dipendendo più esclusivamente dallo status sociale, diventa prerogativa di un mindstyle personalissimo. Il processo di personalizzazione richiede alla moda un percorso diverso da quello che la vede esclusiva interprete di un’estetica autoreferenziale; difatti, il marketing aziendale sposta costantemente la propria attenzione dall’analisi dei profili psicologici e culturali del consumatore alle dinamiche della società secondo un’interpretazione globale, in chiave soprattutto di visioni plurali. Elementi di un discorso sociale Le dinamiche pervasive della moda hanno un forte impatto sulla società anticipando un aspetto che riguarda il ‘discorso sociale’10 che si avvale degli apparati pubblicitari,
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delle riviste specializzate e degli eventi collegati, per incidere nelle dinamiche sociali e determinarne gli orientamenti. Difficile è stabilire quanto durerà la rappresentazione del sé, visto il meccanismo di gocciolamento, noto come trickle down effect11, i caratteri del ‘nuovo’ a cascata, dal l’alto, si espandono diffondendosi verso il basso in una dimensione allargata, collettiva e sincronica. Esiste un meccanismo contrario bottom up che restituisce dignità ai fenomeni dello street style o delle culture pop urbane, la cosiddetta moda della strada con le recenti derive di decostruzione post-punk. La dinamica bottom up rivitalizza i contenuti della moda, coglie gli elementi che emergono dal corpo della società, intuisce i codici del rinnovamento che si traducono in sperimentazione, indice distintivo della moda che si reinventa. Detti meccanismi determinano una sorta di azzeramento del tempo lineare dovuto, in parte, a dinamiche proprie al sistema moda, tendenti a facilitare il consumo del ‘nuovo’, ed in parte, ad assecondare i comportamenti degli utilizzatori che si sviluppano nella società. Il riconoscimento e l’adozione del ‘nuovo stile’, racchiude i caratteri della condivisione e dell’appartenenza che dilagano per diventare strumento di identificazione all’interno di un gruppo, determinando un valore sociale che accomuna. Lo stesso valore stabilito dal giudizio di un singolo o di un gruppo ristretto, in base a meccanismi percettivi e poi emulativi, si manifesta nelle forme dell’adozione incondizionata e per certi versi dell’esibizione ostentatoria. Inevitabilmente, il giudizio del singolo, se trasferito alla dimensione allargata della società, diventa preminentemente un giudizio relazionale che sancisce l’attualità o meno di quel dato fenomeno. Difatti, le qualità percepite appartengono alla sfera del sensibile e coinvolgono valori intangibili di natura estetica e culturale. La moda in questa accezione è strumento di rinnovamento dei valori dell’estetica del quotidiano; si fa carico dei processi di attualizzazione della forma delle cose e della loro più ampia adozione: “vale ciò che piace a molti e non è un giudizio esclusivo”12, bensì riconosciuto e condiviso.
L’idea di moda quindi si afferma nella capacità di essere dentro i fenomeni del quotidiano e contemporaneamente esserne totalmente fuori, distinguendosi per la compresenza di più dimensioni temporali. Denota la dimensione del fare umano che ri-fonda incessantemente i presupposti sui quali si costruisce l’estetica del quotidiano. La matrice costitutiva dipende dal significato che si riconosce ai manufatti e alla loro forma; l’immagine è mediata dalla comunicazione, dai meccanismi di marketing che si richiudono in tendenze dai tratti ben distinti. Discronie della moda La concretizzazione del pensiero progettuale anche se momentaneo, il determinismo necessario alla moda come strumento di manipolazione del presente, si fonda su modalità produttive locali e globali, artigianali, industriali o digitali, tutte convergenti nell’unico obbiettivo di attualizzazione della società. I processi della moda nella loro complessa fenomenologia, sono l’esempio calzante dell’esperienza della contemporaneità, prestandosi alla definizione di ambito delle attività umane che introduce nello scorrere del tempo lineare una sostanziale discontinuità. Affermando l’attualità o inattualità, il non-essere-piùalla-moda, si innesca un meccanismo di ‘sfasamento’, si percepisce la differenza tra il prima e il dopo. L’attualità o meno della moda potrebbe essere l’attimo in cui si crea un abito o il seguito, quando diventa un prototipo per passare alle varie fasi di lavorazione. Viceversa, l’attualità è riferibile alla passerella o al momento in cui appare nelle riviste o addirittura quando arriva alla distribuzione, e si vede l’abito indossato che attraversa i luoghi e quindi lo spazio e il tempo del quotidiano? Per Agamben13 la moda ha il suo tempo per manifestarsi ed è costitutivamente in anticipo su sé stessa e, proprio per questo, anche sempre in ritardo, ha sempre la forma di una soglia inafferrabile fra un ‘non ancora’ e un ‘non piú’. In questo senso, se la moda come la contemporaneità
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comporta una sfasatura, essere alla moda significa allo stesso tempo esserne già fuori. Agamben si chiede se è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con il suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale, ma ciò significa che si verifica uno scarto e questa frattura fa sì che l’eventuale anacronismo diventa una marcia in più per percepire ed afferrare il suo tempo. Si evidenzia una discronia tra il vivere il proprio tempo e immediatamente esserne fuori per cui la contemporaneità è una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce ad esso e, insieme, ne prende le distanze; piú precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo. Chiunque coincide troppo con l’epoca in cui vive e vi combacia perfettamente non può essere contemporaneo perché non riesce a vederla, per Agamben significa affinare il significato: contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Questa peculiare ‘sfasatura’ favorisce il realizzarsi di una condizione di non-contemporaneità, quella particolare dinamica racchiusa nel “citare”; emblematico il caso della moda che ritorna; gli anni ’50, ’60, o ’70 ispirano collezioni che si appropriano dell’immagine, del sistema stilistico di quel dato periodo e dovendo attualizzarli, rivoluzionano i materiali, i modi e le tecniche di lavorazione e di produzione. L’osservazione di questi fenomeni con il loro riproporsi coinvolge inevitabilmente la re-visione del passato, un’imprevedibile dinamica di accadimenti infinitamente interpretabile. Questo è tanto più vero quanto più vera è la riflessione sull’esistenza di una dimensione ‘discronica’ della contemporaneità; poiché non è soggetta a manipolazioni, si lascia plasmare sotto l’effetto di trasformazioni ricorrenti che costituiscono quel serbatoio di non-contemporaneità che emergono sulla superficie delle cose e che vengono da molto lontano. La dualità è il terreno in cui le “discronie”14 esercitano il loro continuo fare(si) e disfare(si), un
assommarsi di immagini che difficilmente si riesce a separare da ciò che è avvenuto appena un istante prima o appena dopo; ciò equivale ad equilibrare il passato con la visione del futuro che lascia le intenzioni e i contesti aperti e sempre mutevoli nel tempo. Ambiti di Ricerca La ricerca nella moda trae spunto narrativo da ambiti diversi, le tematiche di ricerca individuano percorsi evolutivi che distinguono le componenti originate all’interno del sistema stesso, da quelle che nascono in territori lontani e che ne aumentano il grado di sperimentazione amplificandone la visione. Nell’attribuire un valore nuovo a materiali, processi e linguaggi si sperimentano e si creano narrazioni riconducibili ad ambiti progettuali eterogenei che sconfinano nella biologia, nella tecnologia, nella nuova estetica, nello spettacolo, ecc., che seguono, come si è detto, vari filoni di ricerca quali; il re-munufacturing, il pro-user innovation, lo human beauty-connection, il pro-creation, l’hi-performative dress e il body apparel. L’Hi-Performative Dress è ispirato dai temi della sopravvivenza. Coinvolgendo le persone in difficoltà e incoraggiandole a partecipare ad azioni collettive si produce una loro sensibilizzazione, nel loro ruolo e come parte del tutto. Le creazioni rispondono alle pressanti esigenze dei Paesi emergenti che chiedono soluzioni adatte ad affrontare le crisi e a guidare le migrazioni dei cosiddetti profughi ambientali. Sulla base della potenza narrativa della moda, nasce la necessità di progettare una serie di complessi scenari sui flussi migratori e di anticipare e prevenire disastri tecnologici ed ecologici maggiori. Lo Human Beauty Connection raccoglie la sfida sugli sviluppi dell’umano in relazione alle nuove tecnologie che scatenano una serie di interrogativi sulla probabile nuova configurazione del corpo contemporaneo. In base a queste premesse la bellezza cerca nuovi modelli, si guarda al futu-
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ro spingendo oltre i limiti dell’umano, le nuove generazioni osano con la rappresentazione del corpo attraverso le sue estensioni o le sue concentrazioni. La bellezza intesa come armonia delle parti e del tutto, oggi è messa in discussione, l’unitarietà identitaria è frammentata al pari delle appartenenze. L’identificazione rispetto ad una data appartenenza o a un’altra comporta l’adoperarsi affinché il corpo comunichi pienamente attraverso i segni. Non ci si può aspettare di essere ‘veri’ se tutti gli elementi identificativi non funzionano in relazione tra loro: la bellezza è la manifestazione esteriore della capacità di esprimere questa dinamica. Il corpo si trasforma per accogliere e per essere accolto in un nuovo sistema di segni che diventano i contenuti, la materia dalla quale far derivare quel dato progetto di sé. Il Body Apparel riguarda la sperimentazione attraverso l’ibridazione delle conoscenze, all’incontro con pratiche manuali flessibili e differenziate e una concezione avanzata della tecnologia applicata, elementi costanti e comuni a tanti creativi. Il corpo umano nell’incontro con le tecnologie ri-nasce: le sue funzioni vengono ripetute nell’artificiale e rinnovate; i processi che si verificano in natura vengono riprodotti in una relazione interattiva con il corpo; si programmano nuove funzioni che si sovrappongono come una seconda pelle e interagiscono formulando nuovi comportamenti. Un tema che indaga il rapporto tra bisogni primari ed estetica del consumo e che propone, attraverso il prodursi di oggetti strumenti user-extention, una rinnovata relazione tra l’artefatto e il suo utilizzatore. Il Pro-creation suggerisce di esplorare nella moda lo spazio che si rende disponibile nel mondo dello spettacolo. L’interesse viene da lontano, da quando al Bauhaus l’officina dei costumi realizzava strutture per l’Arte Teatrale; una forma di progettazione totale nella quale i costumi e gli spettacoli partecipano simultaneamente alla loro ideazione. Il Re-Manufacturing ovvero rigenerazione, significa “riparazione e revisione” di pezzi di altri organismi più complessi che dopo essere stati ri-lavorati sono rivenduti e distribuiti e reimmessi sul mercato. I termini più comuni
sono: riutilizzare, rigenerare, riparare, ri-condizionare, riciclare, ri-funzionalizzare. Il re-manufacturing si avvale prevalentemente di un processo manuale che si realizza in pochi metri quadrati; si tratta del futuro artigiano che secondo Sennett (2008) connota coloro che, personalizzando il loro lavoro, lo rivestono di unicità, essendo il risultato di un dialogo continuo tra manualità e riflessione teorica, secondo un processo di apprendimento costante. Il processo è quello di recuperare realmente o idealmente attraverso il meccanismo della ‘citazione’, abiti, oggetti, o anche rifiuti industriali o civili: si raccolgono, si studiano, si cerca l’origine e il nuovo collocamento, si lavorano; smontaggio, rimessa in stato, riposizionamenti in altri contesti o per altri utilizzi; si mescolano, si ibridano con altri materiali, si ri-lavorano, si ri-inseriscono, si ri-cuciono… In un modo o in altro vengono ri-composti, alcuni per assolvere alla stessa funzione d’origine, ma in contesti diversi, altri per rinascere a nuova, totalmente differente vita. Il Pro-User Innovation si riferisce direttamente alle persone e ai loro bisogni. Si guardano, si incontrano, si osservano, si ascoltano si chiede il loro parere, provando con loro a pensare a oggetti nuovi, a spronarle nel soffermarsi ad osservare e analizzare un nuovo gesto. La naturalità del prodursi inconsapevole di nuovi gesti, scaturisce dal modo alternativo che individualmente si fa dell’esperienza d’uso di quell’oggetto o di quel dato strumento in relazione al proprio corpo. Si prospetta un tipo di innovazione che parte dai comportamenti (behavioural innovation) e attecchisce laddove il bisogno di utilità amplificata consente alle persone di agire liberamente senza forzature, perché le cose suggeriscono il loro utilizzo secondo un alto indice di naturalità. L’Hi-Performative Dress considera il design per la moda come mezzo per stimolare la discussione e il dibattito tra i progettisti, l’industria e il pubblico sulle implicazioni sociali, culturali ed etiche esistenti circa l’utilizzo delle tecnologie emergenti. Creazioni per le nuove abilità del corpo realizzate grazie ad Arduino, abiti dotati di sensori ad infrarossi che percepiscono ed interagiscono al mutare delle
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condizioni ambientali, trasformandosi. Gli sviluppi dell’umano in relazione alle nuove tecnologie e soprattutto all’Internet delle Cose (IoT) scatena una serie di interrogativi sulla dimensione del corpo futuro in relazione ad esempio agli oggetti che Bruce Sterling denomina ‘biote’. Secondo le sue previsioni svilupperanno un sistema relazionale interno, in breve comunicheranno tra di loro; di fronte a queste sfide il corpo e la bellezza perdono la carica originaria: si guarda al futuro spingendo i limiti dell’umano verso una progettazione del sé fuori dagli schemi convenzionali.
1 G. Lipovetsky, L’empire de l’éphémère, Folio Essais, Parigi 1991. 2 V. Thorstein, Il consumo vistoso, Editore Centopagine, Torino (1902 prima edizione Conspicuous Consumption) 2011. 3 R. Barthes, Il sistema della moda, Einaudi, Torino 1967. 4 G. Simmel, La moda, Oscar Mondadori, Milano (1895 prima edizione) 2001. 5 G. Lipovetzsky, op. cit. 6 V. Thorstein, op. cit. 7 A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma (1996 prima edizione) 2004. 8 Ivi. 9 L. Mulvey, Visual and other Pleasures, Indiana University Press, Bloomington 1989. 10 R. Barthes, op. cit. 11 G. Simmel, op. cit. 12 F. Trabucco, Design, Bollati Boringhieri, Torino 2015. 13 G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo? Nottetempo collana “I Sassi”, Assago Milanese, Milano 2008. 14 M.A. Sbordone, Discronie. Fenomeni del contemporaneo nella Moda e nel Design, Alinea Editore, Firenze 2012.
