Op.cit. 158

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gennaio 2017

numero 158

Architettura e qualità nell’età dei concorsi - La nostalgia nella cultura digitale - Conformazione e trasformazione degli spazi interni - La ricerca di una definizione di design - Libri, riviste e mostre Grafica Elettronica



Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco

Comitato scientifico Philippe Daverio Kenneth Frampton Giuseppe Galasso Vittorio Gregotti Juan Miguel Hernández León Aldo Masullo Vanni Pasca Franco Purini Joseph Rykwert

Comitato redazionale Roberta Amirante Pasquale Belfiore Alessandro Castagnaro Imma Forino Francesca Rinaldi Livio Sacchi Segretaria di redazione Emma Labruna

Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 info: +39 081 7690783 - fax: +39 081 7705654 e-mail: rendefus@unina.it - elabruna@unina.it Amministrazione: 80128 Napoli, Via B. Cavallino, 35/G info: +39 081 5595114 - +39 081 5597681 e-mail: info@graficaelettronica.it Abbonamento annuale: Italia e 50,00 - Estero e 70,00 Un fascicolo separato: Italia e 18,00 - Estero e 25,00 Un fascicolo arretrato: Italia e 20,00 - Estero e 27,00 Grafica Elettronica


F. Mangone J. Ceresoli G. Cafiero C. Langella

Architettura e qualità nell’età dei concorsi 5 La nostalgia nella cultura digitale 13 Conformazione e trasformazione degli spazi interni 27 La ricerca di una definizione di design 38 Libri, riviste e mostre 53

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Renato Capozzi, Pasquale Fameli, Andrea Sciascia, Alberto Terminio.



Architettura e qualità nell’età dei concorsi FABIO MANGONE

Assimilando il principe al padre dell’edificio e l’architetto alla madre, Leon Battista Alberti sottolineava l’imprescindibile ruolo della committenza: ancora nella congiuntura attuale si avverte come la crisi della qualità dell’architettura sia anche e soprattutto una crisi della capacità di porre una adeguata domanda di qualità e di definire idonei processi per assicurarla. Troppo spesso concentrata su astratte questioni di linguaggi e di correnti, su personalità di progettisti o su edifici emblematici, la critica ha spesso trascurato, e continua a trascurare, quei processi entro cui può realizzarsi l’architettura, quelle forme entro cui si organizza la domanda di committenza in età contemporanea. Una domanda appunto che non si pone più come dialogo diretto tra un principe e un architetto, ma attraverso percorsi normativi complessi, non irrilevanti rispetto agli esiti finali. Nella fase attuale, un po’ dappertutto nel mondo, ma so­ prattutto in Occidente, per assicurare un alto livello qualitativo sembra fondamentale soprattutto la committenza pubblica. Certo, si registrano anche forme contemporanee di committenza assimilabili alle secolari forme di mecenatismo architettonico: si pensi ad esempio al ruolo delle “fondazioni”, che da Basilea (Fondazione Beyeler, Renzo Piano 1991-97) a Parigi (Fondazione Louis Vuitton, Frank Gehry 2001-14), hanno promosso edifici pubblici, e museali in specie, in cui il valore architettonico risultava elemento im-

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prescindibile del programma, e in certa misura obiettivo prin­cipale dell’impresa. Ma si tratta, come è evidente, di virtuosissime eccezioni piuttosto che della regola. È soprattutto alla committenza pubblica, come d’altronde avevano teorizzato molti esponenti del cosiddetto Movimento Moderno, che compete oggi di assicurare un certo grado di qualità delle trasformazioni urbane e territoriali, ovvero di coniugare la richiesta funzionale con una più sottile ma non meno importante domanda di significato culturale e artistico, nonché di arricchimento semantico dei luoghi. Rispetto a questa esigenza, certamente la maggiore o minore attitudine delle pubbliche amministrazioni a formulare con chiarezza e con intelligenza programmi lungimiranti, ad assicurare adeguati stanziamenti, resta un fattore di primaria importanza, ma il nodo fondamentale risiede nella capacità di scegliere opportunamente un progettista o un progetto. In età contemporanea, quest’ultima questione è stata affrontata secondo tre possibili modalità: l’incarico diretto, l’affidamento a idonea struttura tecnica pubblica, il concorso. L’incarico diretto è quello che più si lega ad un’idea tradizionale di concepire il rapporto tra committente e progettista, soprattutto nel caso di un promotore particolarmente interessato all’architettura: è una prassi ancora gravida di conseguenze in età contemporanea, come mostra tra gli altri il felice dialogo tra Karl Schinkel e Federico Guglielmo IV di Prussia, ma che ormai sembra piuttosto superata, e in ogni caso carente sotto il profilo della legittimazione democratica, pur senza voler scomodare la discussa predilezione di Adolf Hitler per Albert Speer, o in tempi più recenti quella altrettanto discutibile del principe Carlo d’Inghilterra per Léon Krier. Più marginale che desueto, l’incarico diretto sopravvive in età contemporanea, colla sola condizione di eccezionalità del tema e dell’architetto, e non può che contemplare la scelta di un esponente del firmamento delle archistar, come poniamo nel relativamente recente caso romano dell’Ara Pacis (Richard Meier, 1996-2006), dove l’alto profilo del progettista non ha assicurato l’assenza di polemiche. D’altra parte, l’inevitabile consequenzialità tra la


procedura di incarico diretto per una grande opera e la selezione di un’archistar comporta tutta la problematica correlata al lavoro di questo tipo di figure: costrette, non meno che le maison di alta moda o le griffe delle carrozzerie automobilistiche, ad imporre di fase in fase una propria riconoscibile fisionomia stilistica caratterizzante, in ragione di questa necessità non sempre riescono a stabilire con i propri lavori rapporti di integrazione con i contesti, spesso troppo “dominati” dalla presenza di un’architettura autoriale programmaticamente autoreferenziale. Una seconda ipotesi è quella dell’affidamento della progettazione dell’opera di interesse collettivo a una struttura tecnica pubblica. L’idea di una struttura tecnica pubblica fa parte della più generale idea dello Stato e dei suoi organismi elaborata dall’età contemporanea: è ben noto come per tutto l’Occidente, il modello di riferimento sia stato quello francese, con l’istituzione di un Corpo di Ponti e Strade, diffuso poi anche nelle periferie dell’impero napoleonico, e sopravvissuto alla sua eclissi. Anche se non sono mancate nell’Europa del XX secolo esperienze straordinarie di uffici tecnici pubblici in grado di elaborare architetture di alta qualità, e si pensi ad esempio a quello municipale di Hilversum in Olanda, diretto da Wilhelm Marinus Dudok, in realtà esse sembrano soprattutto configurare delle eccezioni. Negli anni tra le due guerre, nell’ambito dell’ideologia socialista, matura il principio per cui i migliori architetti debbono essere dei funzionari pubblici a servizio della collettività: ed è il principio utopico che attrae molti progettisti tedeschi in fuga dal nazismo, come Hannes Meyer, e diversi allievi del Bauhaus. Al di là di alcune fortunate e circoscritte esperienze europee, tuttavia, sempre più dal secondo novecento anche come conseguenza di normative tecnicolegali sempre più complesse e cogenti, gli uffici tecnici delle amministrazioni pubbliche tendono a svolgere attività di controllo e di coordinamento più che di progettazione in senso tecnico: gli esiti possono essere anche di grande significato culturale, come mostra l’esperienza di Hans Stimmann a Berlino, ma soprattutto nelle attività di indirizzo più

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che di progetto alla scala architettonica. D’altra parte, in alcune rare circostanze dove in tempi recenti la normativa sugli incarichi ha teso a favorire l’affidamento della progettazione alle stesse pubbliche amministrazioni, come è accaduto nell’ultimo decennio in Italia, più per motivi di almeno formale trasparenza, e forse anche per ragioni politico-sindacali di premialità ai funzionari, il risultato è stato abbastanza deleterio, per vari motivi: perché nei fatti gli organismi tecnici pubblici solo di rado avevano potuto maturare quegli indispensabili aggiornamenti culturali e tecnici necessari alla progettazione di un’opera di alto significato culturale e artistico, e anche per la mancanza della necessaria dialettica tra progettista e tecnico preposto al controllo, che in qualche misura è essa stessa garanzia di qualità. Curiosamente, però, la norma italiana del 2016 che limita fortemente l’istituto dell’affidamento “in house” tuttavia non è stata prevalentemente motivata dal riconoscimento di questa minore qualità, quanto piuttosto dalla lamentata crisi del­la libera professione e degli studi di architettura. In realtà, in età contemporanea è soprattutto il concorso la formula che sembra fornire la procedura migliore per selezionare un progettista o un progetto per un’opera di interesse pubblico. La prassi è assolutamente remota, e la storia dell’architettura è costellata da vicende concorsuali (si pensi tra gli altri al bando promosso a Firenze dall’Opera del Duomo e dall’Arte della Lana nel 1418 per la cupola di Santa Maria del Fiore), ma solo nella contemporaneità essa assume un’assoluta, ancorché discussa, centralità. Si può dire che il dibattito accesosi a fine Settecento sui concorsi di architettura, e sulle modalità ideali di regolamentarli e svolgerli, non è affatto concluso, ed anzi pone al principio del XXI secolo nuovi e inediti problemi, soprattutto in ragione dell’auspicato obiettivo della ricerca di qualità. Il concorso di architettura deve compendiare tante esigenze insieme, e non tutte assumono lo stesso peso nelle varie fasi storiche, e nei vari tentativi che ci sono stati di inserirlo entro un quadro normativo. Prima ancora che quello di procedura per scegliere il miglior progetto possibile, in età contempora-


nea, il concorso ha assunto il valore di atto di indirizzo politico, teso a rappresentare probità procedurale, e democrazia. Agisce in tal senso il presupposto che un’architettura di specifico significato pubblico (e a maggior ragione politico) non può che scaturire dal confronto. Negli ultimi secoli la scelta dei progetti per le costruzioni di maggiore significato politico è stata di regola affidarta al pubblico concorso, nazionale o internazionale: la stagione è inaugurata nel 1792 dal concorso per la Casa Bianca a Washington, e prosegue – per citarne solo le principali – con emblematiche competizioni, come quelle per le Houses of Parliament a Londra (1835), il Reichstag di Berlino (1882), il Monumento a Vittorio Emanuele a Roma (1882), il Municipio di Stoccolma (1903), il Palazzo della Pace a L’Aja (1905), il Palazzo delle Nazioni a Ginevra (1926-27), il Palazzo dei Soviet a Mosca (1931), la Suprema corte di Tokio (1968), il Municipio dell’Aja (1986); ancora, dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1990 la ristrutturazione del Reichstag, individuato come nuovo parlamento della Germania riunificata, è affidata a un concorso. Dal secondo dopoguerra, tuttavia, non sono tanto le sedi ufficiali della politica a richiedere concorsi, quanto gli edifici culturali che ancor di più richiamano il concetto di edificio pubblico e specchio della democrazia e della partecipazione: si pensi tra gli altri ai concorsi per l’Opera di Sydney (1956), per il Centro Pompidou a Parigi (1970), per l’Opera Bastille a Parigi (1980), per il Nuovo Teatro Nazionale di Tokio (1984), per il Museo ebraico a Berlino (1988), per il Maxxi a Roma (1998). Ancora oggi è così, come dimostrano tra l’altro i casi recentissimi dei concorsi per l’Addiriyah Art Center in Arabia Saudita, (2013), per il London Internet Museum (2016), per il Museo Bau­ haus a Dessau (2016). Al di là del fatto che ciascun concorso a modo suo è un’occasione di polemica, che non di rado la storiografia dell’architettura ha visto i concorsi come frequenti occasioni mancate (valga fra tutto il caso di Le Corbusier a Ginevra), resta da chiedersi: le norme che regolano i concorsi sono adeguate? Sin dall’Ottocento il tema della regolamen-

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tazione dei concorsi ha avuto un ruolo fondamentale nel dibattito sviluppatosi nelle nascenti organizzazioni di categoria, nazionali e internazionali, e poi nelle varie organizzazioni sindacali più con l’intento primario di garantire i professionisti. Da allora, a livello nazionale e internazionale, la questione è stata dibattuta con la conseguenza che se vi sono dei concorsi-evento di primaria importanza, banditi con i migliori principi e autorevolmente giudicati, la prassi corrente è invece molto spesso deludente, soprattutto per motivi strutturali che riguardano l’inadeguatezza di norme che in realtà non hanno avuto l’evoluzione auspicabile. Basti pensare alla questione del rapporto con il pubblico: in età contemporanea i concorsi erano banditi anche per creare eventi che attirassero l’attenzione del pubblico e della stampa, per evitare che un programma architettonico venisse inteso come dialogo privato tra un amministratore e un architetto. Elemento fondamentale era la preliminare esposizione dei progetti, nell’Ottocento prima ancora del verdetto, per far si che ciascuno potesse farsi una propria opinione e partecipare al dibattito: sappiamo – dall’esposizione dei progetti concorsuali per il Vittoriano a quelli per il Parlamento delle Nazioni – di eventi che hanno attirato migliaia di visitatori mentre invece oggi sembra che la segretezza delle procedure sia l’unica garanzia di probità. C’è da chiedersi: lo scopo principale delle norme che oggi regolano i concorsi e le gare è davvero quello di assicurare la migliore qualità del progetto? Di garantire la trasparenza delle scelte? Di assicurare processi condivisi? Di garantire ai professionisti un trattamento equanime? Di assicurare alle amministrazioni certezze in termini di costi e di tempi? La questione è ritornata di stretta attualità in Italia nel 2016 con l’ultima riforma del codice degli appalti. Per molti aspetti l’Italia, con le sue politiche e con le sue complesse e mutevoli norme, ma anche con il diffuso senso di scontentezza per la qualità media dell’intervento pubblico, costituisce un osservatorio privilegiato per guardare al problema. Vi sono state fasi storiche in cui un’attenta gestione dei concorsi è stata intimamente legata ad una più generale politica dell’ar-


chitettura: nella fase postunitaria, e soprattutto nella fase del governo della sinistra, il concorso d’architettura – autorevolmente giudicato da personalità di altissimo livello – è stato uno strumento fondamentale per superare le scuole regionali e creare un’architettura nazionale, e per assicurare adeguata eco ai nuovi programmi urbanistici e architettonici, anche se incertezze procedurali costringono spesso a reiterare i bandi; nel ventennio fascista, nell’ambito di uno straordinario interesse per l’architettura come strumento di propaganda, il frequente ricorso ai concorsi ha assicurato ai vertici dei sindacati fascisti la possibilità di governare la più generale cultura disciplinare, di assecondare l’immagine del regime e al tempo stesso regolamentare lo spazio da assegnare alle varie correnti e ai vari progettisti. Nel dopoguerra, perde di importanza l’istituto del concorso, sempre più contestato, mentre sembra che la democrazia parlamentare, la presenza di più schieramenti politici richieda di ricorrere a una lottizzazione politica degli incarichi, assegnati molto spesso direttamente. Agli scandali politico-giudiziari del 1992 (che riguardano anche le opere pubbliche, anche se più per gli appalti che per le progettazioni) fa seguito nel 1994 la legge quadro sui lavori pubblici: essa si pone molti obiettivi (tra cui evitare il lievitare di tempi e costi delle opere, assicurare meccanismi chiari di assegnazione degli appalti), ma non quello della qualità del progetto. In particolare introduce la fortunata formula dell’appalto integrato, rimasta in vigore fino a poco tempo fa, per cui ad un unico soggetto concorrente vengono affidati progettazione esecutiva e costruzione, facendo sì che in ultima analisi l’autentico committente del progetto esecutivo sia l’impresa di costruzioni, con tutte le conseguenze del caso. In parallelo, la volontà di introdurre parametri oggettivi introduce, come frequenti elementi imprescindibili di giudizio per i progettisti, i “servizi di architettura” precedentemente svolti, intesi soprattutto come fatturato: criterio che oltre a favorire chi più aveva lavorato nel discusso periodo degli incarichi diretti, penalizzava del tutto i giovani talentuosi. Infine, con una serie di norme peggiorate nel tempo, affida-

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va il giudizio a organismi tecnici-burocratici inadatti a esprimere un giudizio culturale di alto respiro. Di contro, le vere e proprie gare di idee, i concorsi puri di progettazione restavano chimere, elementi di nicchia, banditi in misura notevolmente più bassa che in altri paesi d’Europa: ad esempio, nel 2010 in Italia sono stati banditi 193 concorsi (di idee e progettazione), mentre in Francia 1.466. Il neo riformato Codice degli appalti del 2016, pur abolendo di fatto i discussi “appalti integrati”, contempla soprattutto gare di progettazione, dove ancora sono i servizi pregressi (magari anche sotto la formula di lavori precedenti analoghi compiuti) e una relazione metodologica a consentire, ad oscure commissioni costituite all’interno di organismi tecnico-burocratico-politici come i Provveditorati alle Opere Pubbliche o l’agenzia Invitalia, di scegliere un nome o un curriculum. La qualità invece dovrebbe passare per la scelta, ben motivata e trasparente, di un progetto reso pubblico: sarebbe anche un modo per richiamare la più generale attenzione della cittadinanza sull’architettura contemporanea. È forse anche per questo insieme sbagliato di principi-norme che il pubblico colto, che pure si interessa ai beni culturali, che pure si appassiona all’arte contemporanea, al di là delle questioni delle archistar non riesce a partecipare alle vicende di un’architettura che solo di rado riesce ad essere di qualità.

