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settembre2017

numero 160

Il mestiere di architetto: prospettive per il futuro - Téchne e progetto d’architettura - Riflessioni sulla 57ª Biennale di Venezia e Documenta 14 a Kassel - Didattica e design, dal learning by doing al learning by design - La rivista «October»: temi e nuclei teorici - Libri, riviste e mostre


Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco

Comitato scientifico Philippe Daverio Kenneth Frampton Giuseppe Galasso Vittorio Gregotti Juan Miguel Hernández León Aldo Masullo Vanni Pasca Franco Purini Joseph Rykwert

Comitato redazionale Roberta Amirante Pasquale Belfiore Alessandro Castagnaro Imma Forino Francesca Rinaldi Livio Sacchi Alberto Terminio Segretaria di redazione Emma Labruna

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L. Sacchi M. Nastri A. Troncone P. Nunziante M.G. Mancini

Il mestiere di architetto: prospettive per il futuro 5 Téchne e progetto d’architettura 19 Riflessioni sulla 57ª Biennale di Venezia e Documenta 14 a Kassel 31 Didattica e design, dal learning by doing al learning by design 42 La rivista «October»: temi e nuclei teorici 51 Libri, riviste e mostre 65

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Alessandra Acocella, Carla Langella, Angela Pecorario Martucci, Dario Russo, Alberto Terminio.



Il mestiere di architetto: prospettive per il futuro LIVIO SACCHI

Una ricerca commissionata di recente dall’Architects’ Council of Europe delinea un interessante quadro della professione a livello europeo: crescono gli architetti (600.000, di cui circa un quarto concentrato in Italia); crescono, in generale, i fatturati (sia pur non superando le posizioni del 2008; ma quelli italiani restano fra i più bassi); cresce l’industria delle costruzioni, anche in Italia. Il mercato dell’edilizia del nostro Paese è un gigante: si colloca al quarto posto dopo Regno Unito, Francia e Germania; ma, diversamente da quanto avviene in altri Paesi, gli architetti ne sono responsabili solo per una piccola parte: in Francia, per esempio, una legge sull’architettura in vigore da oltre vent’anni garantisce gli architetti rispetto agli altri professionisti operanti nel settore. I mercati più in crescita sono quelli di Svezia, Irlanda, Paesi Bassi e Romania. L’Italia è nella media, come Francia e Germania, ma con prospettive un po’ meno buone per il futuro. La grande maggioranza (il 72%) degli studi europei è formata da un unico architetto: Svezia, Finlandia, Danimarca sono fra i Paesi con studi più grandi, seguiti da Regno Unito, Lussemburgo, Slovenia e Portogallo; l’Italia è fra quelli che hanno strutture professionali più piccole. Siamo anche fra i meno aperti all’educazione universitaria all’estero e fra quelli che investono meno nell’aggiornamento professionale (ai primi posti si collocano danesi, austriaci e svedesi). Siamo infine indietro in tema di

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sostenibilità e, in particolare, nella produzione di edifici energeticamente autosufficienti1. Un quadro articolato, che mostra chiaramente come i cambiamenti in atto siano tali e tanti da indurci a pensare che, già nel prossimo futuro, sarà difficile continuare a fare come s’è sempre fatto: ciò vale per la formazione universitaria, per la ricerca e soprattutto a livello professionale, ma anche culturale nel senso più ampio del termine. Dobbiamo dunque prepararci a un futuro diverso, in cui i principali motori del cambiamento sono, abbastanza prevedibilmente, due: la globalizzazione da una parte e la digitalizzazione dall’altra, fenomeni peraltro interconnessi fra loro. Entrambi hanno investito tutte le attività umane; entrambi hanno fatto sentire la loro influenza da tempo, comunque da prima dell’inizio della crisi; entrambi hanno indubitabilmente subito, proprio in questi ultimi anni, un’accelerazione che non accenna a diminuire. La globalizzazione

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Si tratta di un insieme di processi e trasformazioni il cui avvento è da alcuni collocato alla fine del Novecento, in particolare nel 1989, anno del collasso del comunismo; da altri, più simbolicamente, l’11 settembre 2001, proprio al­ l’inizio del XXI secolo. Con specifico riferimento alle forme della politica, Galli osserva che la globalizzazione si deve sempre misurare, a ogni livello e in ogni spazio, con problemi che si producono su scala planetaria, la sua caratteristica non è solo la tradizionale interdipendenza fra i soggetti che la compongono, ma la complessità, cioè il formarsi di uno spazio e di un tempo nuovi che si dispongono su molteplici livelli intersecantisi, e l’ambivalenza, cioè la mancanza di una direzione univoca dei suoi processi: questi presentano infatti lati di disordine, di frammentazione e di caotica violenza, ma consentono anche di ipotizzare l’embrionale delinearsi di nuovi ordini del mondo e di nuove forme di pluralismo e di democrazia2. La geopolitica che ne è emersa appare radicalmente diversa da quella che ha retto la scena fino alla fine del


secolo scorso. Il tradizionale orizzonte di riferimento euroamericano si è arricchito dei Paesi più rapidamente in crescita di Medio Oriente, Asia, Australia e Africa. Sono anche significativamente mutati i parametri di giudizio sull’architettura. Tuttavia, a guardare dal punto di vista degli storici, il processo appare ben diverso (…) Una teoria della globalizzazione dovrebbe quindi avvalersi di una maggiore sensibilità storico-critica, senza limitarsi allo scorcio di fine 20° e inizio 21° sec. in cui spesso viene invece confinata. In questa diversa prospettiva lo spostamento verso un’integrazione globale dell’umanità è solamente al suo stadio iniziale, come ha sottolineato Norbert Elias (Die Gesellschaft der individuen, 1987; trad. it. 1990). È quindi solo agli albori l’emergere di un senso di responsabilità nuovo e globale, che vada al di là di quello fondato su base nazionale o sull’identità tribale, etnica oppure religiosa. Questa prospettiva, secondo la quale siamo appena agli inizi di un cammino verso la globalizzazione, ci appare profetica nella fase che stiamo vivendo. E grande appare la distanza dall’ottimismo degli anni della stabile crescita del 20° secolo. Se allora avevamo modelli per una metropoli, oggi non abbiamo alcun modello per l’umanità globale3. Non poche le critiche negative, anche in architettura. La crescente attenzione ai regionalismi, ai materiali e alle tradizioni costruttive autoctone, alla dimensione informale e partecipativa ecc. ne costituisce l’indiretta testimonianza. Inversamente, è diminuita l’attenzione per l’architettura della spettacolarizzazione: fenomeno che della globalizzazione, negli ultimi due o tre decenni, ha rappresentato l’espressione più vistosa. Come vedremo, da una parte abbiamo di recente vissuto un processo di “democratizzazione” della dimensione internazionale: il numero di architetti che lavorano all’estero è in sensibile aumento e ciò vale anche per studi relativamente poco noti. Dall’altra l’attenzione me­diatica sembra oggi privilegiare piuttosto i nomi nuovi e giovani, la creatività di nicchia, la sostenibilità ambientale, l’impegno sociale e l’apertura a modalità partecipative di-

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verse; né manca chi difende un’architettura protezionista “a km zero”, che tutela le professionalità locali (posizione condivisibile, ma non senza riserve: se vale, non può che valere nei due sensi e quindi anche come impedimento al­ l’esportazione del proprio lavoro progettuale altrove). La digitalizzazione

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Diffusasi in architettura a partire dai primi anni Ottanta del secolo scorso, la digitalizzazione ha da allora vissuto almeno due o tre “rivoluzioni”: termine, forse abusato, tuttavia non azzardato. Il CAD, Computer Aided Design prima, la modellazione tridimensionale e i software parametrici (che ricorrono ad algoritmi per la conformazione di superfici complesse) poi e, oggi, il BIM, Building Information Modeling continuano a determinare cambiamenti. Non sono mancate delusioni per le promesse non mantenute. Ma l’errore è stato credere che il nuovo stesse nella virtualizzazione dell’architettura. Oggi, non a caso, la sfida consiste nel saldare la digitalizzazione progettuale alla realtà costruttiva (anch’essa, peraltro, condizionata dalla digitalizzazione, si pensi al crescente impiego dei robot in cantiere), ovvero nel sostituire alla rappresentazione la simulazione dei processi costruttivi4. La necessità di innovare coinvolge formazione, ricerca e professione: la prima nella duplice accezione di educazione universitaria e aggiornamento professionale, l’ultima sia a livello creativo sia di gestione del progetto. E tutto ciò vale anche per la cultura architettonica più in generale. Ma innovare non è facile, né il nuovo, in sé, detiene necessariamente connotazioni positive: come più volte ha scritto Vittorio Gregotti, innovare non va confuso con il gusto acritico per la novità gratuita e fine a se stessa. Non tutte le nuove idee sono insomma, necessariamente, delle buone idee. Paul Oskar Kristeller conclude giustamente il suo saggio sulla creatività scrivendo che l’originalità non dovrebbe essere ritenuta il massimo obiettivo della creatività e che vi sono al mondo idee originali inutili e persino dannosissi-


me. E questo si applica assai bene oltre che al design anche alle architetture di successo mediatico dei nostri anni5. L’altra faccia del problema, più volte segnalato da Renato De Fusco, è che il progetto implica invece, necessariamente, un certo grado d’innovazione: in assenza della quale non si dà progetto ma replica. Riassumendo: non è possibile non innovare, se non rischiando l’isolamento (ciò vale, com’è noto, per ogni nuova tecnologia); resistere al nuovo appare, per molti aspetti, un atteggiamento improduttivo; non è facile innovare nei modi e nelle direzioni giuste. La progettualità è strategica per il nostro futuro ed è importante progettare (e non subire) il cambiamento. Una sfida impegnativa per una società, quale la nostra, che tende a rimuovere il futuro e che a molti osservatori sembra incapace di immaginare il futuro6. Purtroppo, la società italiana difficilmente sarà in grado di coltivare, come in passato, l’arte di arrangiarsi, di adattarsi e reagire ai cambiamenti, riuscendo al tempo stesso, a innovare, senza innovare sé stessa; senza dare spazio e peso maggiore alle componenti più nuove ma, oggi, ancora periferiche7. Il BIM e la sfida della complessità Esaminiamo ancora la dibattuta questione del BIM. Acro­nimo di Building Information Modelling, designa – com’è noto – un processo progettuale che consente la simulazione digitale della costruzione di un edificio in maniera computabile, interoperabile e in grado di assicurare coerenza tra gli elementi che lo compongono, rispondendo inoltre ai fenomeni che potrebbero verificarsi in ogni fase del suo ciclo di vita. In altre parole: una rappresentazione digitale del processo costruttivo che facilita lo scambio e l’interoperabilità delle informazioni in formato digitale8. Il convincimento che esso vada adottato nelle scuole di architettura e d’ingegneria è ormai generale. Ma come simulare tutto ciò? La didattica dell’architettura, che in una prima fase è stata alquanto disattenta per poi favorire insegnamen-

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ti e master talvolta disomogenei fra loro (una proliferazione parallela a quella di manuali e guide dedicate al tema), va radicalmente messa in discussione e aggiornata alla luce del concetto di costruzione come educazione, dell’insegnare costruendo, dell’imparare facendo. L’obiettivo, ambizioso, è il citato superamento del divario tra la sfera digitale e quella fisica, come pure già avviene nei Fab Lab del MIT e di altre sperimentali scuole. Sappiamo tutti come non sia facile affrontare la complessità che caratterizza la progettazione contemporanea, né rispondere ai processi di trasformazione del territorio, della città e dell’architettura: il BIM, che serve proprio a questo, applicato alle esperienze didattiche, solitamente prive di richieste circostanziate, corre il rischio di evidenziare ancor più il loro esser prive di relazioni con la realtà. Come coinvolgere le diverse competenze, con i costi e le difficoltà organizzative che esso implica? Come mettere in scena, a livello didattico, una simile partecipazione? In Francia, non senza difficoltà e dispendio di tempo e denaro, ci stanno provando: per esempio, con EduBIM e con le Journées de l’Enseignement de la Maquette Numerique et du BIM, dove l’esperienza didattica diventa incontro e scambio fra scuole d’ingegneria e architettura (ma anche scuole superiori professionalmente orientate), imprese di costruzione, società d’ingegneria, produttori di software e di materiali edili. Le scuole italiane devono porsi il problema con urgenza possibilmente tralasciando gli steccati disciplinari (il BIM è di tutti e non funziona se non è di tutti) e imparando a lavorare insieme, integrando la formazione accademica con le esperienze professionali e ricordando che l’architettura è, in primo luogo, arte del fare9; al suo specifico, come avviene per tutte le arti, non basta il sapere, ma è necessario il fare. Non si dà dunque senza costruzione e senza spazialità abitativa. Ciò significa che dobbiamo mettere in campo tutte le possibili azioni per ridurre il gap tra formazione universitaria e realtà professionale10. Il BIM non è dunque che l’ultimo atto del più ampio processo di digitalizzazione della progettualità architettonica che non potrà che avere effetti dirompenti sul mestiere


– in ambito edile, infrastrutturale e ambientale – e che ci chiede un grande sforzo d’innovazione, il più grande dagli esordi del digitale. Senza una strategia politica non sarà facile determinare nei fatti la svolta cui siamo chiamati. Le aspettative sono elevate: in termini di risparmi possibili e di miglioramento della qualità del costruito e dell’ambiente. Forse non è un caso se esse s’inquadrano all’interno della gigantesca crescita in atto (ma, ancor più, prevista per il prossimo futuro) nell’industria delle costruzioni, un settore che in Europa sfiora il 10% del PIL e che, naturalmente, non è limitato alla produzione del nuovo ma investe anche la rigenerazione del preesistente. Gli investimenti richiesti, sia dal punto di vista strettamente economico sia da quello più ampiamente culturale, sono elevati; ma indubitabilmente più elevati sono i vantaggi che ne deriveranno. Si tratta di una sfida impegnativa, che esige una sostanziale innovazione/mobilitazione/rifondazione dell’intero comparto creativo/produttivo, il cosiddetto AEC - Architecture, Engineering and Construction: un comparto che è indietro rispetto ad altri ma che, proprio per questo, può avvalersi dell’esperienza accumulata dagli altri per accelerare il suo rinnovamento. Secondo le previsioni del Boston Consulting Group, centro di ricerche statunitense che svolge da anni un’intensa attività di consulenza sul futuro dell’AEC, per il 2025, cioè fra soli otto anni, la digitalizzazione porterà a risparmi su base annua stimati, alla scala globale, fra il 13 e il 21% per la progettazione, l’ingegnerizzazione e la costruzione e fra il 10% e il 17% per la gestione. Come per ogni altro sistema di comunicazione, la diffusione del BIM deve avvenire coinvolgendo tutte le figure professionali presenti sulla scena della progettazione/costruzione/gestione (con costi minimi per la prima, più consistenti per la seconda e altissimi per l’ultima, se correttamente misurati sull’intero ciclo di vita) di un edificio o di un’infrastruttura e godere di ampia condivisione a livello nazionale e internazionale. In assenza di quest’ultima, l’internazionalizzazione del lavoro di progettisti e costruttori risulterà senza dubbio più difficoltosa. La generalizzazione