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Libri, riviste e mostre
R. De Fusco - R.R. Rusciano, Design e Mezzogiorno tra storia e metafora, Progedit, Bari 2015. Comunemente si pensa che il Mezzogiorno sia un luogo sospeso nel tempo, la cui cultura millenaria s’è per così dire cristallizzata, incapace di evolversi, da secoli, incastonata in un magnifico paesaggio che trae la sua bellezza da fortunate condizioni geo climatiche. Perciò il titolo del recente saggio di De Fusco e Rusciano – Design e Mezzogiorno – deve apparire inizialmente ossimorico: il design come simbo lo della modernità del Nord e il Mezzogiorno come simbolo del sottosviluppo del Sud d’Italia. I tempi di Federico II appartengono ai libri di storia, la stupefacente architettura arabo-normanna, il magnifico edificio della Zisa, capolavoro di fisica tecnica… sono ormai residui di una gloria lontana, testimonianza d’un passato che fu. Più di recente, però, quale ruolo giocò il Mezzogiorno nella Rivoluzione industriale? Quale apporto diede allo svilup-
po del Paese? Certo, il triangolo industriale si sviluppò tra Torino, Milano e Genova; ed è Milano, si sa, la capitale – indiscussa e per certi versi mondiale – del design. Ma proviamo, paradossalmente, ha cambiare il nostro punto di vista, per un attimo: e se il Regno delle Due Sicilie, fondato nel 1734, fosse stato più progredito del Nord? Se una rivoluzione industriale italica fosse scoppiata nel Sud, con i Borbone, e non altrove? Certo, la cosa potrebbe insospettire, fare pensare a uno sciocco anelito nostalgico-regionalistico, tanto più quando un critico palermitano recensisce il testo di uno storico napoletano. Allora veniamo ai fatti, a cominciare da un dato piuttosto interessante: all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1856 risultò che le Due Sicilie erano lo Stato più industrializzato d’Ita lia e il terzo in Europa, dopo Inghilterra e Francia. Sul piano culturale e artistico, il Sud non aveva certo nulla da invidiare al Nord. Come scrive Giuseppe Ressa, Napoli era il centro di
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pensiero più vivace d’Italia e seconda solo a Parigi per la diffusione delle idee dell’Illuminismo […] Ebbe a dire Stendhal: “Napoli è l’unica capitale d’Italia, tutte le altre grandi città sono delle Lione rafforzate”; era di gran lunga la più grande d’Italia e tra le prime quattro d’Europa, la più grande città europea messa nel mare, un centro commerciale attivissimo. Nel Regno delle Due Sicilie, c’erano quattro università: quella di Napoli, fondata da Federico II nel 1224, quelle di Messina e Catania, rinnovate dai Borbone, e la neonata Università di Palermo; a Milano la prima uni versità, il Politecnico, fu fondata solo nel 1863. Prosperava al Sud una delle maggiori nazioni europee, con un’economia solidissima, tanto da spingere molti imprenditori esteri a investire nel Mezzogiorno: se prima o poco dopo l’Unità d’Italia dal Settentrione povero molta mano d’opera si spostò nelle nazioni europee sperimentando lo sviluppo industriale, qualche tempo prima dell’Unità, quando il Mezzogiorno era ricco, molti industriali stranieri vennero al Sud. Soprattutto, si registra nel Mezzogiorno una sequela galoppante di primati di ordine industriale e tecnologico. Il caso forse più noto quanto eclatante è la ferrovia Napoli-Portici, diventata retoricamente uno dei primi primati. […] Ferdinando II intuì per primo in Italia le potenzialità di un nuovo mezzo di trasporto che dal 1829 si muoveva velocemente nelle campagne inglesi: la locomotiva. Per volere del regnante Borbone, il 3
ottobre del 1839 ci fu l’inaugurazione del tratto Napoli-Portici della prima ferrovia italiana, progettata dall’ingegnere francese Armando Bayard de la Vingtrie. Allo stesso modo, già nel 1818 il primo mezzo navale a vapore varato nel Mediterraneo (una goletta) fu costruito nelle Due Sicilie e fu anche il primo al mondo a navigare per mare e non su acque interne: era il Ferdinando I, realizzato nel cantiere di Stanislao Filosa al Ponte di Vigliena presso Napoli; si tratta effettivamente di un primato perché persino l’Inghilterra [la nazione in quel momento più industrializzata del mondo] dovette aspettare altri quattro anni per metter in mare un’imbarcazione a vapore, il Monkey, nel 1822. Il primo ponte a impalcato sospeso in ferro in Italia (tra i primi del mondo) fu quello Ferdinandeo sul fiume Garigliano del 1832, dal l’in ge gne ria avveniristica. Un an no prima, nel 1831, entrò in servizio la Francesco I che copriva la linea Palermo, Civitavecchia, Livorno, Genova, Mar siglia; con essa fu anche effettuata la prima crociera turistica del mondo nel 1833, in anticipo di più di 50 anni su quelle che la seguirono, che durò 3 mesi con partenza da Napoli, arrivo a Costantinopoli e ritorno tramite diversi scali intermedi. […] Nel 1847 fu introdotta per la prima volta in Ita lia la propulsione a elica con la nave Giglio delle Onde […] La prima nave che arrivò nel 1854, dopo 26 giorni di navigazione, a New York, era meridionale, il Sicilia; con gli Stati Uniti la bilancia commerciale delle Due
Sicilie era fortemente in attivo e il volume degli scambi era quasi il quintuplo del Piemonte. […] Nel 1860 il Regno delle Due Sicilie aveva la prima flotta mercantile e quella militare d’Italia, la seconda nel mondo. A partire da questi brillanti esempi, il saggio rileva la ricchissima cultura materiale del Sud, un design molto progredito, che assume qui un significato più ampio del solito, intendendolo riferito a ogni sorta di attività riconducibile all’industria come all’artigianato, al commercio come al consumo. A Napoli, per esempio, con la lavorazione della terraglia […] l’arte ceramica entrava in pieno nell’era dell’industrializzazione e del design. Inoltre, sia nel Meridione che in Sicilia, vanno citate, nella logica dei primati, l’industria tessile e quella delle cartiere. Tanto per stigmatizzare l’imbarazzante paragone produttivo Nord-Sud e ricordando che quello tessile fu il primo settore economicamente rilevante investito dalla meccanizzazione, prima dell’Unità d’Italia, oltre ai 414 operai della filatura Ponti, a Biella ne erano occupati 1600, a Torino nelle industrie miste di cotone e lana ne erano occupati 3744 mentre, contemporaneamente, nel Salernitano, comprensorio in cui si concentrò per eccellenza l’industria tessile meridionale, gli operai addetti alle fabbriche di tessuti erano 10244 […]; nei tre principali stabilimenti salernitani erano attivi 50 mila fusi contro i 100 mila di tutta la regione Lombardia; per questi motivi la provincia di Salerno venne definita dal suo inten-
dente come la «Manchester delle Due Sicilie». Nel profondo Sud del Regno, un fiore all’occhiello dell’industrializzazione fu l’attività imprenditoriale di Vincenzo Florio e delle sue cantine, fondate a Marsala nel 1833 e in seguito trasferite a Palermo, in concorrenza con le famiglie inglesi che già operavano nel settore, segnatamente i Woodhouse e gli Ingham. La concorrenza, prima che sui mercati […] avvenne sul piano tecnologico; nelle cantine Florio, ad esempio, si realizzò il primo imbottigliamento meccanico ben in anticipo su quelle delle due ditte citate. Così ebbe successo Vincenzo Florio che, con una piccola flotta di velieri, spediva prodotti di qualità a New York, Boston, Londra, Liverpool, Marsiglia, Genova, da cui importavano a Palermo una notevole varietà di mercanzie. Possiamo dire che la chiave per intendere la fortuna di Vincenzo Florio e dei suoi discendenti consistesse in un ciclo completo di attività: produrre merci e costruire navi con le quali esportare e importare da tutto il mondo. Man mano che questo ciclo operativo si ampliava, ogni settore migliorava e s’ammodernava. Non meno rilevante fu l’impresa del figlio di Vincenzo, Ignazio, che, dopo aver acquistato le isole di Favignana e Formica, ampliò e ammodernò la tonnara esistente, facendola diventare uno degli stabilimenti industriali più efficienti del tempo, dando lavoro a tantissimi operai e, grazie a una nuova tecnica di conservazione in scatola del tonno, rendendo i suoi prodotti qualificati e suscettibili di essere apprezzati in tutto
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il mondo. Sono poi legate a Ignazio Florio diverse eccellenti iniziative imprenditoriali come la Fondazione del giornale «L’Ora» di Palermo o la realizzazione del Cantiere navale del capoluogo palermitano… Ancora a Palermo, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del XX secolo, rifulge l’attività progettuale di due geniali architetti, Giovanni Battista Filippo Basile ed Ernesto, padre e figlio. Progettato dal primo e ultimato dal secondo, memorabile è il Teatro Massimo, il più grande d’Italia e uno dei più grandi d’Europa, terzo solo all’Opéra National di Parigi e alla Staatsoper di Vienna […] uno dei maggiori esempi italiani di Gesamtkun stwerk. Non meno innovativi sono il Villino Florio e Villa Igea all’Acquasanta, capolavori del Liberty italiano, entrambi a opera di Ernesto. In ordine di primati, mette conto notare che que st’ultimo non è soltanto l’esponente principale del Liberty, l’unico in Italia a fare progettazione totale (Gesamtkunstwerk); è anche designer ante litteram, progettista di arredi pensati, nel primo Novecento, in direzione dei processi industriali, nonché art director della Ducrot, quindi tra i primi a occuparsi di immagine coordinata di una ditta commerciale (corporate image), disegnando mobili, oggetti, carte da parati, marchi, caratteri tipografici… Grazie a Ernesto, la ditta Ducrot, fondata negli ultimi del l’Ottocento a Palermo dall’ingegnere francese Vittorio Ducrot, diviene presto sinonimo di raffinatezza, buon gusto e novità nell’arredamento: il binomio Basile-Ducrot rappresenta uno
dei connubi più proficui delle arti applicate del periodo, tanto da rappresentare quanto di meglio potesse esprimere l’Italia all’Esposizione Internazionale […] di Torino del 1902. Tale successo pla tea le si ripeté felicemente a Venezia nel 1903, quando il gruppo siciliano si presentò unito a ditte e disegnatori napoletani, e a Milano nel 1906, dove i successi della Ducrot si moltiplicano e danno la dimensione di una grande fabbrica: la Ducrot è infatti in grado di realizzare il ciclo completo dotandosi di laboratori per tutte le lavorazioni […] Allo stesso tempo ha enormemente esteso il suo campo produttivo che ora comprende anche l’arredamento economico, realizzando una capillare rete di distribuzione tanto in Italia quanto in Francia e in Inghilterra. Ma già nel 1919, questo impero industriale è in netta decadenza. […] Negli anni Trenta, nonostante la tenace persistenza dell’artigianato e dell’industria del Sud, la fine della Ducrot segna la crisi dell’industrial de sign in Sicilia. Com’è possibile, allora, che nella seconda metà del Novecento lo sviluppo industriale, su cui prese forma il fortunatissimo design italiano, prese campo al Nord e non al Sud? C’è un momento storico, cruciale, in cui parecchi miliardi sono passati dal Sud al Nord. […] Quali industrie aveva il Piemonte nel 1860? Quali la Lombardia? […] L’appaltatore arricchito del Piemonte è diventato industriale o banchiere, il costruttore lombardo si è trasformato in fabbricante di manifatture. Tut-
tavia, ciò non potea svolgersi senza un nuovo e più violento sacrifizio del Mezzogiorno: la sua trasformazione da colonia di contribuzione in colonia di consumo. Così, nel passaggio dal Regno delle Due Sicilie allo Stato sabaudo, si determinò una crisi mai risolta e denominata appunto «Questione meridionale». Il disegno politico dei piemontesi, fiancheggiati per motivi economici dalla Francia e soprattutto dall’Inghilterra, prevedeva uno sviluppo accelerato del Nord, finanziato proprio dalle risorse rastrellate al Sud [ovvero una] politica di sistematica rapina. Tanto per fare qualche esempio, i fiori all’occhiello dell’economia meridionale come Pietrarsa, i cantieri navali, gli stabilimenti siderurgici Mongiana e Ferdinandea, l’industria tessile e le cartiere caddero in rovina e furono immediatamente chiusi. Contemporaneamente al Nord sorsero quasi dal nulla analoghi stabilimenti come l’Arsenale di La Spezia o colossi come l’Orlando. Analoga politica economica fu adottata in relazione alla costruzione della ferriera di Antina (al momento dell’Unità due altoforni erano già pronti), la quale venne subito sospesa, favorendo l’incremento di analoghi complessi nell’area ligurepiemontese (l’Ansaldo, che prima del 1860 contava soltanto 500 dipendenti, li raddoppiò in due anni). Allo stesso modo, il governo di Torino trascurò la – un tempo – formidabile Marina Mercantile meridionale, preferendo stanziare anticipi di capitale e sovvenzioni per le società di navigazioni, negandoli a
quelle meridionali, che furono così tagliate fuori. Persino l’opificio di San Leucio, che aveva destato curiosità e ammirazione in tutta Europa, venne chiuso per cinque anni [e] poi dato in appalto a un piemontese. E via di seguito… Ma questa è storia passata. Nella terza parte del saggio, dedicata al post-moderno, gli autori descrivono la crisi del de sign ortodosso, basato sul circolo virtuoso qualità-quantità-basso prezzo, là dove il design s’è affermato storicamente, e cioè nel Nord, scosso già negli anni sessanta-settanta dai movimenti d’avanguardia: Radical, Anti- e Contro-Design. Si tratteggiano dunque gli effetti di una crisi post-industriale, che va tuttora spingendo la ricerca sul design, specialmente tra Milano e Torino, verso una dimensione immateriale, strategica nel senso di logistico-organizzativa, incentrata sul sistema e sulla progettazione del servizio offerto (design strategico, design sistemico e design dei servizi), che segna un allontanamento dalla cultura materiale e dal senso comune, ossia dai capisaldi della fenomenologia del design. E questa è storia più recente. Il Sud, invece – ecco la soluzione caldeggiata dagli autori –, attingendo alla storia e facendo leva sulla tradizione dell’industria meridionale delle Due Sicilie, potrebbe rilanciare la cultura materiale attraverso l’artidesign ovvero un mix di arte, artigianato e (industrial) design: un’attitudine, del resto, tipica del design italiano, che combina il meglio delle tecniche industriali all’attività manuale, il che significa an-
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che finitura di pregio e personalizzazione, con un approccio artistico in termini di concept e ricerca ovvero di valore e qualità. Cosa ben diversa dalla produzione industriale di massa (tipica della II Fase della Rivoluzione industriale), si tratterebbe di un’attività più mirata, che si risolve in oggetti fatti per durare, perfettamente adattabili, di grande valore e lontani anni luce dalla smania usa-e-getta di basso profilo industriale. D’altra parte, la storia come regno della lunga durata s’addice all’artidesign molto più che all’industria. Infatti mentre l’oggetto artigianale, al pari dell’opera d’arte, è potenzialmente senza scadenza, anzi si valorizza col tempo, il prodotto industriale, al contrario «deve» scadere, consumarsi, per far posto a una nuova serie. In questa prospettiva, il “meno progredito” Sud non avrebbe neppure bisogno di ripercorrere le tappe del progresso per mettersi al passo con i Paesi emergenti (più industrializzati), perché – metaforicamente parlando – potrebbe saltare sul treno dello sviluppo-progresso all’ultima fermata, senza andare a prenderlo al capolinea. Il treno della III Fase delle Rivoluzione industriale 2.0 (qualcuno parla già di IV Fase) è la stampante 3D, una macchina portentosa in grado di espandere nel mondo fisico i disegni computerizzati. È possibile così puntare sulla materia, paradossalmente, grazie ai software: se il web ha rappresentato il passaggio dagli atomi al virtuale, la stampante 3D adesso restituisce i bit al mondo reale, depositando materia per livelli strati-
ficati attraverso un software. Più di altri fattori utili allo sviluppo del Mezzogiorno, al suo pareggiare i centri più avanzati, è il fenomeno dei makers (dal verbo inglese to make, fare). La loro tecnologia sta nell’intreccio tra digitale e analogico e lo strumento simbolo sono le stampanti 3D. La stampa 3D, inoltre, è contrassegnata da un’intrinseca dimensione artigianale, oltre che immediatamente partecipativa e largamente open-source, facilmente praticabile, anche per i costi di produzione relativamente bassi (se non altro in rapporto a quelli della grande industria); caratteristiche molto vantaggiose per un Mezzogiorno in via di sviluppo. Si aggiunga che questa nuova tecnologia ha la capacità di riportare l’attività produttivo/manifatturiera a una dimensione locale e non più globale, in quanto i costi di spedizione e distribuzione incideranno più di quelli di produzione. Non è chi non veda l’incredibile opportunità per le regioni del Sud nel ritorno alla localizzazione dell’attività produttiva. Così, riprendendo la metafora del treno dello sviluppo-progresso, ci sembra che il caso dei makers costituisca appunto una delle più importanti stazioni di questo itinerario. […] Si pone la domanda: oltre che consumatore, il Mezzogiorno sarà anche in un prossimo futuro produttore di tali manufatti? Queste ci sembrano delle opportunità da non sottovalutare e soprattutto da non lasciarsi sfuggire. Il treno sta passando; vediamo di non perderlo. D. R.