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La nostalgia nella cultura digitale JACQUELINE CERESOLI

Nell’epoca della riproducibilità web di Instagram, il social dell’immagine che permette di condividerle istantaneamente e poi cancellarle, sull’onda della “dittatura” dell’immagine si annida il desiderio della rievocazione del passato, la nostalgia di ciò che non muta nel tempo. Il citazionismo e il revival – nelle arti visive, nel cinema con riprese in bianco e nero, remake o flash back, negli spot pubblicitari, nelle canzoni e video musicali – declinano un linguaggio di massa ipertestuale articolato. La forma ipertestuale favorisce processi di ibridazione e, nel caso della nostalgia, include il passato e il presente, realtà e finzione, mito e allegria, storia e memoria, componenti variabili comunicative, codici della libertà espressiva stabiliti dall’autore. Nostalgia, vagheggiamento, citazioni delle epoche passate, culto del vintage nell’ambito della moda, del modernariato nel design e nelle mitografie del presente sono la tentazione della cultura di massa, che punta sulla banalizzazione della nostalgia, proposta come una meccanizzazione compensativa di ideali e valori assoluti infranti nel nuovo millennio. La nostalgia di massa costituisce un’industria dell’immaginario in numerosi ambiti e non stupisce notare che le generazioni nostalgiche non sono quelle dei più anziani, ma quelle dei trentenniquarantenni, cresciuti davanti alla televisione, alla ricerca di identità generazionali, che non passano più attraverso grandi narrazioni collettive bensì attraverso memorie individuali

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di spettatori, attori e consumatori di un passato personalizzato. La nostalgia di massa include la dimensione di tempo che ammanta di significato gli oggetti-feticcio, tutto ciò che produciamo e il loro valore d’uso, di scambio, comunicativo e relazionale: è un propulsore emotivo e cognitivo che spinge gli individui a rintracciare nel passato il senso del proprio agire e pensare. La nostalgia è una parola moderna come la psicologia e dobbiamo ad un giovane medico svizzero, Johannes Hofer, il suo conio, importante perché ha identificato la “malattia” della lontananza, del passato, la mitizzazione di ciò che è stato o si crede di avere irrimediabilmente perduto. E tale struggimento del ritorno al passato nella letteratura, nella poesia lirica e nelle arti visive ha prodotto un immaginario visuale intorno al luogo della memoria (Prete, 1992; Boym, 2003; Jedlowski; 2009; Petri, 2010). La nostalgia nelle arti visive e nella letteratura nell’Ottocento si configura anche come malinconia; in seguito lo struggimento per un luogo altro dalla storia agisce come possibile forma di una ricerca di identità collettiva. A tale proposito è cu­rioso osservare come via via che meno si conosce l’antichità greca e romana e sempre meno si è disposti ad approfondirle, più la si banalizza e nella forma semplificata si stra­tifica nel nostro paesaggio culturale transmediatico l’im­ magine delle civiltà “classiche”, come “luogo comune”, ultima e inestirpabile radice della cultura Occidentale, porto sicuro e rassicurante di una memoria storica che nell’ambito della società globale è un deposito di valori condivisi che non muta nel tempo i suoi codici connotativi. Ma la domanda è: cosa vuol dire nostalgia nella cultura digitale contemporanea? Facciamo un passo indietro, Il termine nostalgia nasce come neologismo medico, introdotto come si è detto dal diciannovenne alsaziano Johannes Hofer nella sua Dissertatio Medica de Nostalgia (1688) e definita come «la tristezza ingenerata dall’ardente brama di tornare in patria», un’altra forma della malinconia e dell’ipocondria: un malessere dei soldati, marinai, in generale degli sradicati per necessità dalla loro patria e casa d’origine, diventata poi


una patologia borghese, moderna, lo spleen che ruota intorno al suo legame con l’utopia e a un desiderio di straniamento dalla realtà. Il termine “nostalgia” composto di due parole greche nostos (ritorno a casa) e algos (dolore) significa «dolore del ritorno», ed è un sentimento che non si ritrova nella lingua greca, anche se è citato nell’Odissea dove compaiono lemmi quali nostos (ritorno a casa), neesthai (partire), nosteo (far ritorno) e altri che indicano un riferimento al tema della lontananza sofferente per nostalgia. Nel 1821 la voce Nostalgie dell’Encyclopedie ampliò le sue categorie ermeneutiche includendovi tutti coloro che esperiscono la lontananza. Successivamente il termine diventa sempre più un termine letterario e valorizza il senso della perdita del passato, non necessariamente legato a un luogo che si è lasciato, assumendo poi molteplici connotazioni. Per Novalis la filosofia è propriamente nostalgia, anelito di fare di ogni dove la casa propria. Pertanto, la nostalgia, come la filosofia si basa sul segno della intrinseca discrepanza fra io e mondo, della non conformità tra anima e azione. Dai dizionari della lingua italiana apprendiamo che nostalgia significa “dolore del e per il ritorno”. Milan Kundera nel suo romanzo L’ignoranza torna sull’idea che la nostalgia è la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare. (Kundera, 2001). Gli spagnoli chiamano la nostalgia onoranza, i portoghesi saudade, in tedesco Heimweh, in inglese homesickness. Una delle più antiche lingue europee, l’islandese, distingue due termini: soknudur, nostalgia in senso lato e heimfra, rimpianto della propria terra. In ogni lingua questa parola ha una diversa sfumatura semantica anche se per lo più indica esclusivamente la tristezza dell’impossibilità di ritornare in patria e il rimpianto della terra, del paese nativo. Oggi i media come sicura formula di programmi d’intrattenimento puntano sulla nostalgia, sul «come eravamo» oppure «domani avvenne», fanno audience le trasmissioni del tipo «correva l’anno» o remake di protagonisti degli anni del secondo Novecento, cattura un’ampia fascia di pubblico il ritorno alla memoria o rimembranza dell’antico sep-

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pure in formule semplificate, stilizzate e svuotate dei loro nessi culturali, storici complessi. Nella società globale, il presente è straniero in patria, latita e si banalizza in scene di ordinaria ovvietà in rete, sconfinando nel cattivo gusto rassicura invece l’evocazione di passati, remoti, futuri e anteriori. La nostalgia sottrae le cose del mondo alla loro dissoluzione rendendole per sempre vive, anche se perse in una lontananza che non possiamo ridurre. Per questa ragione la psicoanalisi associa (Melanie Klein, Jacques Lacan) la nostalgia alla sublimazione propria di ogni creazione artistica. La nostalgia emancipata dall’ambito medico cambia area semantica nell’Ottocento, cambia il soggetto e il modo di rappresentare il mondo e gli oggetti che produciamo. Va inoltre ricordato che là dove si fa appello all’amor di patria si richiama la società a nazionalismi non solamente ottocenteschi, il pathos degli esuli o migranti trionfa. Per spiegare come un malessere, maladie du pays, sia diventato le mal du siècle, si deve ricorrere al momento in cui nasce il genere (o sottogenere) del ricordo d’infanzia, rivalorizzato da Philipp Ariés. Il testo fondativo è in questo caso le Confessions (1762) di Jean-Jaques Rousseau, la cui inclinazione a narrare vicende “minime” quotidiane scandalizzò numerosi lettori del­l’epoca. La sua provocatoria maniera di narrare la propria infanzia si basa su due poli: la precisione, la minuzia e l’insistenza con cui si descrivono i particolari minimi, e la commozione che insorge nel ricordarla. Lo spirito postmoderno ha poco a poco svuotato la morte del suo pathos cristiano, per sostituirlo con il ricordo dell’infanzia o del passato. A tale proposito anche Walter Benjamin, nel notare il passaggio dall’allegoria barocca (incentrata sul cadavere) a quella ottocentesca (basata sull’oggetto di ricordo, il souvenir), introduce l’evoluzione della nostalgia come elemento di comunicazione relazionale tra la sfera individuale e collettiva sempre più orientata alla sfera estetica. Il contrario di nostalgia come emozione astorica, corrispondente a un desiderio di un luogo sempre più ristretto, ideale, utopico che non corrisponde più a nuovi orizzonti di aspettative, è il


concetto di progresso. Come è noto, il romanticismo valorizza il pathos dell’infanzia e la nostalgia del proprio passato, emersa come già scritto con Rousseau, diventato un sotteso riferimento per i nazionalismi, e sempre nell’Ottocento emerge un altro pathos, che consiste nell’attribuire agli oggetti un significato emotivo-affettivo, di un tempo sentito individualmente: un atteggiamento che Francesco Orlando ha definito memore affettivo, e che nasce dalla coscienza di una discontinuità storica introdotta dalle rivoluzioni politiche e industriali (Morreale 2009). Alle fine dell’Ottocento, con la nascita prima della fotografia e poi del cinema e dei manifesti pubblicitari, agli albori della società di massa, la nostalgia o il revival diventano una moda della vita borghese che aspira a trasformare la vita quotidiana in arte; così quel malinconico senso di perdita si è trasformato in uno stile autoreferenziale e nel linguaggio di un nuovo lusso. La nostalgia in rete condivide lo stesso immaginario, la stessa ricerca di un “paradiso perduto” della comunità e della comunicazione umana, opera nel cuore della soggettività individuale, agisce sulle nostre emozioni e funziona per associazioni di esperienze diverse in rapporto alla sensibilità, agli affetti di ciascuno di noi e anche nostri fantasmi inconsci. La nostalgia cambia la sua forma espressiva ma non muta nella sostanza il contenuto emotivo, media tra realtà, percezione e memoria. Da quando sentiamo parlare di nostalgie di luoghi inediti, di nostalgie di luoghi ignoti con Baudelaire nel suo Le Spleen de Paris, XVII, dalla seconda rivoluzione industriale, la mitizzazione del ritorno al passato da parte della società di massa carica di pathos il senso della irreversibilità e dell’impossibilità del ritorno indietro se non attraverso il suo ricordo. Con Jean Starobinski, il modello della nostalgia come patologia, passando dai luoghi (la patria) al tempo (passato), anticipa la nozione freudiana di regressione. Jankelevich, nell’ambito del romanticismo, individua nella musica l’arte nostalgica per eccellenza, in quanto essa è legata allo scorrere nel tempo, sempre riascoltabile: l’opera musicale è infatti reiterabile come le immagini fotografiche e ci-

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nematografiche, quando, dove e come si vuole. Nell’analisi della nostalgia, da patologia medica a fabbrica della cultura di massa, i media hanno profondamente inciso sul­ l’immaginario collettivo. È curioso osservare che il 1895, data della prima proiezione dei fratelli Lumière, coincide con la data della prima pubblicazione de La macchina del tempo di Herbert George Wells. Tra Ottocento e Novecento spiccano i trattati filosofici sulla memoria, il tempo secondo Bergson o sul piano letterario Proust, con la distinzione, da parte del primo, tra memoria pura e memoria-abitudine e la memoria involontaria individuata dallo scrittore francese, che assume un ruolo costruttivo, mettendo in valore i meccanismi di rievocazione del passato. La memoria involontaria cattura un’impressione o una sensazione preziosa della vita; ricordare è ricreare il proprio vissuto. La sensazione del “piacevolmente doloroso”, della rievocazione del passato è sempre ripetibile ogni qual volta il soggetto lo desidera attraverso la letteratura, le arti visive e gli oggetti industriali. Riassumendo da Benjamin, precursore della cultura di massa, all’opera di Proust A’ la recherche du temps perdu, in cui lo scrittore sperimenta su di sé in maniera tragica il modello dell’esperienza bergsoniana, si iconizza la nozione di nostalgia come una volontà di rappresentazione del tempo e dello spazio astorico. Benjamin individua un rapporto di complementarietà tra la memoria, il concetto di nostalgia e la società di massa. Secondo il filosofo il passato è legato al tempo dell’infanzia, anche nelle sue deformazioni in sogni o incubi, in ogni caso è un possibile depositario di futuro: un’ipotesi sostenuta nello scritto Tesi di filosofia della storia. Anche per Baudelaire la nostalgia diventa l’arte dell’intreccio di passato e presente storico, agisce sulla memoria e sul recupero del passato. I nuovi strumenti di comunicazione di massa hanno un ruolo fondamentale nella costruzione mitopoietica delle “nostalgie”, in cui il reperto, il souvenir, il feticcio, e non solo l’immagine o il suono plasmano desideri del tempo perduto e ritrovato insieme. La nostalgia come figura, luogo dell’anima nella cultura romantica invoca la madre terra, il viaggio, l’esilio, la lonta-


nanza, il naufragio della ragione, la perdita e nello stesso tempo l’anelito alla speranza come testo persuasivo e significante. La nostalgia include riflessioni sul tempo di natura filosofica, ma non c’è solo il tempo della clessidra, dell’orologio da polso o digitale o quello del telefono mobile che scandisce le ore in eguale misura per ciascuno di noi, c’è un tempo soggettivo, interiore, non lineare che cambia a seconda della situazione, esperienza, stato d’animo e strumento di percezione. Attraverso la nostalgia si configura il presente del passato già memoria; il presente del presente in rete è come la visione istantanea di altro da sé, e il presente del futuro corrisponde all’inedito: uno spazio dell’invisibile, l’ignoto,“l’av-venire”. Il sentimento nostalgico indica un tempo sospeso, diventa cifra tematica in relazione alla metamorfosi del tempo vissuto. L’eco nostalgica dei luoghi e delle cose diventa il soggetto, forma i loci della narrazione seguendo un ordine sparso e individuale e fa ricorso a luoghi fittizi e reali insieme. Stiamo analizzando la nostalgia come fabbrica e propulsore dell’immaginario collettivo contemporaneo e non come la tristezza cronica che affligge la mente del depresso. Se per il depresso il passato diventa un‘ossessione che risucchia il presente e annienta il futuro, senza speranza, e pietrifica il passato, diversamente nel marketing esperienziale della cultura di massa, la nostalgia attiva un sistema complesso di segni plurimi, codici connotativi di memorie condivise, è sistema di segni dinamico. Come è noto l’artista lavora attorno alla memoria, quella soggettiva e collettiva, apre il nostro sguardo all’inedito, al non ancora visto, all’ignoto ma solo immaginato e per questo conoscibile. È un esempio di nostalgia retroattiva quella di Giorgio De Chirico che con figure e cose immobili, in cui non c’è, o sembra non esserci, il divenire (Werden) in senso bergsoniano e scheleriano, lavora sugli enigmi, il mistero e l’incantesimo dello sguardo di un tempo sospeso di spettrale malinconia con scenari desertici e paesaggi silenziosi. La sua è una nostalgia scarnificata, talora lacerata e scissa, immersa in una tensione di perfettibilità formale agghiaccian-

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te, dove le figure umane vivono in un tempo senza tempo: è metafisica nell’archivio della memoria. Alle soglie del Novecento, Prometeo è morto, Cristo anche, e nei dipinti di Böcklin e di De Chirico, Ulisse è l’icona del nostos per eccellenza, vittima e carnefice del suo desiderio di ritornare a Itaca (e di ripartire da essa) nell’ambivalenza della nostalgia che caratterizza l’individuo esposto a una definitiva solitudine. L’eroe si cristallizza in vuoto incolmabile e la perdita, la lontananza della terra d’origine, rasenta la disperazione e diventa metafora dell’uomo contemporaneo in balia dell’esistenza, dell’ignoto e del rischio del futuro. La nostalgia in molte altre opere del gruppo dei pittori del Novecento italiano, promosso da Margherita Sarfatti negli anni Venti, diviene la cifra semantica del luogo sospeso, dell’eterno ritorno al passato e diventa il leitmotiv del tempo vissuto, della ripresa di valori plastici dopo le deflagrazioni formali e compositive prodotte dalle avanguardie artistiche dei primi decenni del Novecento: si “torna all’ordine”, alla simmetria, con immagini e prospettive che sottendono stabilità, durata, armonia e un desiderio di assoluti imperituri. È ciò che accade nella poetica di Giorgio Morandi: nel miracolo dell’arte anche le bottiglie, le caffettiere, le teiere, i paesaggi silenti, i fiori diventano immagini senza tempo, eterne, presenze silenziose sullo sfondo di un’assenza, dove sfuma la percezione della realtà. Attraverso la nostalgia e la malinconia la psiche entra nella scena dell’arte, diventa presupposto formale moderno, tormentato, che si manifesta in modi diversi, attinge dalla solitudine e si nutre della rievocazione del passato, come evasione dalla realtà contingente. Nelle arti visive si possono distinguere nostalgie fredde, calde, aride, artificiali, nostalgie aperte se rivolte al futuro, chiuse se pietrificano il passato come le visioni di Arnold Böcklin e Caspar David Friedrich che inscenano naufragi dello spazio-tempo, con spartiti pittorici chiaroscurali di luoghi “impossibili”, ingressi nel diurno e notturno senza soluzione di continuità, inconoscibili: appunti visivi di un viaggio a ritroso nel tempo assurto a teatro dell’animo umano, dove lo spazio immaginato diventa specchio e


protagonista di una narrazione di aura mitica, strappata alla realtà, in bilico tra la consapevolezza e la memoria di un passato eternamente presente. Il fascino e la sublimazione del passato dal XIX secolo ad oggi, nel passare dei secoli, è fonte di ispirazione di forme originali; ogni epoca produce modernità, innovazioni o cambiamenti che poi diventano passato e progressivamente questi codici condivisi diventano un prezioso patrimonio dell’identità, storia e memoria collettiva. Anche la moda di collezionare antichità per ornare la propria casa diventa un’altra declinazione nostalgica nell’Ottocento, una connotazione della società borghese alla ricerca di un gusto riconoscibile. Citando altro, Albert Jacquemart, esortava i collezionisti a collocare i propri tesori non in un cabinet ma ovunque nella casa, così da poterli godere in ogni istante. Esemplare di massificazione dell’antiquariato è il manuale di Herbert Byng Hall Histoire du mobilier (1876), in cui l’autore si propone di mettere al servizio degli appassionati collezionisti la propria esperienza di pezzi rari. Ricapitolando, la nostalgia del passato, vero o falso che possa essere, è un’opera aperta non statica poiché continua a produrre immaginari e favorisce consumi di esperienze d’intrattenimento alimentati dai media: complici sono il cinema, la televisione, la pubblicità, la moda e i social media che producono una memoria intima omologata. La nostalgia come teatro della storia e della vita tra rovine e frammenti di un tempo perduto Le rovine dell’antichità citate nelle arti visive sono i codici dell’epoca del Grand Tour europeo, che ieri e oggi compongono vanitas o ready made del tempo passato, cartografie dell’immaginario intorno al passato. L’artista anela a ciò che non è visibile, si affranca sulle sponde del desiderio di un altrove e teatralizza frammenti del tempo passato messi in scena come attori in cerca di una sceneggiatura: è una raffinata affabulazione e metafora dello scorrere del tempo. Reperti, tracce, frammenti e fratture: segni, testi, co-