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del BIM prevede infine un vero e proprio cambio di passo culturale e comportamentale, impensabile senza una forte e decisa volontà d’innovare. L’architettura si approssima così al design e al classico quadrifoglio teorizzato a suo tempo da Renato De Fusco: progettazione, produzione, vendita e consumo. Un’architettura di successo, al pari di un prodotto di industrial design, è tale nella misura in cui risponde a questi quattro aspetti11. Il processo ha inoltre una sua evidente circolarità che non può che ricordare da vicino quella ermeneutica, in particolare per quanto riguarda il rapporto strutturale fra il tutto e le parti (non è un caso se i grafici esplicativi del BIM hanno spesso andamento circolare). Sarà anche indispensabile un certo grado di lungimiranza che consenta di investire un po’ oggi per guadagnare molto domani. Si tratta insomma di un processo di crescita e maturazione che riguarda tutti, a cominciare dalla committenza, in particolare quella pubblica, dove, evidentemente, gli sprechi di denaro sono più gravi, e la partecipazione, o almeno la condivisione, sociale è un prerequisito indispensabile non solo per il successo dell’opera, ma per la sua stessa rea­ lizzazione. Il BIM si sta poi configurando come standard globale: già oggi tutti i progetti relativi, per esempio, alle nuove metropolitane ne fanno sistematicamente uso. Implica anche una progressiva crescita dei livelli di professionalità in almeno tre ambiti: la gestione dell’appalto, con tutti i risvolti contrattuali, legali ecc. e con una nuova regolamentazione dei rapporti fra committenza, progettisti e stazioni appaltanti; la razionalizzazione e ottimizzazione dei processi pro­gettuali, tecnici, costruttivi e gestionali; e, in una logica open source, la condivisione sociale di una visione strategica per il futuro. Non sappiamo se una tale nuova stagione della partecipazione possa infine preludere a una concezione totalmente altra della progettualità architettonica, sempre meno individualistica e autoriale, sempre più prodotto collettivo di un’età in cui l’informazione circola liberamente, in cui il senso della proprietà (anche quella intellettuale) appare indebolito rispetto al passato e in cui sempre più


spesso gruppi sociali enormemente estesi collaborano a sfide creative a una scala che non ha precedenti storici (si pensi a Wikipedia o ai software open source): Kazys Varnelis, direttore del Network Architecture Lab di Columbia University, ha scritto: Se le nuove generazioni sembrano avere un diverso senso del proprio io rispetto a quello delle generazioni precedenti, non possiamo che incoraggiarle nella ricerca di forme progettuali che siano condivise e messe in rete piuttosto che frutto del lavoro solitario di un singolo individuo. Il vecchio, stanco detto di Ezra Pound “Make it new!” può forse essere sostituito da “Make it better, make it smarter, make it together!”12. Internazionalizzazione e innovazione Gli architetti, come s’è anticipato, si spostano principalmente dove c’è lavoro. In Europa, per esempio, flussi significativi si sono verificati in questi ultimi anni verso l’Irlanda e, più prevedibilmente, verso il Regno Unito. Costituiscono invece eccezioni i progettisti stranieri che si sono trasferiti in Italia: siamo evidentemente poco attrattivi. A livello professionale, l’Unione Europea costituisce un unico grande bacino, anche se lavorare in Paesi diversi dal proprio non è sempre facile e se le differenze continuano a esserci (ed è forse bene che sia così). È probabile che presto un accordo fra UE e Canada possa consentire la libera circolazione professionale a europei e canadesi; qualcosa di simile è allo studio con la Corea del Sud. A livello studentesco, il nostro Paese vive poi una evidente contraddizione: se studiare architettura in Italia è considerato un valore aggiunto (lo testimonia il numero – altissimo – di accademie e istituzioni universitarie straniere presenti, in particolare, a Roma, ma anche a Firenze e in altre città), le nostre scuole d’architettura interessano invece poco o punto gli stranieri, con le possibili eccezioni del Politecnico di Milano e dello IUAV. L’internazionalizzazione investe i professionisti ad almeno due livelli: ci si può trasferire all’estero, magari impiegandosi all’interno di uno studio, e si può allargare la

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propria clientela alla committenza straniera, pubblica o privata, senza spostare il proprio studio in un altro Paese o limitandosi ad aprirvi una filiale. Per gli architetti italiani, i più colpiti dalla crisi, l’internazionalizzazione sta diventando una priorità. Qualcosa di simile è avvenuto per le imprese: stando ai dati forniti dall’ANCE, l’Associazione nazionale dei costruttori edili, dal 2009 a oggi le imprese operanti sul nostro territorio hanno registrato preoccupanti, se non drammatiche, contrazioni dei fatturati e molte sono fallite, mentre quelle, solitamente le più grandi, che sono state in grado di puntare sull’internazionalizzazione hanno fatturati in forte crescita13. Dal punto di vista geografico, il primo sopra citato livello tende a spostarsi prevalentemente verso altri Paesi europei, mentre i mercati più ricettivi per il secondo sono quelli dei Paesi ricchi in via di sviluppo: il Medio Oriente con, in primo piano, regni ed emirati del Golfo; il Kazakistan e altre repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale; la Cina; per certi aspetti l’India. L’Africa resta il continente più povero: i flussi migratori hanno di recente assunto proporzioni mai viste prima. In assenza di strumenti che ci consentano di affrontare un ragionamento sul tema – cosa che ci ricorda, indirettamente, quanto l’architettura sia sovrastrutturale – ci limitiamo a segnalare che è proprio l’Africa a vantare i più elevati tassi di sviluppo: vi si sta formando una classe media emergente desiderosa di raggiungere stili di vita occidentali. In termini di crescita urbana, sta prendendo il posto occupato negli ultimi tre decenni dall’Asia. Non a caso, per le imprese di costruzione italiane il mercato africano, già dal 2014, ha superato quello mediorientale e la crescita prevista per il periodo 2016-2020 è pari al 4,4%, la più alta del mondo14. Non a caso alcuni fra gli architetti più interessanti sulla scena internazionale degli ultimi anni sono africani – da David Adjaye a Diébédo Francis Kéré – o, sulla scia di un precursore come Fabrizio Carola, lavorano in Africa – si pensi a Tam Associati (ma lo stesso vale per Anna Heringer in Bangla Desh o per Carla Juaçaba in Brasile). Francis Kéré – in particolare – rappresenta sotto molti punti di vista una nuova e originale in-


terpretazione della globalizzazione nell’architettura contemporanea. Non esistono solo le grandi firme del­ l’architettura che esportano il proprio know how in più parti del globo. Esiste anche una forma di contaminazione progettuale che trae linfa vitale dalla specificità dei luoghi e, al tempo stesso, dalla possibilità di operare in contesti lontanissimi tra loro15. Non a caso, nei Paesi europei meglio attrezzati per l’accoglienza si segnalano interessanti esempi di rigenerazione urbana e housing sociale specificamente rivolti agli immigrati: si pensi, per esempio, a quanto realizzato dall’IBA ad Amburgo. Non a caso la questione interessa direttamente il futuro degli europei e, in particolare di noi italiani, che abitiamo un vero e proprio pontile proteso verso le coste dell’Africa. Non a caso si è parlato di African renaissance, slogan “mobilitante” promosso dal presidente sudafricano Thabo Mbeki in occasione dell’African Renaissance Conference che si tenne a Johannesburg nel 1998. Non a caso, infine, Jean-Léonard Toua­di ci ricorda che: Negli scenari globali in pieno mutamento, lo spazio eurafricano è una necessità e un interesse comune delle due sponde del Mediterraneo. Il presente e il futuro dell’Africa, in termini di processi di democratizzazione, crescita economica, pacificazione e conservazione di un’identità ferita ma viva, designano l’Europa quale interlocutore obbligato. Sotto questo profilo l’Africa è non solo lo specchio del passato dell’Europa, ma è il riflesso della sua contemporaneità16. Gli italiani che lavorano all’estero sono in possesso, in generale, di molte carte vincenti, ma sono anche penalizzati da alcune criticità. Per cominciare dagli aspetti positivi, va detto che la nostra progettualità è molto apprezzata. Con la complicità dei successi conseguiti dal design, ma anche del talento esecutivo che caratterizza le nostre imprese e il nostro artigianato, gli architetti italiani sono sempre più richiesti, in particolare sui temi del disegno dello spazio pubblico, del­l’ar­redamento, della conservazione e del restauro. Chi si affida a noi cerca in realtà di garantirsi un pezzetto di Italian lifestyle, la sua parte di made in Italy: pensa ai nostri

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centri storici, alla qualità delle nostre finiture, ai mobili italiani, alla moda, ai migliori produttori d’auto, al nostro gusto, in una parola alle tante immagini vincenti che il nostro Paese esporta. Quali, invece, i punti critici? Prima di tutto la piccolezza degli studi. Più in particolare: la mancanza di interdisciplinarietà fra le figure professionali che vi lavorano, la poca diffusione del BIM, la modestia dei fatturati e la scarsità di realizzazioni soprattutto rispetto alle grandi dimensioni proprie delle aspettative dei mercati edilizi in espansione; ma incide pure, in maniera negativa, l’insufficiente imprenditorialità e la poca abitudine a utilizzare professionalmente le lingue straniere: in particolare l’inglese, ma anche il francese, il cinese o l’arabo. Nell’ottica dei Paesi in via di sviluppo la piccola dimensione degli studi italiani, sia pur talvolta competitivi sul piano del gusto o della qualità, costituisce il problema principale: il modello prevalente di tali culture guarda alle grandi società di progettazioni anglo-americane, ai cui standard si sono rapidamente conformati Giappone, Singapore e Corea del Sud prima, Cina, Ara­bia Saudita, Qatar, Kuwait ed Emirati poi. Se si scorrono le peraltro mutevoli classifiche dei maggiori studi in termini di fatturato o di addetti, ai primi posti appaiono quelli statunitensi, in regime di quasi monopolio. Si tratta di colossi che assomigliano molto poco al nostro modo d’intendere il mestiere: società multinazionali, spesso quotate in borsa, con filiali in tutte le capitali finanziarie del mondo e migliaia o, in alcuni casi, decine di migliaia di addetti fra partner, associati, dipendenti, consulenti ecc.: da Gensler (San Francisco), prima per fatturato, ad AECOM (Los Angeles) che è invece in testa per numero di addetti, da HOK (St. Louis) a Perkins & Will (Chicago), da KPF (New York) alla storica SOM (Chicago) per restare fra quelle statunitensi, ma anche da Atkins e Arup nel Regno Unito ad Arep in Francia a Nikken Sekkei in Giappone. Tali studi offrono ai committenti tutti i servizi progettuali, dal concept iniziale al cosiddetto facility management, cioè i piani di gestione e manutenzione dell’edificio, con LoD, Level of Develop­ ment, cioè livelli di sviluppo progettuale, altissimi. Possono


persino permettersi il mantenimento di centri studi competitivi anche rispetto a quelli delle migliori università e i risultati raggiunti sono in molti casi eccellenti, ancorché spesso ignorati dalla critica e, in generale, meno spettacolari e connotati di quelli ottenuti dai più noti esponenti dello star-system da una parte o meno poetici di quelli raggiunti da alcune isolate figure di eccellenti talenti creativi dall’altra. A proposito del lavoro dell’appena citato studio giapponese, Augusta Mann osserva: È evidente (…) che continuare a considerare aprioristicamente, come sino a oggi si è fatto, i frutti dell’attività di progettazione di studi grandi come Nikken Sekkei come portati di una attività professionale distorta perché atrofica stia diventando obsoleto. E, di conseguenza, vi è da chiedersi se non sia giunto il momento di cominciare a domandarsi se unicamente simili studi professionali siano in grado di dominare veramente la complessità dei processi costruttivi dei nostri giorni, relegando gli architetti tradizionali, i “piccoli progettisti” che non possono più neppure essere considerati alla stregua di “bravi artigiani”, al ruolo di fungibili decoratori17. Competere con giganti simili sul loro terreno non è insomma pensabile: riusciremo ad adeguarci a modelli a noi così poco congeniali? Riteniamo sia questa la maggiore sfida posta oggi agli architetti italiani. Analogamente non sarà facile competere con i fenomeni di “uberizzazione” che, anche nel nostro settore, si stanno delineando all’orizzonte nelle forme più diverse: da Houzz a Cocontest. Probabilmente la risposta sta, ancora una volta, nella capacità d’innovare: riusciremo a creare reti di studi digitalmente connessi, altamente interdisciplinari, dislocati – se si vuole – nell’immaterialità della rete, flessibili, pronti a cogliere occasioni di lavoro dovunque si presentino e che, nonostante la deregulation in atto, siano al tempo stesso in grado di garantire qualità progettuale alla committenza e, soprattutto, coniugare la digitalizzazione progettuale con l’imprescindibile fisicità del cantiere?

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1  Cfr. The architectural profession in Europe 2016. A Sector Study, Architects’ Council of Europe, Mirza & Nacey Research, 2016. 2  C. Galli, Le forme della politica, in XXI Secolo, Il mondo e la storia, Istituto della Enciclopedia italiana fondato da G. Treccani, Roma 2009, p. 79. 3  P. Perulli, Sistemi locali e sfide globali, in XXI Secolo, Il mondo e la storia, cit. p. 664. 4   Cfr. L. Sacchi, La fine del disegno?, in «Op. Cit., Selezione della critica d’arte contemporanea», n. 153, maggio 2015. 5  V. Gregotti, Tre forme di architettura mancata, Einaudi, Torino 2010, p. 36. 6  I. Diamanti, La società italiana, in XXI Secolo, Il mondo e la storia, cit., p. 255. 7   Ivi, p. 263. 8   Cfr. L. Sacchi, Il punto sul BIM in «Disegnarecon», vol. 9, n. 16, 2016. Cfr., in particolare, C. Eastman, P. Teicholz, R. Sacks, K. Liston, BIM Handbook, A Guide to Building Information Modeling for Owners, Managers, Designers, Engineers and Contractors, Wiley, New York 2011. 9   Cfr. V. Gregotti, Contro la fine dell’architettura, Einaudi, Torino 2008. 10  Cfr. Conferenza nazionale sull’architettura. Verso una strategia di sistema per l’architettura italiana: formazione, ricerca, professione. CNAPPC Consiglio nazionale degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori, CUIA Conferenza universitaria italiana di architettura, Roma 2017. 11   Cfr. R. De Fusco, Filosofia del design, Einaudi, Torino 2012. 12  K. Varnelis, Architecture After the Individual, in Common Ground, Venice Biennale of Architecture, a cura di D. Chipperfield, K. Long, S. Bose, Marsilio, Venezia 2012, p. 288. 13  Cfr. Il mercato delle costruzioni 2017, Lo scenario di medio periodo 2016-2012, XXIV rapporto congiunturale e previsionale CRESME, a cura di L. Bellicini e F. Toso, CRESME, Roma 2016, pp. 2-27. 14   Ivi, pp. 2-14 e 2-57. 15  C. Magni, Tra Gando e Berlino, Camillo Magni conversa con Francis Kèré, in «Casabella», n. 873, maggio 2017. 16  J.-L. Touadi, La rinascita africana, in XXI Secolo, Il mondo e la storia, cit., p. 360. 17  A. Mann, Dove si produce oggi la qualità?, in «Casabella», n. 873, maggio 2017.

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Téchne e progetto d’architettura MASSIMILIANO NASTRI

La concezione del progetto di architettura fondata sulla tradizione degli studi intorno al contributo, culturale e operativo, della tecnica si struttura a partire dai riferimenti e dagli orientamenti rivolti a sostenere la combinazione tra i fini (intesi come gli obiettivi e le funzioni) e i mezzi (intesi come i disposti formali e costruttivi) che l’opera architettonica è chiamata ad assumere. A sua volta, secondo la spiegazione di Guido Nardi (nel richiamo all’Estetica, III sezione, di Georg W.F. Hegel), l’opera architettonica è intesa come “attualità assoluta” e trasposizione di finalità esigenziali e culturali in una realtà concreta attraverso un complesso di atti tecnici, nel rispetto dei vincoli e delle possibilità disposte dalla realtà di riferimento: e il legame con la realtà determina le caratteristiche del progetto, che deve essere in grado di prevedere e anticipare le conseguenze delle scelte nel passaggio dal possibile al reale1. Rispetto alla posizione hegeliana assunta nel progetto di architettura, la tecnica agisce verso la “trasformazione” com­plessiva delle finalità espressive e funzionali, delle condizioni operative, produttive e costruttive all’interno della realtà “tecnicamente organizzata” in cui si colloca l’azione progettuale: questa definita come “atto trasformativo” (risultato di “procedimenti tecnologici”), condotto nella sintesi di Walter Gropius tra architectural design e product design e rivolto alla formulazione del “composto architettoni-