Dimensione Domestica, a cura di B. Finessi (progetto grafico di I. Lupi e allestimento di M. Marzini), Fondazione Achille Castiglioni, dal 16 febbraio al 30 ottobre 2016. All’interno dello studio milanese dei fratelli Castiglioni, definito da Stefano Casciani una “Wunderkammer ambrosiana”, è stato ricostruito un passaggio fondamentale della storia dell’arredamento e del design italiano: l’Ambiente di soggiorno proposto nel 1957 dai fratelli Achille e Pier Giacomo nella mostra “Colori e Forme della casa d’oggi” a Villa Olmo, Como. Con questo primo lavoro inizia un progetto di riflessione sui temi dell’abitare a cura della Fondazione Achille Castiglioni, che vedrà nei prossimi due anni anche le riedizioni dell’Ambiente arredato per il Pranzo, realizzato per la mostra “La casa abitata” (Firenze 1965) e dell’Ambiente per il pranzo progettato dal solo Achille Castiglioni per la mostra “Mobili italiani” a Tokyo nel 1984. La richiesta dei promotori della mostra di Como ai progettisti partecipanti era quella di mettere in luce e indirizzare la formazione di “una sensibilità corrispondente alla vita di oggi” attraverso la messa in scena di ambientazioni domestiche di scala media o minima nella quali “verrà messo in evidenza come le arti decorative possono manifestarsi nell’abitazione attuale e conferirle un particolare carattere” (Notiziario Domus, 1957, aprile). Più precisamente la richiesta [era] esplicitamente quella di consociarsi con artisti, disegnatori industriali e impre-
se, industriali o artigiane, disposte a fornire o a mettere in produzione i pezzi progettati o richiesti (E. Dellapiana, La lunga marcia del design: la mostra “Colori e forme nella casa d’oggi” Como 1957, pubblicato su www.aisdesign.org). Ai fratelli Castiglioni viene riservata una stanza al piano terreno, dove i due architetti decidono di intervenire costruendo una piccola stanza a pianta trapezioidale, integrando nel progetto le due finestre preesistenti, e di creare un ambiente soggiorno arredandolo con oggetti presi dalla produzione industriale, prototipi sviluppati appositamente per l’occasione e oggetti di design anonimo. Oggetti comuni e funzionali perché, con le parole di Achille Castiglioni, l’ambiente dove uno vive, il soggiorno, deve essere fatto con le cose che servono per starci, senza una progettazione preconcetta, ma badando al modo in cui le cose vengono usate. Così oggi ci si ritrova immersi nell’atmosfera dello studio Castiglioni, una sequenza di cinque stanze, piene di libri e prototipi e scaffali e mobili vetrinetta – contenenti una gran quantità di oggetti curiosi e “di buon senso” – e si segue il racconto di Giovanna, figlia di Achille, che ci accompagna con aneddoti e spiegazioni negli spazi rimasti uguali ai giorni in cui i due fratelli Achille e Piergiacomo creavano oggetti che aspiravano a essere utili, funzionali, pensati per entrare nelle case di tutti. Nella stanza d’angolo, affacciata sul Castello Sforzesco e caratterizzata da un grande specchio disposto a 45 gradi, troviamo fissato al piano di un tecnigrafo il disegno in scala 1:20 del-
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la pianta di “Ambiente di soggiorno”. Una mensola a leggio ospita una selezione di schizzi, appunti e disegni originali che elencano gli oggetti messi nella stanza allestita per la mostra, con le loro caratteristiche specifiche e la motivazione per la quale sono stati scelti. Interessante lo schizzo di rilievo della sala di Villa Olmo con inserito il disegno della stanza da costruire: le dimensioni del pre-esistente e dell’intervento di allestimento rivelano la volontà di creare un ambiente più piccolo, più raccolto, per sottolineare l’intenzione di portare in mostra uno spazio realmente a misura domestica, un ambiente intimo. Lì a fianco una poltrona bassa e dalla forma squadrata, la Cubo (presentata nel 1957 come prototipo e dal 2013 prodotta da Meritalia), aspetta solo di essere provata, per rivelare la sua morbidezza e la sua comodità, e ricordarci la curiosità e la passione che i fratelli Castiglioni hanno sempre avuto per la sperimentazione con i materiali, che sono in grado di sorprendere e stupire a seconda di come vengono impiegati. Il piccolo Ambiente di soggiorno è stato ricostruito nella stanza conosciuta come “stanza del tecnigrafo”, sfruttando le due finestre che affacciano sul cortile interno come riproposizione di quelle della stanza di Como. La scatola del soggiorno è pensata come un cono visivo, costituito dalla forma a trapezio della pianta e dall’inclinazione del soffitto. La parete mancante che permette al visitatore di guardare all’interno dell’allestimento sembra definire una cornice. L’impressione però non è quella di osservare un quadro, una scena statica e fissa,
quanto piuttosto quella di guardare in una stanza abitata dalla quale qualcuno è appena uscito. La ricostruzione è filologica: tutti gli arredi sono quelli originali, disposti esattamente secondo il progetto del 1957. Al centro dello spazio c’è un tavolo in legno, abbastanza basso, con il piano coperto da un mollettone (il piano del tavolo è brutto perché i ragazzi ci fanno i compiti, dice Achille), una tovaglia piegata pronta per apparecchiare la tavola e per sedersi uno sgabello Mezzadro e una sedia Thonet. Il telefono è in un angolo, appeso al muro, e a fianco si trova una piccola lavagna per prendere appunti o disegnare scarabocchi mentre si sta seduti un po’ in bilico sul sedile della Sella, giusto il tempo di una chiamata veloce. Una libreria a parete con quattro ripiani ospita alcuni piccoli contenitori, una bottiglietta ricaricabile di gazzosa e qualche libro. Una seggiolina smontabile e una poltrona Cubo guardano verso il televisore, appeso al soffitto e in grado di scomparire verso l’alto grazie ad una carrucola, mentre una sedia sdraio da spiaggia, posizionata vicino alla finestra, è pronta ad ospitare qualcuno che vuole rilassarsi, magari leggendo un libro. L’opera geometrica dell’artista Giuseppe Ajmone, riprodotta con la tecnica stencil sulle pareti della stanza, abbraccia lo spazio e accompagna lo sguardo con allegria e delicatezza. Nell’idea dei Castiglioni, anche la presenza di un animale crea un senso di domestico, ed ecco che, nascosto tra le piante, un piccolo cagnolino aspetta paziente il ritorno a casa del padrone. E poi c’è un particolare insolito per una stan-
za di soggiorno: un piccolo lavandino in ghisa smaltata, come quello che di solito si trova nei cortili. In una intervista del 1988, Achille spiegava questa presenza con molta semplicità: tutti abbiamo la corrente elettrica in soggiorno, ma l’acqua serve per bagnare i fiori e dipingere gli acquarelli. E Giovanna racconta che quando era piccola in cameretta avevano lo stesso tipo di lavabo, con cui ci si divertiva a fare scherzi agli amici, i quali a loro volta trovavano la cosa un po’ buffa e fuori dagli schemi. Così come buffi e un po’ matti vennero considerati Achille e Piergiacomo per questo loro allestimento fuori dal comune, così bizzarro per l’epoca eppure per noi così “normale”, di quella normalità data dalla consuetudine e dall’abitudine a certi oggetti e a certi gesti. Vercelloni lo descrive come un bricolage abitabile, [uno spazio in cui] si uniscono in modo sinergico e “spontaneo” pezzi su disegno e anonimi (M. Vercelloni, Achille e Piergiacomo Castiglioni, Il Sole 24 ORE, Milano 2011, p. 46). È una piccola stanza nella stanza, ma l’effetto è straniante. Se in Villa Olmo l’architettura pre-esistente era memoria di una storia lontana, sia per la dimensione temporale che per la dimensione fisica dell’ambiente, in questo momento la stanza contenitore è già memoria di quella che viene mostrata. La stratificazione di storie lontane nel tempo, ma vicine nell’essenza, sottolinea in modo più incisivo la sensazione di stare osservando una stanza da soggiorno attuale, pensata quasi sessant’anni fa, ma con una visione e una tensione al futuro riconoscibili ancora oggi.
Quindi l’arredamento non è un fatto complessivo preordinato ma sarà il risultato di tanti fatti singoli, ognuno dei quali avrà in sé tutti quei valori che si riscontrano nei singoli oggetti di vera progettazione industriale. La composizione e la relazione fra questi oggetti sarà determinata dalle funzioni soggettive del singolo individuo che abita così come una delle nostre piazze. (A. Castiglioni, appunti per lezione del 28 febbraio 1978, in E. Bettinelli, La voce del maestro Achille Castiglioni. I modi della didattica, Corraini edizioni, Mantova 2014, p. 125). Solo la tecnologia presente all’interno della stanza (il televisore, il telefono e i due radiotrasmettitori) rivela l’età di questo allestimento spaziale; ma gli oggetti di uso quotidiano sono scelti liberamente, non per seguire una moda, ma per assolvere alle funzioni per le quali sono stati prodotti. Progettare uno spazio domestico è dunque progettare lo spazio che accoglie il gesto: questo forse può essere il senso definitivo e senza tempo dell’allestimento dei fratelli Castiglioni. I. P. Il Monumento Continuo al PAC. Super Superstudio. Arte e Architettura radicale, a cura di A. Angelidakis, V. Pizzigoni, V. Scelsi, “PAC Padiglione d’Arte Contemporanea”, Milano, 11 ottobre 2015 - 6 gennaio 2016. Catalogo Silvana Editoriale Il Monumento Continuo di Superstudio, il progetto più famoso e rivoluzionario del collettivo fio-
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rentino di architettura radicale degli anni Sessanta, dopo aver foderato i contorni di Piazza Navona, essere passato per Graz e aver attraversato gli scenari desertici del Nevada e dell’Arizona, è arrivato al PAC di Milano e ha invaso i suoi spazi dall’11 ottobre al 6 gennaio 2016. La struttura liscia e riflettente del Monumento, che risveglia nella nostra memoria i fotomontaggi prodotti tra il 1969 e il 1972, visioni futuribili di una realtà anticipata, ha rappresentato per il gruppo fiorentino la loro personale riflessione sulla crisi della modernità: per un tempo relativamente lungo sono stato tentato dal concludere che la scelta del Monumento come oggetto-simbolo che conferma la natura critica della modernità […] abbia strategicamente facilitato il mezzo, il fotomontaggio, consentendogli di diventare messaggio. Il Monumento, simbolicamente rappresentato da una superficie quadrettata, un nastro che srotolato all’infinito ha invaso contesti diversi del pianeta, come periferie, deserti e centri storici, sottolinea l’evidente contrasto tra questo gigantesco segno della presenza umana e la natura, mettendo in risalto tutte le contraddizioni degli spazi che attraversa. Per Superstudio il Monumento diventa un modo di interpretare l’architettura come strumento dotato di raziocinio, in grado di mettere ordine tra le cose ed espressione di un impegno e di una ricerca costante verso problemi ancora oggi attuali. Il percorso espositivo si snoda attraverso la monumentale struttura che, calata nel l’ambiente originario del Padiglione di Ignazio Gardella, ne
mo difica la percezione abituale dello spazio. Il visitatore è così coinvolto in un processo esperienziale, costretto ad attraversare continuamente il nuovo innesto per entrare e uscire dalle stanze segrete che ospitano le opere. Il progetto di allestimento pensato da Baukuh, Valter Scelsi con la revisione critica di Superstudio, sembra riprendere alcune teorizzazioni formulate da Adolfo Natalini in Arti visive e spazio di coinvolgimento, articolo pubblicato su Casabella nel luglio del 1968, dove l’architetto esprime l’ipotesi di uno spazio interno come spazio di coinvolgimento, […] che non fosse più il “negativo” dell’architettura, un dentro contrapposto ad un fuori, ma un oggetto spaziale generatore di esperienze (Natalini, Arti visive e spazio di coinvolgimento, Casabella 326, 1968). Trasposizione di scala e spaesamento sono, infatti, i due concetti che regolano e determinano il percorso espositivo. La prima sala del Padiglione, che lascia solo intravedere la parte retrostante dell’innesto del Monumento, ospita l’opera che Superstudio aveva proposto per la mostra Presenza/ Assenza curata da Fulvio Irace nel 1977 nella Galleria d’Arte moderna di Bologna, dove il gruppo aveva riscritto e inciso su tavolette di refrattario la lista dei presenti e degli assenti, creando delle coppie ideali in grado di stimolare un corto circuito di confronti, scambi e nuove relazioni. La mostra Super Superstudio, oltre a offrire un panorama ricco di materiali, con i pezzi di design più iconici, i film e le installazioni che raccontano il percorso di vent’anni di lavoro e di ricerca
del collettivo fiorentino, dimostra come le loro opere abbiano influenzato e influenzino tuttora numerosi artisti contemporanei. La nuova sovrastruttura del Monumento, calata negli spazi originari del Padiglione, genera delle anticamere buie concepite per accogliere e proiettare i video degli Atti Fondamentali: Vita, Educazione, Cerimonia, Amore e Morte. Gli Atti rappresentano per Superstudio un modo di ripensare la relazione fra gli aspetti più profondi dell’esistenza umana e l’architettura: i grandi temi, i temi fondamentali della nostra vita, non sono mai toccati dall’architettura […] Diviene allora un atto di coerenza, un ultimo tentativo di salvezza, concentrarsi sulla ridefinizione degli atti primari, ed esaminare in prima istanza quali sono le relazioni tra l’architettura e tali atti. […] Il tentativo di una rifondazione antropologica e fisiologica dell’architettura diviene il centro dei nostri processi riduttivi (Superstudio, Vita, Educazione, Cerimonia, Amore e Morte: cinque storie del Superstudio, Casabella 367, 1972). Le stanze originali del Padiglione diventano ambienti segreti, dove sono esposti gli oggetti e i prototipi di design radicale che dialogano con le opere di artisti contemporanei: nel tentativo di selezionare quelle opere in grado di coesistere con Superstudio, sono andato in cerca sia delle pratiche che potrebbero concettualmente collegarsi ai metodi impiegati da Superstudio, sia delle opere che potrebbero fungere da potenziali risposte agli indovinelli e agli enigmi che Superstudio ha formulato e po-
sto al mondo. Può capitare quindi che la serie di mobili Misura, prodotta da Zanotta con il nome Quaderna, venga accostata per affinità elettiva al grande cubo di Jim Isermann, oggetto modulare invitante e morbido, ma su cui non ci si può sedere o alle installazioni di Patrik Tuttofuoco. Gli Istogrammi trovano la loro collocazione ideale lungo la vetrata che si affaccia sul parco, solidi geometrici dalla superficie omogenea e isotropa, che fungono da matrice per la generazione di altri oggetti possibili: mobili, ambienti, architetture, tra cui quelli della serie Misura. L’esposizione continua al primo piano dove sono stati allestiti tutti i materiali d’archivio: i disegni, i manifesti rivoluzionari delle mostre, i fotomontaggi della Supersuperficie e del Monumento continuo e i progetti utopici delle 12 Città Ideali (1971). Quel manifesto giallo attraversato dalla S rossa di Superarchitettura che ha sancito l’inizio dell’architettura radicale (Pistoia, 1966), sembra estremamente attuale; non solo per la prefigurazione dei cambiamenti della società, la superarchitettura è l’architettura della superproduzione, del superconsumo, della superinduzione al consumo, del supermarket, del superman e della benzina super, ma per aver formulato enigmi complessi che restano aperti a molteplici interpretazioni e risposte. La profonda riflessione del collettivo fiorentino sugli aspetti fondamentali della vita, è ancora oggi più che mai attuale, in un momento in cui l’architettura richiede una riformulazione in chiave antropologica e sociale. M. B.