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dici intrecci narrativi che si frantumano in un naufragio della ragione come eco malinconico della lontananza e insieme vagheggiamento della storia. Nostalgici e intrisi di mitologie sono Poussin, Salvator Rosa, Sebastiano Ricci, Antonio Fontanesi, Alberto Savinio, Canova, Vincenzo Abbati. Questi e molti altri artisti che inscenano un luogo indeterminato ammantato dal silenzio profondo di un cosmo che cela il mistero dell’esistenza, in cui la luce – unico elemento che varia all’interno della composizione – suggerisce una identificazione atemporale, ambigua, che non intende determinare alcun tempo fisico, in cui non si sa se è giorno, pomeriggio o quasi notte, inverno, primavera, estate o autunno, e in questo spazio bloccato le rovine vivono un’immobile attesa come trama senza inizio né fine, né direzione e orientamento di chissà quali futuri: è un luogo simbolico dell’esserci nell’infinito che si può solo intravedere nella consapevolezza della mortalità dell’uomo, della sua transitorietà. Nelle opere di Friederich, le esili figure umane, i rami sbrecciati, le sagome d’alberi giganti, i profili d’ombra di cattedrali in lontananza si svaporano nell’infinito. Tra i limite del paesaggio segnato dall’orizzonte, il pittore disegna la sua dissolvenza nella presenza vicina e mossa dei profili, nei dislocamenti delle trattorie visuali nel brulicante dinamismo di prospettive aeree o rialzate o inattese. L’impressione è di scorgere un immagine che sembra sospesa a mezz’aria, in elevazione come un sogno dalla sconfinata orizzontalità priva di quinte laterali per bloccare lo sguardo. I suoi paesaggi dell’anima dalla prospettica decentrata, sottendono un relativismo esistenziale nella metafora della foresta, un eterno ritorno al divenire cosmico tra l’alba e il crepuscolo, la fanciullezza, la maturità e la vecchiaia, la vita e la morte complementari come il buio e la luce, il vuoto e il pieno, l’essere e il non essere. Friedrich attinge dalla natura, che come in altri artisti romantici diventa specchio di stati emotivi, un presupposto d’indagine dell’io. Oggi il ritorno alla nostalgia del passato è anche una garanzia di bellezza, di buon gusto, è paradossalmente pop e nell’epoca di meticciamenti delle tradizioni culturali, spesso in con-


traddizione fra loro, come per esempio quelle d’Oriente e Occidente, lo sguardo a ritroso nel tempo racconta il nostro mondo al margine di una umanità inquieta, in cui il passato si appiattisce, viene fagocitato da una simultaneità virtuale attraverso i nuovi media e il rischio dell’eccesso di banalizzazione della memoria è di annientare la storia. La nostalgia come tema ricorrente delle arti visive europee, oggi include una ricerca di radici comuni, implica un “noi”, una rivalorizzazione del ruolo della storia dell’Europa come traccia di una storia universale. Nella storia culturale europea, questo problema ruota attorno all’idea di “classico” nell’accezione più ampia. La nostalgia, come il classicismo non è un concetto statico e concluso; pertanto è opportuno mettere in discussione l’idea che la tradizione culturale dell’Occidente sia in sé chiusa, come suggerisce Salvatore Settis nel suo libro Futuro del classico (2004), in quanto sottende luoghi astorici, slittamenti cronologici che legittimano uno spaziotempo mutante. La tradizione culturale occidentale è interconnessa con molte altre culture. Ad ogni sua nuova incarnazione la nostalgia appare come un postulato di identità e identificazione culturale. Il rinascimento della nostalgia nel cinema e nella moda Dagli anni Settanta la nostalgia di massa esplode negli Usa e in Europa, nel cinema è l’epoca di L’occhio privato, American Graffiti, Come eravamo, un decennio di nostalgia cinefila che si riscontra anche nella produzione in Italia. Il film Novecento di Bernardo Bertolucci (1976) indaga parallelamente la vita dei protagonisti nel privato e nel politico, includendo gli avvenimenti della storia italiana. Negli anni ’80 il film Nostalghia di Andrej Tarkovskij, narra le vicende di un poeta sovietico, Andrej Gorakov: giunto in Italia per cercare notizie su un musicista del Settecento esule e suicida, conosce un uomo dimesso dal manicomio e tra i due emigranti dal mondo reale, l’artista e il folle si stringerà una solidarietà salvifica. Il film per quanto pedantemente poeticistico e anche noioso, rappresenta il tema della sofferenza

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dell’anima errante, alla ricerca di verità del mondo nell’arte, si avvale di lunghissimi piani sequenza, ed è ambientato in luoghi di estrema suggestione (Bagno Vignoni, San Galgano), cristallizzando nella nostra memoria milieux simbolici, paesaggi emozionali dalla suggestiva forza espressiva e dalla narrazione non sempre lineare. Negli anni ’90, il genere vintage cinematografico degli anni ’50 e ’60 è cool come testimoniano i remake e telefilm Starsky &Hutch, Charlie’s Angels, Hazzard, Footloose, Dallas e Ritorno al Futuro parte III(1990) di Robert Zemeckis. Questi e molti altri film reinventano il passato spesso in maniera calligrafica, senza complicità, per narrare il tempo che scorre. La nostalgia mediatica annulla il divario fra il fenomeno e la sua riappropriazione come oggetto nostalgico, si accorcia sempre di più, e il vagheggiamento del passato si riconduce a scene o fatti privati, perdendo quell’aura di tensione verso l’assoluto che aveva nell’Ottocento. Successivamente l’identità del tempo si fonda su frammenti di passato, il legame più forte non è tanto con la giovinezza, quanto con l’infanzia e annulla la distanza tra presente e passato; in questa chiave di lettura anche gli oggetti senza importanza, dimenticati, brutti per qualcuno, per tutti diventano agenti attivi della nostalgia, superando le barriere tra il buono e il cattivo gusto. Per i nostalgici il passato è un filo rosso per costruire narrazioni. Non c’è oggi senza ieri, e domani qualcuno tesserà rapporti intensi, storie con il proprio passato e quello collettivo. Nella cultura digitale la nostalgia è il tema dominante nella musica, nella moda, nei video musicali e nella produzione televisiva. La nostalgia è il guardaroba dello sguardo, di uno spazio in cui storia, memoria, passato e presente s’incontrano al momento giusto, quando si desidera “indossarlo” come costume d’identità ambivalente. In questo ambito il vintage nella moda come il remake nel cinema omologa una memoria intima e collettiva. Steven Spielberg e Quentin Tarantino, indicatori di due diversi modi di declinare la nostalgia e l’arte della citazione in diversi decenni, svelano due intenzioni diverse: il primo cita per rievocare il vecchio


cinema, il secondo ha fruito il cinema davanti alla tv o l’ha visto in video cassetta, e tutti i riferimenti perdono ogni valore contestuale del dato storico reale. Per Tarantino il passato è un’immagine e la nostalgia più che punto di non ritorno diventa intreccio narrativo (Morreale, 2009). Un esempio emblematico di questo passaggio è il film muto The Artis in bianco e nero del 2011, scritto e diretto da Michel Hazanavicius che ha ottenuto numerosi riconoscimenti e premi, come omaggio al cinema muto e anche come critica al cinema contemporaneo. Il revival nella moda dall’Ottocento ad oggi implica la voluta ricostruzione di un tempo mitico, il dichiarato ritorno all’evocazione di un periodo storico in cui si riconoscono qualità che mancano al presente e che rappresentano una ricerca di identità sociale e di eleganza, tutta d’immagine. Dagli anni ’90 la ricerca di stili del passato si avvale del recupero delle culture etniche e negli ultimi decenni si valorizza l’elemento della natura e la sua salvaguardia e gli archetipi di costumi popolari. Si vende meglio l’abito che parla di un tempo olte il tempo, di un tempo della memoria diventata trama, tessuto, filo, forma capace di cucire insieme il nostro presente in rapporto alla storia per salvaguardare la nostra individualità dall’oblio. La nostalgia è l’intermediaria fra percezione, pensiero e immaginazione, ricavata da impressioni cognitive ed emotive, in cui l’intelletto non opera sul materiale grezzo di queste ma dopo che esse sono state assorbite dalla facoltà immaginativa. Bibliografia P. Ariès, Le Temps de l’histoire, Éditions du Rocher, München 1954. W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, Mimesis, Sesto San Gio­vanni (MI) 2012. M. Block, Apologia della storia o mestiere dello storico, Einaudi, Torino 1998 e 2009. S. Boym, The Future of Nostalgia, Basic Book, New York 2001. G. Butazzi, A. Mottola Molfino, La moda e i revival, Istituto Geografico DeAgostini, Novara 1992.

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B. Cassian, La nostalgia. Quando dunque si è a casa? Ulisse, Enea, Ardent, Moretti & Vitali, Bergamo 2015. F. Gianfranceschi, Elogio della nostalgia, Minotauro, Roma 2002. P. Jedlowski, Memoria, esperienza e modernità. Memorie e società nel XX secolo, Franco Angeli, Milano 2002. P. Jedlowski, Nostalgia: strumentalizzazione politica e pluralità di significati, in Memoria, nostalgia, utopia, il potere politico dei sentimenti, Rivista Italiana, a cura di M. Tonizzi, n. 263, 2011. M. Kundera, L’ignoranza, trad. it di Giorgio Pinotti, Adelphi, Milano 2001. E. Morreale, L’invenzione della nostalgia: il vintage nel cinema italiano, Donzelli Editore, Roma 2009. F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Einaudi, Torino 2015. R. Petri (a cura di), Memoria e paesaggi tra le sponde dell’Adriatico, “Venetiana”, vol 7. Centro di Studi Veneziani di Storia e letteratura, Roma 2010. A. Prete (a cura di), Nostalgia. Storia di un sentimento, Cortina Raffaello, Milano 1992. S. Reynold, Retromania, Musica cultura pop e la nostra ossessione verso il passato, Milano 2011. S. Settis, Futuro del “classico”, Einaudi, Torino 2004. S. Sonno, N come nostalgia, Edizioni Cittadella Psicoguide, Assisi (PG) 2011. G. Toller, H. Piacentini, La nostalgia, l’esistenza umana e il desiderio dell’assoluto, Edizioni Rogate, Roma 2009. F.A. Yates, L’arte della memoria. Con uno scritto di Ernest H. Gombrich, tit. orig. The Art of Memory 1966, traduzione di Al­berto Biondi, Einaudi, Torino 1972 e 1993.

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Conformazione e trasformazione degli spazi interni GIOCONDA CAFIERO

Lo spazio interno è il luogo in cui l’architettura trova il suo significato, elemento fondamentale della dicotomia tra interno ed esterno, e quindi tra invaso ed involucro, alla base dei processi conformativi da cui scaturisce l’opera di architettura e luogo dove si fa l’esperienza più intensa dello spazio architettonico, che non può dirsi completa se le viene negato il tempo lungo dell’abitare. Lo spazio interno è anche il luogo in cui prende corpo il modo in cui un’architettura interpreta e materializza la funzione che è chiamata ad assolvere. La funzione è qui da intendersi come rispondenza ad un bisogno, ed è quindi importante ricordare che i bisogni legati all’abitare sono complessi, non univocamente identificabili, in quanto complicati da fattori culturali, psicologici, esistenziali, sociali ed economici. La fruizione dell’architettura, così come i processi conformativi, è legata alla plasticità biologica, quale facoltà umana di tradurre in oggetti concreti e realtà del costruito i propri bisogni esistenziali. Questo concetto è fortemente debitore nei confronti della definizione di vis plastica che agisce sulla materia, data da Heinrich Wölflinn nei suoi Prolegomena, cui a loro volta si riconduce ogni visione dello spazio interno dell’architettura come luogo in cui maggiormente si legge la relazione di questa con la misura, la fisicità ed il modo d’essere dell’uomo.

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L’arredamento costituisce l’interfaccia indispensabile affinché gli invasi architettonici possano pienamente rispondere al bisogno di abitare; gli arredi sono gli strumenti attraverso i quali è possibile lo svolgimento delle diverse attività, espresse in diverse determinazioni formali secondo il tempo, l’ambiente, la cultura. La disposizione di questi contribuisce alla definizione di sotto-spazi, alla costruzione o all’interdizione di percorsi fruitivi o visivi, contribuendo alla articolazione sintagmatica dello spazio interno, così come alla costruzione della sua stimmung1, termine che rimanda da una parte al carattere storico e metastorico dell’interno architettonico, dall’altra al carattere totalizzante dell’esperienza dello spazio interno, che ci avvolge facendo sì che, prima ancora di metterne a fuoco i singoli elementi, ci rapportiamo in maniera esistenziale, con il corpo e con la mente, all’invaso nel quale siamo entrati2. La fruizione e l’abitare uno spazio interno non sono un mero utilizzo neutrale, ma un processo attivo e creativo, luogo di uno scambio continuo di valori tra lo spazio, le cose ed i suoi abitanti, che, per dirla con Benjamin, lasciano le loro tracce all’interno. Già la fruizione quindi comporta un’azione interpretativa: interpretando un testo lo modifichiamo, restando, a nostra volta, da esso modificati; non conosco altro testo più adatto della casa a questa duplice modificazione3. Se già l’abitare è un’azione interpretativa, a maggior ragione lo è arredare un interno: anche se non si agisce modificandone materialmente l’involucro, questa azione si fonda sulla sua lettura e interpretazione, selezionando alcuni aspetti come determinanti o prioritari per privilegiare un dato assetto o un determinato carattere dell’arredo. Posizione e ruolo dell’arredamento rispetto all’architettura

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Sebbene sul piano materiale l’azione dell’arredare avvenga in un momento successivo alla costruzione degli invasi, sul piano concettuale, in fase di progetto, il processo


conformativo non può non fare riferimento alla proiezione della presenza in essi di quei particolari arredi o gruppi di arredi senza i quali non può concretizzarsi l’uso previsto. Ciò è maggiormente evidente nella modernità, perché se gli spazi storici mostrano una maggiore indipendenza tra la conformazione ed il completamento attraverso gli arredi, mostrandosi infatti più disponibili ad usi diversi nel tempo, le architetture moderne dichiarano un legame di maggiore cogenza tra spazio ed arredamento, testimoniato anche dal frequente ricorso all’uso di elementi integrati nelle strutture architettoniche dei margini ed arredi che assolvono anche al compito di suddividere e di organizzare l’interno4. Non ha avuto un peso trascurabile in questo maggiore legame, la volontà di razionalizzare gli ingombri, i percorsi, i gesti connessi all’abitare, al fine di perseguire una migliore qualità del vivere. È possibile affermare che nell’architettura della modernità il progetto degli spazi interni non è inteso solo come ultima definizione degli aspetti terminali e minuti ma anche di approccio alla radicalità dello spazio architettonico, il cui progetto procede dall’interno per giungere a conformare i volumi, i prospetti e la relazione con gli spazi limitrofi. Come ha efficacemente sintetizzato Vittorio Gregotti, la nozione di interno, è noto, ha occupato un posto di grande importanza nella formazione della tradizione della modernità in architettura. Essa ha via via rappresentato il punto di partenza per una progettazione che proiettasse la verità di necessità e contenuti verso il linguaggio in cui si rappresentava l’architettura […] Lo spazio interno, in quanto nozione estetica, è stato posto poi alla base dell’idea stessa di architettura5. Rispetto alla tradizionale articolazione attraverso ambienti, intesi come unità spaziali definite da margini fissi, pur se interconnessi in modi differenziati, l’architettura nella modernità tende alla costruzione di spazi interni complessi e fluidi, articolati mediante ambiti6, ovvero porzioni di spazi, che si coagulano attorno a precise attività, definiti dalle attrezzature di arredo, da margini anche virtuali o la-