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co” (ovvero, l’opera architettonica secondo la definizione posta da Kenneth Frampton quale esito del technology method). Su tali basi, la concezione del progetto di architettura integra le pratiche dell’“agire tecnologico” mentre l’opera architettonica si compone come esito delle procedure di “sistematizzazione” della realtà di riferimento. Queste pratiche di “sistematizzazione” sono articolate, secondo Vittorio Gregotti, come le tecniche materiali, che si riferiscono specificamente alla costruzione nei suoi diversi aspetti: strutturali, di scelta del modo di selezionare e lavorare i materiali, della loro messa in opera, dei sistemi di giunzione e sovrapposizione e dei loro dettagli relativi, le tecniche dell’organizzazione, che riguardano le dimensioni e le sequenze degli spazi abitabili, chiusi o aperti, i loro modi di costituirsi in organismo nello stesso tempo riconoscibile e disponibile agli usi, ma anche le tecniche in quanto modi di costituzione del progetto, individuazione di metodi e procedure delle gerarchie e dei sistemi di comunicazione tra progettista ed esecutore, e, infine, le tecniche organizzative che attengono alla rispondenza tra programma e opera e al controllo produttivo del progetto, le tecniche morfologiche, che riguardano, invece, i criteri e i modi di dar forma e misure ai materiali e di co­stituire fra tutte le parti l’unità (continua o discontinua che sia) dell’opera. Inoltre esse attengono ai modi di rappresentarsi dell’opera nella sua formazione e nel suo risultato2. Nello specifico, le procedure di “sistematizzazione” della realtà di riferimento dirette al progetto di architettura sono così inquadrate attraverso l’attività di “mediazione” eseguita dalla tecnica rispetto alla combinazione inscindibile tra aspetti concettuali, cognitivi e applicazioni esecutive, individuando nell’apporto tecnico una funzione di “mediazione”, equilibrante o, meglio, “armonizzante” verso l’elaborazione teorica e le condizioni operative che da questa discendono. Inoltre, secondo i riferimenti in esame, il progetto di architettura si dispone quale comparto di interazione e di elaborazione “metatecnica” (cognitiva e metodologica) che si


afferma come attività intellettuale e pratica in cui si trovano indissolubilmente legate cultura umanistica e cultura operativo-strumentale, in una prospettiva di analisi che rileva le connessioni interdisciplinari tra la progettualità e i fondamenti del sapere contemporaneo (di carattere filosofico, antropologico ed epistemologico). A tale proposito, come trattato da Silvana Borutti, la concezione aristotelica di téchne permette di trasferire e di legittimare nel progetto di architettura il nesso tra l’elaborazione concettuale, cognitiva e l’azione all’interno della realtà, quale disposizione connessa al mondo pratico dell’azione e al mondo poietico della creazione: questo affermando l’apporto della téchne verso il progetto di architettura quale strumento di conoscenza, secondo l’acquisizione dei “processi di esplorazione” della realtà, come pratica “rivelativa” (ovvero, come supporto per la “trascendenza” della realtà fenomenica in forma osservabile e verificabile) e come pratica di azione3. Il progetto di architettura come conoscenza ed azione L’apporto conoscitivo e pragmatico dovuto al richiamo aristotelico della téchne (nel sostegno “rivelativo”, nella pro­cedura di “trascendenza” e di “presentificazione” della realtà) si propone come strumento di connessione tra la conoscenza e l’azione all’interno del progetto. L’elaborazione progettuale assume così la tecnica per la “funzione operativa”, quale “processo di manipolazione” dei contenuti, dei dati e degli obiettivi del progetto, rivolta all’intervento al­ l’interno della realtà: l’ordinamento delle questioni che riguardano il progetto di architettura, in questo senso, si concreta quale scenario concettuale e operativo definito e organizzato complessivamente dalla tecnica, dall’impostazione culturale e dai relativi procedimenti che questa dispone: si sostiene, a tale proposito, l’affermazione della “cultura” e dell’“essenza” tecnica […] che si esplicano simultaneamente nella teoria e nella pratica, nei fondamenti e nei dispositivi di progetto che diventa in questo modo strumento di azione e di conoscenza4.

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La téchne, come riferimento nell’opera di “mediazione” verso la conoscenza, da una parte, e verso l’azione, dall’altra, si esplicita all’interno del progetto di architettura in forma “funzionale”, secondo la disposizione di conoscenze sulla realtà per individuare, elaborare e rappresentare gli strumenti e le modalità di intervento: e, ancora, si concreta per la funzione razionale di accesso alla realtà, offrendosi quale programma di conoscenza e di comprensione del reale. Il contributo della téchne stabilisce la costituzione del progetto di architettura quale ambito di studio conoscitivo e di azione, laddove la relazione con la tecnica esplicita, oltre agli strumenti e ai criteri concettuali per l’intervento sulla realtà, le modalità per conoscere ed esperire la realtà stessa attraverso l’azione: la téchne si pone quindi nei confronti del progetto di architettura come mezzo dell’“esperienza” (ovvero, l’acquisizione conoscitiva della realtà) e dell’“e­sperimento” (ovvero, l’azione simulata della realtà), manifestandosi nell’interazione con le relative possibilità e vincoli. L’apporto della téchne alla elaborazione del progetto di architettura si struttura secondo la relazione complementare tra teoria e prassi, a partire dall’opera di “disvelamento”: questa intesa come capacità di apprendere e di “disporre” quanto offerto e reso possibile dalla realtà di riferimento, oltre che come capacità nella con-duzione delle conoscenze, delle procedure e dei mezzi verso la pro-duzione. Il carattere “disvelante” della tecnica si esprime, secondo Martin Heidegger, in modo combinato alla pro-duzione in quanto pro-durre si dice in greco τίκτω. Alla stessa radice tec di questo verbo si ricollega la parola τέχνη, tecnica. Essa, per i greci, non significa né arte né mestiere, ma: far apparire qualcosa tra le cose presenti, come questo o quello, in questo o quel modo. I greci pensano la téchne, il pro-durre, in base al “far apparire”. La téchne da pensare in tali termini si nasconde da sempre nell’elemento “tettonico” dell’architettura5. E il carattere “disvelante” della tecnica si rivolge sia al “far-avvenire alla presenza” e a “condurre fuori” le conoscenze dalla realtà, sia all’azione,


come pro-duzione verso la realtà (“utilizzata” dalla téchne), intesa in forma “calcolabile”: l’elemento decisivo della téchne non sta quindi nel fare o nel manipolare, né nel­ l’utilizzare dei mezzi, ma nello svelare. La téchne è produzione […] in quanto svelamento […], non in quanto fabbricazione6. Come ribadisce Maria Giulia Marziliano, l’aspetto decisivo della téchne […] non è tanto la messa in opera di mezzi per fabbricare, quanto il disvelamento […] un disvelare che […] connette la figura (il momento formale) e la materia (il momento tecnico-esecutivo) nella visione compiuta della cosa finita (il momento progettuale ideativo), e determina su questa base le modalità della fabbricazione7. L’apporto della téchne, nella posizione di Eugenio Mazzarella, coinvolge sia la funzione razionale, in accordo al carattere operativo di tipo “calcolante”, come “razionalità poietica”, sia la funzione “finalistica” diretta alla pro-duzione per mezzo dell’“inverarsi del pro-getto”: l’attuazione progettuale degli artefatti è la téchne ed essa significa l’intendersi di ciò su cui si fonda ogni fabbricazione e produzione; l’intendersi di ciò presso cui una produzione […] deve arrivare e finirsi e condursi a compimento8. All’interno di questo scenario, la formulazione del progetto comporta, in accordo al pensiero di Heidegger, la conduzione delle conoscenze verso l’azione e l’analisi intorno alla potenziale disponibilità del reale in modo tecnico, qui intesa come l’acquisizione conoscitiva secondo l’opera di “mediazione” condotta dalla “pragmaticità”. A tale proposito, il contributo di Queraltó Moreno rileva anche il sostegno della téchne verso la “riflessione razionale” e la “razionalità pragmatica” nell’intervento nei confronti della realtà del progetto, laddove il tipo di razionalità svolto dalla tecnica è una forma di razionalità pragmatica “prima facie”, in cui la verità teoretica si trova subordinata alla verità pragmatica. Questo vuol dire che il senso dell’arché cercato […] riguarda in modo primario l’efficacia operativa della conoscenza9.

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Il progetto di architettura come anticipazione della real­tà dell’opera

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Nel richiamo alla configurazione del progetto di architettura diretto alla proiezione, alla visualizzazione e alla simulazione dell’opera, l’apporto della téchne afferma il procedimento di formazione e di “guida” dei contenuti verso la loro attuazione pratica, verso la loro “educazione empirica” e “materializzazione”, secondo la disposizione degli apparati tecnici e strumentali tesi alle verifiche di validità, di correttezza e di fattibilità. A tale proposito, l’operatività finalizzata all’anticipazione dei contenuti progettuali, ovvero in considerazione del “dono” della tecnica offerto da Prometeo, si costituisce mediante l’innesto della temporalità nel progetto di architettura, che diviene “tempo progettuale”, espresso nella prefigurazione di quanto sarà realizzato: la “procedura tecnica”, come spiega Umberto Galimberti, è stabilita in correlazione alla previsione, l’attributo di Prometeo che “vede in anticipo”, [il quale], anticipando l’evento, può stabilire nessi consequenziali tra ciò che vien prima e ciò che vien dopo. In questi nessi si esprime la nozione di causalità. Allora, la “previsionalità razionale” determinata dalla temporalità tecnica si integra alla elaborazione del progetto che si esplicita come tecnica della previsione che anticipa il futuro a partire dalla sua connessione con il presente, mentre i dispositivi progettuali sono formulati tramite “tecniche previsionali” che, cogliendo i nessi consequenziali […] anticipano il compiersi degli eventi e il loro senso e liberano dall’imprevedibilità. In particolare, l’operatività diretta all’anticipazione dei contenuti esecutivi del­ l’architettura assume le peculiarità della téchne attraverso la previsione delle “connessioni tecnicamente praticabili”, mediante l’organizzazione delle conoscenze e degli strumenti secondo pratiche di anticipazione, prevedendo la messa a punto delle procedure in grado di rendere possibile la prefigurazione dell’opera architettonica: con l’azione [si] rivela l’essenza nascosta delle cose, le loro possibilità celate, provocandole e facendo opera di verità (a-létheia)10.


La condizione formulata dalla téchne nei criteri orientati all’anticipazione dell’azione verso la realtà si esprime attraverso la determinazione “prometeica” degli aspetti relativi alla pianificazione esecutiva dell’architettura in quanto il primo dono prometeico è d’altro canto il saper calcolare, il saper misurare, il sapere com-misurare, relazionare adeguatamente, rilevando che l’oggetto della pre-visione metica verrà realizzato nel compimento del fare tecnico. Poi, l’interazione tra l’apporto della téchne e il carattere previsionale dell’azione progettuale è così espressa da Fabrizio Arrigoni: dato fondamentale del progetto è dunque il suo pensare anticipante. Nelle sue pre-visioni esso pre-dispone, pre-costituisce scenari futuri. Esso predetermina l’accadimento che sarà posto in essere trasformando l’evento da monstrum a risultato in analogia serrata con l’agire della tecnica11. La disposizione della téchne offre al progetto i modi orientati all’“anticipazione conoscitiva” e alla “previsione dei fenomeni”, caratterizzati attraverso gli strumenti (ovvero, i dispositivi progettuali) diretti alla modellazione “predittiva” e alla simulazione della realtà mediante forme di “previsione esplorativa”: il carattere previsionale del progetto di architettura (che assume la “funzione anticipatrice” dovuta alla “temporalità tecnica”) si mostra mediante la rilevazione del valore “predittivo” intorno ai fenomeni o all’esperienza ancora non effettuata, fino a considerare la messa a punto di una procedura anticipata di “controllo empirico” dell’opera architettonica. Il riferimento aristotelico consente di sostenere l’anticipazione e la previsione progettuale nei termini dei “principi rivolti alla manipolazione della realtà” e orientati alla realizzazione dell’opera architettonica quale prodotto dalla téchne, dal fare pratico e tecnico, considerando la natura pre-visionale del fare eminentemente tecnico; ossia la natura radicalmente metafisica e della visione originaria e dello scopos. L’elaborazione, secondo il processo di anticipazione e di simulazione della realtà, da produrre e costruire, chiama in causa la proairesis aristotelica (che “racchiude l’operatività calcolante”) in quanto diretta a “possedere in

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anticipo” gli esiti reali del progetto. Si esplicita, in questo modo, come la téchne esprima nel progetto la funzione del “calcolo”, inteso come pratica di analisi inerente all’individuazione, alla verifica e all’impostazione della soluzione “in ordine ai fini prefissati”: durante l’elaborazione progettuale, la tecnica inaugura quell’agire in conformità a uno scopo in cui è riconoscibile il tratto tipico della razionalità, il cui procedere non è regolato dall’arbitrio, ma dal calcolo che valuta l’idoneità dei mezzi in ordine a fini prefissati. La “ragione implicata dalla téchne”, basata sulla potenzialità di anticipare e di prefigurare gli esiti di quanto elaborato, si correla alle situazioni specifiche, peculiari e impreviste, che l’elaborazione del progetto si propone di affrontare sia prima dell’azione, sia in fase di risoluzione delle situazioni di criticità (durante i momenti della produzione, della costruzione e della gestione): a tale proposito, l’elaborazione progettuale implica l’operatività e la capacità tecnico-strumentale a esaminare, ad approfondire e a risolvere le situazioni nel rapporto tra téchne e tyche, ovvero il “caso”. Per questo, osserva Salvatore Di Piazza, l’elaborazione progettuale considera le pratiche di indagine, di comprensione e di attivazione nei confronti di quanto non è prevedibile, non è razionalizzabile, non è addomesticabile dal logos”: la ragione implicata da ogni téchne, ossia il fondarsi, da parte di quest’ultima, su una capacità di vedere ‘non erroneamente’ ciò che sarà […] non garantisce affatto del risultato – in quanto la téchne frequenta per natura l’ambito del possibile, di ciò che è, ma potrebbe non essere, di ciò che è frequentato anche da tyche, dal caso12. Il progetto di architettura come sapere pratico-strumentale

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L’elaborazione del progetto di architettura evoca, in accordo ai riferimenti a sostegno del contributo offerto dalla téchne, sia l’acquisizione sia l’applicazione della capacità “poietica” tesa alla “manipolazione” dei contenuti, dei dati e delle finalità progettuali, alla sperimentazione, anticipata e “calcolata”, del momento pratico dell’azione, e alla piani-


ficazione esecutiva, per mezzo dell’espressione della “ragione calcolante” e dell’“astuzia” prometeica. Attraverso il richiamo alla concezione aristotelica, secondo l’azione technica, ciò che fa il technítes (il portatore di téchne), ciò che è compreso nella sua conoscenza (le forme e la materia) si articola mediante due tipologie di téchnai. Queste sono disposte a partire dalla tipologia intesa come “téchne d’uso”, come acquisizione conoscitiva ed esplicitazione delle forme e delle relative funzioni, delle procedure di produzione e di costruzione, comportando i modi rivolti a governare i criteri per l’effettiva realizzazione (per cui, evidenzia Ferruccio Franco Repellini, secondo Aristotele, chi possiede la téchne d’uso è, per esempio, il timoniere, che conosce qual è la forma del timone e la prescrive). Poi, la tipologia intesa come “téchne che nella produzione dirige la costruzione” riguarda l’acquisizione conoscitiva di quanto offerto dalla realtà di riferimento, con l’obiettivo di dirigere e di guidare tale conoscenza verso il governo dell’effettiva realizzazione: il capo costruttore, colui che si occupa della produzione, conosce da quale legno e da quali mutamenti il timone sarà prodotto. Quindi, la téchne che dirige la costruzione, essendo produttiva, è conoscitiva della materia13. La competenza esecutiva del progettista (il “timoniere”) consiste nella elaborazione formale e funzionale appropriata, in qualità di technítes capace dell’azione di costituzione espressiva, morfo-tipologica e strutturale, di coordinamento, di pianificazione e di guida nei confronti del “costruttore” (“di timoni”): il progettista (ovvero, il “timoniere”) risulta capace di stabilire e di mettere a punto sia gli strumenti sia i criteri necessari a visualizzare e a comunicare le “disposizioni in proposito”; il “costruttore” (“di timoni”) è, a sua volta, competente sia sulla materia da impiegare nella produzione e costruzione (“da quale legno”), sia sulle operazioni produttive da compiere (ovvero, “da quali movimenti si avrà il timone”). La capacità operativa e il sapere pratico-strumentale disposti dal progettista, competente rispetto alla forma idonea alla funzione d’uso, si manifestano attraverso le procedure di composizione, di coordinamento,