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F. Trabucco, Design, Bollati Bo ringhieri, Torino 2015.
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Uno dei più recenti lavori editoriali di Franco Trabucco – designer dalla notorietà internazionale, vincitore di numerosi premi tra cui il Compasso d’Oro, ma anche fortemente impegnato nella didattica come professore di disegno industriale al Politecnico di Milano – è un testo che può essere inserito tra quelli utili e funzionali alla didattica del design. Il volume, in edizione tascabile, suddiviso in cinque capitoli dalla chiara e scorrevole lettura, prende l’avvio da alcune definizioni di design come quella per cui nel linguaggio corrente «design» indica sia il mestiere di chi trasferisce valore estetico e originalità a un artefatto fisico o virtuale sia quell’artefatto medesimo. Si dice infatti comunemente che un certo oggetto è «di design». Entrambi, prodotto e mestiere, sono caratterizzati da ricerca espressiva, innovazione tecnologica, eterodossia formale, contemporaneità. La pubblicazione pone l’accento sulla disciplina, cioè un insieme di regole, saperi, convenzioni e linguaggi che consentono al design di essere insegnato, studiato, discusso e criticamente analizzato. Nonostante oggi esso sia sempre più proiettato verso il fashion, il wedding, l’high tech, il food, il packaging, soggetto ad una continua evoluzione e miniaturizzazione, il design è legato fortemente alle tecnologie, soprattutto a quelle digitali, che caratterizzano la società attuale. L’evoluzione, quanto mai rapida, nel passaggio dall’artigianato
all’industria grazie alla rivoluzione industriale, dall’era della macchina all’era del digitale, ha tenuto il design legato ad aspetti estetici, funzionali ed ergonomici fino a farlo accreditare come interfaccia comprensibile di una realtà immateriale. Il design quindi continua a dimostrare di convivere bene, anzi di essere sistemico a tutto ciò e rivela anche oggi una notevole duttilità […]. L’a. affronta lo scivoloso tema del giudizio “del bello e del brutto”, connesso ai fattori spaziotempo e a quelli culturali nei quali si colloca, assieme a quelli del gusto, dell’economia e della diffusione. Anche se con talune frasi esemplificative talvolta sembri assumere un carattere riduttivo – il design è come una ricetta di alta cucina dove un pizzico di sale in più o in meno fa la differenza tra delizioso e immangiabile – il testo, la cui strutturazione parte dal semplice come elemento accattivante e giunge ad aspetti semantici, critici, culturali, di ricerca, spazia dalla storia della disciplina, alla critica attuale, alle prospettive future. Nel difficile compito di dare forma al linguaggio della modernità il design si esprime in valenze assai ampie, dalla comunicazione ai servizi, dalla moda all’architettura, e «buca» talvolta il «rumore semantico» (Eco 1975) che ci avvolge, cercando di stupire e di sedurre, attribuendo senso e significato agli artefatti, trasferendo ad essi, fisici o digitali che siano, valori estetici ed empatici capaci di generare o rendere intelligibili nuovi stili di vita, modificando in senso estetico l’ambiente, trasfor-
mando e in fondo democratizzando, il gusto di gruppi sociali sempre più allargati. Un’altra parte interessante è legata alla significativa antitesi tradizione e novità e sottolinea l’aspetto di una disciplina e una professione che, seppur giovani, specie se rapportate a tutte le altre di carattere accademico e professionale, sono soggette a continue mutazioni. Anche la stessa denominazione assume caratteristiche differenti a seconda dei luoghi e delle culture ove si opera. Da quella italiana, per la quale il legame con il disegno industriale è solido, a quella di cultura anglosassone in cui il termine design è sinonimo di «progetto» nell’accezione duplice di piano e di attività di progettazione tanto che, spesso, viene abbinato a un aggettivo qualificativo come interior design, fashion design, food design, wedding design e tanti altri. Solo a partire dagli anni settanta design cominciò a essere usato in numerose lingue europee per indicare l’attività di creazione della forma, e quindi un mestiere e la giovane disciplina di cui stiamo parlando. Trabucco affronta anche la tematica legata alla ricerca disciplinare, dopo aver chiarito la differenza tra scienze esatte e scienza umana, sempre meno condivisa da scienziati ed epistemologi. Egli teorizza la capacità di produrre risultati scientifici nel campo della conoscenza nonostante il design non sia una vera e propria scienza. In una visione contemporanea della disciplina, il nostro utilizza alcuni artifici storiografici per tentare di costruire un quadro, quanto mai esaustivo in fun-
zione di aspetti legati ad antinomie: Forma e Funzione; Arte e Tecnica; Formazione e Didattica; Desemantizzazione e Ipersemantizzazione trattando aspetti linguistici ed epistemologici. Nella trattazione approfondisce anche il tema del progetto, senza trascurare frequenti riferimenti al suo maestro Marco Zanuso il quale diceva che il designer che non si «sporca le mani» in fabbrica e nel cantiere, che non si confronta con il fare, rischia di essere «sovrastrutturale», estraneo alla complessità dei processi industriali, quindi alla contemporaneità. Tratta, ancora, tematiche legate al marketing ed al passaggio da un design connotato fortemente da cariche ideali e intellettuali a quello, invece, legato a dinamiche di mercato come valore, con la sua logica, capace di condizionare la realizzazione del progetto. Non trascura aspetti connessi al valore venale del design, quello legato ad un mondo economico ma anche quello strettamente connesso ad un brand o ad una marca. Il design, il cui ruolo è tradurre opportunità tecnologiche in nuove qualità comunicative, estetiche prestazionali ed ergonomiche dei prodotti industriali, rende percepibili i valori qualitativi, sia tecnici sia semantici, del prodotto. Interviene nella costruzione del valore della marca, che si realizza nel tempo attraverso una relazione solida e costante tra valore reale e valore percepito, qualità e immagine. Costituisce un importante indicatore di modernizzazione della cultura industriale di un’azienda, che co-
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munica così la propria identità al mercato. In definitiva il libro di Trabucco, anche se con alcune omissioni, traccia un’analisi della disciplina letta attraverso molteplici aspetti, ponendo in risalto il ruolo sociale che essa assume nell’evoluzione del gusto legata ai più moderni settori merceologici. A. Cas. F. Irace, a cura di, Storie d’interni. L’architettura dello spazio domestico moderno, Carocci Editore, Roma 2015.
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Esiste la possibilità di costruire una storia (o … delle “storie”) di interni che non si riduca a una parodia della storia dell’architettura o del design? A questo interrogativo si propone di rispondere l’ultimo libro curato da Fulvio Irace, soddisfacendo, al tempo stesso, un’e sigenza e un’ambizione. L’esi genza è quella di colmare una lacuna nella didattica della storia dell’architettura, specie nell’ambito delle scuole di design. Alla storia dell’architettura, infatti, il curatore imputa la prevaricante concezione di arte dello spazio, che fa scadere gli allestimenti funzionali degli ambienti interni a tema di secondaria importanza, a componente effimera, volatile insomma rispetto alla lunga durata del guscio che li conteneva. Simmetricamente, alla storia del design viene rimproverato di ridursi spesso a storia di oggetti isolati, avulsi da un contesto specifico. Né alla necessaria interrelazione hanno finora posto rimedio le storie dell’arredamen-
to, per lo più sviluppate come storia del gusto indipendente dalla conformazione tipologica e spaziale dell’architettura. Da qui la novità del volume, che propone di individuare un paesaggio d’interni, dove il termine paesaggio evidenzia l’integrazione delle varie componenti in un quadro unitario. L’ambizione è quella di delineare l’abbozzo di una storia del progetto domestico, qui sintetizzata in dieci “quadri” negli altrettanti capitoli in cui si articola il volume. Questi ultimi, redatti da otto autori, tracciano le tappe principali di questo processo dalla Great Exhibition di Londra del 1851 alla contemporaneità, ma senza seguire una scansione per segmenti temporali. Ogni capitolo, infatti, ripercorre esperienze diverse e anche cronologicamente distanti, accomunate da un medesimo focus, concentrandosi su uno o più casi esemplari, analizzati in modo approfondito. Inaugura il percorso la “casa decorata”, tema che fornisce spunto a Irace per rileggere brani famosi della storia dell’architettura alla luce di questioni progettuali come: tradizione o innovazione? necessità di narrazione o austera modernità? I paesaggi domestici sono descritti come ba luardi contro la distruzione del l’aura artistica dell’architettura e la mortificazione del lavoro del l’uomo innescate dall’industrializzazione. In essi l’architettura non è più il contenitore vuoto che altri avrebbero riempito, ma il frutto di un processo che prevedeva la costruzione, in maniera organica e integrale, del guscio insieme agli arredi e alle decorazioni di tutti i suoi inter-
ni. Ciò vale già per la Red House di Morris – definita audace proprio per essere stata concepita a partire dall’interno, con scarsa considerazione per il disegno delle facciate – quanto per la casa di Behrens nella Colonia degli Artisti di Darmstadt, dove la decorazione diventa strumento progettuale di prima importanza cui è affidato il compito […] di portare a compimento la trasformazione della realtà quotidiana in una solenne narrazione. Nel pilastro da cui si dispiega la scala dell’hotel Tassel, Irace riconosce il simbolo di una modernità che non vuole rinunciare al confronto con la decorazione, mentre in Palais Stoclet di Hoffmann, l’apporto della Wiener Werkstätte impreziosisce con ogni forma d’arte pareti esterne e interne, arredi fissi, mobili, oggetti d’uso, tessuti, come una sinfonia da eseguire con l’apporto di molte voci. L’approdo è, infine, la Casa all’Italiana di Ponti, dove il rapporto tra architettura, arte e artigianato raggiunge livelli d’integrazione tali da rendere difficile distinguere l’apporto dell’artista da quello dell’architetto. Il progetto della “casa razionale” – raccontato nel saggio di Massimiliano Savorra – vuole migliorare la vita degli abitanti con uno studio minuzioso del l’organizzazione degli interni e dei percorsi, scomponendo movimenti e gesti, soddisfacendo bisogni di comfort e salubrità e agevolando il lavoro domestico della donna. Simili istanze sono alla base del Weissenhof di Stoccarda, vero e proprio campionario di tipologie abitative basate su logiche scientifiche di dimen-
sionamento degli ambienti ideate da Klein. Grazie agli studi sulla razionalizzazione del lavoro femminile, condotti da Taut, e sulla cucina moderna, di Schütte-Lihotzky, si standardizzando misure, si guadagna spazio con armadi a muro e arredi pieghevoli: una ricerca sulla sistemazione minima degli spazi interni che in Italia troverà interessanti applicazioni nel progetto delle case popolari del dopoguerra. Ne la “casa sociale” Graziella Leyla Ciagà si sofferma sugli anni della ricostruzione, quando, in un clima di urgenza, ci si concentra, oltre che sulle scelte tipologiche, sugli interni, elaborando soluzioni funzionali, sobrie ed economiche. I concetti cardine della casa razionale in Italia, come in Europa e negli Stati Uniti, sono l’unificazione e standardizzazione industriale: da essi deriva l’idea di una cellula modulare, dalla cui aggregazione desumere forma e caratteri degli edifici tipo. Il banco di prova delle ricerche sul tema della “casa per tutti” è il QT8 promosso dalla cosiddetta “Triennale Proletaria”, mentre gli esiti più riusciti andrebbero rintracciati nell’Unité d’Habitation di Marsiglia di Le Corbusier, che coniuga il modello a bassa densità delle Siedlungen con quello ad alta densità del falansterio: infatti, pur concentrando 337 alloggi, l’edificio riesce a ricreare il senso di comunità e di appartenenza tra gli abitanti. Esperienza ripresa, negli anni Sessanta, dal Robin Hood Gardens degli Smithson, che ne replica anche la dimensione territoriale e l’organizzazione dello spazio in duplex. Il saggio di Francesca Serra-
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zanetti, la “casa liberata”, ripercorre la rivoluzione artistica e tecnologica avvenuta agli inizi del XX secolo nel modo di concepire lo spazio, per cui gli ambienti non sono suddivisi in modo rigido e sono liberati dal l’apparato decorativo per rispondere a principi di razionalità. L’autrice ci guida in una rilettura del plan libre, a partire da Le Corbusier, attraverso i contributi di Mies, Neutra, Wright e Aalto, nelle cui opere la concezione spaziale dell’interno rompe, con un moto centrifugo, la scatola muraria e conferisce al l’architettura una forma aperta. Le facciate diventano suscettibili di infinite variazioni dovute esclusivamente a ragioni compositive e i tramezzi interni scoprono la libertà di spostarsi, assottigliarsi, incurvarsi, congiungendo gli ambienti e rispondendo alle molteplici interpretazioni dell’abitare con possibilità distributive varie. La “casa prefabbricata”, viene riletta da Maria Teresa Feraboli, nell’opera dei protagonisti del Moderno. Sulla scia del successo di talune aziende americane specializzate nella vendita di case a catalogo, Wright riconosce per primo le potenzialità della sistematizzazione coordinata di progetto, produzione e costruzione, tanto da tradurre le Prairie Houses, e poi le Usonian Homes, in soluzioni chiavi in mano. La prefabbricazione costituisce un anello di congiunzione tra architettura, design del prodotto e design degli interni, tanto alla scala dei singoli componenti edilizi – come nelle sperimentazioni degli anni venti e trenta di Prouvé, Van de Velde, Le Corbu-
sier, Gropius e Aalto, o nei più recenti progetti di Zanuso e Piano –, quanto a quella architettonica, per cui una cellula base integralmente concepita crea agglomerati di grande dimensione, se non addirittura di impatto territoriale (o megastrutturale). La Feraboli è anche autrice del saggio la “casa in mostra” dove, attraverso una rassegna delle principali mostre dal 1925 – anno in cui Le Corbusier presenta all’Exposition Internationale des Arts Decoratifs il padiglione dell’Esprit Nouveau, prototipo dell’Immeuble Villa – a Italy: The New Domestic Landscape del 1972, traccia un quadro ben definito dell’evoluzione della casa e dei costumi sociali dell’Occidente. In esse riscontra, inoltre, una concezione “politecnica” del progettista, versato tanto nello studio strutturale delle costruzioni, quanto nell’articolazione degli interni e nella predisposizione degli oggetti che ne completano la configurazione, rendendo labili i confini tra le varie categorie d’intervento. La “casa di vetro”, illustrata da Gabriele Neri, indaga le trasformazioni del paesaggio domestico indotte dall’idea di un’architettura di vetro che, teorizzata da Scheerbart, trova la sua più fedele attuazione nel Padiglione di Vetro. Per Taut il vetro rappresenta il mezzo architettonico per creare uno spazio mistico, ma la sua conquista di una luminosa torbidezza è ben presto superata dal mito della trasparenza enunciato da Benjamin, che porta a riconsiderare profondamente il rapporto tra interno ed esterno, non solo in termini spaziali ma innanzitutto esi-