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bili, quali cambi di quota di pavimenti, o soffitti, o materiali. Lo stesso contributo di Le Corbusier alla ridefinizione dell’interno domestico non può essere pienamente compreso se non considerando anche il ruolo conformativo che affida agli arredi. Superata la dipendenza di questi dalle pareti cui venivano tradizionalmente appoggiati (tanto da avere puntualmente un retro non finito), anche nei primi progetti, quando non ancora aveva disegnato, con Charlotte Perriand e Pierre Jeanneret, il suo sistema di attrezzature, Le Corbusier sceglie tra gli oggetti di serie esistenti, quelli in grado di vivere al centro dello spazio vuoto, come ad esempio le sedie Thonet. La fenomenologia degli interni, sia osservata dal punto di vista della loro conformazione e del loro uso, che della trasformazione incessante di cui sono oggetto, consente di riflettere su quanto l’interno sia il luogo di una ulteriore spe­cificazione che mostra dei margini di autonomia rispetto ad un’idea di coincidenza tra interno ed esterno e di necessaria unità linguistica tra di essi, come teorizzato nella modernità. Gli scenari offerti dalla contemporaneità consentono di verificare che l’interno possa essere il luogo di una ulteriore possibilità di azione che possiede fondamenti autonomi rispetto ai processi generativi dell’architettura. Già solo l’azione di arredare, particolarmente quando non nasce dalla medesima volontà conformatrice e contestualmente al progetto architettonico, costituisce un’azione di sovrascrittura che può introdurre nello spazio interno dato nuove suddivisioni, nuovi percorsi, polarità, geometrie, possibilità di fruizione e percezione, costruendo, a seconda della complessità ed articolazione, un’architettura dell’interno all’interno dello spazio dato, con gradi diversi di autonomia rispetto all’invaso che la contiene7. Trasformazioni a velocità diversa

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Gli spazi interni subiscono, nell’arco della vita di una architettura, plurime azioni di trasformazione o adattamento, attraverso interventi di diversa entità, per essere adegua-


ti alle necessità dettate dall’uso. Spesso queste azioni sono considerate secondarie, sono svolte in maniera anche autonoma dagli abitanti; eppure possono incidere considerevolmente sul significato di un’architettura e sono oggi a fondamento di reali processi di rinnovamento. L’arredamento e la sistemazione degli interni sono una forma di arte applicata, particolarmente connessa con usi, costumi, bisogni, tra cui non ultimo il bisogno di soddisfacimento estetico, che proprio in virtù dell’uso, diviene oggetto di partecipazione e strumento di qualificazione dell’esistenza quotidiana. Probabilmente questi stessi legami generano la necessità dei processi di trasformazione che continuamente li coinvolgono, esprimendo la loro attitudine a registrarne i mutamenti con maggiore immediatezza rispetto a quanto avvenga per interventi di maggiore consistenza. La diversa velocità e modalità con cui gli interni riflettono, rispetto all’architettura, i bisogni espressi dalla società genera uno spazio interstiziale in cui può essere collocato tanto il loro ruolo di scaturigine dello spazio architettonico quanto la loro autonomia rispetto ad una idea monistica di stringente coesione logica tra spazio urbano, architettura ed interno, destabilizzata dalla crisi della modernità8. La diffusione e l’importanza, sul piano della pratica dell’architettura, degli interventi di riuso, adattamento e trasformazione dell’esistente ci impongono la constatazione di un divario crescente tra l’architettura dell’involucro e quella del suo interno. Questo divario, che si registra nei campi e con gli esiti più diversi, è legato alla diversa capacità di sincronia con i tempi rapidi di trasformazione della nostra società mostrata proprio dagli interni che, rispetto all’architettura, registrano con più immediatezza istanze, bisogni e falsi bisogni9. La riflessione di Adorno sul rischio che il rigore metodologico della modernità produca rifiuto nei destinatari che non vedono riconosciuti legittimamente anche i propri falsi bisogni, che noi definiremmo come bisogni estesi e diversificati, spiega in parte il fenomeno della pluralità di espressione che si può leggere negli interni, che deve essere guardato con interesse, sospendendo ogni giudizio sul piano dei

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linguaggi o della coerenza metodologica, in quanto evidenzia il maggiore cogente legame che intercorre tra spazio vissuto e mutamenti sociali. La constatazione del divario tra interni ed esterni si collega anche alla crisi del progetto di ampio respiro soppiantato da una moltitudine di microprogetti che si susseguono incessanti nell’innescare persino processi di rifunzionalizzazione urbana che seguono logiche autonome, producendo una città costituita soprattutto dalla sterminata sommatoria dei suoi interni, un insieme di scene pronte per continui riallestimenti, per una miriade di piccole metamorfosi, di breve durata10. Non è trascurabile la capacità di interventi di trasformazione, anche solo concentrati all’interno di un’architettura, di influire sul piano della sua fruizione al punto da mutarne il ruolo nel contesto di cui fa parte, ripercuotendosi in una sfera più ampia, come mostrano ad esempio fenomeni di gentrification innescati da interventi minuti. Adottando la definizione di ambiente usata nelle scienze, possiamo dire che anche in architettura l’introduzione di un nuovo elemento o la sua modificazione producano nuovi equilibri; dal momento che l’architettura produce relazioni tra spazi concatenati, la trasformazione vissuta da una parte non può non riverberarsi su quelle immediatamente connesse. L’interno come specchio dei mutamenti sociali

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La complessità del fenomeno rimanda a diverse questioni, di respiro più ampio che sono connesse al tema della trasformazione. Tra queste primeggia il legame tra evoluzione dei costumi e senso degli aspetti distributivi dello spazio interno, che non possono non essere posti alla base di qualsiasi riflessione sulla forma. A questa tematica si lega quella della diversa durata o, se vogliamo, della maggiormente rapida obsolescenza degli interni rispetto all’esterno dell’architettura, corollario del più intenso legame con la “forza delle cose”, i bisogni primari ed esistenziali, quanto mutevoli. L’accelerazione che caratterizza la condizione contemporanea non è priva di conseguenze sul piano


della fenomenologia dello spazio interno, dal momento che favorisce processi adattativi soft, di facile realizzazione e sostituzione, fino all’estremo dell’usa e getta. Ad esempio, il nomadismo, anche d’elezione, che caratterizza la vita urbana attuale tende a favorire il concentrarsi dell’attenzione proprio sugli oggetti mobili e su allestimenti dal carattere effimero, piuttosto che su interventi più incisivi sugli involucri, così come induce ad attribuire valore positivo sempre crescente all’idea della flessibilità, quale capacità degli interni di adattarsi rapidamente ad usi e configurazioni diversi. L’intendere positivamente la flessibilità è dovuto, a sua volta, anche alla difficoltà di definire delle funzioni e regole distributive standard ascrivibili all’idea contemporanea di casa, mutevole così come lo è la struttura della famiglia o il confine tra vita pubblica e privata, tempo del lavoro e della socialità. Nel tentare di trovare uno spazio interno in grado di assecondare la mutevolezza del vivere si corre il rischio di confondere l’adattabilità con l’indeterminatezza, producendo interni anonimi ed informi, nei quali è molto difficile sentirsi a casa e che invece generano disaffezione in coloro che li abitano. La dialettica tra omologazione e bisogno di appartenenza e riconoscibilità è una questione subito apparsa come difficile da conciliare con le forme dell’abitare contemporaneo11. In un racconto scritto nell’ormai lontano 1963, Furio Colombo ironizzava sulla difficoltà di riconoscere e riconoscersi negli spazi omologati di un appartamento newyorkese che rispecchiava le altrettanto omologate ritualità di vita dell’uomo medio. In forme diverse la stessa storia potrebbe essere ambientata in qualsiasi periferia odierna. A distanza di cinquant’anni possiamo dire che la globalizzazione, che ha interessato anche architettura e arredamento, ha esteso questo fenomeno a scala planetaria12, e non più circoscrivibile ad un dato contesto geografico e sociale. Di fronte a questo rischio la capacità dell’arredamento di farsi strumento del processo di appropriazione ed identificazione tra abitante e dimora viene vista come una risorsa, anche se la stessa ricerca di caratterizzazione dello spazio abitato può

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ridursi al livello superficiale di moda, soprattutto quando mancano consapevolezza ed attenzione nell’analisi dei presupposti del progetto di adeguamento, tanto materiali, espressi dal contesto, che immateriali, espressi dai bisogni, dalla cultura dell’abitare e dallo stesso stato dell’arte. Ben diverso dalla moda è l’esercizio del gusto, espressione, agita e non subita, della storicità, della personalità e del costume. La maggiore possibilità di autodeterminazione che è possibile esercitare nei processi di uso e trasformazione degli spazi interni offre il fianco ad azioni effimere e di facciata, che inseguono chimere status-symboliche e abdicano alla più importante possibilità di vedere nel proprio spazio di vita uno strumento di relazione della propria esistenza. Gli oggetti e le atmosfere dell’interno hanno la capacità di generare rimandi, suscitare evocazioni e possibilità di identificazione in mondi che forse non corrispondono ai reali bisogni quanto ai desideri. La trasformazione spesso obbedisce a questa estetica della convergenza13, che è alla base di spazi costruiti per paradigmi, popolati da oggetti di culto, per i quali il valore d’uso è superato sia in direzione del desiderio che del pensiero. Consistenza e senso della trasformazione

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Così come complesse sono le tematiche coinvolte dai processi di trasformazione degli spazi interni, così sono diversi i gradi e le modalità in cui questi si manifestano. È pertanto difficile individuare dei criteri adeguati a descrivere ed inquadrare il fenomeno. Le trasformazioni incidono sui caratteri distributivi, sulla forma, possono implicare aspetti tettonici e/o di dettaglio, arredi e finiture. Tra la consistenza materiale dell’intervento e gli effetti sul piano del senso e della fruizione di quegli spazi non c’è un legame lineare: possono darsi variazioni d’uso senza trasformazioni materiali forti che stravolgono il senso di un interno, così come interventi complessi, anche permanenti, che però confermano e specificano ulteriormente i valori connotanti originariamente quell’interno.


Si può cercare di circoscrivere il fenomeno sondando il modo in cui il progetto si pone nell’ambito di specifiche polarità, rispetto alle quali la trasformazione: – mantiene o muta la destinazione d’uso; – interviene o meno sulla struttura tettonica; – è contenuta completamente all’interno o leggibile anche all’esterno tramite estrusioni, addizioni, elementi che attraversano le bucature etc.; – consente o meno la lettura dell’originaria scansione e sequenza degli spazi; – conferma o meno la struttura formale esistente; – introduce una microarchitettura all’interno senza alterare le facce interne dell’invaso o agisce fortemente sui margini che definiscono l’involucro; – nell’uso di forme e materiali agisce secondo assonanza o dissonanza; – interviene con strutture ed elementi fissi o mobili o con una integrazione di entrambi. Questo elenco, che senz’altro aiuta a comprendere quanto l’azione di trasformazione può costruire una nuova architettura dello spazio interno di un edificio o di una sua parte, non è però sufficiente a definirne la specificità, né aiuta a comprenderne i fondamenti ed i principi concettuali, a meno di non cercare di cogliere i nessi tra le decisioni e determinazioni formali del progetto e lo spessore dell’azione interpretativa; questa, che abbiamo già associato all’arredare ed all’abitare, è ancora più importante nel momento in cui lo spazio interno è oggetto di un’operazione di modificazione o specificazione legata alla necessità di rispondere ai mutamenti nell’intendere l’uso originario o, ancor più, per rispondere a nuovi usi. Così come l’interprete non può prescindere dalla situazione in cui si trova, chi progetta la trasformazione ed il riuso di un interno non può non affrontare il rapporto tra la storicità del contesto e la propria contemporaneità. Ogni progetto interpreta il preesistente e lo ridefinisce. Può agire in continuità o secondo matrici antagoniste. Seleziona alcuni caratteri come importanti ed inva-

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rianti, altri come suscettibili di alterazione. Il progetto di trasformazione deve negoziare tra il carattere e le vocazioni della spazialità esistente e le nuove istanze, richiede un lavoro attento di analisi e la capacità di esercitare un giudizio critico, da cui può dipendere la possibilità che il nuovo dia valore all’esistente e produca nuovi significati o si riduca invece ad una banale azione di cosmesi. L’approccio proprio della cultura degli Interni mira a cogliere i nessi tra la conformazione degli invasi ed il fenomeno complesso dell’abitare, richiede attenzione alla lettura dei caratteri del contesto, attitudine allo sperimentalismo, capacità di mediare tra modelli teorici e realtà particolari, necessita di legare il progetto senza mediazioni agli aspetti tettonici, al dettaglio, agli aspetti tattili dell’architettura, nella consapevolezza della complessità dell’esperienza e della fruizione dello spazio architettonico. Autonomia ed eteronomia dei processi di trasformazione

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La riflessione sul fenomeno complesso delle trasformazioni che coinvolgono gli spazi interni da un lato conferma l’inscindibile dualismo tra interno ed esterno, mostrando come agendo sulla forma dello spazio interno si agisca sul significato di un’architettura, dall’altro afferma il suo grado di autonomia, evidenziato dalla possibile distanza tra un interno e l’architettura che lo contiene. Il progetto di trasformazione, apparentemente labile, ma determinante per gli effetti che produce sul piano della fruizione e del significato, consente di riflettere proprio su questa duplice anima del­l’interno. Esso può scaturire da un’attenta azione di interpretazione critica delle tracce fornite dal contesto in cui si insedia, confermando in tal modo, attraverso la relazione ermeneutica tra architettura preesistente e progetto del nuovo, il ruolo radicale dell’interno, producendo una nuova architettura sempre fondata sulla dialettica involucro/invaso. Altresì può considerare la preesistenza soltanto come un margine fisico, al cui interno attuare sperimentazioni pro-


gettuali con autonomia concettuale. Tale atteggiamento può avere esiti più o meno fertili e interessanti, innovativi sul piano della cultura architettonica o limitarsi solo a fornire una maschera, effimera, di seduzione che non corrisponde nemmeno ai bisogni dei destinatari. Ma forse in questo dualismo si può leggere l’espressione più autentica del modo erratico e sperimentalista di rapportarsi ai luoghi che caratterizza la contemporaneità.

M. Praz, La Filosofia dell’arredamento. I mutamenti nel gusto della decorazione interna attraverso i secoli dall’antica Roma ai nostri tempi, Longanesi, Milano 1964. 2  R. De Fusco, Essere in una stanza in Il piacere dell’arte. Capire la pittura, la scultura, l’architettura e il design, Laterza, RomaBari 2004, pp. 118-121. 3   Ivi, p. 179. 4   Cfr. a tale proposito la rassegna presente in G. Ottolini, La casa attrezzata, Liguori Editore, Napoli 1990. 5  V. Gregotti, Editoriale, in «Rassegna», n. 1, dicembre 1979, p. 5. 6  G. Ottolini, La dissoluzione della stanza nella modernità, in Casamiller 01, La Stanza, 2010, pp. 45-62. 7  I. Forino, L’interno nell’interno: una fenomenologia dell’arredamento, Alinea Firenze 2001, pp. 139-146. 8  A. Branzi, Modernità debole e diffusa. Il mondo del progetto all’inizio del XXI secolo, Skira, Milano 2006. 9   Th. W. Adorno, Funzionalismo oggi in Parva Aesthetica. Saggi 1958-1967, Mimesis Edizioni, Udine 2011, pp. 147-164. 10  M. Zardini, Notizie dall’interno. Una vitalità pulviscolare, in «Domus», n. 873, settembre 2004, pp. 16-23. 11  F. Colombo, Consumi, comfort e idola nella società opulenta. La casa della middleclass, in «Casabella-continuità», n. 281, 1963. 12  M. Augé, La fine della preistoria dell’umanità come società planetaria, in AA.VV., Le case dell’uomo. Abitare il mondo, Utet, Novara 2016, pp. 7-10. 13  F. Carmagnola, M. Ferraresi, Merci di culto. Ipermerce e società mediale, Castelvecchi, Roma 1999. 1

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La ricerca di una definizione di design CARLA LANGELLA

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La ricerca di una definizione di design è stata a lungo materia di intensa speculazione intellettuale e di fervido dibattito dagli anni ’50 fino alla fine del secolo scorso. Successivamente il progressivo, e sempre più rapido, espandersi dei campi di azione e dei confini geografici e cronologici della disciplina ha reso sempre più difficile pervenire ad una sua definizione delimitata e condivisa. Oggi molti storici, critici e teorici del design ritengono che provare a distillare in un numero limitato e definito di parole una dimensione così ampia, mutevole e multiforme sia ormai impossibile oltre che anacronistico. Il design contemporaneo predilige sistemi e processi ai beni materiali, la speculazione al problem solving, le nuove esigenze ai bisogni primari, ma questo tipo di design, che ha messo in crisi la sua stessa definizione per abbattere le frontiere disciplinari con l’arte, con l’economia, con la tecnologia e con la scienza, ha bisogno di fondare le radici nella sua storia evolutiva per non dissolversi del tutto. Questo contributo si rivolge soprattutto a coloro che non hanno assistito al dibattito sulle definizioni di design, viene loro proposta una rassegna dei modi in cui teorici, storici e critici hanno utilizzato le proprie definizioni o le hanno revisionate per poter proporre una visione, un punto di vista, una volontà di orientare il percorso della cultura del design. Fornire una ricostruzione dei momenti in cui le definizioni


di design, industrial design, product design hanno acquisito parole e contenuti diversi e delle ragioni che hanno indotto a scegliere e comunicare proprio quelle specifiche espressioni può fornire a chi non c’era dei punti fermi e un quadro di riferimento in cui muoversi con consapevolezza nell’attività progettuale e speculativa. La definizione, per quanto desueta, ha un peso specifico elevato, rimane un punto fermo nel tempo, una tappa, è un condensato di parole selezionate con attenzione e puntualità. Per eseguire una rassegna delle definizioni è necessario chiarire cosa si intende per definizione: la definizione è la dichiarazione dell’essenza. […] Lo scopo è quello di ridurre al minimo il ricorso all’intuizione nella comprensione dei termini, la cui comprensibilità è stata previamente assicurata. I requisiti della definizione sono i seguenti: adeguatezza, chiarezza, brevità. […] Ogni definizione cerca di condurci a cogliere l’essenziale della parola, concetto o cosa sottoposta a definizione; determina un intorno di senso (o un intorno gnoseologico) nel quale si radicano le discipline e le comunità scientifiche; opera nel e per il senso comune (il dizionario) permettendo il costituirsi di finite possibilità di relazioni tra parole, concetti e cose, procedure astrattive, logiche della verificabilità o della veritatività1. Questo contributo non ambisce evidentemente a essere una esauriente rassegna di tutte le definizioni di design ma propone una selezione di alcune di esse volta a indurre il lettore ad approfondire il tema e a ricercarle nelle trame della storia del design, affinché la rinuncia alla definizione non si traduca in rinuncia alla conoscenza della storia dei significati assunti nel tempo. Ogni definizione ha un particolare obiettivo speculativo che si propone di orientare la cultura del progetto in una specifica direzione critica o disciplinare. Le più significative sono proprio quelle in cui emerge il chiaro scopo di spingere la disciplina verso una linea culturale mettendone in luce, di volta in volta, le relazioni con gli aspetti sociali o filosofici, economici o tecnologici.