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di comunicazione e di realizzazione finalizzate alla produzione e alla costruzione. Come rileva Nardi, in questo modo, la téchne d’uso e quella che nella produzione dirige la costruzione sono entrambe conoscitive, cioè si elevano al di sopra della loro stessa routine pratica, della stessa abitudine meccanica e diventano procedimento riflessivo nella loro conoscenza, rispettivamente, della materia e della forma/funzione. In particolare colui che possiede la téchne d’uso – il timoniere, che nella dizione aristotelica appare anche come esperto e progettista […] – è colui che conosce la forma e conosce la funzione, e detta le operazioni sulla materia, cioè dice agli artigiani che cosa fare, quindi anche chi usa (il timoniere) dirige la costruzione e ha conoscenza della materia. Si incomincia a delineare, attraverso questa lettura, una classificazione “an­tropologica” della téchne, come di un processo allo stesso tempo di produzione, di assemblaggio e di uso, e viene al contempo negata la possibilità che esista una progettualità divisa dall’uso e dall’esecuzione: si conosce tutto solo nella téchne14. La formulazione intellettuale e pragmatica del technítes si associa alla figura del tekton descritto da Frampton quale progettista abile nella elaborazione “poietica”, disvelante, e nella pro-duzione dell’architettura, rilevando la designazione, da parte del termine, di “una categoria estetica piuttosto che tecnologica”, in cui l’opera architettonica si manifesta attraverso l’“arte tettonica” conseguente alle connessioni morfo-tipologiche, strutturali, funzionali, produttive e costruttive (in accordo alla posizione filologica di Adolf Heinrich Borbein). Frampton sottolinea l’integrazione tra i criteri applicativi e l’espressione “poietica”, anzi marcando il passaggio dall’esecuzione pratica, tecnica e strumentale verso la composizione artistica dell’architettura: per cui non appena viene individuata e definita una prospettiva estetica – e non un obiettivo di utilità – in grado di specificare l’operatività e l’applicazione del tekton, l’analisi consegna il termine “tettonica” a un giudizio estetico. La figura e l’operatività del progettista, su queste basi, si articolano


rispetto all’accezione aristotelica di àrchi-tékton, che combina il “responsabile del principio” dell’architettura e del “comando” alla pianificazione esecutiva, con il tékton, che osserva le competenze diretta alla costruzione15. Inoltre, la capacità operativa e il sapere pratico-strumentale disposti dal progettista dell’architettura si esprimono rispetto all’azione progettuale caratterizzata dall’escogitare astuzie ed espedienti (quali vere e proprie “macchinazioni”, designate dal “tramare”, dal mettere in opera artifizi e, appunto, dall’“architettare”), dall’“ordire” e dal “macchinare” gli “espedienti operativamente ingegnosi” rivolti alla risoluzione espressiva e costruttiva: e la “mediazione” disposta dalla téchne, quale struttura conoscitiva orientata all’azione pratica, procede con la messa a punto della “strumentalità finalizzata” propria dell’homo faber, orientata alla formulazione di procedimenti e di modalità operative per l’intervento verso la realtà e la realizzazione concreta. La prassi riferibile all’homo faber è poi finalizzata, integrata al prodursi della realtà e si pone in forma decisionale, “calcolante” e previsionale in accordo alla “struttura della proairesis” e all’“ente pre-calcolato” che consiste nella costruzione dell’architettura: la competenza e l’operatività del progettista si precisano, quindi, mediante l’acquisizione della virtù della razionalità pratica, in cui consiste per l’appunto la téchne, che permette di attuare le potenzialità produttive.

1  G. Nardi, Struttura come costruzione, in G. Nardi, a cura di, Aspettando il progetto, Angeli, Milano 1997, pp. 53-54. 2  V. Gregotti, Architettura, tecnica, finalità, Laterza, RomaBari 2002, p. 5. 3  S. Borutti, Filosofia delle scienze umane. Le categorie dell’Antropologia e della Sociologia, Bruno Mondadori, Milano 1999, pp. 99-100. 4  G. Nardi, Sull’innovazione e sull’architettura per sistemi, in R. Giuffrè, a cura di, I linguaggi della riabilitazione, Rubbettino, Catanzaro 2003, p. 17. 5  M. Heidegger, Costruire abitare pensare, Neue Darmstädter Verlagsanstalt, Darmstadt 1951 (tr. it. di G. Vattimo, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 106-107). 6  M. Heidegger, Die Frage nach der Technik, in Vorträge und

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Aufsätze, Günther Neske, Pfullingen 1953 (tr. it. di G. Vattimo, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, cit., p. 10). 7  M.G. Marziliano, Téchne & Architettura. Attualità del pensiero aristotelico per l’arte di edificare, Libreria Clup, Milano 2002, p. 23. 8  E. Mazzarella, Tecnica e Metafisica. Saggio su Heidegger, Guida, Napoli 20022, p. 286. 9  R. Queraltó Moreno, Razionalità tecnica e mondo futuro. Una eredità per il terzo millennio, Angeli, Milano 2002, p. 127. 10  U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, p. 81, p. 85, p. 103. 11  F.F.V. Arrigoni, Progetto, note sulle riflessioni di Massimo Cacciari, in F.F.V. Arrigoni, Note su progetto e metropoli, Firenze University Press, Firenze 2004, p. 14. 12  S. Di Piazza, Téchne e tyche in Aristotele. Una strana relazione, in «Studi Filosofici», XXXIII, Bibliopolis, Napoli 2010, p. 16, p. 72. 13  F. Franco Repellini, Aristotele. Fisica, Libri I e II, Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 86. 14  G. Nardi, Struttura come costruzione, cit., p. 56. 15  K. Frampton, Studies in Tectonic Culture, The MIT Press, Cam­ bridge, Mass. 1999 (tr. it. di M. De Benedetti, Tettonica e architettura, Skira, Milano 1999, p. 21, p. 22).

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Riflessioni sulla 57ª Biennale di Venezia e Documenta 14 a Kassel ALESSANDRA TRONCONE

Un viaggio compresso, un viaggio verso l’Oriente o verso l’Africa che il visitatore della mostra intraprende nell’arco di una giornata1. Così Lawrence Alloway descrive nel 1968 l’esperienza di una grande mostra quale la Biennale di Venezia, ponendo l’accento su due delle componenti fondamentali della manifestazione: la condensazione di spazi e tempi e l’internazionalizzazione. Visitare la Biennale di Venezia è ancora così, eppure negli ultimi cinquant’anni molto è cambiato nella definizione stessa del concetto di Biennale, complice la globalizzazione del sistema dell’arte che ha visto la proliferazione del modello biennale secondo luoghi, tempi e modi diversi, ma sempre facenti capo a una mission comune: presentare al pubblico la produzione artistica del presente e le problematiche con cui la ricerca artistica si confronta oggi. Fenomeni, quelli dei musei mostrifici e della biennalizzazione, che incarnano un processo di sovraesposizione e spettacolarizzazione dell’opera, dell’artista e finanche del curatore, di cui l’attuale sistema dell’arte sembra essere costantemente affamato. Un’analisi dei due più importanti eventi di arte contemporanea che si tengono in questo 2017, la Biennale di Venezia arrivata alla sua cinquantasettesima edizione e la Documenta di Kassel che approda alla sua quattordicesima, non può non tener conto di una riflessione generale sul modello biennale e sulla necessità istituzionale e curatoriale di inter-

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rogarsi sulla sua stessa natura, su quanto sia necessario preservare una struttura riconoscibile e codificata e quanto invece occorra guardare a possibili istanze di rinnovamento perché la Biennale di Venezia o la Documenta non diventino «solo un’altra mostra»2 nella già complessa mappa espositiva globale. Non un museo, non una fiera, non un festival, il format biennale incarna e tiene insieme modelli espositivi differenti, attingendo a tematiche transnazionali con l’ambizione di offrire uno spaccato del mondo attraverso lo sguardo dell’arte. Proprio attorno all’esistenza di un format applicabile ai contesti più diversi ruotano i termini del dibattito tra locale e globale, centro e periferia. Lo illustra bene Elena Filipovic nel suo articolo The Global White Cube3 osservando come il white cube, l’asettico e sterile spazio espositivo dalle pareti bianche, sia la formula che garantisce e legittima l’appartenenza a un dato sistema con la conseguenza di far perdere completamente le coordinate geografiche: che ci si trovi alla Biennale de l’Avana piuttosto che a quella di Gwangju, a Lione piuttosto che a Istanbul, a Marrakech piuttosto che a Sydney, il cubo bianco si pone come strumento per una nuova forma di colonialismo culturale che, nonostante la località esotica, riafferma un’idea eurocentrica del sistema dell’arte. Anche in virtù di que­ste riflessioni, sempre più le biennali tendono a una formula diffusa all’interno delle città che le ospitano, alla ricerca di sedi parallele dagli spazi già connotati (edifici industriali, stazioni in uso e in disuso, esercizi commerciali, chiese, luoghi abbandonati, persino hammam turchi) che aiutino a rifuggire l’estetica del white cube, generalmente riservata alle sedi principali. Questioni di tal genere costituiscono oggi il background di qualsiasi approccio all’idea stessa di biennale, e ancor più, alla Biennale di Venezia, storica istituzione fondata nel 1895, e alla Documenta di Kassel, manifestazione che dal 1955 si tiene ogni cinque anni, nata sulle macerie della seconda guerra mondiale e dall’esigenza di riabilitare un discorso sull’avanguardia artistica. Due realtà fondamentali nello scacchiere dell’arte contemporanea che, nel corso dei


decenni, si sono guardate, annusate, confrontate a distanza per tornare a ragionare su se stesse e sul proprio significato, con un passaggio chiave avvenuto negli anni Settanta quando, dopo la Documenta 5 del 1972 curata da Harald Szeemann, la Biennale di Venezia risponde nel 1976 con Ambiente/Arte di Germano Celant, prima mostra tematica nel contesto di una biennale frammentata nei suoi padiglioni nazionali, inaugurando una nuova storia e un nuovo “modello”. Quaranta anni più tardi, il curatore ha assunto un ruolo centrale, e non (solo) per la scelta degli artisti, ma per l’enunciazione di uno statement da rintracciare nelle opere, nella loro collocazione e nei singoli temi che queste mettono in campo. È del curatore la responsabilità di far funzionare la macchina, concettualmente e visivamente; e, in questo 2017, né Christine Macel, curatrice della Biennale di Venezia, né Adam Szymczyk, direttore artistico di Documenta sono riusciti a convincere pienamente, per motivi diversi. VIVA ARTE VIVA è il titolo che Macel ha scelto per la 57ª Biennale di Venezia; un titolo che si presenta come un’esclamazione, insistendo su uno slancio appassionato per l’arte e, in particolare, per la figura dell’artista. L’arte di oggi, di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo, testimonia la parte più preziosa dell’umanità, in un momento in cui l’umanesimo è messo in pericolo. Essa è il luogo per eccellenza della riflessione, dell’espressione individuale e della libertà, così come degli interrogativi fondamentali, afferma Macel4. Sulla crisi dell’umanesimo e l’invenzione di un nuovo umanesimo si fonda il progetto della curatrice, articolato in nove trans-padiglioni che occupano le due sedi della mostra internazionale ai Giardini e all’Arsenale. L’introduzione del concetto di trans-padiglione è già di per sé significativo nel tentativo di scardinare la rigidità della struttura stessa della Biennale di Venezia e del suo articolarsi in Padiglioni nazionali, elemento che ne costituisce la specificità ma al tempo stesso ne sottolinea la vena anacronistica. Già nel 1969, un articolo apparso in Stu-

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dio International denunciava la natura obsoleta, di matrice ottocentesca, e «l’impossibilità del sistema Biennale», ancorato a una divisione per nazioni quando era chiaro si stesse andando verso una concezione dell’arte sovranazionale5. A partire da questa innata contraddizione – il nuovo nel contenitore del vecchio – in molti hanno avanzato proposte per creare una maggiore fluidità che rispecchiasse il mondo contemporaneo; non è un caso che nelle ultime edizioni si è spesso assistito a “scambi” e “adozioni” tra padiglioni nazionali, mentre, all’interno della mostra internazionale, nel 2011 la curatrice Bice Curiger già proponeva un’idea trasversale del concetto di padiglione invitando quattro artisti (Monika Sosnowska, Franz West, Song Dong e Oscar Tuazon) a creare dei Para-padiglioni, grandi strutture scultoree all’interno delle quali ospitare opere di altri artisti. Tuttavia, i trans-padiglioni di Christine Macel non insistono tanto sulla trasversalità geografica quanto su quella tematica, proponendosi come capitoli o episodi di un’unica narrazione. Il Padiglione degli Artisti e dei Libri, delle Gioie e delle Paure, dello Spazio comune, della Terra, delle Tradizioni, degli Sciamani, dei Colori, del Tempo e dell’Infinito insieme a quello Dionisiaco, disegnano uno scenario che ambisce a tratteggiare una complessità che tuttavia si risolve in un prodotto molto, se non troppo, amalgamato, complice la reiterazione di procedimenti e opere molto simili tra loro. L’accento sulla processualità della pratica artistica e la volontà di scandagliarla nei suoi retroscena e nelle sue manifestazioni – vanno in questa direzione anche le sezioni collaterali Tavola aperta, dedicata ad incontri tra pubblico e artisti, e La mia biblioteca, una selezione delle letture preferite indicate dagli artisti in mostra – lascia emergere un focus molto preciso su quelle pratiche che coinvolgono comunità in vista di una produzione collettiva. Da un punto di vista prettamente estetico, tale ricerca di relazionalità si traduce spesso in un’abbondanza di opere che utilizzano la trama visiva, l’intreccio di fili e di tessuti, come metafora di una rete sociale. Succede quindi che la vicinanza di artisti che utilizzano pratiche e materiali simili funzioni molto be-


ne nel rendere chiaro lo statement curatoriale, ma con il rischio di lasciare in secondo piano le singole specificità, soprattutto in termini di radici personali, storiche e geografiche, degli artisti coinvolti. Il bagaglio culturale, concettuale e materico, della Sardegna di Maria Lai (1919-2013), oggetto dei suoi Telai ma anche della performance Legarsi alla montagna (1981) documentata in mostra, si trova così a condividere lo spazio con The Mending Project di Lee Ming­wei (Taiwan, 1964), un’installazione costituita da un tavolo e da una parete di fili colorati che servono a riparare vestiti o tessuti strappati portati dal pubblico, vicinanza che enfatizza un’affinità che parte da premesse molto diverse. Ancora il tessuto come materiale è al centro di numerose opere che si incontrano percorrendo la navata dell’Arsenale; tra queste ritroviamo A Stitch in Time, progetto itinerante iniziato nel 1968 da David Medalla (Filippine, 1938) basato sul ricamo in gruppo come atto creativo; le farfalle notturne di Petrit Halilaj (Kosovo, 1986), sculture performative realizzate con tessuti tradizionali kosovari; l’installazione di Cynthia Gutiérrez (Messico, 1978), opere tessili provenienti dalla provincia messicana di Oaxaca che richiamano delle bandiere, associate a blocchi di pietra in modo da suggerire una nuova idea di monumentalità, precaria e meticcia; i berretti di lana marocchina di Younès Rahmoun (Marocco, 1975) che racchiudono lampade creando una luce soffusa che allude alla possibilità di uno svelamento. Se la tessitura, nelle sue varie forme e in accordo con un processo relazionale, appare come il leitmotiv all’interno della mostra ordinata all’Arsenale, nella sede dei Giardini la selezione delle opere tiene conto dell’idea di documento storico e prende forma nel ricorrente utilizzo di libri o riferimenti alla storia dell’arte, per una riflessione che investe la tradizione e le sue forme di trasmissione, nonché l’eredità del modernismo, in modo da particolare da parte della generazione più giovane. Agnieszka Polska (Polonia, 1985) presenta un video ispirato a Borowski, artista polacco impegnato in una pratica concettuale e performativa che diviene il punto di partenza per interrogarsi sulla valenza dell’archi-