stenziali e sociologici. La graduale riduzione della parete perimetrale sino all’abolizione totale del concetto di finestra si ripercuote, ovviamente, anche sulla qualità visiva e materica degli arredi, che diventano sempre più essenziali e determinanti nella modulazione dello spazio, come in casa Farnsworth di Mies e nella Glass House di Johnson. Sin dal Rinascimento la “casa d’artista” diviene, secondo Carla Mazzarelli, il luogo d’incontro tra elaborazione creativa ed esigenze abitative. Investita del compito di proiettare chi vi entra nel mondo interiore dell’artista, sino a negare, talvolta, la sua funzione abitativa, in essa il dialogo tra architettura, decorazione e arredo si fa serrato e inscindibile. Calzante esempio di questa sinergia è l’atelier di Mondrian, vero e proprio manifesto di De Stijl, nel quale il visitatore si ritrova in un quadro tridimensionale realizzato secondo i principi del neoplasticismo. La “casa scomposta”, presentata da Gabriele Neri, analizza le molteplici scomposizioni volumetriche che hanno scardinato, negli interni di Loos, la tradizionale uniformità delle sezioni fino alle decostruzioni della scatola architettonica, iniezioni che innescano una serie di deflagrazioni interne, riscontrabili tanto nella casa-torre di Botta quanto nella Gehry House, e generano un disordine programmatico fatto di tagli, squarci, superfici sghembe, angoli acuti, incastri di volumi, imprevisti spazi interstiziali. La “casa del futuro”, di Maria Manuela Leoni, esplora le trasformazioni prefigurate a metà
del Novecento dalle “tecno-utopie”, le cui parole d’ordine sono dinamismo e tecnologia. Nel l’immaginario di Fuller, infatti, i tramezzi lasciano il posto a monoscocche in metallo movibili dentro l’ambiente architettonico; in House of the Future di Smithson l’involucro prefabbricato in plastica plasma un ininterrotto susseguirsi di cavità curvilinee attorno al nucleo centrale, popolato di sinuosi oggetti industriali, in plastica o fibra di vetro, incassati o a scomparsa, realizzando l’assoluta integrazione tra skeleton e furniture. Il bisogno di “informalità”, di scardinare consuetudini legate all’abitare tradizionale emerge nello “spazio elastico” di Colombo e in Visiona 0 e Visiona 2 di Panton. Paradossali sono, infine, la visione metabolista degli Archigram, un’uniforme tecnologica per l’uomo contemporaneo, involucro gonfiabile e trasportabile a spalla, o quelle di Branzi e La Pietra, rispettivamente La casa telecomandata e La casa telematica, in cui la tecnologia detta le forme dell’habitat moderno, configurando una casa che ruota attorno all’uomo seguendo i suoi comandi e una che, invece di favorire la socialità, facilita la fruizione dei dispositivi audio e video in solitudine. In definitiva, dalla narrazione tracciata sotto il coordinamento di Irace emerge una nuova visione dello spazio domestico quale opera totale, che lascia aperta la strada a una rilettura del progetto architettonico, contribuendo a stimolare un rinnovamento dello stesso approccio storiografico. N. P.
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A. Caruso, Asnago Vender and the Construction of Modern Milan, gta Verlag, Zurigo 2015.
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Il volume, pubblicato per i tipi della casa editrice del dipartimento di storia e teoria dell’architettura del Politecnico di Zurigo, è il secondo della collana “The Limits of Modernism – a Forgotten Generation of European Architects”. Ideata da Adam Caruso, architetto londinese di fama internazionale, tale collana ha come scopo il fare luce sull’operato di architetti europei “dimenticati” o a lungo trascurati dalla critica. In effetti Mario Asnago (1896-1981) e Claudio Vender (1904-86) non hanno goduto di un grande successo storiografico tanto che le pubblicazioni a loro dedicate sono estremamente limitate. L’unica monografia in italiano, ormai da tempo esaurita, fu curata da Cino Zucchi con Francesca Cadeo e Monica Lattuada nel 1998 (Asnago e Vender: l’astrazione quotidiana. Architetture e progetti 1925-1970. Milano, Skira). Il libro di Caruso è il primo e unico in inglese dedicato alle opere dello studio milanese. L’autore è architetto “in practice”, insieme a Peter St. John, ed affianca alla sua attività professionale la docenza presso il prestigioso ateneo svizzero. Il suo essere prima di tutto un vero “costruttore” è evidente anche dalla lettura di questo volume che non è né un libro di storia né tantomeno una monografia: entro una chiara struttura pensata per mettere in evidenza particolari caratteri degli edifici degli architetti milanesi, il volume ci guida dal
generale al particolare, così come se osservassimo una costruzione figurativa, alla comprensione di alcuni aspetti della poetica di Asnago e Vender. Il lavoro dei nostri è quindi per Caruso un artificio per riflettere su una possibile metodologia del fare architettura e città. Metodologia quest’ultima molto cara all’autore che spesso dalla tradizione architettonica italiana del novecento mutua modelli e referenze per la sua ricerca compositiva e formale. Milano con i suoi edifici è emblema di come l’architettura sia strumento capace di costruire, per dirla con Rykwert, «la maschera di una società». Da città immersa in una dimensione agricolo-artigianale, Milano con la sua borghesia industriale è stata capace di assimilare la sua storia dentro la modernità e i lavori presentati in questo libro ne sono testimoni visibili. Architetture prove tangibili di un’intensa attività professionale che ha attraversato ideali, canoni e linguaggi che si sono succeduti in cinquant’anni di vita del nostro paese: dagli albori del fascismo fino alla più accesa speculazione edilizia figlia del boom economico. Il libro è composto da tre parti. Nella prima sono raccolti testi di Gio Ponti, Ernesto N. Rogers e Aldo Rossi, tenuti insieme da un saggio critico di Angelo Lunati, atti alla descrizione dell’ambiente milanese in cui gli architetti si trovarono ad operare. Caruso fa una selezione scientifica rispetto all’enorme quantità di testi disponibili, compiendo una scelta strategica: solo tre voci, testimonianze eccellenti del dibattito che a cavallo del dopoguerra esisteva
tra le pagine di Casabella-Continuità e Domus per provare appunto a ricostruire un’atmosfera entro cui immergere l’operato dei nostri. Emergono da questi saggi alcuni tra i temi più significativi dell’epoca, dal rapporto tra antico e nuovo sino all’auspicata unità architettura-urbanistica. Questa sezione termina con la presentazione di sette edifici dei nostri. Solo sette edifici per provare a descrivere, criticamente e faziosamente, quanto l’opera di Asnago e Vender sia stata incisiva per l’architettura contemporanea europea di ieri e di oggi. Tali architetture sono prima rappresentate in una grande planimetria alla scala urbana del centro di Milano, strumento attraverso cui subito si evidenzia come questi piccoli tasselli del mosaico urbano lavorino sinergicamente in continuità con la complessa morfologia urbana della città. Successivamente i singoli edifici sono invece presentati nel loro più ristretto contesto urbano, evidenziando come tracciati e segni – partendo dal contesto stesso – trovino sintesi nei volumi plasticamente composti di queste architetture residenziali. Nella seconda parte del volume, introdotta da un saggio di Cino Zucchi (estratto e tradotto in inglese dalla sua già citata monografia), si presentano approfonditamente i sette progetti attraverso una raffinata raccolta di disegni redatti dal gruppo di ricerca di Caruso presso il Politecnico zurighese e un ricco apparato fotografico. Materiale iconografico attraverso cui è possibile comprendere come rapporti e geometrie dei singoli contesti sia no state reinterpretate attraverso
il progetto. Solo guardando un prospetto come un’unità visiva specifica si manifestano le peculiarità delle invenzioni formali di Asnago Vender. L’idea di una finestra allungata o di una pietra basamentale è chiaramente riferibile ad una volontà di essere adeguati al contesto. Ma osservando più da vicino gli intrecci delle griglie che generano le aperture sono sobriamente manipolate e le pietre dei basamenti sono stranamente sproporzionate. Questi lievi movimenti generano una energia capace di sottrarre al convenzionale anonimato i loro edifici. Gli edifici raccolti, cinque angoli di isolati urbani (quelli in via Daniele Manin 33, in viale Tunisia 50, in via Euripide 1, in piazza Velasca 4 e in via Plutarco 15) e due tasselli inseriti in cortine continue sempre della città storica milanese (quelli di via Lanzone 4 e via Andrea Verga 4), rappresentano momenti che ben esplicitano la forza espressiva e la capacità di sintesi formale degli architetti milanesi. Inizialmente nei loro progetti contrapposero al linguaggio del Gruppo Novecento fatto da un campionario linguistico “classico” motivato dal cambiamento della società da un’aristocrazia che abita palazzi ad una borghesia che ha fatto città, un razionalismo autoctono e ibridato da alcuni elementi figurativi per meglio aggrapparsi al contesto, per poi divenire sempre più astratti e plastici fino ad essere accusati di formalismo. A ben vedere i loro edifici sono formalmente coerenti ma anche frammenti come rovine: assimilano quanto c’è nel contesto e creano una
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superficie che riflette quello che ci potrà essere. Un lavoro il loro libero da dogmi ed ideali preconfezionati, quasi al limite dell’eclettismo: attraverso la manipolazione degli elementi del contesto definiscono una relazione con la storia non concettuale o letterale bensì equivoca e soggettiva. Nonostante ciò le loro architetture indiscutibilmente vivono del contesto in cui sono innestate, e, simultaneamente, hanno una loro totale autonomia formale: generano, in sintesi, continuità senza completezza. A supporto dei rilievi planimetrici e degli alzati arricchiscono il libro quaranta scatti di Hélène Binet, fotografa d’architettura tra le più celebri dello scenario internazionale. Attraverso le sue immagini la Binet immortala la quotidianità di questi edifici e con loro squarci della Milano contemporanea. Gli edifici fanno da sfondo a persone di corsa, macchine parcheggiate con motorini disordinati, cartelloni pubblicitari e oggetti dell’ordinario: queste immagini di città rendono esplicito quanto questi edifici siano in grado di costruire la “normalità” di una città moderna. Dal generale al particolare, analogamente all’impostazione del libro, le fotografie descrivono queste sette architetture ricercando il loro essere parte indissolubile di un pezzo di città, viste quindi come elementi di un tutto. Raccontano poi della plasticità delle facciate, vere e proprie costruzioni figurative così come le definisce Caruso, scendendo pian piano nell’intimo della costruzione dei singoli edifici, nei loro incastri e giunzioni, nei punti in cui la pietra incontra il metallo
degli infissi, il mattone un blocco di vetrocemento: dettagli che vengono analizzati per mettere in luce la grande sapienza dei nostri nel conciliare in perfetta armonia strutture tettoniche con superfici plastiche. Nella terza ed ultima sezione del volume, aperta da un saggio dello stesso Caruso, si continua ad esplorare, attraverso un salto di scala, i sette progetti presentati attraverso fotografie e disegni di dettaglio come rapidi “close up” fino a scale esecutive per conoscere particolari necessari alla comprensione della complessa unità di queste architetture. Parti di edifici vengono come vivisezionate alla ricerca della ricetta perfetta per la costruzione dell’opera d’arte in cui si evince con forza come la costruzione per Asnago Vender sia una questione formale e non tecnica, spiegata come un imperativo artistico. Verrebbe da dire che all’interno della più bella tra le sculture non v’è che marmo così come nei dettagli di un edificio non si scopre che il già noto. Il più grande pregio di questo voluminoso libro è forse proprio nell’aver messo in luce quanto la costruzione di architettura di qualità risiede sempre nella più assoluta ricerca della semplicità costruttiva: Asnago e Vender sono architetti realisti, concreti nel l’utilizzo di materiali semplici, economici e non elaborati, non c’è nel loro lavoro polemica tecnologica. Adam Caruso compie un’operazione certamente meritoria nell’aver disvelato, anche se in maniera volutamente parziale, frutto di una attenta selezione critica, il lavoro di questi due
mae stri della Scuola Milanese, che seppur considerati come meri formalisti per lungo tempo e fuori dal dibattito intellettuale dell’epoca hanno in realtà, attraverso le loro architetture, costrui to basi per l’oggi fondendo posizioni rossiane con istante estetiche tipiche delle discipline artistiche: Asnago e Vender non erano ossessionati dall’urbanistica, dai piani terra e dalle strutture, il loro lavoro è manifestazione concreta e idiosincratica di una vera maestria del costruire. A. Cal. Stanze: Altre filosofie dell’abitare, XXI Triennale di Milano, 2 aprile - 12 settembre 2016, a cura di B. Finessi, allestimento di G. Filindeu, progetto grafico di L. Sonnoli. L’architettura degli interni ha ancora un grosso problema di ricezione critica, è inutile nasconderlo. Non è sempre colpa della critica, però. Il problema, se di problema si può parlare, è di uno statuto disciplinare complesso e liminare per sua natura che, a volte, lascia spazio a qualche fraintendimento. L’architettura degli interni – come scrive Beppe Finessi nel colophon della mostra che apre la XXI Triennale di Milano – continua a essere luogo privilegiato di indagine, studio e riflessione sugli aspetti più direttamente legati alla vita quotidiana delle persone, con un compito realmente speciale: pensare e definire gli spazi e gli ambienti, con forme, colori e dettagli che ospiteranno noi, la nostra famiglia, i nostri amici,
progettando un «mondo» intorno a queste vite. Il suo compito, cioè, consiste nel dare forma a una dimensione in cui il progetto spaziale che l’architettura è chiamata a definire viene a patti con il progetto esistenziale di chi la abita, accogliendo i suoi gesti, le sue pratiche e i suoi rituali. A questo obiettivo fondamentalmente antropologico, però, il progetto di interni si avvicina con una metodologia di ricerca ancora chiaramente ascrivibile al campo delle pratiche artistiche e con una specifica attenzione a un mercato enorme e pulviscolare, orientato da mutevoli questioni di gusto e di stile. Per questo motivo, nelle rare occasioni di confronto critico, capita che il profondo significato umano del l’abitare che l’interno architettonico materializza passi in secondo piano rispetto alla raffinatezza autoreferenziale del gesto progettuale o al segno distintivo di una moda momentanea. Purtroppo, a trent’anni dall’ultima fortunata occasione (Il Progetto Domestico, curata per la Triennale del 1986 da Mario Bellini e Georges Teyssot), Stanze non riesce ancora a sciogliere totalmente il nodo in questione. Certo, la mostra è bella, non c’è altro termine per definirla. È elegante, accuratamente studiata, molto ben scandita dall’allestimento di Gianni Filindeu che «addomestica» la curva attorno al Teatro dell’Arte. E non è nemmeno la qualità architettonica o figurativa a mancare nell’opera degli undici autori chiamati a interpretare il tema attraverso undici declinazioni diverse. Quello che non riesce realmente a emergere è un pensiero forte, radicato
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e davvero «altro» sull’abitare; sulle nuove possibilità, cioè, che questi ultimi trent’anni hanno offerto di definire il modo in cui si dà forma allo spazio della propria esistenza. E anche il tentativo a posteriori di affiancare alle installazioni di designer e architetti una serie di testi letterari e filosofici scelti da Francesco Cataluccio sembra testimoniare una certa carenza critica di fondo; o per meglio dire, una sorta di discrepanza fra il tentativo curatoriale di offrire un discorso impostato su diversi livelli narrativi e i contributi dei singoli interpreti. In realtà, nella prima parte – che serve da introduzione alla mostra vera e propria –, la presenza forte del curatore è ancora nettamente avvertibile nel racconto che fa della storia dell’architettura degli interni italiana del Novecento. La selezione degli antichi e nuovi maestri, infatti, che va da Gio Ponti a Italo Rota, è estremamente colta e raffinata; talvolta sorprendente nella citazione di alcuni autori – come Ivo Pannaggi, Melchiorre Bega, Luciano Baldessari o Giulio Minoletti – che generalmente faticano a trovare spazio accanto a figure del calibro di Franco Albini, Carlo Mollino o Carlo Scarpa. Nella seconda sezione, invece, quella dedicata alle stanze, l’attenzione si sposta decisamente sui singoli progettisti, con un’autonomia decisionale che, al di là del tema concordato, si riflette in una varietà interpretativa assolutamente libera. Qui, infatti, in uno spazio rettificato e neutralizzato da un allestimento attento, il discorso è affidato alle installazioni al vero di una serie di autori che, attraverso il pretesto dell’ar-