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Le definizioni di industrial design

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Oggi l’espressione industrial design è sempre più desueta, ad essa viene preferito il più generico product design che non pone l’accento sul processo produttivo e consente di includere, eventualmente, anche prodotti realizzati con processi produttivi non industriali o in piccole serie e persino pezzi unici. Nel 1851 un articolo del «Times» faceva riferimento ad un’“arte applicata all’industria” definita come contributo di natura artistica richiesto nei prodotti, anticipando una figura assimilabile all’industrial design. Nel 1948 Mart Stam utilizzò l’espressione “industrial designer” per denominare il professionista che “abbozza”, “schizza” e progetta prodotti in ogni campo dell’industria, la cui competenza è particolarmente utile nel configurare applicazioni di nuovi materiali2. Nello stesso anno Sigfried Giedion descrisse l’industrial designer come una figura che conferiva forma all’involucro degli oggetti tecnici, preoccupandosi di occultare meccanismi e parti impiantistiche, conferendo al prodotto una forma aerodinamica, come quella dei treni o delle automobili3. Concezione che aprì la strada a quella separazione tra tecnicismo e progettazione formale che ha avuto la sua deriva nello styling, inteso come deviazione del progetto in mero formalismo. Questo orientamento formalistico ha caratterizzato molte delle prime definizioni di design e di disegno industriale secondo cui al designer era affidato il compito di definire l’apparenza esteriore dei prodotti. La progressiva consapevolezza dell’importanza delle relazioni biunivoche tra beni di consumo e utenti e della attitudine di alcuni tipi di prodotti ad indurre o alterare azioni e comportamenti ha portato, successivamente, a valicare il limite della fruizione formale e ad entrare in maniera più approfondita nel complesso rapporto tra utenti e prodotti. Nel 1954 Ernesto Nathan Rogers sottolinea i valori aggiunti al progetto dall’ottimizzazione industriale: l’industrial design comprende quelle opere che profittano oggi


dell’organizzazione industriale, ne profittano per essere prodotte secondo la tecnica più adatta a tradurre rapidamente la qualità in relazione all’utilità-bellezza, in quantità economico-sociale4. Nel 1964 Argan scrive nel processo produttivo industriale, il progetto è una specie di idea platonica, ne varietur: si sa che la macchina potrà stamparlo in migliaia di esemplari, senza che nessuna modifica o adattamento possano aver luogo nel corso della lavorazione. Il progetto deve quindi comprendere in sé, nel suo tracciato, la coscienza di tutte le condizioni tecniche inerenti alla sua realizzazione; deve implicare la corrispondenza dell’oggetto a tutte le pratiche esigenze cui deve servire, e non solo alle esigenze di questo o quell’individuo o gruppo sociale, ma alla media delle esigenze collettive, e porsi come uno standard; deve prevedere e risolvere anche tutte le condizioni inerenti alla materia, perché nessuna distinzione, nessun distacco possono più sussistere tra il mondo ideale, o dello spirito, e il mondo pratico, della materia. Ed è appena il caso di rammentare che l’oggetto prodotto dall’industria non è mai prodotto in una materia ‘naturale’; la materia naturale si presta al naturalismo dell’artigianato, mentre l’industria forma le proprie materie nell’istante stesso in cui determina le proprie forme, esige materie ‘sintetiche’ per le sue forme ‘sintetiche’5. Il concetto di ne varietur, sottolinea il principio di standard, carattere identitario fondativo del disegno industriale. Argan evidenzia l’ineluttabilità del progetto di disegno industriale che, nel momento in cui viene rilasciato in forma esecutiva dal designer, deve contenere in sé tutti quei caratteri che gli consentano di affrontare i processi produttivi e il mercato. Questa definizione è ancora valida per i processi produttivi meccanici tradizionali, ma decade con l’avvento dei processi digitali e dei nuovi materiali con cui è possibile eseguire modifiche in corso d’opera. Come gran parte delle prime definizioni di disegno industriale fa rife­ rimento esclusivamente a processi produttivi industriali e seriali.

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La prima definizione di disegno industriale adottata ufficialmente dall’ICSID, International Council of Societies of Industrial Design, nel 1959, è molto elaborata ed esprime un considerevole sforzo di includere tutte le possibili variabili ma non risponde certamente al requisito di brevità: un designer industriale è colui che è qualificato attraverso una formazione, conoscenze tecniche, esperienza e sensibilità visiva per determinare i materiali, i meccanismi, la forma, il colore, le finiture superficiali e le decorazione di oggetti che vengono riprodotti in serie mediante processi industriali. Il progettista industriale può, anche in tempi diversi, occuparsi di tutti o solo di alcuni di questi aspetti di un oggetto prodotto industrialmente. Il designer industriale può anche occuparsi di problemi di packaging, pubblicità, allestimento e di marketing, quando la risoluzione di tali problemi richiede una valutazione visiva, oltre a conoscenze tecniche ed esperienza. Il designer per aziende fondate sull’artigianato, in cui vengono utilizzati i processi manuali per la produzione, è ritenuto essere un designer industriale, quando le opere che vengono prodotte sulla base dei suoi disegni o modelli sono di natura commerciale, sono realizzate in lotti o comunque in quantità, e non sono opere personali dell’artista artigiano. Questa estesa definizione elaborata dall’ICSID sorprende per la capacità di prefigurare quelle che sarebbero state nei decenni successivi le tematiche più dibattute riguardo alla spinosa questione del definire il disegno industriale. È una definizione molto ampia, tanto da accogliere anche la dimensione della produzione artigianale nell’ambito del disegno industriale e da prefigurare l’inclusione di aspetti divenuti successivamente sempre più centrali nell’attività del designer come il marketing, la pubblicità e l’allestimento. Risulta, però, molto centrata sugli aspetti di percezione visiva del prodotto trascurando tutti quei caratteri legati all’usabilità, alla funzionalità, all’esperienza e all’innovazione. Qualche anno dopo, nel 1972, Victor Papanek in Design for the real world. Human Ecology and Social Change, uno


dei testi di riferimento per il Design per la sostenibilità, propone una definizione che punta l’attenzione sulle responsabilità morali e sociali del design e propone di oltrepassare la prospettiva orientata alla produzione di beni di consumo e di utilizzare gli strumenti e la conoscenza dell’industrial design per affrontare problemi sociali e ambientali, relativi all’educazione, alle diversità, ai paesi del terzo mondo colloquiando con altri saperi. Nella prima parte del testo Papanek scrive: ogni uomo è designer. Tutto ciò che facciamo è quasi sempre design, proprio perché il design è alla base di ogni attività umana. La pianificazione e l’attuazione, secondo un modello prefissato, di qualunque atto tendente a un fine desiderato costituiscono il processo di design. Qualsiasi tentativo diretto a isolare il design per renderlo autosufficiente lavora in senso opposto al valore intrinseco del progetto, inteso come matrice primaria della vita. […] Design significa sforzo cosciente per imporre un ordine significativo6. Nel 1969, l’Icsid adotta, apportandovi alcune leggere modifiche, la definizione proposta da Tomás Maldonado al Congresso ICSID di Venezia del 1961 il cui testo originario è: il disegno industriale è un’attività progettuale che consiste nel determinare le proprietà formali degli oggetti prodotti industrialmente. Per proprietà formali non si devono intendere solo le caratteristiche, ma soprattutto le relazioni funzionali e strutturali che fanno di un oggetto un’unità coerente sia dal punto di vista del produttore che dell’utente. Poiché, mentre la preoccupazione esclusiva per le caratteristiche esteriori di un oggetto spesso nasconde il desiderio di farlo apparire più attraen­ te o anche di mascherarne le debolezze costitutive, le proprietà formali di un oggetto – per lo meno come lo intendo io qui – sono sempre il risultato dell’integrazione di diversi fattori, siano essi di tipo funzionale, culturale, tecnologico o economico. Detto altrimenti, mentre le caratteristiche esteriori riguardano qualcosa come una real­tà estranea, cioè non legata all’oggetto e che non si è

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sviluppata con esso, al contrario le sue proprietà formali costituiscono una realtà che corrisponde alla sua organizzazione interna, ad esso vincolata e che con esso si è sviluppata7. Con la definizione di Maldonado entrano in gioco fattori più complessi della attività progettuale nel design ma si ritorna a circoscrivere l’ambito produttivo alla scala industriale. Maldonado fa ancora riferimento alle qualità formali ma si spinge molto oltre l’idea di un intervento limitato alla forma dell’involucro delle prime definizioni. L’azione progettuale riguarda un’attività di coordinamento che possa integrare un sistema più profondo di relazioni che coinvolgono aspetti relativi alla fruizione come fattori funzionali, simbolici o culturali ed alla produzione tra cui fattori tecnici legati a economia, produzione, distribuzione, logiche costruttive e sistemiche. Nella voce design della Treccani curata da Andrea Branzi, pubblicata nel 2006, la separazione tra design e industrial design viene dichiaratamente superata. Con il termine design si indica l’attività di progettazione di oggetti, prodotti o strumenti, domestici o di lavoro, che possono essere realizzati in maniera artigianale o industriale, dove gli aspetti tecnici convivono con quelli estetici (design = progetto). La stessa distinzione tra design e industrial design, legato quest’ultimo alla produzione industriale di grande serie, si può considerare superata, dal momento che la produzione di serie non è nata con l’industria moderna, ma al contrario appartiene ai processi antropologici più antichi di trasmissione della cultura e della tradizione. La produzione artigianale già dall’antichità infatti si basava sulla copia rigorosa di archetipi spesso antichissimi, che per secoli venivano riprodotti e diffusi nella società. L’industria dunque ha ereditato, accelerato e specializzato lo stesso procedimento, riproducendo per mezzo di macchinari prototipi appositamente studiati8. In questa definizione Branzi liquida definitivamente la concezione secondo cui il dominio del disegno industriale sia circoscritto agli oggetti prodotti industrialmente, cioè


fabbricati mediante macchine ed in serie, che ricorre in molte delle definizioni di disegno industriale. È ormai scontato che non ha più senso fondare la definizione di disegno industriale sulle modalità del processo di lavorazione. Oggi, dieci anni dopo la definizione di Branzi, lo scenario produttivo è ulteriormente e profondamente mutato rispetto a quello che faceva da sfondo a molte delle definizioni proposte. Il nuovo scenario è quello dell’industria 4.0 caratterizzato da fenomeni come la fabbricazione digitale, la customizzazione parametrica, l’auto-produzione, il Do It Yourself (DIY), la nuova imprenditorialità delle startup crea­ tive. Alla luce di queste trasformazioni e del consolidamento del fenomeno produttivo e culturale introdotto con l’espressione artidesign nel 1991, che riguarda quei prodotti che vengono elaborati con processi ibridi tra dimensione industriale e artigianale, mediante approcci ed interventi sia automatici che manuali, i concetti di serialità e di fabbricazione meccanica si confondono e non possono più essere utilizzati come parametri di appartenenza alla categoria disciplinare. Molte tecnologie più o meno avanzate non riescono a rientrare nelle accezioni di processo automatico o processo meccanico e neanche in quella di processo artigianale. Ad esempio, la maggior parte dei manufatti realizzati con materiali compositi, come gli scafi o le vele delle barche, sono prodotti con processi non automatici, molto vicini all’approccio dell’artigianato a causa della necessità di dover deporre gli strati di fibre e polimeri manualmente, ma non è facile escluderli dalla definizione di disegno industriale, così come è assolutamente impossibile farli rientrare nella dimensione artigianale. La stessa commistione tra fatto a mano e fatto a macchina è stata riconosciuta come carattere genetico del disegno industriale italiano ed in particolare della fortunata fase del Bel Design Italiano nella quale il dialogo e l’intersezione tra imprenditori, artigiani e progettisti ha avuto il merito di generare un terreno fecondo, aperto e flessibile a recepire nuove espressioni ideative, stimoli figurativi, invenzioni tipologiche9.

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L’ultima definizione coniata dall’ICSID è stata rilasciata in occasione della 29 ° Assemblea Generale a Gwangju (Corea del Sud) nel 2015: l’industrial design è un processo di problem solving strategico che guida l’innovazione, costruisce il successo del business, e conduce ad una migliore qualità della vita attraverso prodotti innovativi, sistemi, servizi ed esperienze. L’industrial design colma il divario tra ciò che esiste e ciò che è possibile. Si tratta di una professione trans-disciplinare che utilizza la creatività per risolvere i problemi e per co-creare soluzioni con l’intento di pervenire ad un prodotto, un sistema, un servizio, un’esperienza o un business, migliore. Nel suo cuore, l’industrial design fornisce un modo più ottimista di guardare al futuro per riformulare i problemi come opportunità. Si collega all’innovazione, alla tecnologia, alla ricerca, alle imprese e ai clienti per fornire nuovo valore e vantaggio competitivo attraversando le sfere economica, sociale e ambientale. Questa definizione posiziona l’essere umano, con le sue esigenze al centro del processo. Il designer acquisisce capacità empatiche, oltre che strategiche, volte a generare innovazione sia sociale che tecnologico-funzionale e a connettere discipline diverse. Si aggiunge anche la responsabilità di valutare l’impatto economico, sociale e ambientale del proprio lavoro e si rafforza la consapevolezza del contributo del design alla co-creazione di una migliore qualità della vita. Una definizione molto ampia che abbraccia tutti gli ambiti che di fatto il design attuale tocca o affronta; ma l’ampiezza di questa definizione rischia di essere anche labilità o ambiguità di una figura, che di fatto, si sovrappone a molte altre discipline se non si integra con esse. L’ambiguità della parola design

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Oggi, più che mai, il termine design è stato eccessivamente abusato tanto da rischiare di divenire ambiguo e vago. Sembra essere diventato quasi un aggettivo riflette Ver­ celloni, un complemento universale che conferisce


un’ac­ cezione sofisticata, contemporanea e altisonante a qualsiasi oggetto o attività10. In particolare nella lingua italiana il termine design è diventato misterioso ed allusivo, anche a causa della mancanza di una traduzione precisa ed univoca dall’inglese. In italiano la parola «design» è frutto, come è ben noto, di un equivoco lessicale. Design in inglese, e con evidente derivazione latina, significa «progetto», e non si riferisce esplicitamente al solo progetto formale del prodotto industriale né, più in generale, a quello dell’oggetto d’uso. È stato l’esotismo del termine a farlo accettare nella sua accezione impropria (o comunque restrittiva)11. Affermatosi nella forma industrial design in Inghilterra, nazione protagonista della Rivoluzione Industriale, la parola design proveniva, con un passaggio intermedio per la Francia, dall’italiano disegno come italianismo che evocava il prestigio dell’arte antica e rinascimentale. Ma, come osserva Maldonado: l’industria in quanto entità astratta e monolitica, è stata un mito del XIX secolo. In realtà ciò che esiste veramente sono ‘le’ industrie; è per questo motivo che non c’è un solo industrial design, ma ve ne sono parecchi, molto diversi l’uno dall’altro. La concezione monistica di industrial design dovrà essere sostituita da una pluralistica12. A questo punto occorre domandarsi se abbia senso che una disciplina plurale composta di tante anime, generate dallo sviluppo delle differenti industrie come il product design, il fashion design, il car design, il design engineering, il service design, possa avere un’unica definizione condivisa. Il design è un dominio oltre che plurale complesso, così complesso da essere decisamente difficile definirlo anche per gli stessi protagonisti della scena professionale. Nella premessa del suo libro La valigia senza manico: arte, design e karaoke, Enzo Mari, nel 2004, dopo cinquanta anni di attività e circa duemila progetti, ammette di non saper dire cosa sia il design perché la parola design è una parola che può contenere qualsiasi opinione. Ed è proprio in relazione al termine design che spiega che il titolo scelto per il