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vio; Ciprian Muresan (Romania, 1977) è in mostra con i suoi disegni a matita di grandi dimensioni, costruiti come palinsesti di riproduzioni di grandi maestri della storia dell’arte; Taus Makhacheva (Russia, 1983) ci tiene con il fiato sospeso davanti al suo video nel quale un funambolo trasporta sessantun copie di opere d’arte provenienti dal Museo del Daghestan da una montagna all’altra, camminando in equilibrio precario su una corda; Hajra Waheed (Canada, 1980) ricostruisce un romanzo visivo attraverso l’uso di diapositive, raccontando la scomparsa di un centinaio di pellegrini provenienti da Calcutta sulla strada per l’Hajj nel 2011. La memoria storica, il senso dell’archivio, il rapporto con l’arte del passato sono elementi ricorrenti che danno vita a un’interessante varietà di approcci. La Biennale di Venezia non è solo la mostra internazionale ma, appunto, la sua specifica articolazione in Padiglioni nazionali che intende offrire uno spaccato di quanto le sempre più numerose nazioni partecipanti producono da un punto di vista culturale. Non potendo citarli tutti, ci limiteremo a menzionare quelli che, a parere di chi scrive, hanno sollevato le questioni più interessanti. Nel Padiglione co­ reano, l’impressionante lavoro di Lee Wan, Proper Time, mette davanti alla soggettività del tempo; a partire da un algoritmo che tiene conto di età, provenienza, luogo di residenza e posizione lavorativa, l’artista calcola il ritmo di vita dei soggetti più diversi lasciando che lo spettatore visualizzi, attraverso un’installazione ambientale composta di orologi a parete, la velocità delle lancette di ognuno che corrisponde a un “proprio” tempo. Nel Padiglione austriaco, Erwin Wurm invita lo spettatore a “performare” le proprie sculture, dando istruzioni su quale posizione mantenere per un minuto e aprendo così la fissità della scultura all’imponderabilità dell’azione da parte del pubblico. Nel Padiglione francese, Xavier Veilhan crea uno studio di registrazione e di esibizione musicale invitando musicisti da ogni parte del mondo ad alternarsi durante tutta la durata della mostra. Nel Padiglione sudafricano, Candice Breitz presenta Love Story, un’installazione video che dà voce alla storie di sei per-


sone che hanno dovuto lasciare il proprio paese a causa di regimi oppressivi. Il Padiglione Italia, sotto il titolo Il mondo magico ispirato all’omonimo libro dell’antropologo Ernesto de Martino, dà spazio a inedite produzioni dei tre artisti Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey facendo leva su una spettacolarità forse esasperata, ma in fin dei conti convincente, che offre un’inedita immagine del padiglione stesso trasfigurandone gli spazi. Infine nel Padiglione tedesco, il più acclamato di questa Biennale, Anne Imhof costringe a fare i conti con le ansie che governano il nostro vivere contemporaneo, proiettandoci in un ambiente sterilizzato a suon di plexiglass dove performer come automi mettono in scena, rendendolo visibile, un disagio esistenziale tutto contemporaneo ispirato al Faust di Goethe. Dalla Germania in laguna a quella “reale” passa poco meno di un mese, il tempo che separa l’opening della Biennale da quella di Documenta 14 a Kassel. In realtà, Documenta 14 aveva già inaugurato ad aprile la sua mostra ad Atene, aprendo un dibattito destinato ad alimentarsi ulteriormente durante l’apertura tedesca. Nelle intenzioni del direttore artistico Adam Szymczyk, l’asse Kassel-Atene, Germania-Grecia, si inserisce in una linea di continuità con le radici storico-politiche di Documenta. Quando nel 2013 il curatore aveva sottoposto il suo progetto, la situazione economica greca si presentava come uno dei problemi più pressanti per l’Unione Europea. The implicit or explicit theme was that Greece is a backward country, not up to European standards. That attitude was ironic, to say at least, considering that classical Greece, so widely held to be the cradle of civilization, was a touchstone in the formation of German national consciousness, spiega Szymczyk in un’intervista6. Il concept, incarnato dal titolo Learning from Athens, insiste dunque sulla possibilità di trasformare Documenta in un’occasione di dialogo tra due nazioni europee agli estremi opposti in un dato momento storico, creando i presupposti per un’azione di produzione culturale che abbia dei riverberi anche sulla sfera sociale e politica. In tal senso,

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Documenta 14 è anticipata da una serie di pubblicazioni e da un intenso public program dal titolo The Parliament of Body che hanno il ruolo di preparare il terreno e affrontare la complessità degli argomenti trattati. Tutta l’operazione, sulla carta così ambiziosa, ha sollevato polemiche in buona parte ruotanti attorno all’idea di un contemporaneo colonialismo, laddove il paese “ricco” va in quello “povero” a insegnare come si fa ad allinearsi a un sistema e un dibattito internazionali, non senza opposizioni da parte degli autoctoni. Come si riflette tutto questo nel momento espositivo? Non potendo azzardare un’analisi sulla mostra di Atene, ci soffermiamo su quella di Kassel, che accoglie i visitatori all’insegna di un gigantesco Partenone installato nel mezzo della Friedrichsplatz (The Parthenon of Books, 1983-2017), dove migliaia di libri proibiti costruiscono colonne neoclassiche. Un progetto dell’artista Martha Minujin presentato per la prima volta a Buenos Aires nel 1983 e riproposto in questa occasione nella stessa piazza dove, nel 1933, i nazisti diedero al rogo duemila libri nella “Aktion wider den undeutschen Geist” (Campagna contro lo spirito non-tedesco). Un’opera che concettualmente e formalmente crea un forte legame tra le due nazioni coinvolte, ma al tempo stesso insiste su una spettacolarizzazione per certi versi forzata e ingombrante. Dalla piazza si passa a visitare il Fridericianum, una delle sedi storiche di Documenta. Qui le opere esposte provengono dalla collezione del National Museum of Contemporary Art (EMST) di Atene, di passaggio in attesa che il nuovo edificio destinato ad ospitarle in Grecia sia terminato. Documenta diventa così la vetrina di una collezione museale, che anche nell’allestimento non nasconde la sua natura, con una marcata presenza di artisti greci di generazioni diverse. Tra i lavori più affascinanti, quello di Stefanos Tsivopoulos, Precarious Archive, nel quale ritorna l’idea dell’archivio e della sedimentazione della memoria storica ma in una maniera estremamente vitale, perché performata; materiali d’archivio sono infatti “attivati” da performer che li proiettano, li leggono ad alta voce e interrogano il pubblico sulle immagini e il loro possibile significato.


In generale, al di là di alcuni lavori più o meno interessanti, l’operazione nel complesso lascia un po’ storditi, proprio perché Documenta – e in generale il format Biennale – dovrebbe incarnare un modello espositivo differente e alternativo rispetto al museo o alla Kunsthalle, mentre questa scelta contravviene al processo di liberazione dall’estetica museale e anzi la rafforza. Volendosi porre come un’operazione di rottura, appare invece profondamente conservatrice nei modi e nei fatti e lascia tutti con una domanda bruciante; era questo il giusto modo per attivare il dialogo e lo scambio promesso dal progetto curatoriale? L’impressione generale sulla mostra va migliorando una volta che ci si allontana da Friedrichsplatz. Alla Neue Neue Galerie si entra più nel vivo delle questioni che la mostra vuole affrontare, e stavolta attraverso lo sguardo degli artisti e delle opere. Tra gli altri, Roger Bernat (Spagna, 1968) crea un inquietante raffronto tra l’agorà greca e il Thingspiel, luogo di intrattenimento nazista, spiegato attraverso un pannello esplicativo e un video; The Society of Friends of Halit, un gruppo interdisciplinare, presenta una documentazione che attesta le ricerche compiute a seguito dell’omicidio di Halit Yozgat, immigrato ventunenne, avvenuto a Kassel nel 2006 ad opera di un gruppo neonazista, punto di partenza per una riflessione sull’immigrazione e le sue conseguenze nel tessuto sociale. La stessa struttura della Neue Neue Galerie, un ex ufficio postale, favorisce il dialogo tra le opere e lo spazio. Inizia a delinearsi meglio un filo conduttore, che lega alcuni temi principali alla natura stessa delle sedi scelte per questa edizione di Documenta; così se l’ex ufficio postale raccoglie riflessioni sul movimento delle persone e delle merci, sulle possibili intersezioni e scambi (l’immigrazione appare in questo contesto un tema portante), l’Ottoneum, ovvero il museo di storia naturale di Kassel, è (debolmente) concentrato sul “teatro della terra” e il Museo dei fratelli Grimm appare saldamente e convincentemente ancorato alla favola e al linguaggio, con opere significative di Roee Rosen (Israele, 1963), che ricostruisce la storia del Mercante di Venezia in una serie di disegni, e di

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Susan Hiller (Stati Uniti, 1940), che dà voce a quelle lingue autonome che rivendicano una propria indipendenza in un’installazione audio-video. Lo Stadtmuseum Kassel offre una performance di Regina José Galindo (Guatemala, 1974) che pone il suo corpo come bersaglio all’interno di un poligono dove lo spettatore è invitato a mirare e sparare, e il video A View from Above di Hiwa K (Iraq, 1975) nel quale la perfetta conoscenza di una città kurda distrutta dalla guerra è la prova che un uomo deve sostenere per dimostrare la propria condizione di rifugiato e ottenere così diritto d’asilo. L’opera assume un significato ancor più potente in relazione a una maquette facente parte della collezione dello Stadtmuseum che presenta la città di Kassel parimenti distrutta all’indomani della seconda guerra mondiale. Infine, la Neue Galerie, altra sede storica di Documenta, si presenta come il luogo dove tirare le fila tra le varie sedi satellite; qui ricorrono i temi portanti della mostra, tra i quali immigrazione, gender, identità, discriminazione, educazione. Le irriverenti lezioni di educazione sessuale di Annie Sprinkle (Stati Uniti, 1954), i disegni progettuali di Geta Bra¨tescu (Romania, 1926), accompagnati da un’azione in video (l’artista è presente anche alla Biennale di Venezia, con una ricca mostra presso il padiglione nazionale rumeno), le toccanti immagini di Lorenza Büttner (1959-1994), transgender dalle braccia mutilate che posa davanti all’obiettivo fotografico con tutta la sua sensualità, il video The Secret School di Marina Gioti (Grecia, 1972) che attingendo a found footage storico racconta modelli educativi alternativi, costellano un percorso in generale interessante e ben costruito, fatta eccezione per la penuria di informazioni sulle opere esposte. Partita in sordina con la visita al Fridericianum, Documenta 14 risveglia l’interesse a poco a poco, e lo fa non in virtù di questa sua ambizione politica, declinata a volte in maniera troppo confusa, ma grazie alla forza di alcuni artisti che riescono a intavolare questioni cocenti senza scadere nel coup de théâtre ma ricorrendo a gesti poetici. In conclusione, se la mostra internazionale della 57ª


Bien­nale di Venezia tende a scivolare in una dimensione troppo formale, complice la reiterazione di formule e schemi, Documenta 14 che vorrebbe presentarsi, al contrario, come una presa di posizione politica, riesce nel suo intento solo parzialmente e attraverso la voce di alcuni artisti e opere che hanno il merito di risvegliare un’edizione altrimenti troppo piatta, soprattutto tenendo conto delle aspettative. Una formula giusta è sicuramente ardua da trovare, ma forse ad essere ripensato dovrebbe essere il format della grande mostra internazionale, che nella pluralità di voci messe in campo tende a frammentarsi in discorsi generici perdendo di organicità e lasciando irrisolte troppe questioni, facendo da palcoscenico per tutti e per nessuno, e rischiando di diventare solo “un’altra mostra” nell’ormai infinito panorama dell’offerta espositiva a livello mondiale.

1  L. Alloway, The Venice Biennale 1895-1968: From Salon to Goldfish Bowl, New York Graphic Society, Greenwitch Connecticut 1968, p. 38. 2  F. Martini - V. Martini, Just Another Exhibition. Storie e politiche delle biennali, Postmedia, Milano 2011. 3  E. Filipovic, The Global White Cube, in «On Curating», Issue 22, aprile 2014, pp. 45-63. 4  C. Macel, Viva Arte Viva, guida breve, La Biennale di Venezia 2017, p. 38. 5  J. Russel, Ciao, with Friendship, in «Studio International», luglio-agosto 1969. 6   Civilization and its discontents. Adam Szymczyk talks with Michelle Kuo about Documenta 14, in «Artforum», vol. 55, n. 8, aprile 2017, p. 71.

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Didattica e design, dal learning by doing al learning by design PIETRO NUNZIANTE

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L’idea di Design come prodotto totale1 era emerso nel dibattito teorico a cavallo degli anni sessanta del novecento, quando l’ICSID (International Council of Societies of Industrial Design)2 si pose l’obiettivo di organizzare, a livello internazionale, una rete di operatori, progettisti e industrie per poter aiutare la diffusione di buon Design, promuovere iniziative per consolidare la cultura del Design e rinforzare la sua relazione con il mondo produttivo. La cultura del Design è diventata via via più rilevante, configurandosi come autonoma gradualmente, a partire dall’ampliamento della produzione industriale e dalla nascita di nuove categorie merceologiche. Il Design ha conquistato così un ruolo essenziale per l’intera cultura industriale, contribuendo ad immaginare soluzioni più evolute, concepire nuovi prodotti e modi più efficienti ed etici di pensare l’industria, orientandola sempre più al servizio di bisogni umani e contribuendo alla sua trasformazione. In questo quadro l’avvento del digitale ha rafforzato la funzione del Design come disciplina rivolta alla concezione e formalizzazione degli oggetti quotidiani e degli artefatti immateriali e comunicativi. La crescita di consapevolezza e funzione che accompagna lo sviluppo di una teoria del Design gravita attorno al problema della formazione dei progettisti/designer, alla definizione di un profilo adatto alla tecnologia dell’epoca, agli


scopi e modi del sistema industriale. Come aggiornare le competenze e definirne lo strumentario di conoscenza, quali curricula formativi e quale metodologia didattica debba essere applicata all’insegnamento del Design sono oggetto di discussione tra gli addetti ai lavori in modo costante già dalla seconda metà dell’ottocento3. Ma fino all’avvento della società dei consumi il Design era inteso come mix di differenti discipline che dovevano sostanziare la formazione di un profilo di progettista capace di definire la forma dei prodotti, da un punto di vista artistico. Peter Behrens nel 1910, aveva intitolato la sua riflessione teorica Arte e tecnica4, quando era impegnato nella riforma del Deutsche Werkbund. Riflettendo sull’emersione di idee di progettazione, ponte tra gli aspetti culturali e la tecnica, in una realtà sociale ed industriale dove queste assumevano uno spessore e impatto per il contesto, scriveva: questa rinascita delle arti applicate è uno dei segni più confortanti della produttività estetica della nostra epoca; e ancora nello stesso scritto sosteneva che la tecnica non può essere concepita a lungo come fine a se stessa, ma essa assume valore e importanza proprio quando viene riconosciuta come mezzo primario di una cultura. Ma una cultura matura si esprime solo col linguaggio dell’arte5. La polarità cultura/tecnica ci fornisce elementi per una più chiara concezione di ciò che si può intendere con il termine cultura del progetto. Se per tecnica consideriamo l’insieme dei sistemi tecnici, vale a dire delle procedure e delle metodologie utili alla realizzazione di artefatti materiali tangibili, per cultura intendiamo i metodi, gli obiettivi e le convinzioni generate dalla produzione immateriale, dalla tradizione, dalla sfera dei consumi o della produzione, legati alla trasmissione della cultura materiale. L’accostamento dei termini cultura e tecnica ha svolto, nel corso della storia delle discipline, un’importante funzione; in primo luogo la dualità delle categorie utili alla disciplina del design ha aiutato a comprendere i legami tra fattori che concorrono a rendere realizzabili e concrete l’applicazione produttiva e costruttiva di prodotti, e la simultanea

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costruzione attorno a ciò di valore. Su questo punto viene in aiuto ciò che già nel 1900 Simmel aveva sottolineato: ciò che veramente importa non è l’illuminazione ma ciò che essa ci permette di vedere meglio; nell’autentica ebbrezza suscitata dai trionfi delle tecniche telegrafiche e telefoniche, si trascura spesso il fatto che ciò che importa è il valore di ciò che si comunica, e che rispetto a questo la velocità o la lentezza del mezzo di trasmissione è un problema secondario6. Il valore di ciò che si comunica sembrava a Simmel qualcosa di indipendente da quantità e intensità; è chiaro che qualità e quantità sono misure indiscutibilmente distinte, ma entrambe concorrono a generare sostanziali cambiamenti nei valori, esse influenzano il modo in cui l’industria e la tecnologia sono entrate nella vita ordinaria e quotidiana delle persone e come questo stia trasformando l’intera società. Descrivere come queste, la tecnica e la cultura, rappresentino due classi distinte di fenomeni, intrinsecamente dipendenti è un punto irrinunciabile per la ricerca sul Design. Ciò non significa che la prima, la cultura, preceda la seconda, la tecnica; vale a dire che la cultura del Design anticipi le tecniche in uso nel Design, mediante un nesso di causalità, quanto che i fattori fisici, materiali e ambientali concorrano alla costituzione di una cultura così come la produzione immateriale e immaginaria sia riconoscibile come componente propulsiva per la ricerca e realizzazione di soluzioni, oggetti e prodotti nuovi. Il Design si qualifica nel creare le condizioni per concepire lo spazio, l’ambiente e gli strumenti per il futuro, al fine di dare risposta a esigenze e usi nuovi, a comportamenti e modi di abitare emergenti; a dare forma al mondo (necessità, bisogni e comportamenti) in modo tangibile. Questo campo delimitato, per un verso caratterizzato dall’atopicità dei suoi prodotti e dalla universalità dei suoi effetti, determina il contesto in cui i modi di vivere, i sistemi di comunicazione e le cose che si usano rappresentano la delimitazione dell’area in cui agisce l’attività precipua di Design.