gomento in questione, sembrano raccontare una poetica personale già ampiamente consolidata. La rielaborazione formale di temi cardine per l’architettura de gli interni, d’altronde, è uno dei caratteri centrali di questa mostra. In apertura, per esempio, Elisabetta Terragni lavora con la prospettiva per costruire un microcosmo introverso, distillato e vuoto. Qualcosa di intimo ma mai realmente abitabile, risolto nel progetto di una doppia pelle eccentrica, i cui interstizi, dilatati e distorti attraverso sfondati prospettici irregolari, si trasformano in una sorta di filtro spaziotemporale. Sul margine poi, con la sua consueta leggerezza, gioca anche Francesco Librizzi. Lui, però, lo smaterializza – con una serie di recinti concentrici fatti di esili colonne metalliche –, per alludere a un archetipo ideale di transizione fra l’abitare nomadico e quello stanziale, che prova a definire la domesticità nell’attimo esatto in cui si manifesta per la prima volta. Di chiusura, invece, gioca Alessandro Mendini, che rovescia il senso di intimità in una prigione soffocante; la prigione di se stesso e del proprio decorativismo che, ironicamente, prende la forma di un cubo chiuso e interamente rivestito da motivi geometrici optical. Sulle proprie ossessioni, infine, e su un senso di intimità quantomeno inquietante lavora anche Fabio Novembre – in questo caso molto poco ironicamente – con una specie di gigantesco uovo specchiato, aperto da due vestali d’oro. Accompagnati al suo interno da pensieri in libertà tratti da 8 e 1/2, infatti, questa «stanza per il sogno», completamente foderata
in pelle rossa, si rivela come un andito antropomorfo francamente terrificante per ogni forma di sonno. Su un altro livello si posizionano, poi, alcune opere che provano a intendere più problematicamente l’abitare in bilico fra differenti polarità. Interno-esterno, microcosmo-macrocosmo, isolamento-relazione, chiusoaperto, dialogo-indifferenza, sanità-malattia sono, per esempio, le coppie di opposti su cui si sofferma Andrea Anastasio, costruendo una stanza arredata, tagliata da una tenda semitrasparente, che richiama le case sperimentali che Peter Eisenman progetta verso la metà degli anni Settanta. Tra il mostrare e il celare si situano, invece, Marta Laudani e Marco Romanelli, con una riflessione sul «teatro della quotidianità» costruita attorno a uno spazio espositivo punteggiato da nuclei funzionali indipendenti, che provano a ingentilire con un linguaggio pontiano un approccio da metabolismo giapponese. Più originale, invece, è il discorso di Manolo De Giorgi che prende di petto il rapporto contemporaneo fra lo stare, l’utilizzare servizi e il muoversi, pensando a un abitare guidato dal movimento; uno spazio fluido e continuo articolato attorno a una somma di corridoi paralleli che sciolgono le varie stanze in un unico scorrere. In questo modo la stanza non solo si libera della sua zavorra funzionale, ma perde anche la sua stretta identificazione con lo «stare» che tradizionalmente definisce la sua configurazione formale. Curiosamente, per una mostra di questo tipo, alle possibilità
progettuali offerte dalle nuove tecnologie è dedicata una parte davvero marginale del racconto. In più, nei contributi di Carlo Ratti e dello studio Lazzarini e Pickering, l’interpretazione che sembra farsi strada è che, comunque, non siano destinate a cambiare in modo significativo le qualità spaziali degli interni. Il primo, infatti, affronta il tema della domotica con un «giochino» né innovativo né divertente; una semplice seduta composta da moduli sollevabili tramite un’applicazione, che dovrebbe trasformarsi a seconda delle necessità dell’utente. Claudio Lazzarini e Carl Pickering, invece, sembrano voler costruire un piccolo appartamento elegantissimo e studiatissimo che, quasi incidentalmente, usa le tecnologie fotovoltaiche per arrivare all’autosufficienza energetica; senza, però, renderlo mai esplicitamente visibile nella sua forma materiale. Di contro, infine, alla mostra non manca un ultimo richiamo all’artigianalità del costruire e dell’abitare che, nelle due declinazioni esposte, prende configurazioni alternativamente fantastiche ed estremamente razionali. Da un lato, infatti, Duilio Forte pensa a un’esperienza abitativa minima attraverso una potente scultura zoomorfa popolata da innumerevoli oggetti, sculture, libri e immagini. Mentre dall’altro, Umberto Riva riprogetta il Cabanon di Le Corbusier, rifacendolo come piace a lui; preferendo, cioè, a una composizione modulare un’interrogazione empirica degli elementi «primordiali» dell’ambiente domestico. Il tutto attraverso le misure e i materiali del suo modello di riferimento.
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In questo senso, quello che sembra emergere con chiarezza da queste undici stanze è una specie di stacco generazionale fra una serie di «maestri» – o quasi tali – che intendono la progettazione come una disciplina storicamente e tecnicamente fondata, e un gruppo di «ragazzi terribili» che preferiscono, invece, il personalismo di un’interpretazione artistica astratta. Più in generale, però, ciò che resta con maggior intensità è la sensazione di aver assistito a un dispendioso e scintillante esercizio di stile, di certo affascinante ma raramente davvero incisivo. D’altronde, sono lontani i fasti di Villa Olmo,
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de La casa abitata o di Italy: The New Domestic Landscape; non ci sono più quegli autori, quella voglia di innovare e di immaginare un altro modo di abitare il mondo. Probabilmente c’è una maggiore consapevolezza del ruolo dell’architettura degli interni in quello che è il mercato attuale, ma resta comunque una specie di malinconia per quello che in altri tempi avrebbe potuto rappresentare un’occasione come questa. Così alla fine non si sa nemmeno a chi dare la colpa, se non al tempo che passa e che si ostina a non essere più quello di una volta. J. L.
Sommario dei fascicoli pubblicati
N. 1. Le «Nuove Iconi» e la «civiltà del consumo» - Architettura utopistica - La sociologia dell’arte dei sociologi - Esperienze della Biennale - Tecnologia e poetiche contemporanee - Nouveau roman e arti figurative - Il Gaudi di Pane (fascicolo esaurito) N. 2. Design e mass media - Gestalt prima e dopo - L’estetica neonaturalistica di Romanell - Della Pop Art e di una mostra a Vienna - La poetica urbanistica di Lynch - Semantica dell’arte - Architettura come linguaggio (fascicolo esaurito) N. 3. Architettura e cultura di massa - Alcuni temi dell’Informale - Kunstwollen e intenzionalità in E. Panofsky - Dal pragmatismo alla fenomenologia - Libri, riviste e mostre N. 4. La critica discorde - S.K. Langer, L’influenza sociale del design - T. Munro, Recenti sviluppi dell’estetica in America - G. Veronesi, Sull’architettura del secolo - L. Vinca Masini, Le mostre dell’estate ’65 - Libri, riviste e mostre N. 5. I criteri di valutazione dell’arte contemporanea - Una politica culturale per i socialisti - Il visual design - Pareri sulla IX Quadriennale - Libri, riviste e mostre N. 6. Il disegno di architettura - J.P. Hodin, Esiste un’estetica dell’arte moderna? - Alcune voci dell’urbanistica contemporanea - Breve antologia delle ultime Biennali - Libri, riviste e mostre N. 7. Note per una semiologia figurativa - W. Hofmann, Gli inizi dell’attività formale - E. Garroni, 33a Biennale di Venezia: «jeu» e «sérieux» - Libri, riviste e mostre N. 8. Artisticità dei mass media - B. Jessup, Arte e storia - Il design scientifico di Alexander - Incontri di studi urbanistici - Libri, riviste e mostre N. 9. Il pensiero estetico di Adorno - 4 artisti scelti da Barilli - A. Vivas, Filosofia della cultura, estetica e critica: alcuni problemi - Libri, riviste e mostre
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N. 10. Il premio IN/ARCH alla nostra rivista - R. Barthes, Semiologia e urbanistica - Nuove idee per la Gescal - Il metodo scientifico nella pianificazione - G. Veronesi, Su alcune mostre dell’estate italiana - Libri, riviste e mostre N. 11. G. Morpurgo-Tagliabue, L’arte è linguaggio? - Urbanistica e arti visive oggi - Valori ed obiettivi nella pianificazione - Libri, riviste e mostre N. 12. Tre contributi alla semiologia architettonica - E. Garroni, L’eterogeneità dell’oggetto estetico - V. Corbi, Questioni di estetica empirica - A. Perez, Riflessioni di uno scultore sul tema dello spazio - Libri, riviste e mostre N. 13. L’«environmental design» e il suo insegnamento - Per una teoria dell’architettura - L’estetica del «pensiero negativo» in Marcuse - Libri, riviste e mostre N. 14. La prossemica: un nuovo apporto all’architettura? - La poetica del l’arte povera - Note sull’Università e la professione - O. Ferrari, Una Biennale rimasta senza giudizio - Libri, riviste e mostre N. 15. I problemi dell’istruzione artistica - R. Segre, Presenza di Cuba nella cultura architettonica contemporanea - Architettura fra retorica e logica Libri, riviste e mostre N. 16. Significanti e significati della Rotonda palladiana - G. Dorfles, Valori iconologici e semiotici in architettura - Attualità della retorica - Libri, riviste e mostre N. 17. Il centro della città (definizioni) - M. Tafuri, Ambiguità del Guarini - Lettura storico-semiologica di Palmanova - Libri, riviste e mostre N. 18. L’architettura per l’Università - E. Garroni, Semiologia e architettura. Alcuni problemi teorico-applicativi - Recenti contributi allo studio dell’«environmental design» - Libri, riviste e mostre N. 19. Segni e simboli del tempietto di Bramante - Note sull’immaginario in Filarete - Philip Johnson: la funzione della maschera formale - Biennale/ricerca - Libri, riviste e mostre N. 20. Utilità storiografica di una dicotomia linguistica - Meaning in Architecture - La cultura di Le Corbusier - New Towns (definizioni) - Libri, riviste e mostre N. 21. Note per una epistemologia della rappresentazione visiva - G. Bonsiepe, Panorama del disegno industriale - Per una poetica del profondo: Blaue Reiter - Libri, riviste e mostre
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N. 22. Nomi, luoghi, immagini di città nella «Recherche» di Proust - U. Eco, Analisi componenziale di un segno architettonico - Percezione ed esperienza estetica - Libri, riviste e mostre
N. 23. La «riduzione» culturale - Libri, riviste e mostre N. 24. «Arquitectura, historia y teoria de los signos» - Note di terminologia semiotica - Il design: processo e fruizione - Il «silenzio» dell’architettura contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 25. Note sull’arte concettuale - L. Benevolo, La recente storiografia della città - Lo storicismo e i confini della semiologia - Città-pubblicità: sul caso Las Vegas - Libri, riviste e mostre N. 26. La «riduzione» culturale nella progettazione architettonica - R. Barilli, Le due anime del concettuale - G. Morpurgo-Tagliabue, Commento alla «riduzione» culturale - L’antidesign - Libri, riviste e mostre N. 27. Altri aspetti della «riduzione» culturale - Interventi: G. Dorfles, Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto - P. Fossati, Riduzione o trasformazione? - T. Llorens, Sul concetto di comunicazione estetica - Libri, riviste e mostre N. 28. Elementi semiotico-progettuali d’architettura - M. Krampen, Dalla semiologia della comunicazione alla logica degli strumenti - Libri, riviste e mostre N. 29. Per una lettura semiotica della prospettiva - Elementi di una tendenza dell’architettura italiana - XV Triennale - Libri, riviste e mostre N. 30. Problemi di semiotica dell’arte contemporanea - B. Zevi, Sei postille su «Il linguaggio moderno dell’architettura» - Alcune opinioni sull’iperrealismo - Libri, riviste e mostre N. 31. Elementi della progettazione scientifica - Il segno indefinito della semiologia urbanistica - Note sulla cultura a «mosaico» - Arbitrarietà e motivazione del linguaggio architettonico - Libri, riviste e mostre N. 32. L’eccentrismo, un momento della avanguardia sovietica - U. Eco, Chi ha paura del cannocchiale? - Nota sul segno urbanistico - I segni e le «figure» del Padiglione di Barcellona - Libri, riviste e mostre N. 33. Architettura come istituzione - Il «ritorno» alla pittura - Università: le parole e le cose - Libri, riviste e mostre N. 34. Dall’estetica alla semiologia - La teoria di Hjelmslev e l’architettura: alcuni problemi - Il «realismo» di Giuseppe Samonà - Libri, riviste e mostre N. 35. Attualità dell’iconologia: alcune questioni metodologiche - R. Barilli, Difficoltà di un approccio semiotico alla culturologia - L’editoria architettonica - Libri, riviste e mostre N. 36. I centri storici nella prospettiva semiologica - Le idee di teatro, oggi - Una riproposta del «multiplo» - Libri, riviste e mostre
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N. 37. Dialettica del «piacere» e identità dell’architettura - Assenza-presenza: due modelli per l’architettura - La «storia dell’arte» nelle scuole - Libri, riviste e mostre N. 38. Le ricerche di architettura più attuali ed insolite - Dalla fotografia al videotape - Analisi di un corso di laurea: il Dams - Libri, riviste e mostre N. 39. La sociologia del gusto di Jean Baudrillard - Le posizioni di […] su alcuni temi della critica architettonica in Italia - Libri, riviste e mostre N. 40. «Aforismi» sui centri storici - Note sulla simmetria in architettura Bataille e la “svolta” di «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 41. Dipartimento e «architettura» - La «rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica - La critica d’arte in «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 42. L’idea di pittura in Lévi-Strauss - Sul concetto di gusto - Alcuni contributi alla critica dell’inconscio - Libri, riviste e mostre N. 43. La post-avanguardia - Luoghi e luoghi comuni della recente critica d’arte - Narciso e «l’altro»: note sul dibattito architettonico - Libri, riviste e mostre N. 44. Architettura: la «rimozione del nuovo» - Ipotesi per il segno iconico - Storia dell’arte, storia delle cose - Libri, riviste e mostre N. 45. Topologia e architettura - La casa: norma e «deroga» - Artisti e cinema - Libri, riviste e mostre N. 46. I quindici anni della nostra rivista - L’Architettura all’Ecole des Beaux-Arts - La Storia dell’arte Einaudi - Una griglia che non sia una grata N. 47. Architetto e ingegnere - Le scuole di critica d’arte in Italia - L’immaginario nella cultura di massa - Libri, riviste e mostre N. 48. Prima e dopo il Post-Modernism - L’iconizzazione del mobile - Civiltà del ’700 a Napoli - Libri, riviste e mostre N. 49. Il restauro architettonico: ricchi apparati e povere idee - F. Menna, La Biennale di Venezia. Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti - Critica d’arte e processi produttivi - Libri, riviste e mostre N. 50. Fortuna critica della «Tendenza» - R. Bonelli, Storiografia e restauro - La fotografia: indice o icona? - Libri, riviste e mostre N. 51. Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, riviste e mostre
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N. 52. L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre