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libro rievoca un’espressione portoghese per cui ‘valigia senza manico’ definisce una persona confusa, qualcuno che parla molto senza realmente dire niente di preciso. La parola ‘design’, dunque, corre il rischio di essere una valigia senza manico: qualcosa che pensiamo di conoscere, ma che nessuno realmente è in grado di spiegare13. Nel 1985 Alessandro Mendini scrive: il design agisce in maniera ambivalente anche fuori dal design, nello spreco della mancanza di senso della disciplina, di dimensione e di concezione: il design è in fin dei conti una ginnastica del disegno14. Un’ambiguità che Clive Dilnot evidenzia facendo riferimento al fatto che in inglese il termine può essere utilizzato sia come nome che come verbo: il design non solo soffre della generale riluttanza della cultura a concedergli lo status di attività che vale la pena di studiare o di definire – una riluttanza condivisa con i professionisti del design che pretendono che il design venga definito meramente per ciò che il designer fa – ma soffre anche di una fondamentale ambiguità che il concetto di design possiede. Non è chiaro se il termine è riferito a un processo (l’atto di progettare), al risultato di quella attività (oggetti progettati o immagini), o al valore […] Il terzo elemento, il valore del design, è il meno conosciuto e l’ultimo definito eppure è quello utilizzato per identificare la professione di designer e per differenziare il Design (con la maiuscola iniziale, sostantivo, per indicare la versione professionale del progettare e per specificare le professioni o le classi di oggetti e immagini) dal design (iniziale minuscola, un verbo, riferito alle attività generale di progettare, dare forma, conformare, o organizzare cose, immagini, o sistemi, sia come professionisti che non)15. Holger van den Boom nel 1994 interpreta la radice etimologica: la parola “design” trae origine dal latino. Il verbo “designare” viene tradotto come “definire”, ma letteralmente significa approssimativamente: mostrare dall’alto in basso. Cò che è definito è fisso. Il Design tramuta la vaghezza in definizione tramite differenziazioni


successive. Il Design (designatio) è dunque inteso in senso generale ed astratto. Definizione tramite la rappresentazione. La scienza del design corrispondentemente è scienza della definizione16. Design, dunque, come capacità di approdare, attraverso una progressiva definizione e precisione, dal caos delle infinite possibilità alla soluzione progettuale univoca. È una visione confortante ma che non riesce ad aderire pienamente all’universo di declinazioni che il termine assume oggi, sia nella dimensione storico-critica che in quella della professione. Per il critical design, ad esempio, il design è una attività divergente piuttosto che convergente, un generatore di domande e di pensiero piuttosto che di soluzioni univoche. La fenomenologia come antidoto all’ambiguità Alla luce di questa rassegna di definizioni e affermazioni emergono alcuni quesiti aperti. Occorre chiedersi prima di tutto se in una società fluida, ma anche grumosa, è ancora necessaria una definizione condivisa o se, piuttosto, la conoscenza degli scenari evolutivi delle definizioni possa aiutare a controllare il disorientamento perché questi si propongono, in ogni caso, come punti fermi nel tempo. Se, come afferma Masina, la definizione è utile a determinare un intorno di senso in cui radicare le discipline e le comunità scientifiche allora il design ne trarrebbe utilità. Un’utilità che probabilmente rimarrà evasa poiché la gran parte delle definizioni proposte non corrisponde ai requisiti postulati di adeguatezza, chiarezza e brevità. In molti casi non esprimono idee o posizioni significativamente forti, o di rottura con le precedenti, e sembrano più preoccupate di contenere tutte le declinazioni possibili, seppur diluite da uno spirito di inclusione generalista, piuttosto che di decurtare le deviazioni che rischiano di indebolire l’identità della disciplina. Se, dunque, non ha senso definire l’indefinibile e se molti dei tentativi di definizione tendono ad ipostatizzare poiché, piuttosto che compiere l’auspicata «riduzione cul-

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turale», attribuiscono un’esistenza sostanziale a ciò che non ne è provvisto, affiora la consapevolezza che più che cercare di approdare ad una definizione netta e circoscritta potrebbe essere utile descrivere come il design si manifesta da un punto di vista fenomenologico, dunque più concreto e palpabile. L’approccio fenomenologico consente di individuare caratteri invarianti validi anche al mutare delle singole e specifiche concezioni ideologiche, dei campi di applicazione che vengono coinvolti, delle collocazioni cronologiche degli eventi. Questo tipo di approccio caratterizza ad esempio la teoria del quadrifoglio che individua quattro parametri fenomenologici del design: il progetto, la produzione, la vendita e il consumo e che risulta ancora valida, anche alla luce delle più recenti trasformazioni. Un’altra ipotesi alternativa alla definizione è descrivere direttamente i compiti che il designer dovrebbe svolgere come ha fatto Bürdek nel 1999 che ha proposto: visualizzare i progressi tecnologici, facilitare l’uso dei prodotti, rendere trasparenti i collegamenti fra prodotto, consumo e riuso, facilitare o comunicare servizi, collaborare ad impedire prodotti insensati. Ancora un’altra possibilità consiste nell’individuare obiettivi e motivazioni come quelle proposte da Michael Erlhoff: essere diretto alla società, essere funzionale, significativo e concreto17. In tutte queste ipotesi utili a suggerire parametri o caratteri universalmente validi e presenti in tutti i prodotti identificabili nell’ambito design, tuttavia, si rischia di rimanere in paradigmi ancora troppo vaghi a cui diviene necessario associare criteri più discreti che diano modo di classificare e catalogare i risultati del design, come ad esempio una tassonomia. A questo punto, però, si apre un quadro troppo ampio e ben più difficile da trattare rispetto ad una sintetica rassegna delle definizioni di design, ma ancora aperto e possibile.

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1  R. Masiero, Nel definire il restauro, in A. Bellini, et. al., Che cos’è il restauro. Nove studiosi a confronto, Marsilio, Venezia 2005. 2  B.E. Bürdek, Design: History, theory and practice of product design, Walter de Gruyter, 2005, p. 25. 3  S. Giedion, Mechanization Takes Command: A Contribution to Anonymous History, Oxford University Press, 1948. 4  E.N. Rogers, in A. Grassi, A. Pansera, Atlante del design italiano 1940/1980, Gruppo Editoriale Fabbri, Milano 1984. 5  G.C. Argan, Il disegno industriale, in Progetto e destino, il Saggiatore, Milano 1964, p. 137. 6  V. Papanek, Progettare per il mondo reale. Il design: come è e come potrebbe essere, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1973, p. 15. 7  T. Maldonado, La formazione del Disegnatore Industriale, relazione al congresso ICSID, Venezia 1961. 8  A. Branzi, Design, Enciclopedia Italiana Treccani - VII Appendice, 2006. 9  M. Vercelloni, Breve storia del design italiano, Carocci, Roma 2014, p. 106. 10   Ivi, p. 192. 11  M. Vitta, Le voci delle cose. Progetto idea destino, Einaudi, Torino 2016, p. 92. 12  T. Maldonado, Arte e industria, in Avanguardia e razionalità: articoli, saggi, pamphlets 1946-1974, Einaudi, Torino 1974, p. 144. 13  E. Mari, F. Alfano Miglietti, La valigia senza manico: arte, design e karaoke: conversazione con Francesca Alfano Miglietti, Bollati Boringhieri, Torino 2004. 14  A. Mendini, in Il manifesto di Alchimia, 1985. 15  C. Dilnot, The state of design history, part II: problems and possibilities, in «Design Issues», 1984, p. 3. 16  H. van den Boom, Betrifft Design. Unterwegs zur Designwissenschaft in fünf Gedankengängen Alfter, VDG, 1994. 17  B.E. Bürdek, op. cit.

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Libri, riviste e mostre

A. D’Auria, Architettura della transizione: il Werkbund tedesco, Marsilio, Venezia 2016. L’esigenza di approfondire una tematica ampiamente trattata, come quella del Deutscher Werkbund, si fonda su almeno un paio di fattori: in prima istanza, sul suo grado di importanza, una caratteristica che intrinsecamente richiede livelli di approfondimento crescenti, volti a mettere in luce elementi di novità sempre maggiori; inoltre, sulla possibilità di tracciare nuovi orizzonti di senso attraverso la ricerca di chiavi di lettura inedite indirizzate alla riconfigurazione del fenomeno, trattato secondo nuovi aspetti. È in questa direzione, come vedremo in seguito, che muove l’analisi di Antonio D’Auria: da un lato, attraverso una attenta lettura filologica dei fatti storici e delle questioni ideologiche; dal­ l’altro, ponendosi in una precisa visuale storica, capace di orientare con maggiore efficacia il percorso narrato. Infatti, il titolo di questo recentissimo lavoro (novembre

2016), oltre a rivelare, come è ovvio, l’argomento che il lettore si accinge ad affrontare, evoca una precisa definizione storiografica cui l’autore aderisce per inquadrare culturalmente, e non soltanto cronologicamente, le vicende del Werkbund tedesco. Queste, come osserva D’Auria, vanno ricondotte a un significativo spazio di transizione: quello che di recente gli studiosi dell’ambito propriamente artistico-letterario della cultura austro-germanica tra il 1880 e il 1930 hanno definito klassische Moderne. È lo «spazio intermedio» da intendersi come processualità dinamica di creazione e distruzione, visione sperimentale del nuovo e dell’uomo nuovo. Questa prima scelta storiografica risponde, peraltro, al celebre precetto crociano sulla contemporaneità della storia che, da un lato, sancisce il già noto principio che l’interpretazione non può essere effettuata se non da una prospettiva presente e, dall’altro, richiamando i bisogni pratici, collega l’ideale soggetti-

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vismo a una più diffusa esigenza reale. La definizione di klassische Moderne, sostenuta da Matthias Luserke-Jaqui e Rosmarie Zeller, curatori della rivista «Musil-Forum», attraverso l’esposizione dei caratteri peculiari della letteratura tedesca sviluppatasi nel­ l’arco temporale suddetto – precisamente si sono assunti quale terminus a quo il 1888, ultimo anno della produzione intellettuale di Friedrich Nietzsche, e quale terminus ad quem il 1933, fine della Repubblica di Weimar –, tenta di circoscrivere le radici di una palingenesi che, a partire da quel periodo, permea tutto il Novecento attraverso l’enucleazione di questioni paradigmatiche sperimentate, in prima battuta, in ambito letterario. Come osserva Mauro Ponzi nella Prefazione al libro Spazi di transizione: il classico moderno (1888-1933): Gli autori che hanno operato in questo ambito […] possono essere definiti “classici” del moderno nel doppio senso che hanno tentato di recuperare qualche elemento della tradizione culturale da “trasportare”, da “trascrivere” nella modernità, ma anche nel senso che la loro operazione – a quasi un secolo di distanza – è ormai divenuta “classica”: un paradigma in un’epoca di transizione. Pertanto, la rilettura del Werk­ bund tedesco entro i limiti di questa nuova categoria storiografica esprime l’intenzione dell’autore di confermare, in primo luogo, l’immenso portato culturale di quei decenni a cavallo tra il XIX e XX secolo e, in secondo luogo, di definire con maggiore

vigore il ruolo determinante che il Deutscher Werkbund ebbe per l’architettura contemporanea, con­ siderando questa associazione come una intensa confluenza di personaggi, nodi teorici e pratiche sperimentali in grado di evidenziare l’esigenza di ritrascrivere elementi della tradizione nei linguaggi del moderno. In particolare, le citate questioni paradigmatiche, sub specie architectonica e non, cui D’Auria fa riferimento riguardano temi che vanno dal rapporto uomomacchina al rapporto parolaimmagine, dalla definizione de­ gli spazi urbani alla questione della guerra, dalla ricerca del­ l’identità monoculturale alla presa d’atto dell’esistenza del­ l’estraneo. Si delinea, in questo modo, un quadro in cui l’opera di transizione, nel suo senso etimologico, ovvero come passaggio da una condizione all’altra, esperita dai maggiori rappresentanti del Werk­ bund, si traduce, rispetto ad alcune tematiche, in una operazione dal carattere fondativo. Come osserva l’autore, le vicende del Deutscher Werkbund, i fatti e le circostanze che portarono alla sua fondazione, costituiscono, e non da ora, gli elementi basilari per la deci­ frazione in termini sia sociologici che strettamente culturali di quella che potremmo definire l’alba del Movimento moderno. Ritornando all’ambito degli strumenti euristici, accanto a questa prima scelta storiografica l’autore ne pone un’altra di carattere più operativo, utilizzata quale metodo d’indagine di riferimento anche in un precedente


saggio, edito ancora da Marsilio nel 2012, dal titolo Architettura e arti applicate negli anni Cinquanta. La vicenda italiana. Ci riferiamo alla considerazione della storia nella sua dimensione sincronica, la quale serve almeno a sventare le trappole delle interpretazioni retroattive, del mito dell’origine. Peraltro, trattandosi di uno studio monografico, l’approccio sincronico consente di individuare con maggiore evidenza i contenuti specifici del fenomeno in esame, considerando i diversi apporti che in esso sono confluiti. Rileviamo, inoltre, l’importanza che tale approccio ha rivestito nel­ l’ambito degli studi strutturalisti, ambito nel quale Antonio D’Au­ ria ha attinto parte della sua formazione, e, in particolare, nella linguistica saus­suriana, punto di riferimento aurorale per alcune correnti storiografiche dell’architettura improntate allo strutturalismo. In questo modo, attraverso la dichiarazione delle scelte di metodo a partire dal capitolo introduttivo, operazione necessaria per suggerire una strada percorribile nella moltitudine delle interpretazioni, il lettore è indirizzato verso una chiara esposizione dei fatti. Passando alla struttura del testo, esso può considerarsi composto di quattro parti, ognuna delle quali è supportata da un costante riferimento alle opere teoriche delle personalità più influenti e alle riviste che in quegli anni hanno animato il dibattito culturale, con il chiaro intento di mettere in evidenza, più di altre, le componenti ideologiche che costituiscono il più elevato sfon-

do culturale della parabola del Werkbund tedesco. Nella prima si analizzano le maggiori vicende che hanno caratterizzato quello che, con l’autore, possiamo definire il “primo Werkbund”, giunto fino al 1914, attraverso una lucida trattazione delle cause eteronome, ovvero di tutti quei fattori predisponenti afferenti al campo della politica, dell’economia, della sociologia ecc., che hanno condotto alla formazione del Werkbund nel 1907, con particolare riferimento al ruolo determinante che la borghesia ebbe attraverso la ricerca di una identità sociale rispondente ai dettami della modernità, negli anni della Germania guglielmina. Nella seconda parte, nel rispetto appunto dell’approccio sin­cronico, si passa all’esposizione di alcune parole-chiave, utili quali punti focali per l’individuazione delle questioni teoriche di maggior peso, nella giusta convinzione che le parole assumano un valore specifico a seconda del particolare contesto entro il quale vengono pronunciate. In questo percorso caratterizzato da un forte taglio estetico, le parole-valori di carattere assoluto, prendono significati particolari nel momento in cui entrano in sistemi contrastativi, cioè formano coppie oppositive, che designano bersagli polemici e procedure o teorie. D’altra parte, il carattere contrastativo, legato alla presenza di posizioni antinomiche, restituisce la vera essenza del Werkbund, manifestata in primo luogo dall’eterogeneità dei suoi maggiori rappresentanti, e, tuttavia, costituente la chiave della sua riuscita. Questo profilo gene-

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tico, volto alla ricerca della sintesi in una moltitudine di categorie opposte, è quanto D’Auria mette mirabilmente in luce in tutte le parti del testo, e quanto di più giusto per cogliere la vera natura di questa associazione. La terza parte è incentrata sul concetto di Sachlichkeit, meritevole di un capitolo a parte per il suo carattere trasversale, capace di attraversare linguaggi architettonici differenti, e, segnatamente, per aver costituito quel particolare atteggiamento ideologico, informato ai criteri della funzionalità e dell’approccio razionale alla progettazione, che ha contrassegnato i risultati più significativi delle produzioni artistiche e architettoniche del Werk­bund. Nella parte conclusiva, Antonio D’Auria traccia un bilancio del percorso ventennale, durato dal 1907, data di fondazione del Werkbund tedesco, al 1927, anno dell’esposizione di Stoccarda, che ha portato a compimento gli scopi iniziali del Werkbund, incarnati nelle ben note costruzioni del quartiere Weissenhof. Sebbene il 1927 non costituisca il termine ultimo della vita dell’associazione in esame, ciò che si era compiuto in quell’arco ventennale fino alla mostra di Stoccarda ha rappresentato il culmine del processo di transizione che registrò la conclusione di un percorso e del consolidamento di un modello (produttivo-progettuale) che supererà le barriere nazionali e alimenterà vigorosamente un’altra corrente estetico-ideologica, cosmopolita e universalizzante, chiamata International Style. A. T.