Il rapporto dimensionale tra l’attività progettuale e quella produttiva, il campo d’intersezione che esse producono una volta realizzate, in modi di uso e consumo determinano i punti di riferimento di una ricerca su prodotti e oggetti di cui è fatta la vita quotidiana e grazie alla Design Research7, una delle chiavi per comprendere il presente storico. La cultura e la tecnica risultano legate da una circolarità che rende il loro rapporto la componente portante dell’attività progettuale, così come di quella che ne scaturisce: quella appunto produttiva e d’uso. La riflessione sul ruolo della tecnica nella formazione della cultura, e su quello della cultura come elemento propulsore della tecnica sono la radice stessa dell’attività progettuale, del pensiero critico e dello studio storico. Il concetto di digitalizzazione pervade oggi l’intera sfera del lavoro, della vita; essa riguarda tutti gli aspetti della vita sociale e ne influenza il corso, dal punto di vista dell’individuo e della comunità in cui egli è immerso. Non si può oggi ignorare quanto l’introduzione di linguaggi iconologici abbia contribuito alla formazione di un sistema visivo universale, quanto le metafore (a cominciare da quella della scrivania) abbiano moltiplicato le potenzialità della comprensibilità dei personal computer, e come l’efficacia dei sistemi di navigazione aiutino chiunque ad orientarsi e spostarsi; quanto stiano crescendo le opportunità dei servizi integrati legati alla mobilità, al disegno, alla comunicazione etc.; questi sistemi che operano attraverso sistemi d’interfacce digitali; stiano determinando nuove dimensioni cognitive collettive. I prodotti che rappresentano la sintesi di questo fenomeno sono gli smartphone, strumenti che hanno reso portabile qualunque bagaglio informativo e di seguito le cosiddette app, programmi elaborati da sviluppatori prevalentemente indipendenti, che operano su segmenti parziali dell’attività di lavoro, del gioco o della gestione di un qualunque aspetto della vita quotidiana. La diffusione a livello di massa di questi sistemi ha pro-

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dotto un’accelerazione che ha aperto scenari inediti per i protagonisti stessi di questa rivoluzione. Siamo passati nel breve lasso di una decina di anni da un’idea di Design del­ l’interazione legato all’idea di interazione con computer (Human Computer Interaction), ad un concetto di interazione ribaltato, dove i programmi (le app) concorrono direttamente alla relazione sociale fino a definire una nuova sfera di socialità/comunità da cui dipende sempre più lo sviluppo di quella reale. La diffusione dell’uso quotidiano della rete e l’accessibilità della conoscenza legata alla tecnologia impone una revisione profonda dei modi in cui si apprende e si trasmettono le conoscenze e le competenze utili all’avanzamento tecnico dei designer. La figura dello sviluppatore è il profilo di un progettista nuovo che usa la tecnologia informatica, deve essere capace di programmare, ma simultanea­ mente di ideare soluzioni funzionali attraverso il design dell’interfaccia. Deve cioè rendere comprensibili, facilmente usabili e consistenti visivamente, i propri prodotti in modo che siano subito comprensibili ad un pubblico privo di un sapere tecnico. Ma come sono progettate queste relazioni e che impatto hanno sul piano cognitivo individuale e sociale? Da quali studi e teorie nasce e si sviluppa la progettazione di programmi e prodotti che trasformano i modi di rappresentazione, comunicazione e informazione? Per dare risposta a queste nuove produzioni sono necessari modelli di didattica innovativa. Il Design Thinking è un “modo di pensare” il progetto che può essere ricondotto alle più avanzate esperienze che proprio nella Silicon Valley hanno accompagnato il successo dell’industria informatica che, da settore specializzato è diventata l’industria più importante del mondo contemporaneo. Gli esempi e le esperienze di Frog Design e di IDEO8 a partire dagli anni ottanta hanno applicato questa metodologia per la progettazione di prodotti, servizi, ambienti ed esperienze digitali. Queste nuove tipologie di aziende hanno soppiantato gli studi di design e si orientano sempre più anche nella consulenza per la gestione e nell’organizzazione; esse rappresentano esattamente quel concetto di prodotto totale a cui ci si riferiva


in principio. Storicamente i progettisti venivano coinvolti solo negli ultimi passaggi del processo di sviluppo dei prodotti, concentrando la loro attenzione sul miglioramento dell’aspetto e della funzionalità dei prodotti, piuttosto che ricercare un grande impatto sul mondo e sulla società9. Oggi i designer sono coinvolti in tutte le fasi del processo di progettazione industriale e rappresentano il cuore della parte ideativa di un qualunque prodotto avanzato, in particolare applicando la metodologia reiterativa del Design Thinking e l’approccio User Centered10 (centrato sull’utente) collaborano ad ottimizzare le fasi di concezione, ideazione e test. Schematicamente possiamo segmentare questa metodologia progettuale in tre macro fasi: comprensione di un problema, esplorazione e ideazione delle soluzioni possibili e prototipazione. Queste fasi vengono ripetute attraverso la ripetizione di cicli, chiamati sprint, in modo da fornire dati utili a modificare gli errori e fornire completezza al sistema che si sta progettando prima di passare alla fase vera e propria dello sviluppo e della implementazione. La proliferazione di questi artefatti può essere guardata come un dispositivo, vale a dire assimilato ad un insieme di pratiche e meccanismi11. Possiamo concepire l’universo digitale come un sistema di componenti interdipendenti che va concepito e progettato alla luce di una dimensione tecnologica nuova, un orizzonte in cui la produzione di valore interseca le abitudini; la cultura digitale intesa come dispositivo può aiutare a formare strumenti, prassi e saperi per migliorare l’equilibrio tra gli elementi nel campo sociale e in quello della vita reale. Qui la comunicazione assume valore di istruzione, scambio e relazione. Questa pervade lo spazio privato e quello sociale, attraversa con i suoi flussi tutti gli ambienti abitati: dalla foresta alla fabbrica, dalla città allo spazio. Grazie alle ricerche sul costruttivismo cognitivo di Piaget e alla sua derivazione negli ambienti digitali fornitaci dal costruzionismo di Papert abbiamo un apparato pedagogico utile e applicabile. Se infatti il costruttivismo ci aiuta a comprendere le se-

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quenze costruttive dell’apprendimento individuale, come si costruiscono i modelli mentali, il secondo, il costruzionismo, avanza comprendendo l’implicazione degli ambienti e della dimensione di gruppo nell’apprendimento e, grazie all’inaugurazione del concetto di “artefatto cognitivo”, ci fornisce la sua teoria principale. La tangibilità dei “artefatti cognitivi” di Papert è il passaggio storico fondamentale per la comprensione del ruolo della costruzione come metodo per poter realizzare una forma di apprendimento efficace, per mezzo di qualcosa che può essere mostrato, discusso, esaminato, sondato e ammirato12 non riducibile al trasferimento di nozioni e conoscenza. La teoria costruzionista e l’uso del computer in ambito educativo permettono secondo Papert di perseguire l’obiettivo di “insegnare in modo tale da offrire il maggiore apprendimento col minimo d’insegnamento”13. Questi sono alcuni dei principi che sono alla base di una nuova scuola rivolta alla formazione di sviluppatori nell’ecosistema Apple in partnership con l’Università di Napoli Federico II, e al contributo che il Design, la Design Research e il Design Thinking14 forniscono all’insegnamento e all’apprendimento di metodi sperimentali, (nello specifico nella loro applicazione al campo dello sviluppo di un approccio all’insegnamento e all’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione) al fine di sperimentare un metodo basato sul concetto learning based, fondato sulla prospettiva del discente piuttosto che sulla disciplina. La proprietà centrale di questo approccio è la progettazione di situazioni didattiche, di esercitazioni e attività pedagogiche innovative basate sul concetto di sfida, legate alla sperimentazione di metodi di apprendimento non riducibili al trasferimento di informazioni, ma fondate sulla volontà di stimolare gli studenti ad affrontare l’impegno individuale e poi di gruppo a partire dalla definizione delle loro stesse passioni ed interessi, cercando una formalizzazione da cui scaturisca la ricerca. Il docente in questo quadro diviene un facilitatole, non fornisce indicazioni o risposte, aiuta gli studenti a diventare protagonisti dei loro stessi progetti rafforzando le capacità di esplorare alcuni specifici


domini ma anche di produrre in un quadro dove i concetti di accessibilità (design for everyone), internazionalizzazione (traduzione e comprensione visiva) e localizzazione (rispetto dei fattori culturali locali) sono le chiavi portanti per il successo. L’alfabeto, la scrittura, la stampa a caratteri mobili, la matita, il libro, l’orologio, la macchina fotografica e quella da presa, il cinema e i film, la macchina da scrivere, il computer, il televisore, i monitor, i linguaggi di programmazione, le fotocopiatrici e le stampanti, le interfacce grafiche e quelle visuali, la telefonia e i tablet, le app, rappresentano tutti elementi di un unico universo cognitivo, sono cose progettate al fine di produrre, trasmettere e rappresentare linguaggi, un insieme di artefatti cognitivi, di strumenti le cui funzionalità vengono incorporate ed evolvono, annidate le une dentro le altre. Le soluzioni per poter cambiare il mondo sono aperte, sta nella formazione di una nuova cultura progettuale e ad una giovane generazione di designer riuscire a farlo in modo intelligente e sensato.

1   Enzo Frateili Design e civiltà della macchina, Editalia, Roma 1969. 2   International Council of Societies of Industrial Design viene fondato nel 1957 come società in cui progettisti e produttori potessero confrontarsi promuovendo l’avanzamento dei principi del design. Oggi questa ha assunto la denominazione di World Design Organization e promuove alcune iniziative come la Capitale del Design perseguendo un’idea di produzione sostenibile attenta alla dimensione ecologica. 3   G. Colombo Sull’insegnamento del disegno industriale, rapporto allegato alla Relazione annuale sulle operazioni della Società d’Incoragiamento d’Arti e Mestieri, Milano 1864. 4   P. Behrens Kunst und Technik, in «Elektrotechnische Zeits­ chrift», 1910, in Tecnica e cultura. Il dibattito tedesco fra Bismark e Weimar, a cura di T. Maldonado, Feltrinelli, Milano 1979. 5   Ibidem. 6   G. Simmel, Il dominio della tecnica (1900), in Tecnica e cultura, cit. 7   Con Design Research si intende qui riferirsi ai contributi seminali di H. Simon e B. Archer come campo specifico degli studi culturali rivolti ad analizzare lo sviluppo della creatività in relazione agli strumenti tecnici e digitali.

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8   FROG e IDEO sono società di design e consulenza internazionale con sede in diverse parti del mondo che utilizzano la metodologia del Design Thinking, protagoniste del successo di alcune tra le principali aziende informatiche del mondo. https://www.frogdesign.com, https://www.ideo.com/eu. 9  T. Brown, Tim Brown urges designers to think big (YouTube). TED, 209. 10   Don Norman, The Psychology of Everyday Things, 1988, https://www.nngroup.com/people/don-norman/. 11   G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Cronopio, Napoli 2006. 12   S. Papert, A Critique of Technocentrism in Thinking About the School of the Future, M.I.T. Media Lab Epistemology and Learning Memo n. 2, 1990. 13   S. Papert, http://www.papert.org/works.html 14  B. Hudson, Didactical design research for teaching as a design profession, in B. Hudson - P. Zgaga (eds.) Teacher education policy in Europe: a voice of higher education institutions, University of Umeå, Faculty of Teacher Education, 2008.

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La rivista «October»: temi e nuclei teorici MARIA GIOVANNA MANCINI

Fondata negli Stati Uniti nel 1976 da Rosalind Krauss e Annette Michelson la rivista «October» si impone immediatamente sulla scena internazionale come il luogo di un dibattito inedito sull’arte e sulla critica. Tale dibattito fin dal primo numero si dichiara come “molto più che interdisciplinare” e sempre rivolto ad una dimensione “interna” del sistema dell’arte, in quanto cornice istituzionale di significazione, ed “esterna”, in quanto contesto in cui arte e critica agiscono. Hal Foster nel saggio Art Critics in Extremis analizza la narrazione dedicata ad «October» che Amy Newman dà nel volume Challenging Art: Artforum 1962-1974 che ricostruisce i momenti salienti della rivista «Artforum» in seno alla quale si consuma la dissidenza di Krauss e Michelson. Foster scrive che «le rotture filosofiche a volte cominciano con dispute di poco conto»1. La disputa a cui si riferisce avviene a seguito della pubblicazione su «Artforum» di una pubblicità provocatoria dell’artista Lynda Benglis in cui appariva nuda, unta e sexy brandendo un grande fallo appoggiato all’inguine. La pubblicazione della pubblicità, che nella volontà dell’artista era una risposta alle «hy­ permasculine publicity images»2 in quegli anni in circolazione ad opera degli artisti maschi, fu l’occasione per la rottura già nell’aria tra gli editorialisti. Una rottura proficua in cui va sicuramente letto il riverbero di un cambiamento culturale paradigmatico. Tale cambiamento è rivendicato e

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interpretato anche dalla forma stessa della rivista «October» che, fin dal formato grafico scelto, prende le distanze dalle riviste patinate per aderire quasi pedissequamente al modello francese della rivista «Tel Quel»3. Fin dall’impaginazione grafica (il cui layout, oltreché il logo, furono progettati da Lucio Pozzi per il primo numero) trapela l’austerità della rivista, stampata in bianco e nero, fatta eccezione per il rosso in copertina a segnare i numeri dei volumi a più cifre o i titoli monografici. Dalla data della sua fondazione (1976) «October» viene pubblicata trimestralmente fino alla primavera del 1978 dall’Institute for Architecture and Urban Studies che, sotto la direzione di Peter Eisenman, già pubblicava la rivista «Oppositions». In seguito, dall’estate del 1978 ad oggi, la rivista è stata pubblicata dalla casa editrice del Massachusetts Institute of Technology, insieme con la pubblicazione periodica di libri nella collana degli October Books. Nel corso degli anni, dal ’76 ad oggi, hanno collaborato in qualità di autori numerosi studiosi, artisti, critici e teorici dell’arte e non solo, vista l’interdisciplinarità della rivista; l’elenco sarebbe lunghissimo ma vanno ricordati tra i più noti Leo Bersani, Susan Buck-Morss, Mi­ won Kwon, Allan Sekula, Rosalyn Deutsche, Slavoj Žižek, Mignon Nixon, Peter Wollen, Leo Steinberg, Andrea Fraser, Helen Molesworth, Laura Mulvey, Silvia Kolbowski, Carol Armstrong, T.J. Clark, Thierry de Duve, Stuart Hall a cui vanno aggiunti i nomi di chi, anche se per un breve periodo, ha fatto parte del advisory board e del gruppo degli editorialisti come Douglas Crimp, Joan Copjec, Yve-Alain Bois, Hal Foster, Benjamin H.D. Buchloh, Denis Hollier e Silvia Kolbowski. Un modello di studio

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Lo studio delle riviste è divenuto un ramo importante della disciplina accademica della critica d’arte, che ha visto e vede in Italia importanti occasioni di studio. Lo ‘sfiorire del teorico’, in quanto funzione attiva dell’arte e della critica sempre inseparabili nella rete del sistema dell’arte, è la


preoccupante constatazione che Angelo Trimarco fa a margine di una riflessione che accompagna da sempre il suo percorso di ricerca sui metodi e sulle funzioni della critica. La critica si è, negli ultimi anni, ripensata da un lato come disciplina storica, dall’altra come indagine sui metodi, rinvigorendo il circolo teorico che Menna in un celebre pamphlet aveva titolato Critica della critica. Lo studio delle riviste si pone in posizione mediana rispetto a queste due tendenze: da un lato, è mosso dalla necessità della ricostruzione storica del processo occorso nel dibattito critico; dall’altro, andando all’origine del dibattito, ricostruendo la successione degli articoli, sottolineandone continuità, discontinuità, dialoghi e scontri, indaga i metodi e si fa, esso stesso, critica. Lo studio di una rivista diventa un’azione di scavo nel territorio in cui le idee prendono forma e diventano oggetto di dibattito pubblico, entrando in un flusso ampio di informazione e di pensiero. Ancora Trimarco, nell’introduzione al suo libro Italia 1960-2000, invita a evitare che l’istintivo desiderio di chiarezza dello storico si traduca nel tentativo di sistematizzare la dirompente valanga di materiali, ipotesi e questioni in «anatomie settoriali»4. Lavorare, infatti, su una rivista deve rispettare l’imperativo di restituzione della pluralità di voci e punti di vista che contraddistingue la forma stessa della rivista. La storia della rivista «October», però, va considerata anche alla luce della pubblicazione del volume Art since 1900 del 2004 che ne ribalta la pluralità delle voci nel formato unitario del manuale di storia dell’arte5. La pulviscolarizzazione dei discorsi, tipica di un dibattito in fieri sul contemporaneo che aveva contraddistinto la vita della rivista «October», è diventata lo strumento e il metodo della critica dei cinque autori del volume di storia dell’arte. Quello che è evidente nella storia della rivista, finanche nell’esito istituzionalizzato del volume di storia dell’arte, è l’irriducibile singolarità del processo portato avanti fin dalla sua fondazione e che ha caratterizzato, poi, il suo organismo vivo con cambiamenti e trasformazioni radicali. La rivista è stata dedicata alla ricostruzione critica del­