N. 53. Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54. Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55. Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56. Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57. Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58. E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59. Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60. Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61. Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62. Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63. Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64. Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65. Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre N. 66. Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre N. 67. Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre
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N. 68. Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69. Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70. Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71. Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72. Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73. Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74. Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75. Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76. I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77. Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78. L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79. Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80. Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81. Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82. Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre
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N. 83. Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre
N. 84. Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85. Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86. Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87. Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88. L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89. Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90. L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91. «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92. Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93. La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94. Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95. Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96. Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97. Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98. Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99. Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre
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N. 100. Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101. Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102. Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103. Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104. La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105. L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106. Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107. Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108. Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109. Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110. Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111. Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112. Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113. Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114. L’architettura italo-europea (fascicolo monografico)
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N. 115. L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre
N. 116. Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117. Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118. Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119. L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121. La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122. L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123. Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125. Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126. L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127. Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128. Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129. Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
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N. 131. Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132. Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133. Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134. Abitare la razionalità - Per una nuova classificazione delle arti - Il design aeronautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135. Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137. Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138. Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine del l’ADI N. 139. Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
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N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI N. 152. Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre N. 153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazione Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre N. 154. Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione - Ancora sul rapporto tra arte e pubblico - Design: scenari morfologici della contemporaneità - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
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N. 155. Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia - Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo - Della omologazione in architettura - Arti visive: da zona franca a fronte comune - È del designer il fin la meraviglia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998
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Le pagine dell’ADI ASSOCIAZIONE PER IL DISEGNO INDUSTRIALE Campania a cura di Salvatore Cozzolino
Migrazioni Tiepide Salone del Mobile 2016 Se si passeggia tra i padiglioni della Fiera di Rho nel pomeriggio di una domenica di metà aprile 2016 si inciampa nelle considerazioni calde, perché immediate, sul 55° Salone Internazionale del Mobile che si sta chiudendo e che per tanti, istintivamente, è apparso solido e migliore di quello passato. Le analisi e i commenti autorevoli arriveranno come di consueto nelle prossime settimane, e le verifiche nei mesi a seguire, per individuare i punti di forza e le criticità dell’appuntamento che, è bene ricordarlo, resta la fiera più importante al mondo della merce domestica, e quindi un momento in cui una intera economia verifica i rapporti al suo interno, ma anche con la distribuzione e con la comunicazione. Il Salone è il posto dove le aziende produttrici, e tutti gli operatori economici collegati, presentando i frutti della propria attività, si riposizionano rispetto al mercato e nel caso ridefiniscono ruoli, immagine e strategie produttive e commerciali, alla luce dei dati raccolti, ma anche delle impressioni e degli stimoli ricevuti. Bisogna segnalare che, unica nel suo genere, la rassegna internazionale del mobile ha una duplice valenza in quanto negli anni è riuscita a integrare le caratteristiche proprie della mostra-mercato influenzata dai numeri e orientata agli affari, con i momenti di incontro culturale, a tratti d’avanguardia, ma sempre anticipatori e inclini a
sollecitare interrogativi e a favorire lo scambio di umori. Una caratteristica particolarmente significativa per aziende che non potrebbero altrimenti attingere, come i grandi gruppi della chimica o della siderurgia, a ricerche e dati di costo inaccessibili. È anche evidente che la produzione di arredi ha una serie di specificità industriali e artigianali, rare in altri ambiti industriali, e condivise probabilmente solo con il comparto agroalimentare. Specificità dellle strutture produttive per l’arredo Il sistema legno-arredo è costituito in prevalenza da imprese di piccola e media dimensione, spesso a proprietà familiare, operanti in distretti industriali omogenei e dall’elevato grado di de-verticalizzazione che rende la sub-fornitura specializzata un importante anello della filiera produttiva. Un elemento significativo dell’impresa italiana dell’arredo è che il sotto settore del taglio, piallacciatura e trattamento del legno ha un’alta percentuale di lavoro artigiano (si parla infatti di imprese sotto i nove addetti). Inoltre la fase primaria della lavorazione dei materiali si svolge all’Estero e si importa la maggior parte della materia prima semilavorata. La presenza maggioritaria di imprese con meno di 20 addetti implica l’esigenza di un distretto per compensare le difficoltà che incontrerebbe l’autoinvestimento aziendale di piccola entità e determina il diffondersi di realtà produttive con un elevato grado di flessibilità e alta capacità di adattamento alle condizioni di mercato. In estrema sintesi l’importanza di questi distretti, è imputabile non solo al particolare modello di organizzazione industriale presente a livello territoriale (elevata concentrazione di piccole e medie imprese), ma anche alla presenza in tali contesti di alcuni importanti fattori
materiali come la manodopera qualificata e un efficiente sistema di subfornitura locale, oltre che fattori immateriali come le peculiari conoscenze relative ai prodotti, ai processi ed alla domanda potenziale espressa dal mercato. Tutti elementi che risultano cruciali per la competitività delle imprese. Milano tra meeting culturale e business Rinviando ai capitoli successivi le considerazioni circa la funzione di meeting performativo, si ritiene che possa essere utile filtrare i bilanci dell’edizione 2016 che potremo leggere prossimamente sulla stampa specializzata, con le impressioni di un imprenditore molto esperto, che si ricavano da un articolo pubblicato recentemente su Domus 1001, in cui il presidente del Salone del Mobile, Roberto Snaidero, individua le strategie di sviluppo delle aziende. Snaidero, presidente anche di Federlegno Assarredo, propone una lettura degli obbiettivi produttivi che potrebbe avere grande influenza nei prossimi anni per gli operatori del design, sopratutto gli studiosi e i progettisti. Nell’articolo di Nicola di Battista, direttore di Domus, sono raccolti i contenuti di una conversazione, con il titolare – peraltro – di un gruppo industriale di rilievo nel settore del mobilio per la cucina, che fornisce diversi elementi quantitativi per capire meglio le dimensioni e le aspettative di un comparto che muove quasi il 7% della produzione industriale della penisola, con oltre 100 mld di dollari di fatturato secondo i dati del Fondo Mondiale Internazionale. Nel dettaglio Snaidero riferisce che nel 2016 gli espositori sono in aumento e rappresentano sempre più un orizzonte sovranazionale e innovativo, raggiungendo una presenza record di aziende straniere (circa il 30%
del totale) e ospitando 650 giovani creativi nel Salone Satellite: Sono diventato presidente di Federlegno Assarredo nel 2011, gli anni più bui nel nostro settore, economicamente parlando e, in quel momento ho pensato a quali fossero gli atout, le positività che dovevamo incarnare per uscire dalla crisi. Il mercato interno, così come i consumi, era calato enormemente, non solo nel nostro settore, ma in generale. Il primo obbiettivo è stato quindi puntare all’internazionalizzazione. Strategie per nuovi mercati Il ragionamento che ha animato le strategie di successo delle imprese italiane del settore, precedentemente incerte ad operare con determinazione sui mercati stranieri, sembra essere diventato quello di chi – visto il perdurante segno negativo degli acquisti interni – si rivolge con diverso atteggiamento agli acquirenti oltre i confini. Un segnale in tal senso si era colto nella comunicazione, con l’accento onnipresente all’Italian LifeStyle che accompagna da anni i prodotti, e perfino nella ricerca di materiali intrinsecamente pregiati, spesso coniugati con semplici geometrie ad evidenziare lo spessore materico e culturale del componente. In effetti c’è il sospetto che alla tattica commerciale si fosse aggiunto un atteggiamento al limite della compiacenza verso le aspettative di quei mercati, meno avveduti, ma più disponibili a spendere purché all’acquisto corrispondesse in modo evidente il valore effettivo del materiale. Non è chiaro se quest’inizio di acquiescenza alle ragioni del marketing sia ormai un fenomeno minimale e arginato. In ogni caso il risultato di questo processo che ha portato al riconoscimento planetario, non per i soli esperti, del mobile italiano è
paragonabile all’identificazione storica tra Parigi e il bon ton e tra la Germania e la meccanica di qualità. E intanto il destino per la Fiera sta nelle parole del suo presidente: Abbiamo cominciato a organizzare incontri b2b, dalla Russia agli Stati Uniti, per proseguire in Cina e in Iran, facendo conoscere il prodotto italiano. C’era però bisogno di un sostegno e di maggiore visibilità e, in questo senso, il Salone del Mobile è stato il nostro cavallo di Troia. I dati dello scorso anno – 320.000 visitatori, il 67% dei quali stranieri – sono stati positivi, e credo che quest’anno saranno confermati. Opportunità internazionali per il salone L’interessante conversazione tra Di Battista e Snaidero ci svela una sequenza di opportunità aperte dall’iniziativa dell’associazione dei produttori di mobili, conflui te in un nuovo format per la kermesse milanese che, oltre all’ineludibile settimana del Design, ha raggiunto lo status di promotore a tempo pieno del furniture italiano all’estero, con un’azione determinata e armonizzata che non sembra avere analogie con altri segmenti industriali e, soprattutto, con altre aree geografiche del paese: I risultati stanno arrivando. Non ultima la richiesta da parte di altri mercati di replicare l’evento. A Mosca i Saloni “WorldWide” sono giunti alla undicesima edizione (…). La prima edizione del “Salone del Mobile. Milano Shanghai”, che si terrà a novembre, ci permette invece di rivolgere uno sguardo ulteriore verso il futuro. Sebbene dal 2015, dopo un lustro di risultati negativi, il consumo interno sia in ripresa con la complicità dei
“bonus fiscali”, l’iniziativa dell’imprenditoria mobiliera ha assunto una dimensione stabilmente internazionale e il Salone è sbarcato oltreoceano con il successo di “Milano Meets Miami”, un evento rivolto agli architetti statunitensi che si completa con l’organizzazione di Masterclasses dedicate, sagacemente, alla presentazione della nostra cultura del design ai progettisti. Ulteriore slancio, riferisce il presidente del Salone del Mobile, si rileva in Estremo Oriente e i risultati dell’investimento economico e di attenzione è riscontrabile in modo tangibile nelle esportazioni di arredo cresciute, nella sola Cina, del 150% in tre anni a riprova che la nuova classe di benestanti, non ricchissimi ma potenziali acquirenti, stimata in oltre 300 milioni di persone, comincia davvero ad apprezzare il mix di dinamismo, stile di vita e alto artigianato che esprime il design del mobile italiano. Un carattere che, sebbene sia custodito al meglio dalla industria manifatturiera del nord, e lombarda in particolare, accomuna nel Bel Paese molte aree come il comparto del legno del Triveneto e la dinamica realtà industriale delle Marche, fino al distretto dell’imbottito attivo in Basilicata. Una lezione di concretezza utile principalmente per imprenditori e operatori del design, a testimonianza che la vivacità e l’intraprendenza produttiva possono dare frutti a prescindere dalle latitudini e dalla centralità continentale. Una lezione valida per tutta l’industria nazionale Le azioni internazionali espresse da Federlegno Assarredo, sono proprio quelle che alcuni territori, come quello campano, stentano a comprendere, ma sono le più efficaci per affermare con risultati tangibili le potenzialità dell’industria locale quando alle capacità produttive si aggiungono design, comunicazione, innovazione di prodotto e, sopratutto, strategie coordinate di presenza sui mercati.