P.V. Aureli, Il Progetto dell’autonomia. Politica e architettura dentro e contro il capitalismo, Quodlibet, Macerata 2016. Un libro inattuale ma non troppo. Un libro sulla necessità della teoria. Un bersaglio apparente – il capitalismo – e un tema d’attacco – il rapporto politica e architettura – annunciato e svolto con originalità ma che cela ben altro. Un libro su un certo Tafuri che vuole puntare a una difficile e torsiva sintesi tra Aldo Rossi, Archizoom e infine…Dogma. Un programma di lavoro, un manifesto programmatico, che si apre con una disamina dei presupposti ideologici del movimento operaista tra storia, sinistra e intellettuali attraverso il tratteggiare, attento anche se di seconda mano, di due figure centrali del riformismo e dell’operaismo italiano: Panzieri e Tronti. Una riflessione che, dalla “autonomia del politico”, attraverso lo snodo legittimante di Tafuri (quello della stagione ideologica e non quello di Teorie e storia del 1968), tende a statuire un inedito legame, avvincente ma forse eccessivamente forzato, tra Rossi e i gruppi radical, da Archizoom (Branzi e NoStop-City innanzitutto) a Superstudio passando per Hilberseimer, per finire con un “Dopo” denso di sviluppi. Il testo scritto tra il 2006 e il 2007 e pubblicato nel 2008 deriva dal seminario Forì(u)m Project promosso da Aureli con Joan Ockman alla Columbia University di New York e oggi meritoriamente pubblicato in italiano da Quodlibet. Un seminario sull’operismo “spiegato agli americani” che aveva in realtà come centro e obiettivo un


nuovo (?) possibile progetto del­ l’autonomia per l’architettura in senso anti-capitalista, pur accettando di quel sistema un’internità ineliminabile. Il testo, con un nutrito apparato iconografico argutamente commentato (una sorta di doppio testo sinottico), si apre con il capitolo “Autonomia e storia”, che si ritiene di poter utilizzare (con l’ultimo) come sinodiche sufficienti alla compressione dell’intero saggio, in cui si dichiara, sin da subito, la tesi di fondo ma anche l’articolazione logica di tutto il testo. In quella densa premessa l’autore, nel voler prender congedo dalla stagione post-moderna, aderisce alla lucida lettura critica di Cornelius Castoriadis del “progetto dell’autonomia” mediante il conflitto, ogni volta rinnovato, tra soggetto collettivo e potere. Per il filosofo greco-francese, infatti, il pensiero occidentale può essere descritto come una sviluppo/inviluppo (dall’età dei lumi al tramonto dei totalitarismi politici) a partire dalla pratica dell’autonomia come dimensione originaria della politica secondo due linee antitetiche di pensiero: l’autonomia del soggetto e l’illimitata espansione del pensiero razionale (Adorno e Horkheimer tralasciando però le tesi di Habermas). Que­ st’ultima tendenza, all’insegna di una razionalità sempre più strumentale e ridotta alla “comprensione” (Verstand), diviene il vessillo dell’impeto inclusivo ed espansivo del capitalismo, nel­ l’ambito di una progressiva modificazione e incessante rivoluzione dei modi di produzione e delle sue logiche: logiche, al tempo stesso, inclusive e identitarie in cui la ragione

stessa diviene, in senso libertario ma anche calcolante, patrimonio sia della autonomia politica che del dominio capitalistico. Al venire meno della critica degli anni Settanta si giungerà, in piena condizione postmoderna, da un lato alla versione ermeneutica e dall’altro alla decostruzione, accomunate da un rinnovato interesse al linguaggio e all’indagine testuale all’insegna o del gadameriano “l’unico essere che può essere pensato è il linguaggio” o del derridiano “nulla esiste al di fuori del testo”. In tal senso, la citazione di Castoriadis riportata a p. 19 è eloquente anche delle tesi di Aureli: Quello che resta ormai è una collezione di mezze verità utilizzate come stratagemmi di evasione. Il valore della teoria oggi è solo quello di rispecchiare le tendenze del momento. L’esercizio teorico seve solo a razionalizzare ciò che esiste già, ammantando quest’ultimo di apologie del banale e del conformismo. Complicità unita a discussioni sul pluralismo, rispetto per la differenza, per l’“altro”, non fanno altro che glorificare un eclettismo concettuale, coprendo sterilità e banalità ed elargendo un assenso generalizzato all’idea che anything goes. La disamina delle posizioni di Hard e Negri espresse in Impero è indicata come la rinascita di un pensiero critico (antagonista) che non si contenta del “tutto va bene” ma oppone al capitalismo globalizzato il nuovo soggetto politico costituente della “moltitudine” da far risalire al concetto di popolo in Hobbes. Poco dopo questo passaggio sulla moltitudine è finalmente annunciato da

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Aureli il primo legame con l’architettura nel rilevare come lo scenario di questo rinnovato conflitto globale non sia più la fabbrica ma appunto la città in tutta la sua estensione (metropoli, postmetropoli etc.). Dopo un sintetico abbozzo della storia dell’operaismo italiano – da Autonomia operaia, al così detto operaismo classico sino al post-operaismo – si giunge al concetto del­ l’autonomia del politico di Tronti da intendersi come tradizione di pensiero che ha inteso il potere politico come sfera autonoma “dentro e contro” l’economia politica borghese. In linea con questa rivalutazione dell’operaismo classico si muove poi tutto il testo ove nelle parole dell’autore dopo aver tratteggiato le tesi di Rainero Panzieri, Mario Tronti e Massimo Cac­ ciari [3 figure], riconsidererò il modo in cui il progetto di autonomia ha preso forma nel dibattito sull’architettura e sulla città negli anni Settanta attraverso il lavoro teorico di Manfredo Tafuri, Aldo Rossi e Archizoom. Per quanto radicalmente differenti, le posizioni di queste tre figure [ancora 3] centrali dell’architettura italiana degli ultimi cinquant’anni hanno condiviso alcuni punti essenziali spesso dimenticati nelle trattazioni storiche [anzitutto] la professionalizzazione del­ l’architettura […] il suo ruolo culturalmente passivo. Tali protagonisti dell’autonomia architettonica pur in modi assai diversi e arrivando a conclusioni opposte, appaiono ad Aureli accomunati dall’antagonismo (implicito o esplicito) sia dell’orizzonte riformista del Welfar State sia delle

tecnocrazie della città-territorio. Se il legame tra Tafuri e Archi­ zoom e l’operaismo è attestato, quello di Rossi sembra più problematico e più circoscrivibile alla polemica con l’urbanistica neo-modernista nelle tesi sulla città per parti e ne L’Architettura della città (e nella III mozione al Seminario olivettiano di Arezzo) piuttosto che nella rivendicazione dell’autonomia disciplinare della Tendenza affermata nella XV Triennale del 1973. Un’accezione dell’autonomia, quella rossiana, opposta a sociologismi eteronomi che, secondo Aureli, rappresenterebbe un concetto ormai divenuto logoro e sterile luogo comune. Per l’autore le posizioni sia di Tafuri sia di Rossi come dei Radicals che in quegli anni ebbero un’enorme fortuna critica (in Europa e in America grazie a Eisenman e “Opposition”), sono private delle motivazioni ideologiche, a suo giudizio centrali, che le avevano ispirate. Dominanti in questo senso sono le tesi tafuriane contenute in Progetto e Utopia del 1973 – vero sottotesto del libro – in cui, pur attaccando (come fece Scolari in Architettura Razionale sempre del 1973), le proposte di Archi­ zoom e Superstudio, di fatto ne aveva gettato le basi a partire dal saggio Per una critica dell’ideologia architettonica del 1969 apparso su “Contropiano”, come pure da presuppore a quelle elaborazioni visionarie sarebbe stato il concetto rossiano, ricavato da Boullée, di “razionalismo esaltato”. Se questo primo capitolo contiene in nuce molti dei temi poi estensivamente sviluppati nel testo, resta però da sottolineare come il libro sia un modo da par-


te del­l’autore di regolare i conti e quindi anche di superare una stagione centrale dell’architettura italiana. Un superamento all’insegna del­l’istanza da “La ricerca dell’assoluto” come la definisce Biraghi nella recente Storia dell’architettura italiana 19852015 in cui, continuando il racconto tafuriano, questa linea si distingue però sia dal neo-razionalismo reloaded di chi scrive e di altri, sia da altri movimenti para-avanguardisti, sia dai Radicals revivals à la Branzi. Una absolutezza (senza legami sintattici) in cui l’autonomia dell’architettura è intesa più che come una forma-linguaggio liberata da ogni significazione esterna vieppiù come un’idea di libertà dall’immagine, dallo stile, dagli obblighi dell’invenzione di nuove forme per approdare, in definitiva, a una architettura non figurativa. Una tensione all’assoluto che si regola con leggi proprie (da αὐτόνομος, “si dà la legge da sé”) in cui, con tutte le contraddizioni spesso non sciolte, riecheggia ancora il monito di Progetto e utopia per cui «Il dramma dell’architettura oggi è quello di vedersi obbligata a tornare pura architettura, istanza di forma priva di utopia, nei casi migliori, sublime inutilità. Ma ai mistificati tentativi di rivestire con panni ideo­ logici l’architettura, preferiremo sempre la sincerità di chi ha il coraggio di parlare di quella silenziosa e inattuale purezza». Infine, appare molto apprezzabile il fatto che un “giovane” (classe 1973), ma già influente architetto e teorico come Aureli, si preoccupi non tanto e non solo di misurarsi con la sua eredità cultura-

le ma anche e soprattutto di rilanciare la riflessione sull’autonomia (politica o non politica, disciplinare o eterodisciplinare che sia) con l’obiettivo dichiarato di riaffermare l’irriducibilità – come già in Rossi – dell’architettura alla prassi professionistica, riabilitando, invece, la centralità della sua dimensione teoretica. Poiché è proprio nel lavoro teorico che l’architettura come forma [autonoma] di conoscenza, come modo di comprendere le cose, si riappropria del proprio spazio, che è quello di pensare, di criticare e, se possibile, di cambiare lo spazio in cui viviamo. Come a dire: è proprio con la teoria che si realizza la vera e necessaria autonomia dell’arte del costruire e in questo anche la sua ineliminabile e autentica essenza politica. R. C. E. Grillo, Post War Dream(s). L’Informale e l’utopia della co­ municazione, Morlacchi, Perugia 2016. Esistono oggi molti fruttuosi modi di interrogarsi sui più importanti fenomeni artistici del Novecento, modi non necessariamente orientati a ricostruzioni storiche o filologiche, ma che fanno leva sui valori poietici dei movimenti presi in esame per comprenderne la natura o le possibili relazioni con la cultura coeva, sia sul piano epistemologico sia sul piano tecnologico-materiale. È ciò che ci hanno insegnato Luciano Anceschi con il suo Autonomia ed eteronomia del­ l’arte, Umberto Eco con il suo

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Opera aperta e anche Lucien Goldmann con il suo Per una sociologia del romanzo, teorizzando la possibilità di ragionare per omologie, ossia rintracciando identità di funzionamento tra le diverse proposte culturali di un dato periodo. Con Post War Dream(s), Eduardo Grillo, giovane studioso di estrazione semiotica, tenta di compiere un’operazione che si inscrive nei capienti argini di quella prospettiva teorica. Nonostante alcune approssimazioni storiografiche e imprecisioni terminologiche, il libro si impernia su un’idea di fondo alquanto interessante, ragionando sulle possibili sintonie tra il fenomeno dell’Informale, corrente artistica eterogenea e sfaccettata, e le condizioni “utopistiche” di una società della comunicazione statu nascenti. Il punto di partenza privilegiato dall’autore in questa indagine è la riflessione del sociologo francese Philippe Breton, secondo cui il 1942 costituisce l’anno di massima intensificazione della ferocia e della violenza in seno alla imperversante Guerra Mondiale, ma è anche l’anno in cui prende avvio il progetto cibernetico di Norbert Wiener che ha visto in una radicale rifondazione della comunicazione l’utopia di una nuova società dell’ordine e dell’autoregolazione, ambendo a una condizione “informazionale” per l’uomo, che lo avrebbe definitivamente trasformato in entità estesamente sociale, nella rete, diremmo oggi. La cibernetica ha infatti ambito, come sottolinea Grillo, a ripulire il più possibile i canali della comunicazione attraverso vie di codifica sempre più chiare e definite, così da ridurre al minimo il

disordine potenziale o l’entropia congeniti all’informatività stessa. In questo modo, il primato dell’informazione avrebbe dovuto comportare una rivalutazione del pensiero e della razionalità rispetto al corpo e ai sensi, della freddezza del codice contro ogni pur vitalistica ambiguità. Obiettivo dell’utopia cibernetica di Wiener, di pari passo con Shannon e Weaver era, in definitiva, la riduzione di ogni rumore di fondo, di ogni accidentalità relazionale, del caos che in quegli anni sconquassava l’intero pianeta nel­ l’incomprensione e nello sconcerto più generali. Alla proposta di un modello di comunicazione così freddo e razionale come quello promulgato da Wiener, la pittura informale opponeva indirettamente, negli stessi anni, un sistema di procedure operative votate, per tutta risposta, all’incremento del disturbo, del rumore e dell’entropia, tradotte in tracciati segnici e in arature materiche di pulsante intensità: in quella pittura trovava infatti piena manifestazione la dimensione corporale, cristallizzata nel gesto caotico e violento che fa esplodere la materia sulla tela. Nell’analizzare l’Informale, Grillo si richiama esplicitamente all’Opera aperta di Umberto Eco e in una doppia valenza, sia concependo l’opera in quanto metafora epistemologica, sintesi estetica di tratti dominanti della cultura di un dato periodo storico, sia riprendendo puntualmente la concezione dell’Informale in quanto poetica dell’indeterminatezza che non rinuncia alla forma, ma la riorienta in vista di un’apertura, come negazione delle forme classiche a direzione univoca,


non abbandono della forma come condizione base della comunicazione. Da qui prende corpo la tesi dell’autore, che vede un divergere e un convergere al tempo stesso del modello informazionale cibernetico con le poetiche informali: alla necessità di Wiener o di Shannon e Weaver di ridurre il rumore nella comunicazione, gli artisti informali rispondevano con il tentativo inverso, portare il dialogo su un livello di animalità in cui ciò che conta è la vitalità che orienta il gesto, esplorando le vie offerte dalla materia in ogni direzione. La complessità del magma informale aumenta infatti in modi espliciti, sensibili, il portato informativo dell’opera, alimentato dalla genuina e vitale ambiguità del messaggio estetico. Si tratta infatti di una pittura che accetta, come dice Eco, la ricchezza delle ambiguità, la fecondità del­ l’informazione, la sfida dell’indeterminato. L’indefinitezza del­ le forme non comporta necessariamente una fuga dalla dimensione comunicativa, in virtù del fatto che, seppur aperta, l’opera resta opera: solo al di là di questo limite l’apertura diverrebbe rumore. Queste, dunque, le conclusioni di Grillo: i cibernetici e gli Informali rispondono a una necessità comune, quella di una ridefinizione dei canali informazionali, concretizzandola però in modi nettamente opposti, gli uni facendo appello alla razionalizzazione di quei canali stabilendo codici unificati e gli altri astenendosi dal fornire un orientamento a priori, lasciando aperto e indefinito il campo delle scelte. P. F.

R. Florio, L’Architettura delle idee. La Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli, artstudiopaparo, Napoli 2016. Riflettere sulla Stazione zoologica Anton Dohrn, attraverso la lettura del volume di Riccardo Florio è, prima di tutto, un incontro con un sogno realizzato. L’autore descrive, sino al dettaglio, le questioni architettoniche e urbane della Stazione zoologica di Napoli, cuore del corposo volume, riuscendo a dare lo stesso risalto all’entusiasmante avventura umana di Anton Dohrn, ideatore della Stazione, e protagonista assoluto del libro. Grazie al giovane scienziato tedesco, nato nel 1840, definito dal padre Carl August Dohrn un disgraziato costruttore di castelli in aria, Napoli ha ricevuto, nella seconda metà del XIX secolo, un centro di ricerca di altissimo livello; un fulcro gravitazionale in grado di catalizzare l’attenzione degli scienziati di tutto il mondo. In realtà, però, l’idea iniziale prende forma in Sicilia e, in particolare, a Messina. L’origine siciliana della stazione zoologica trova riscontro in un passaggio autobiografico dello stesso Anton Dohrn: da quell’istante non mi abbandonò mai più l’idea di creare una piccola sede a Messina. Si sarebbe chiamata stazione zoologica, sarebbe stata messa a disposizione di tutti coloro che fossero venuti a Mes­ sina per lavorarvi; una specie di libera proprietà della scienza. La Stazione, sin dall’inizio e in estrema sintesi, consisteva in due parti fondamentali: al pian terreno un acquario aperto al

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pubblico, e in grado di fornire un sostegno economico alla restante parte, destinata alla ricerca. «La libera proprietà della scienza» si realizzerà a Napoli in uno dei posti più belli: nel cuore di quella che era un tempo la Villa Reale, inizialmente a pochi metri dal mare. Le ragioni che portarono Dohrn a preferire Napoli a Messina, tutte correttamente elencate, non si sovrappongono elidendo le motivazioni che ne costituiscono il fondamento esistenziale. Queste derivano interamente dalle ricerche di Charles Darwin e dal suo libro L’origine della specie. Il nome e il ruolo di questo straordinario scienziato sono ampiamente presenti nel volume di Florio, “impigliati” tra capitoli, paragrafi e note, costituendo, di fatto, la ragione prima della determinazione di Dohrn che afferma: quello che Darwin ha conseguito con i suoi libri io l’otterrò con la realizzazione di un nuovo orientamento organizzativo. Quindi la questione darwiniana è causa generatrice, struttura logica e distributiva della Stazione napoletana. Si può sostenere che Dohrn inventa la Stazione zoologica attribuendo al termine invenzione (heurema) quello originariamente assegnatogli dai greci. Si tratta cioè di un «ritrovamento» come ha chiarito Mario Vegetti, perché: inventare vorrà dire dunque non tanto produrre il nuovo quanto trovare e portare alla luce una possibilità latente nelle cose, in un qualche punto del tempo e dello spazio (M. Vegetti, I Greci e l’invenzione, in R. Boeri, M. Bonfantini, M. Ferraresi (a cura di), La forma

dell’inventiva, Edizioni Unicopli, Milano 1986, p. 197). Il nostro “trova” nelle teorie di Darwin l’humus su cui basare le sue ricerche che raggiungono un totale compimento nella costruzione della Stazione. Sottolineare l’importanza delle teorie darwiniane è anche l’occasione per mettere a fuoco il rapporto biunivoco tra scrittura alfabetica e architettura. In particolare, come ha scritto Carlo Sini, noi non avremmo nessuna scienza senza la pratica della scrittura alfabetica; essa ha messo in cammino il sapere scientifico occidentale (C. Sini, Pensare il progetto, Tranchida Editori, Milano 1992, p. 90). Concentrandosi sulla scrittura alfabetica di Florio, questa agisce su tre diversi piani: il primo quello della narrazione degli eventi, della storia; il secondo riguarda la descrizione della invenzione, ricordando il significato di heurema e di inve¨nı¨o, almeno in parte richiamato sopra; e poi il terzo, la descrizione dei disegni. In questa ultima attività la tensione fra scrittura e architettura raggiunge il suo acme. Come dichiara Adolf Loos l’architettura la si può descrivere ma non può essere disegnata: anzi questo carattere di formulazione logica che ne permette la descrizione è caratteristico della grande architettura: il Pantheon lo si può descrivere, le costruzioni della Secessione no. (A. Rossi, Architettura per i musei, in G. Canella, M. Coppa, V. Gregotti, A. Rossi, A. Samonà, G. Scimemi, L. Semerani, M. Tafuri, Teoria della progettazione architettonica, Dedalo, Bari 1968, p. 128).