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l’arte del passato e alla proposta e al sostegno delle esperienze contemporanee con metodologie analoghe. Infatti, l’esigenza da cui gli autori si sono mossi, in funzione antiformalista e in totale contrapposizione all’impianto greenberghiano dominante, è stata la necessità di restituire la complessità dell’avanguardia, dei suoi materiali e delle sue tecniche ma, soprattutto, dei suoi discorsi estetici e politici. La riflessione sulle tecniche e sui materiali non è mai stata mossa da ragioni formaliste: piuttosto, è stata sempre ispirata dal discorso sulla struttura e sullo statuto dell’opera. Intorno a questo nodo tematico si sviluppa la ricognizione storico-critica delle avanguardie, in particolare di quelle sovietiche che a quel tempo negli Stati Uniti erano ancora poco studiate per ragioni culturali e politiche e che fanno deragliare radicalmente la proposta degli octoberist dal solco segnato dalla teoria di Greenberg. Fin dai primi anni di pubblicazione la rivista dedica spazio allo studio dei metodi dell’arte d’avanguardia – ad esempio allo studio del montaggio e della pratica creativa del cineasta E˘jzenštejn – ma anche allo snodo cruciale della produzione artistica d’avanguardia nella Russia pre- e post-rivoluzionaria. Nel numero monografico Soviet Revolutionary Culture del 1978 vengono pubblicati saggi dedicati agli artisti, le traduzioni di scritti teorici e anche i ‘diari russi’ di Alfred Barr, per ricostruire la storia dell’avanguardia e della sua ricezione negli Stati Uniti precedente ai dogmi greenberghiani. La pubblicazione di Russian Diary 1927-28 di Barr e il saggio di Elizabeth Jones sul contributo di Barr allo studio accademico dell’arte sovietica mostrano l’interesse degli octoberist nel contestualizzare i fatti dell’arte in quel campo complesso di relazioni in cui l’istituzione museale modernista e il discorso formalista sono elementi determinanti. Fin dal numero del 1978 lo studio delle avanguardie sovietiche diventa emblematico del metodo degli octoberist – se di un solo metodo si può parlare – sempre attenti alla complessità dei fatti culturali. L’esito più evidente dell’opera di ripensamento avviato dalla rivista «October» è quello di aver sovvertito il sistema di valori della teoria formalista di Greenberg, la vo-


ce più autorevole e pervasiva del discorso ideologico modernista che si diffondeva in modo capillare in tutte le istituzioni culturali. Allo stesso tempo la figura di Greenberg era anche emblematica di una professione, quella del critico che emette giudizi di valore sulle opere facendo leva su un’attitudine alla connoisseurship, che non aveva più ragion d’essere nella pratica ibrida che gli autori di «October» stavano rivendicando. Greenberg incarnava la figura del critico che, dalle pagine dei quotidiani e in ambito accademico, veniva unanimemente ascoltato dal grande pubblico e dalla platea accademica, capace di discernere la complessità dei fatti dell’arte grazie ad una teoria onnicomprensiva. Invece, il modello di riferimento per gli autori di «October» diventa quello di una figura ibrida che può servirsi di strumenti disciplinari disparati, che attraversa i contesti in cui l’arte si produce riscoprendo con l’arte e gli artisti una verve rivoluzionaria. Il critico, per gli octoberist, si occupa delle questioni legate alla produzione artistica, affianca gli autori impegnati nel rinnovamento dell’arte e della società nella consapevolezza che tale binomio, già indissolubile nella proposta delle avanguardie storiche, è imprescindibile nella contemporaneità. L’azione della rivista, che s’impone nelle università e nei musei con una ricca proposta espositiva, nel corso degli anni di pubblicazione contribuisce a rileggere tutte le esperienze dell’avanguardia storica nella volontà di ritesserne i legami con i contesti, attraverso gli strumenti che il poststrutturalismo stava offrendo. Intorno alla figura di Duchamp, centrale nel rapporto tra l’avanguardia storica e gli Stati Uniti e tra Dada e Surrealismo, si dipana la rilettura delle esperienze dell’avanguardia europea e della loro vita statunitense. L’interesse per l’opera di Duchamp si traduce nell’individuazione della sua figura come nume tutelare, modello teorico, matrice del rapporto non mimetico dell’arte con il reale che, in un certo senso, si contrappone alla figura di Picasso che nell’impianto teorico formalista occupava la posizione più avanzata nella parabola dell’arte moderna. Duchamp viene individuato come

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modello anche dell’arte che negli anni ’70 istituisce un rapporto indicale con il reale. Questa in sintesi è la tesi centrale del saggio apparso molto precocemente in due tappe con la firma di Rosalind Krauss, Notes on Index6, in cui la critica statunitense utilizza come modello di riferimento per l’arte degli anni ’70 proprio il rapporto procedurale indicale che è presente nell’opera di Duchamp. Infatti la Krauss rintraccia nell’opera di Duchamp, non solo fotografica, la procedura che costantemente mette sotto indagine il medium. L’interesse della Krauss per l’arte che si fa indagine mediale appare sin dalle prime battute nella sua ricerca ed accompagnerà la sua proposta per molto tempo strutturando la riflessione sulla fotografia e sul fotografico che costituisce un tema centrale per la rivista «October». Lo studio e la rilettura del Cubismo, analogamente allo studio condotto sulle altre esperienze d’avanguardia, sono occasione per ribadire alcune questioni di metodo: in particolare la pubblicazione dell’articolo della Krauss, In the Name of Picasso7, e la ripubblicazione del saggio di Leo Steinberg, The Philosophical Brothel, contribuiscono significativamente al dibattito sulla ricezione americana dell’opera di Picasso e forniscono al lettore gli strumenti per un’indagine metodologica rigorosa. La figura di Picasso, sia nell’impianto teorico formalista di Greenberg che in quello teorico-espositivo di Barr, aveva rivestito un ruolo di primaria importanza: per l’uno, strumentale alla legittimazione di una tensione nell’arte moderna verso l’astrazione attraverso il progressivo abbandono della rappresentazione; per l’altro, apice indiscusso e inarrivabile dell’arte del suo tempo8. Nel saggio del 1981 Rosalind Krauss dà battaglia ai diversi metodi teorico-critici che interpretano l’opera dell’artista ricercandone un’identificazione formale alla luce della biografia. La Krauss denuncia come deleteria la prossimità dell’interpretazione al privato dell’artista che rischierebbe di appiattire l’universo semantico dell’opera alla serie di denotazioni, di nomi propri, di fatti privati dell’artista a cui non può essere ricondotta la complessità dei piani della rappresentazione9. Il collage, in-


vece, verifica l’ipotesi che il metodo analitico linguistico adottato dalla Krauss sia più appropriato per indagare un «metalinguaggio del visivo», in cui ogni rappresentazione funziona come segno. Nel 1988, sempre intorno al Cubismo e in particolare all’opera di Picasso ruota l’attenzione della rivista con la ripubblicazione e l’aggiunta di un postscriptum al saggio di Steinberg (The Philosophical Brothel)10 in cui il teorico rilegge le Demoiselles riallacciando l’interpretazione dell’opera al contesto culturale che l’aveva formata, contestando contemporaneamente le letture formaliste precedenti. La scelta di pubblicare sulla rivista fin dai primi anni ’80 la proposta teorica di Steinberg, autore del volume Other Criteria11 dal titolo e dalle finalità inequivocabili, va letta come attestato di stima della proposta del critico e, soprattutto, in funzione antiformalista, e prova della molteplicità di metodi per la scrittura di una storia dell’arte. I saggi di Steinberg, nel caso dell’articolo su Las Meninas12 di Ve­ lázquez e sulle Demoiselles d’Avignon, sono entrambi trattati di metodo, oltreché inedite proposte interpretative, ben accetti nel programma di rinnovamento metodologico di cui la rivista «October» si è fatta promotrice. La rilettura delle avanguardie storiche e la “riabilitazione” di alcune figure messe in secondo piano dal discorso formalista hanno interrogato non solo la produzione teorica di Greenberg ma, soprattutto, l’attività espositiva di Barr e del MoMA. A fronte della popolarità delle posizioni teoriche di Greenberg va registrata la pervasività della proposta espositiva del museo. L’attività del MoMA che aveva dedicato, fin dalla sua fondazione, svariate mostre all’Avanguardia – tra cui è doveroso ricordate Cubism and Abstract Art e Fantastic Art, Dada and Surrealism a cura di Alfred Barr nel 1936 e Dada, Surrealism and their Heritage a cura di William S. Rubin nel 1968 – aveva contribuito a consolidare e a diffondere la tradizione formalista che riconduceva Dadaismo e Surrealismo al «blocco dell’irrazionalità». Lo studio dell’avanguardia surrealista connette, invece, la rivista «October» all’ambiente intellettuale francese. La figura di raccordo è certamente Denis Hollier, un intellettuale im-

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pegnato nello studio delle voci plurime del Surrealismo con particolare attenzione a quelle che avevano animato il Collège de Sociologie a cui Hollier, che nel 1986 era entrato a far parte dello staff editoriale della rivista, aveva dedicato un corposo volume. La rivista «October» con la pubblicazione di saggi critici dedicati al pensiero di Bataille, Caillois, Leiris e alle poetiche di Giacometti, Masson e Max Ernst realizza un’operazione archeologica che del Surrealismo non solo recupera la storia ma, soprattutto, la possibilità di ibridare liberamente questioni teoriche. L’‘alterità’, il ‘perturbante’ e l’‘informe’, idee centrali per il pensiero surrealista batailliano e leirissiano, diventano concetti di riferimento per il metodo degli octoberist. Rosalind Krauss, dalla mostra Amour Fou sulla radice surrealista della fotografia fino al progetto espositivo firmato insieme con Yve-Alain Bois, L’informe: mode d’emploi, propone un sistema critico fortemente in debito nei confronti del pensiero surrealista, e batalliano in particolare. Al lavoro d’indagine corrisponde anche un lavoro di scavo che si traduce sulle pagine di «October» nella pubblicazione di scritti di vari autori non ancora tradotti in inglese. In particolare va ricordata la pubblicazione del volume monografico dedicato a Bataille13 che molto precocemente, nel 1986, introduce i temi dell’eterologia14 e di quella che Krauss definisce Antivision15 batailliana nel dibattito statunitense. L’identità del soggetto

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Intorno alla questione spinosa e complessa dell’identità del soggetto si sviluppano, nel corso degli anni, svariate direzioni di ricerca che vedono la disciplina della psicoanalisi come risorsa teorica e metodologica. All’interno della rivista si produce un cambiamento di relazione nel rapporto con la psicoanalisi: da argomento di indagine diventa, a tutti gli effetti, uno degli strumenti più efficaci all’indagine del­l’arte in cui il discorso sul soggetto è centrale. È nel decennio degli anni ’90, in particolare, che si registra questo spostamento dall’indagine disciplinare alla disciplina come


strumento. Il programma culturale di rinnovamento metodologico portato avanti dalla rivista si inscrive in un contesto culturale più ampio che ha visto, fin dalla fine degli anni ’60, attecchire negli ambiti accademici statunitensi le proposte dei teorici francesi. La presenza negli Stati Uniti e nelle università americane di Lacan, Foucault, Roland Barthes, Lévi-Strauss, Derrida e Deleuze e la traduzione dei loro testi più significativi hanno garantito il costituirsi di un vero e proprio campo di studi, “The French Theory”, legato dapprima agli studi di comparatistica e letteratura e, poi, istituendosi come disciplina a sé stante. Sulla legittimità di tale disciplina François Cusset riserva dubbi di natura metodologica ricostruendo la parabola di un processo che definisce, fin dal titolo del suo libro, un “assalto dell’America” che i teorici francesi, aiutati da uno stuolo di intellettuali americani, hanno compiuto. Cusset mette in evidenza che con il convegno tenuto a Baltimora nel 1966, dal titolo The Language of Criticism and the Science of Man, in cui si riu­ nirono grossi nomi francesi e giovani americani – un esempio tra tutti l’incontro tra Derrida, Lacan e Paul de Man, «futuro araldo della decostruzione americana» – si consumò la ‘fine’ dello strutturalismo, scalzato dal post-strut­ turalismo di Barthes, invece di istituzionalizzare lo strutturalismo negli Stati Uniti. Nel 1981 Rosalind Krauss pubblica un saggio dedicato proprio allo strutturalismo e al suo metodo “paraletterario”. La studiosa statunitense scrive il saggio a seguito della partecipazione, in qualità di discussant, alla conferenza sullo stato della critica, tenuta presso la Boston University nel settembre del 1979, che aveva avuto come nodo principale l’indagine sull’influenza del discorso filosofico post-strutturalista sulla critica letteraria, sul giornalismo e sulle pratiche critiche contemporanee. L’oc­casione della conferenza e dei paper di Derrida e Barthes è per Krauss l’espediente per riflettere sul risultato che accomuna i lavori, distanti, di entrambi i pensatori: la costruzione di uno spazio paraletterario come spazio di debate, quotation, partisanship, betrayal, reconciliation16. Il testo, che viene costruito per avere, sotto la superficie lettera-

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ria, un set di significati a cui riferirsi, ha sempre come oggetto le sue proprie strategie di costruzione. Dallo spoglio dei numeri della rivista sembra evidente l’interesse dei teorici impegnati su «October» per i metodi del discorso, cosiddetto, post-strutturalista. Tale presa di posizione è particolarmente evidente addirittura in tempi recenti nella promozione dello studio di alcuni aspetti radicali dell’arte: in particolare, la ricostruzione storico-critica della pratica radicale di movimenti come Cobra, Internazionale Lettrista e Situazionista. Nel volume dedicato agli scritti e alla proposta teorica di Asger Jorn, introdotto da Hal Foster che ne studia il periodo Cobra, si sottolinea la contestazione, inesausta, delle posizioni di Lévi-Strauss. Proprio in quel numero, infatti, viene pubblicato uno degli scritti dell’artista in cui l’attacco allo strutturalismo è mosso facendo riferimento a pensatori nordici, all’esistenzialismo, e contestando il principio logico del linguaggio con il quale il pensiero strutturalista rivendica un universalismo che, in quanto metodo e strumento, secondo Jorn non può raggiungere. In generale si nota una libertà disinibita nell’ibridare e aggiornare i discorsi strutturalisti con quelli post-strutturalisti nel superamento di steccati disciplinari che, in particolare negli Stati Uniti, sembrano inefficaci. L’adesione alle filosofie post-strutturaliste e alla filosofia francese ha contribuito allo studio del soggetto rispetto al quale vengono misurati i discorsi dell’arte. I temi femministi e la riflessione intorno al genere sono presenti fin dalla fine degli anni ’80. A decretare la presenza massiccia di questi temi sulla rivista fu, prima di tutto, il dilagare dell’emergenza sanitaria dell’AIDS, a cui l’intera comunità del­ l’arte dovette far fronte. Nel 1987, probabilmente nel momento culmine della crisi sanitaria statunitense, fu pubblicato a cura di Douglas Crimp un numero monografico dal titolo AIDS: Cultural Analysis/Cultural Activism. La posizione teorica di Crimp fu radicale: da quell’anno fino alle pubblicazioni più recenti si dedicò quasi totalmente allo studio dell’emergenza dell’AIDS, combinando l’attività di


studioso a quella di attivista. L’interesse critico di Crimp recupera un accento di Agit Prop senza mai scadere nel dogma ideologico. Le posizioni argomentate nel numero del 1987 rivelano la tendenza antagonista dei teorici e attivisti invitati al dibattito. Nel numero non si risparmiano critiche alle politiche conservatrici del governo Reagan, il primo indiziato nel conto delle responsabilità per il dilagare dell’emergenza, ma vengono stigmatizzati anche i rappresentanti della comunità gay che invocano la redenzione da una condotta dissoluta per cui l’AIDS sarebbe, secondo alcuni, una punizione e, secondo altri, addirittura un’occasione di salvezza. L’analisi delle politiche della sessualità, la rappresentazione dell’individuo nei giochi di potere sessuale che reiterano il fallocentrismo su cui la società è retta17 sono oggetto di indagine del numero monografico, nella convinzione che l’emergenza dell’AIDS sia prima di tutto un’emergenza culturale. Tutte le discipline vengono coinvolte nello sforzo di contribuire alla comprensione della situazione e al cambiamento della condizione culturale. Il numero riserva grande spazio all’arte e agli artisti con la pubblicazione delle immagini a corredo dei saggi. Nell’introduzione Douglas Crimp assume ad esempio di una buona pratica per l’arte il progetto di ACT-UP realizzato per la vetrina del New Museum in contrapposizione ai modi istituzionalizzati di responsabilizzare l’opinione pubblica sperimentati nella mostra-raccolta fondi del 1987, Art against AIDS a cura di Rosenblum. Il collettivo ACT-UP realizzò, invece, un progetto dedicato non solo al mondo dell’arte, ma anche al cittadino della popolosa Lower Broadway, su cui si affacciava la vetrina del museo. Il linguaggio accessibile dell’installazione raggiunge tutti gli spettatori con forza: le parole Silence = Death e un triangolo rosa in neon sono gli elementi clou che alludono allo sterminio della comunità gay causato dal silenzio della politica. L’interesse per le questioni di genere si traduce anche nell’indagine della questione femminile. Il primo articolo che appare sulla rivista dedicato al tema del femminismo tende ad evidenziare l’alleanza tra il concetto di femmini-