Nella parte conclusiva, risolto l’obbligo di narrare il lavoro svolto e l’attualità, l’articolo riporta due ulteriori iniziative a testimonianza dell’orizzonte di lungo termine in cui si auspica debba muoversi il COSMIT (Comitato Organizzatore del Salone del Mobile Italiano) e, magari, anche i distretti territoriali omologhi per il carattere minuto delle dimensioni aziendali e per l’attitudine semi-industriale della produzione, come quelli delle regioni meridionali e in genere periferiche. In questo quadro il Salone del Mobile ha intrapreso una partnership con la Triennale di Milano e in occasione della XXI edizione ha promosso e sostenuto un progetto sul futuro dell’architettura degli interni concretizzato con la mostra “Stanze” di cui si parlerà più avanti e che rappresenta in modo evidente il carattere di Cosmit come ente economico “che fa cultura”. La seconda iniziativa, se possibile ancora più decisiva per gli anni a venire, riguarda la formazione della manodopera. Il presidente Snaidero conferma le difficoltà in cui si potrebbe trovare il comparto del mobile prossimamente in uno scenario di perdita della centralità del lavoro manuale. Non deve sfuggire che sempre meno i giovani si avvicinano al mondo della produzione di mobili e di suppellettili. Neanche deve essere taciuto che ogni manifattura è fatta in eguale misura di materiali e di cultura e che, sempre più, chi fa con le mani deve essere informato dei fenomeni che lo circondano. In questa ipotesi si inserisce la fondazione, voluta dalle aziende di FederlegnoArredo a Lentate sul Seveso, proprio al centro del distretto del mobile, di una scuola di formazione di base che permette ai giovani di studiare le materie di base del lavoro artigiano, ma anche il marketing e l’internazionalizzazione. Un segno evidente di attenzione industriale al territorio e insieme la consapevolezza che se è vero che le persone comprano, insieme ai prodotti, un modello con cui abitare il mondo e segmenti di emozioni
e di storia, è altrettanto sicuro che alla fine acquistano sempre qualche chilogrammo di materia ben fatta. Senza selezione una nebbia di eventi Già in premessa si è detto della peculiarità della manifestazione milanese che anche quest’anno ha offerto, come sempre, accelerazioni di business e occasioni di confronto. Per le prime si è riferito in precedenza, sulle seconde ora si possono articolare alcune impressioni. La prima riflessione riguarda le centinaia di eventi di modesto valore, esterni alla Fiera, che affollano le guide e pretendono considerazione da Lambrate a Tortona, passando per Brera. Sono equamente bilanciati tra presunte novità tecniche e improbabili progetti, spesso autoprodotti, ma comunque privi dell’opera preziosa di mediazione e di filtro che le aziende formate e le strutture di distribuzione, praticano sul design acerbo. Si tratta di un pulviscolo di buoni propositi progettuali che, cercando visibilità nei giorni cruciali del Salone, costituiscono una “foschia” che rende difficoltoso orientarsi e individuare le occasioni utili ad ogni personale interesse, e che rappresenta un evidente fattore di confusione per i molti giovani alla ricerca incessante di qualcosa da vedere. Vista la crescita esponenziale delle proposte del FuoriSalone il problema si dovrà in qualche modo arginare. Probabilmente bisognerà agire a breve e a lungo termine. Nell’immediato sarebbe utile costruire guide, ragionate e discriminanti, sulla base di tesi culturali e/o produttive, anziché limitarsi a raccogliere i contributi economici di accesso per costituire elenchi omnicomprensivi e quindi ipertrofici, oltre che illeggibili per dimensione. Forse la selezione diventerà multipla e ci si dovrà riconoscere nei criteri di qualcuna tra esse, individuando la griglia di preferenze più prossima al proprio sentire, ma certo, come per le guide per il turismo o per
la ristorazione, si eviteranno dispersioni e delusioni profonde, limitandosi – nei casi peggiori – ad accettare proposte che lasciano perplessi. Limiti delle autoproduzioni La strategia di lungo periodo prevede di promuovere una discussione circostanziata sui ristretti pregi e i molti limiti dell’autoproduzione e delle microproduzioni di mobili e oggetti fuori dal circuito consueto che articola la nascita di un vero prodotto tra il progetto, la produzione, la distribuzione e l’acquisto. Un quadrifoglio di componenti, o uno splendido artificio storiografico secondo Renato De Fusco, molto utile per definire o interpretare il design, a cui qualcuno come Giovanni Cutolo, utilmente aggiungerebbe la “fogliolina della formazione”. Nei casi in cui le componenti sono sbilanciate o semplicemente manca qualche parte, si verificano nella stragrande maggioranza dei casi prodotti incerti e operazioni improvvisate. Certo il confronto e l’azione di selezione che operano le componenti attive nella costruzione di un prodotto, non garantiscono in assoluto sulla qualità, ma rappresentano una forma di requisito minimo, di soglia di accettabilità. Invece la mancanza di una griglia in cui democraticamente si confrontano le ragioni del business e quelle dell’espressione creativa, le esigenze dei consumatori con quelle della vendita, è presupposto per rischiose attività troppo spesso vicine all’autocompiacimento. Da un po’ il problema riguarda anche autori e aziende dei paesi emergenti, principalmente asiatici, che oscillano tra oggetti supini ai controlli di produzione e sperimentazioni espressive mancanti di una struttura concettuale come quelle viste a Tortona e non solo. In pratica sono tentativi digiuni della lezione di fondo del design italiano, che rilancia ogni volta la gara dell’innovazione, ma si ostina, fortunatamente, a non diventare arte, e vuo-
le essere il riferimento per persone normali, ma curiose e disposte ad avventure culturali e comportamentali. Fuorisalone, i top event In ogni caso nella Design Week si sono visti molti interessanti remake aziendali, alcuni ottimi prodotti per i nostri scenari domestici, qualche buon apparecchio illuminante e pochi componenti edilizi realmente innovativi. Più o meno come nelle precedenti occasioni, ma da un po’ è la densità che preoccupa, perché aumenta il numero delle proposte e dei luoghi da visitare, ma non si arricchisce la percentuale di cose fatte a regola, singolari e stimolanti. Inoltre per il confronto e la crescita degli operatori del progetto, designers e imprenditori, servono eventi dubitativi e spunti tecnici, proposte spiazzanti e visioni che toccano nel profondo. In realtà negli appuntamenti del design le installazioni quasi didascaliche aiutano molto i giovani, come la mostra Spring To Mind con prodotti di Ron Arad per Moroso e la riproposizione di modelli di vita in interior visti tra le Stanze ordinate da Beppe Finessi al Palazzo della Triennale. Spring to mind Nell’installazione curata da Marco Viola Studio si ripercorrono i 25 anni di lavoro del brillante designer israe liano con l’azienda di sedute e imbottiti, una collaborazione tracciata da modelli di studio, schizzi, foto e allestimenti fatti con i pregevoli prodotti di Moroso. Un’occasione per tutti utile a decifrare i modi attraverso i quali si articola la faticosa ed esaltante esperienza del design realizzato, quindi una opportunità assolutamente imperdibile per formare gli imprenditori al rapporto di contraddizione e cooperazione con i creativi esterni all’azienda, e da prescrivere obbligatoriamente alle nuove
leve del progetto per chiarire una volta ancora che il prodotto è come un figlio con molti genitori e che la crescita non prevede scorciatoie, ma un impegno inventivo e una capacità di mediazione costanti. Stanze alla triennale Nell’allestimento di Gianni Filindeu alla XXI Triennale, per la mostra curata da Beppe Finessi, direttore di Inventario, rivista neurotonica e innovativa, 11 autori contemporanei hanno proposto i propri personali modelli dell’abitare e contribuito a colmare una carenza disciplinare. Mentre il progetto architettonico e quello del prodotto godono di un ampio riconoscimento sociale e professionale, l’interior design soffre di una generale sottostima nella cultura del progetto e nelle aule universitarie. Eppure l’architettura degli interni è la prima e più prossima occasione di lavoro per i professionisti e spesso è anche il laboratorio per innovative tipologie di prodotti domestici e per tecniche e soluzioni formali esportate poi negli edifici più complessi. Nella mostra le “Stanze” vere e proprie sono precedute da una sala dove sono esposte in foto alcune inconfutabili opere di maestri, ma anche di autori meno significativi, che si sono cimentati con l’architettura degli interni, dal primo Novecento fino agli anni più recenti. Più avanti nelle camere speculative organizzate al piano terra del Palazzo si ritrovano alcune colte sperimentazioni e raffinate conformazioni spaziali, pensate come una sequenza di ambienti, ognuno progettato da un autore diverso: Andrea Anastasio, Manolo De Giorgi, Duilio Forte, Marta Laudani e Marco Romanelli, Lazzarini Pickering Architetti, Francesco Librizzi, Alessandro Mendini, Fabio Novembre, Carlo Ratti Associati, Umberto Riva, Elisabetta Terragni. Le “Altre filosofie dell’abitare” rinviano inevitabil-
mente ai memorabili allestimenti visti in Triennale, primo fra tutti quello dirompente del 1983 con opere di Guerriero, De Lucchi, Deganello e altri autori, per non fare menzione delle precedenti “case” e dei pregevolissimi interni, esposti per la V Triennale che allora, per la prima volta, si tenne nel Palazzo omonimo appena costruito da Giovanni Muzio e che principalmente stabiliva che quello era il laboratorio di livello europeo dove si confrontavano in forma di “manifesti tridimensionali” le diverse culture del progetto. L’attuale esibizione di modelli in scala reale conferma la forza narrativa del prototipo di dimensioni “vere” in un momento di delirio digitale, ma ancora resta da impegnarsi per stabilire il valore di autentica ricerca che accompagna il progetto di interni. Il design nei chiostri dell’università Nella breve rassegna sulle tante proposte del FuoriSalone non si può tacere degli allestimenti organizzati all’Università Statale dalla rivista Interni con l’obbiettivo di sconfinare tra arte, architettura, design e fotografia. Non sempre stimolanti, ma coinvolgenti e ricchi di un pubblico eterogeneo e preferibilmente estraneo al circui to consueto del Fuorisalone. Tra quelli di maggiore interesse rimane la Radura di Stefano Boeri, una suggestiva foresta circolare fatta da 400 pali di legno naturale chiaro a significare le nuove frontiere della sostenibilità nella rigenerazione urbana e l’ipotesi di albergo diffuso in forma di minicase sull’erba inventate da Santachiara, De Lucchi, Giovannoni e Ferreri sul tema della Casetta del Viandante. Rispetto alle citate esposizioni all’aperto nei cortili dell’Ateneo milanese rimane ingiustamente trascurata, e male illuminata, una installazione al chiuso di Patricia Urquiola, che esprime una notevole forza evocativa nel tagliare gli strati di materiali comuni per cavarne inaspettate e intriganti geometrie.
Esaltante allestimento per descrivere il tempo A Tortona, nel distretto più numeroso del design e anche più ricco di eventi controversi, appare maestoso e coinvolgente l’allestimento time is Time di Citizen riproposto dal colosso dell’orologeria nello spazio Superstudio più. La mostra, che aveva avuto una anteprima nel 2014, propone l’esplorazione dell’intensa relazione tra luce e tempo attraverso un viaggio nel mondo dell’orologio, secondo la mission aziendale: non solo creare orologi migliori, ma aprire porte sempre nuove all’industria della precisione. L’installazione è uno spazio surreale, teso a far percepire il senso del tempo, concentrandosi sulla natura del tempo e del momento, attraverso l’esposizione realizzata con più di 100.000 piccole “casse” di orologio sospese a fili di nylon sottilissimi, su cui si riflette la luce e tra cui si insinuano suoni e persone strabiliate. Un’opera a grande scala che espone il concetto di “tempo” secondo molteplici punti di vista, mostrando come universo, terra, creature, umanità, vita, società siano necessariamente collegati ad un “tempo” e come esso possa essere espresso sia attraverso i movimenti meccanici ed elettronici degli orologi, sia materializzato nello spazio. L’autore è Tsuyoshi Tane con DGT Architects che ha sviluppato il progetto con Citizen dal 2013, prima cercando la relazione tra luce e tempo e poi, sembrerebbe, tra “tempo e tempi” con un ragionamento fortemente speculativo: Abbiamo voluto riflettere approfonditamente sulla domanda “che cosa è il tempo?” Il tempo contiene molti momenti individuali, tra cui uno che noi chiamiamo “Ora”. È impossibile fermare il tempo. Le persone e gli oggetti invecchiano, ma il tempo è sempre nuovo. Si mantiene sempre in movimento. Continua a cambiare. Viene e va. Questo
continuo e mutevole flusso fatto di singoli momenti è quello che noi conosciamo come “tempo”. “time is TIME” è un’installazione sperimentale ed esperienziale che esplora l’idea di tempo. Utilizzando circa 120.000 piastre, gli architetti hanno definito due spazi principali: SPAZIO A e SPAZIO B. In questi spazi, i visitatori sono invitati a vivere un’esperienza completamente nuova, sperimentando il tempo come un assoluto e tutto il resto come relativo. Sono passati 15 anni da quando siamo entrati nel 21° secolo, durante i quali, ogni evento mondiale è entrato a far parte direttamente nella nostra vita di tutti i giorni. La nostra società è diventata molto più intelligente e veloce come risultato della globalizzazione. In questo scenario, abbiamo la possibilità di perseguire i veri significati di entrambi i singoli momenti che sperimentiamo come “tempo” e “TEMPO”, il passaggio collettivo di questi singoli momenti. Nel “tempo” che è “Ora,” tutti noi sulla Terra siamo ugualmente connessi allo stesso “TEMPO”. “time is TIME” è la nostra sfida per introdurre adesso, una nuova visione di “TEMPO”. Preistoria istantanea e gesti minimi di colore profondo Sull’orizzonte milanese però emerge la grande occasione di ri-pensiero a cui ci chiama NeoPreistoria alla XXI Triennale. La mostra ordinata da Andrea Branzi e da Kenya Hara rimette l’uomo al centro dei fenomeni e il suo battito primordiale ne impone il ritmo. In questo modo si percorre il lungo cammino che collega gli utensili dalla preistoria alle moderne nano-tecnologie; una narrazione tracciata dall’impulso di “100 verbi” e di “100 strumenti” che come flussi di energia vitale e misteriosa,
guidano il visitatore attraverso le tenebre della storia fino allo spazio infinito. Il tutto convinti che il pensiero artificiale ha segnato l’inizio di una nuova antropologia, una nuova fase dell’evoluzione umana di cui, come nell’antica preistoria, non conosciamo il destino complessivo, ma soltanto i simboli di singoli salti nel buio, qualche volta angoscianti. Questa perdita di direzione accompagna ancora oggi l’estrema vitalità e fertilità del pensiero e della tecnologia umana, che caratterizza sia gli strumenti di morte che l’estensione protesica e “aumentata” della vita verso un futuro tutto da esplorare. In sintesi sono stati ordinati minuscoli o grandi, ma sempre meravigliosi, oggetti disposti in semplice progressione cronologica per spiegare da dove veniamo e, in filigrana, come andare oltre. Un allestimento concentrativo da percorrere in solitario il cui filo conduttore non sono le cose, ma le azioni e quindi non i sostantivi, ma i verbi-titolo: ridurre, scalfire, colpire, correre … A bilanciare la magnifica e grandiosa mostra della Triennale, qualche volta sono ugualmente efficaci le piccole operazioni, purché intense, come la mostra alla Galleria Clio Calvi Rudy Volpi di via Pontaccio, 17. Una ridotta collezione di vasi in cui l’imperfezione del gesso si combina con l’esattezza dell’oro per fornire un pulviscolo di spunti geometrici e di effetti minimali, ricchi di luminose colorazioni e, sopratutto, di nuovi accostamenti cromatici. In questo esempio di design sperimentale, con i suoi compiuti microcosmi in forma di contenitori sospesi e oscillanti, l’autore, Andrea Branzi, restituisce l’essenza del progetto e sembra voler dire: provate anche con le cose semplici perché l’innovazione non sempre dipende da grandi mezzi, ma sicuramente da idee geniali. SALVATORE COZZOLINO
ISSN 0030-3305
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