Se si sposa il punto di vista di Loos, l’A. spinge al massimo della tensione immaginabile, que­ sto rapporto tra scrittura e architettura e conseguentemente tra descrizione e disegno cercando, con le circa cinquecento pagine che compongono il libro, quale è il punto di rottura o la fusione fra le due parti. Su questa strada sarebbe interessante seguire anche la riflessione intrapresa da Samonà nella costruzione-descrizione del Piano Programma del centro storico di Palermo (Cfr. C. Ajroldi, F. Cannone, F. De Simone, Lettere su Palermo di Giuseppe Samonà e Giancarlo De Carlo per il Piano programma del centro storico 1979-1982, Officina edizioni, Roma 1994), ma spostare l’attenzione sul lavoro dell’architetto siciliano distrarrebbe l’attenzione da un altro importante alveo di interesse che il libro di Florio offre: il rapporto tra committente e architetto o, se si preferisce, fra programma e progetto. Proprio quest’ultimo, al centro della acuta riflessione di Florio, permette di seguire quanto e in che modo la chiarezza di idee del committente abbia determinato l’esito architettonico. Lettere, o soltanto frammenti di queste missive, contenenti frequentemente degli schizzi – e quindi ancora una volta scrittura alfabetica e disegno – consentono ai vari architetti da Hildebrand a Capocci, da Max Arlt a Carl Sattler sino a Frediano Frediani, anzi sino a Riccardo Florio, di penetrare nelle pieghe più recondite dei desideri di Dohrn dando forma all’architettura. Seguendo questo tipo di interpretazione è facile riferirsi ad

esempio agli approfondimenti sviluppati da Motta e Pizzigoni (Cfr. G. Motta, A. Pizzigoni, L’orologio di Vitruvio. Introduzione a uno studio della macchina del progetto, Edizioni Unicopli, Milano 1998 e poi da Palma (R. Palma, Il programma: spazio del testo e figure del progetto, in G. Motta, A. Pizzigoni, La Nuova Griglia Politecnica, Franco Angeli, Milano 2011, pp. 22326). Entrambe queste ricerche potrebbero essere una premessa indispensabile o un commento a posteriori del libro in esame. Inoltre, però, nelle richieste di Dohrn, insieme a tutte le necessità per la Stazione convive una continua attenzione per il decoro urbano. Si richiama, in questo caso, il significato attribuito a decoro da Cicerone nell’Orator: In un discorso, come in ogni circostanza della vita, non c’è nulla di più difficile che saper vedere la cosa che si addice [quid deceat]. I Greci chiamano ciò prepon, noi potremmo chiamarlo decorum (M.T. Cicerone, Orator 21, 70, in G. Norcio (a cura di), Opere retoriche, UTET, Torino 1976, p. 835). Dal lettura del volume si delinea questa doppia attenzione da parte di Dohrn, rispetto a ciò che è più appropriato alla sue necessità scientifiche e in rapporto a ciò che più è appropriato all’architettura nei confronti della città. E nella interazione con Napoli, che subirà delle profonde modificazioni, la Stazione sembra trasformarsi in pietra di confronto, in metro con cui misurare la crescita urbana. Alla espansione della città si accompagna, nella narrazione del libro, quella della spazialità interna della Stazione, dopo che

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questa aveva raggiunto la sua configurazione esterna definitiva. Un travaglio continuo che mette in tensione la resistenza dell’architettura, intendendo questa come parete fra interno ed esterno (R. Venturi, Complexity and contradiction in architecture, trad. it., Edizioni Dedalo, Bari 1988, p. 103). Avviandosi alle conclusioni si aggiungono ancora due passaggi: nel ricordare gli architetti della Stazione si è incluso, fra questi, il nome di Riccardo Florio, ma tale affermazione poteva risultare oscura o superficialmente elogiativa. Invece si desidera spiegare il senso dell’affermazione, ricordando le parole di Giuliano Gresleri a proposito dei carnet di Le Corbusier. Le note, gli schizzi tracciati, le misure prese non sono fini a se stessi, non fanno parte della cultura del viaggio, cessano di essere “diario” per diventare progetto. Sapere come e perché si è progettato è già progettare (G. Gresleri, Dal diario al progetto. I Carnet 1 – 6 di Le Corbusier, – «Lotus International» n. 68, p. 14). Sulla scia logica di queste proposizioni il lavoro di Florio, di conoscenza e cioè di scrittura, di disegno e di rilievo è, a tutti gli effetti, un’opera di progetto; di

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più, un’opera di architettura rivolta alla ricostruzione di tutte le fasi del passato e fortemente orientata al futuro; attenta a tutto ciò da cui la Stazione ha tratto linfa vitale e protesa verso ciò di cui potrà avere bisogno. In ultimo, si vuole contraddire una evidenza di fatto del passaggio terreno di Anton Dohrn nato a Stettino nel 1840, in Pomerania, oggi in Polonia, e morto a Monaco nel 1909. In realtà Dohrn, morfologista darwiniano, è nato e morto a Napoli e in questo senso è possibile dare un significato diverso alla foto che lo ritrae nel 1906, quindi tre anni prima della morte, nella terrazza della sua casa al Rione Amedeo. Si può immaginare questa sua posa come una richiesta esaudita: Sul finire della vita, quando m’accorgerò di declinare, che la sorte mi sia così benigna da concedere al mio riposo una poltrona, e una capanna, alta sull’ampio mare (E. Gosse, Father and Son. A study of two Temperaments, trad. it. Adelphi, Milano, terza edizione 1993, p. 112). La sua “capanna” è a Napoli e il mare è quello del golfo con il fondale mozzafiato del Vesuvio: coram mari quies. A. S.


Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 1.  Le «Nuove Iconi» e la «civiltà del consumo» - Architettura utopistica - La sociologia dell’arte dei sociologi - Esperienze della Biennale - Tecnologia e poetiche contemporanee - Nouveau roman e arti figurative - Il Gaudi di Pane (fascicolo esaurito) N. 2.  Design e mass media - Gestalt prima e dopo - L’estetica neonaturalistica di Romanell - Della Pop Art e di una mostra a Vienna - La poetica urbanistica di Lynch - Semantica dell’arte - Architettura come linguaggio (fascicolo esaurito) N. 3.  Architettura e cultura di massa - Alcuni temi dell’Informale - Kunstwollen e intenzionalità in E. Panofsky - Dal pragmatismo alla fenomenologia - Libri, riviste e mostre N. 4.  La critica discorde - S.K. Langer, L’influenza sociale del design - T. Munro, Recenti sviluppi dell’estetica in America - G. Veronesi, Sull’architettura del secolo - L. Vinca Masini, Le mostre dell’estate ’65 - Libri, riviste e mostre N. 5.  I criteri di valutazione dell’arte contemporanea - Una politica culturale per i socialisti - Il visual design - Pareri sulla IX Quadriennale - Libri, riviste e mostre N. 6.  Il disegno di architettura - J.P. Hodin, Esiste un’estetica dell’arte moderna? - Alcune voci dell’urbanistica contemporanea - Breve antologia delle ultime Biennali - Libri, riviste e mostre N. 7.  Note per una semiologia figurativa - W. Hofmann, Gli inizi dell’attività formale - E. Garroni, 33a Biennale di Venezia: «jeu» e «sérieux» - Libri, riviste e mostre N. 8.  Artisticità dei mass media - B. Jessup, Arte e storia - Il design scientifico di Alexander - Incontri di studi urbanistici - Libri, riviste e mostre N. 9.  Il pensiero estetico di Adorno - 4 artisti scelti da Barilli - A. Vivas, Filosofia della cultura, estetica e critica: alcuni problemi - Libri, riviste e mostre

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N. 10.  Il premio IN/ARCH alla nostra rivista - R. Barthes, Semiologia e urbanistica - Nuove idee per la Gescal - Il metodo scientifico nella pianificazione - G. Veronesi, Su alcune mostre dell’estate italiana - Libri, riviste e mostre N. 11. G. Morpurgo-Tagliabue, L’arte è linguaggio? - Urbanistica e arti visive oggi - Valori ed obiettivi nella pianificazione - Libri, riviste e mostre N. 12.  Tre contributi alla semiologia architettonica - E. Garroni, L’eterogeneità dell’oggetto estetico - V. Corbi, Questioni di estetica empirica - A. Perez, Riflessioni di uno scultore sul tema dello spazio - Libri, riviste e mostre N. 13. L’«environmental design» e il suo insegnamento - Per una teoria dell’architettura - L’estetica del «pensiero negativo» in Marcuse - Libri, riviste e mostre N. 14.  La prossemica: un nuovo apporto all’architettura? - La poetica del­ l’arte povera - Note sull’Università e la professione - O. Ferrari, Una Biennale rimasta senza giudizio - Libri, riviste e mostre N. 15.  I problemi dell’istruzione artistica - R. Segre, Presenza di Cuba nella cultura architettonica contemporanea - Architettura fra retorica e logica Libri, riviste e mostre N. 16.  Significanti e significati della Rotonda palladiana - G. Dorfles, Valori iconologici e semiotici in architettura - Attualità della retorica - Libri, riviste e mostre N. 17.  Il centro della città (definizioni) - M. Tafuri, Ambiguità del Guarini - Lettura storico-semiologica di Palmanova - Libri, riviste e mostre N. 18.  L’architettura per l’Università - E. Garroni, Semiologia e architettura. Alcuni problemi teorico-applicativi - Recenti contributi allo studio dell’«environmental design» - Libri, riviste e mostre N. 19.  Segni e simboli del tempietto di Bramante - Note sull’immaginario in Filarete - Philip Johnson: la funzione della maschera formale - Biennale/ricerca - Libri, riviste e mostre N. 20.  Utilità storiografica di una dicotomia linguistica - Meaning in Architecture - La cultura di Le Corbusier - New Towns (definizioni) - Libri, riviste e mostre N. 21.  Note per una epistemologia della rappresentazione visiva - G. Bonsiepe, Panorama del disegno industriale - Per una poetica del profondo: Blaue Reiter - Libri, riviste e mostre

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N. 22.  Nomi, luoghi, immagini di città nella «Recherche» di Proust - U. Eco, Analisi componenziale di un segno architettonico - Percezione ed esperienza estetica - Libri, riviste e mostre


N. 23.  La «riduzione» culturale - Libri, riviste e mostre N. 24.  «Arquitectura, historia y teoria de los signos» - Note di terminologia semiotica - Il design: processo e fruizione - Il «silenzio» dell’architettura contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 25.  Note sull’arte concettuale - L. Benevolo, La recente storiografia della città - Lo storicismo e i confini della semiologia - Città-pubblicità: sul caso Las Vegas - Libri, riviste e mostre N. 26.  La «riduzione» culturale nella progettazione architettonica - R. Barilli, Le due anime del concettuale - G. Morpurgo-Tagliabue, Commento alla «riduzione» culturale - L’antidesign - Libri, riviste e mostre N. 27.  Altri aspetti della «riduzione» culturale - Interventi: G. Dorfles, Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto - P. Fossati, Riduzione o trasformazione? - T. Llorens, Sul concetto di comunicazione estetica - Libri, riviste e mostre N. 28.  Elementi semiotico-progettuali d’architettura - M. Krampen, Dalla semiologia della comunicazione alla logica degli strumenti - Libri, riviste e mostre N. 29.  Per una lettura semiotica della prospettiva - Elementi di una tendenza dell’architettura italiana - XV Triennale - Libri, riviste e mostre N. 30.  Problemi di semiotica dell’arte contemporanea - B. Zevi, Sei postille su «Il linguaggio moderno dell’architettura» - Alcune opinioni sull’iperrealismo - Libri, riviste e mostre N. 31.  Elementi della progettazione scientifica - Il segno indefinito della semiologia urbanistica - Note sulla cultura a «mosaico» - Arbitrarietà e motivazione del linguaggio architettonico - Libri, riviste e mostre N. 32.  L’eccentrismo, un momento della avanguardia sovietica - U. Eco, Chi ha paura del cannocchiale? - Nota sul segno urbanistico - I segni e le «figure» del Padiglione di Barcellona - Libri, riviste e mostre N. 33.  Architettura come istituzione - Il «ritorno» alla pittura - Università: le parole e le cose - Libri, riviste e mostre N. 34.  Dall’estetica alla semiologia - La teoria di Hjelmslev e l’architettura: alcuni problemi - Il «realismo» di Giuseppe Samonà - Libri, riviste e mostre N. 35.  Attualità dell’iconologia: alcune questioni metodologiche - R. Barilli, Difficoltà di un approccio semiotico alla culturologia - L’editoria architettonica - Libri, riviste e mostre N. 36.  I centri storici nella prospettiva semiologica - Le idee di teatro, oggi - Una riproposta del «multiplo» - Libri, riviste e mostre

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N. 37.  Dialettica del «piacere» e identità dell’architettura - Assenza-presenza: due modelli per l’architettura - La «storia dell’arte» nelle scuole - Libri, riviste e mostre N. 38.  Le ricerche di architettura più attuali ed insolite - Dalla fotografia al videotape - Analisi di un corso di laurea: il Dams - Libri, riviste e mostre N. 39.  La sociologia del gusto di Jean Baudrillard - Le posizioni di […] su alcuni temi della critica architettonica in Italia - Libri, riviste e mostre N. 40.  «Aforismi» sui centri storici - Note sulla simmetria in architettura Bataille e la “svolta” di «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 41.  Dipartimento e «architettura» - La «rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica - La critica d’arte in «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 42.  L’idea di pittura in Lévi-Strauss - Sul concetto di gusto - Alcuni contributi alla critica dell’inconscio - Libri, riviste e mostre N. 43.  La post-avanguardia - Luoghi e luoghi comuni della recente critica d’arte - Narciso e «l’altro»: note sul dibattito architettonico - Libri, riviste e mostre N. 44.  Architettura: la «rimozione del nuovo» - Ipotesi per il segno iconico - Storia dell’arte, storia delle cose - Libri, riviste e mostre N. 45.  Topologia e architettura - La casa: norma e «deroga» - Artisti e cinema - Libri, riviste e mostre N. 46.  I quindici anni della nostra rivista - L’Architettura all’Ecole des Beaux-Arts - La Storia dell’arte Einaudi - Una griglia che non sia una grata N. 47.  Architetto e ingegnere - Le scuole di critica d’arte in Italia - L’immaginario nella cultura di massa - Libri, riviste e mostre N. 48.  Prima e dopo il Post-Modernism - L’iconizzazione del mobile - Civiltà del ’700 a Napoli - Libri, riviste e mostre N. 49.  Il restauro architettonico: ricchi apparati e povere idee - F. Menna, La Biennale di Venezia. Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti - Critica d’arte e processi produttivi - Libri, riviste e mostre N. 50.  Fortuna critica della «Tendenza» - R. Bonelli, Storiografia e restauro - La fotografia: indice o icona? - Libri, riviste e mostre N. 51.  Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, riviste e mostre

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N. 52.  L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre


N. 53.  Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54. Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55.  Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56.  Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57.  Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58.  E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59.  Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60.  Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61. Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62.  Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63.  Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64.  Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65.  Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre N. 66.  Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre N. 67.  Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre

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N. 68.  Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69.  Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70.  Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71.  Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72.  Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73.  Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74.  Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75.  Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76.  I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77.  Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78.  L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79.  Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80.  Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81.  Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82.  Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre

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N. 83.  Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre


N. 84.  Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85.  Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86.  Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87.  Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88.  L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89.  Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90.  L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91.  «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92.  Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93.  La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94.  Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95.  Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96.  Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97.  Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98.  Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99.  Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre

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N. 100.  Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101.  Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102.  Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103.  Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104.  La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105.  L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106.  Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107.  Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108.  Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109.  Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110.  Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111.  Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112.  Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113.  Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114.  L’architettura italo-europea (fascicolo monografico)

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N. 115.  L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre


N. 116.  Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117.  Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118.  Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119.  L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121.  La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122.  L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123.  Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125.  Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126.  L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127.  Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128.  Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129.  Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 131.  Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132.  Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133.  Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134.  Abitare la razionalità - Per una nuova clas­si­ficazione delle arti - Il design ae­ro­nautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135.  Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137.  Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138.  Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­ l’ADI N. 139.  Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI


N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI N. 152. Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre N. 153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazione Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre N. 154. Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione - Ancora sul rapporto tra arte e pubblico - Design: scenari morfologici della contemporaneità - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 155. Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia - Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo - Della omologazione in architettura - Arti visive: da zona franca a fronte comune - È del designer il fin la meraviglia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 156. Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» - Modern/post: un territorio in-between - «Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradigma espositivo - Moda: sistema e processi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Campania N. 157. Editoriale - Una “ipostasi” della forma-tatuaggio - Aspetti e intenti del graffitismo d’oggi - Lebenswelt e architettura - Design vs Lebenswelt Libri, riviste e mostre

Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998

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ISSN 0030-3305

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