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smo e quello di populismo. Clara Weyergraf sottolinea in alcuni scritti di teoriche femministe il ritorno alla dimensione interiore, umanistica, dell’espressività che sottrae l’arte e l’artista alla radicalizzazione dei conflitti, reiterando il mito dell’artista individuale. Nel 1995 il tema divenne oggetto del numero monografico Feminist IssueS e del dibattito curato da Silvia Kolbowski volto a misurare nelle pratiche femministe il recupero delle teorie di Melanie Klein e, soprattutto, la distanza tra le pratiche femministe degli anni ’60 e quelle degli anni ’80, ispirate dalla teoria psicoanalitica lacaniana. Il tema della psicoanalisi diventa una questione pressante delle pratiche femministe perché, nella sua strutturazione freudiana, venne rifiutata dalle femministe degli anni ’60 e considerata strumento di oppressione patriarcale, mentre viene recuperata negli anni ’80 da un movimento informato dai gender studies e dal pensiero poststrutturalista, interessato più al concetto di identità del soggetto che alla rivendicazione di un pensiero femminile. L’in­dagine sull’identità di genere, politica e radicale in tutti gli anni ’90, fu indirizzata verso la riflessione più generale sulla natura delle politiche di identità. «October» nel 1992 dedica un numero monografico dal titolo Identity in Question al concetto di identità e alle modalità con cui l’identità si forma. La società occidentale, dagli anni ’90, è stata interessata da una trasformazione radicale indirizzata al multiculturalismo. John Rajch­man, che firma l’introduzione al dibattito e al numero monografico, afferma che il problema generale è cosa sia realmente l’identità culturale18. Nel numero monografico vengono pubblicati articoli dei pensatori più in vista in quegli anni: Rancière, Laclau, Mouffe contribuiscono al dibattito sull’identità e all’indagine sulle politiche di soggettivazione. Proprio Rancière sostiene che le politiche di identità sono politiche di soggettivazione. “La logica delle politiche di soggettivazione e di emancipazione”, inoltre, “è una eterologia”19 scrive Rancière, in cui il sé viene identificato nel­l’altro. Rancière descrive il processo di emancipazione come un processo di eterologia proprio attraverso l’identificazione con l’altro. Legato a questa logi-


ca di emancipazione, come pensiero dell’altro, per Rancière vi è il fenomeno del ritorno di atteggiamenti xenofobi e razzisti nelle società con­temporanee, poiché – rileva lo studioso con tono pessimistico – il fallimento dei discorsi dell’alterità lascia il posto a discorsi populisti e razzisti. L’inefficacia del processo di emancipazione ha creato, infatti, un vuoto per il collasso “delle politiche di emancipazione come politiche dell’altro”, presto riempito dalle nuove forme di razzismo che identificano l’altro come oggetto di paura. L’invito di Rancière è di ripensare le politiche alla radice, piuttosto che interrogarsi su come affrontare i problemi politici identitari. La rivista «October», ancora in corso di pubblicazione, per svariati decenni ha occupato una posizione avanzata nel dibattito statunitense e internazionale. La pluralità di voci, il rigore metodologico e le novità teoriche che hanno contraddistinto la rivista fin dalla sua fondazione hanno contribuito ad alimentare l’autorevolezza del discorso promosso dal gruppo degli editorialisti. Sul prossimo numero di «Op. cit.» verrà pubblicata un’ulteriore riflessione sulle questioni di metodo emerse dallo studio della rivista e sul rapporto spinoso della rivista americana con l’arte e la critica italiana.

1  H. Foster, Critici d’arte in extremis, in Id., Design & Crime, trad. it., Milano 2003. 2  G. Allen, Artist’s Magazines, An Alternative Space for Art, Cambridge-London 2011, p. 25. 3   Non senza un accento polemico Barbara Rose avanza il sospetto che gli editorialisti di «October» volessero redigere una versione aggiornata della rivista francese «Tel Quel». Anche secondo Gwen Allen nel layout e nel logo della rivista si può scorgere un omaggio, o meglio un dead ringer, alla parigina «Tel Quel». Ivi, p. 28. 4  A. Trimarco, Italia 1960-2000, Teoria e critica d’arte, Napoli 2012. 5  AA.VV., Art since 1900. Modernism, Antimodernism, Postmodernism, seconda edizione in trad. it. AA.VV., Arte dal 1900, Milano 2013. 6  R. Krauss, Notes on Index: Seventies’ Art in America, in «October», 3, 1977, pp. 68-81. 7  R. Krauss, In the Name of Picasso, in «October» Art World

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Follies, 16, 1981, pp. 5-22, trad. it. in Id., L’originalità dell’Avanguardia e altri miti modernisti, Roma 2007. 8   Alfred Barr dedica al lavoro di Picasso nel 1939 al MoMA una mostra monografica dal titolo Picasso: Forty Years of His Art. 9  R. Krauss, In the Name of Picasso, cit. 10  L. Steinberg, The Philosophical Brothel, in «October», 44, 1988, pp. 7-74. 11  L. Steinberg, Other Criteria, Confrontations with TwentiethCentury Art, Oxford 1972. 12  L. Steinberg, Velázquez’ “Las Meninas”, in «October», 19, 1981, pp. 45-54. 13  AA.VV., in «October», 36, Georges Bataille: Writings on Laughter, Sacrifice, Nietzsche, Un-Knowing, 1986. 14  A. Michelson, Heterology and the Critique of Instrumental Reason, in «October», 36, 1986. 15  R. Krauss, Antivision, in «October», 36, 1986. 16  R. Krauss, Poststructuralism and the “Paraliterary”, in «October», 13, 1980, p. 37. 17  L. Bersani, Is the Rectum a Grave?, in «October», 43, 1987, pp. 197-222. 18  J. Rajchman, Introduction: The Question of Identity, in «October», 61, 1992, pp. 5-7. 19  J. Rancière, Politics, Identification, and Subjectivization, in «October», 61, 1992, pp. 58-64.

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Libri, riviste e mostre

V.P. Mosco, Architettura italiana. Dal postmoderno ad oggi, Skira editore, Milano 2017. La complessità e molteplicità dei fattori euristici e fenomenologici che si intrecciano nella stesura di un manuale di storia dell’architettura è tale da indirizzare l’analisi del testo secondo un approccio fortemente selettivo, cercando di mettere maggiormente in evidenza, oltre ai giudizi più pregnanti relativi ai fatti narrati, le principali questioni di metodo che costituiscono l’impalcato teorico del libro. In riferimento a queste, è opportuno partire dalla periodizzazione. Come indicato nel titolo del libro, questo si inserisce in un certo filone della manualistica più recente, relativa sia al contesto italiano che a quello internazionale, che intende affrontare il contemporaneo restringendone l’arco temporale rispetto alla sua accezione scolastica, riferendolo pertanto a quel cambio di paradigma che in architettura ha cominciato a svilupparsi con la fine del Movimento Moderno e che,

più in generale, ha avuto una definizione compiuta con l’avvento della stagione culturale postmoderna. Nel libro di Valerio Paolo Mosco, le vicende narrate attraversano circa quattro decenni, dal 1978 al 2016, e sono scandite da quattro capitoli anticipati, rispettivamente, da paragrafi introduttivi volti a delineare le tendenze storiche ed architettoniche più significative al fine di direzionare lo svolgimento della narrazione. Il tutto anticipato da un diagramma à la Jencks che illustra l’andamento delle principali linee ar­ chitettoniche lungo un asse cronologico. Tale illustrazione, che per il critico americano denuncia una visione della storia frammentaria e discontinua sintetizzabile nella «teoria dell’albero evolutivo», in questo caso, comunque analogo, esprime quel meccanismo di azione e reazione attraverso il quale Francesco De Sanctis aveva analizzato la letteratura nazionale. Meccanismo che si ibrida con quello di Vico delle sparizioni e delle riapparizioni, dei rimandi im-

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provvisi e dei corsi e ricorsi. Se esiste allora un disegno generale che presiede questo svolgimento, esso è assimilabile a un arabesco per certi verso analogo a quello della politica nazionale. Ancora nell’ambito degli strumenti euristici, sebbene nel testo compaia come fatto direttamente prelevato dalla realtà storica, è annoverabile quello che possiamo considerare il leitmotiv del­ l’intera narrazione il quale, proprio per il suo peso interpretativo, merita un’attenzione particolare. Si tratta della definizione del carattere specifico dell’architettura italiana, una tematica che, soprattutto in riferimento al più generale ambito artistico, continua ad alimentare un dibattito ancora aperto. Tale carattere distintivo è stato individuato da Mo­sco nella natura eclettica che la nostra architettura presenterebbe quale elemento di continui­ tà storica. Proprio in virtù della sua pretesa di generalità e del suo valore metodologico, è opportuno riportare la questione entro un ambito specificamente euristico e considerare l’adozione di un tale parametro interpretativo quale «artificio storiografico». Come osserva Renato De Fusco, la questione dell’“italianità” si pone in termini […] di una “storia soggettiva”, ovvero in quelli della storiografia, più esattamente del­ l’interpretazione storiografica. […] Si può dire che quello dell’“italianità è storicamente un problema insolubile che diventa potenzialmente risolvibile per la storiografia, per un campo cioè denominato dall’interpretazione. […] Il problema diventa allora quello di individuare

quale criterio sia più adatto a cogliere la natura del denominatore comune che cerchiamo. Alla criticità appena esposta, connaturata alla questione in esame e consistente, ribadiamo, nella possibilità o meno di individuare una caratteristica dominante dell’architettura italiana in termini unitari, si aggiunge una certa aura di genericità e polivalenza se confrontiamo i vari passaggi in cui l’autore spiega il suddetto carattere eclettico. Questo viene presentato ora in termini di linguaggio, come suggerito dall’autore quando contrappone l’eclettismo della nostra architettura alle ben più compatte architetture tedesche, francesi, svizzere o brasiliane, facendo ri­ corso ad una categoria formale che, insieme all’altra del «frammentario», ci rimanda ad una lettura che Moneo fa dell’architettura di fine Novecento, ora come sinonimo di contraddizione (non spiegata), ora come pluralità di esiti, ora quale conflittualità delle questioni poste, ora come diversità di espressioni. Che l’architettura e l’arte italiana sfuggano ad una definizione in termini di unità linguistica è un’acquisizione che risale alle argomentazioni dei protagonisti più autorevoli del dibattito suddetto. Ci riferiamo, in particolare, alla nozione di «policentrismo sistematico» che Ferdinando Bologna utilizza per definire la nostra «italianità», e ad una formulazione di un altro grande storico dell’arte, Giulio Carlo Argan, quando osserva che l’arte italiana non è caratterizzata […] da unità linguistica, […] non si presenta come un blocco ma come un sistema di relazioni tra culture regionali e urbane.


In altre parole, nella tesi di Mosco è dubbio se il supposto carattere eclettico debba ricercarsi nella configurazione formale delle singole opere o debba attribuirsi al susseguirsi di una varietà di linguaggi e alla loro compresenza in un dato periodo storico, seppur impiegati in maniera unitaria. Più convincente sul piano metodologico risulta un passaggio in cui l’autore enuncia, piuttosto che un vago e in definitiva omologante eclettismo, quelle che considera le caratteristiche ricorrenti capaci di intercettare, in termini generali, l’identità della nostra architettura. In esso, Mosco fa riferimento a quei valori di finitio, di definizione compiuta dell’opera, e di concinnitas, di congruenza delle parti con il tutto. Ancora sullo stesso tema, è opportuno richiamare un saggio di Paolo Portoghesi intitolato La democrazia dell’eclettismo. In esso, lo storico romano prefigura un ritorno all’eclettismo in una forma non puramente esteriore come quella che ha caratterizzato tanta parte del cosiddetto postmoderno architettonico; ma arriverà come rispetto del­ l’identità e della capacità di convivenza di tradizioni diverse. Pertanto, inteso l’eclettismo quale istanza culturale, egli risolve la questione in termini ideologici conferendo a quest’ultimo la dignità di valore democratico, pur confidando nella possibilità di un più concreto «eclettismo creativo» basato su una scelta attenta e consapevole di quanto di meglio si possa ritrovare nel­ l’esperienza dell’architettura. Nonostante la diversità delle posizioni di Mosco e Portoghesi, è

possibile rintracciare un comune denominatore nella riabilitazione dell’eclettismo in chiave positiva e nella consapevolezza che un fenomeno connotato da una certa apertura semantica possa imporsi quale foriero di speranze future. In conclusione, dal quadro appena esposto risulta evidente, nell’impostazione del problema da parte di Mosco, la conflittualità di un doppio ordine di lettura: da un lato, l’indagine sulle caratteristiche ricorrenti rifugge la ricerca di un’unitarietà linguistica; dall’altro, l’enunciazione di un carattere generale quale l’eclettismo, ancorché informato intrinsecamente al pluralismo, indirizza la questione verso la definizione di un carattere unitario. Decisamente più incisivo risulta l’approccio critico rispetto all’operato degli architetti trattati e alle rispettive opere. È nell’idea di critica quale atto operativo e nel modo di metterla in pratica che si esplica il contributo più interessante messo a disposizione da Mosco attraverso il testo in esame. E questo risulta ancora più rilevante in anni in cui lo smarrimento della critica d’architettura e la sua scarsa efficacia sono acquisizioni largamente con­ divise. Come osserva Luca Molinari, stiamo evidentemente vivendo una fase di transizione e profonda metamorfosi che si rispecchia nella sfera progettuale quanto in quella critica, offrendoci al momento un quadro confuso e difficile da interpretare. […] Oltre a questo la critica è scaduta progressivamente in una forma di giornalismo descrittivo incapace di prendersi la responsabilità di letture complessive e provocatorie […].

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Tale indebolimento della critica ha per Mosco delle ragioni ben precise: la difficile eredità dei due maggiori critici italiani, Tafuri e Zevi, gli unici tra l’altro tradotti con continuità all’estero, ha determinato un impasse per la critica nazionale che si perpetua tutt’oggi. Ne l’Architettura Italiana di Mosco, la qualità dei giudizi in merito all’analisi delle opere, la profondità di lettura delle vicende complessive dei singoli architetti, la necessità di operare bilanci e la manifesta volontà di assumere posizioni ben definite, rappresentano una risposta decisamente positiva alle criticità messe in luce da Molinari e costituiscono un atto di responsabilità nei confronti di un ambito disciplinare, quello della critica, che necessita di una tale chiarezza. A quest’ultimo aspetto si accompagna la qualità di un testo ben scritto, in cui la presenza di citazioni colte, spesso di natura filosofica, non tende mai a prevaricare sul giudizio critico in merito alle più specifiche questioni architettoniche. In ultima analisi, è utile sottolineare quello spirito di fiducia nell’architettura italiana che Mosco esprime nelle ultime battute del testo, quale argine rispetto alle più sconfortanti argomentazioni della critica contemporanea riguardo la sparizione della nostra architettura, nonostante la prospettiva d’uscita, prefigurata dall’autore nel positivo conflitto generato dalla diversità d’espressione indotta dal­ l’eclettismo, risenta della stessa debolezza che caratterizza la tesi di fondo. A. T.

R.R. Roger - R.S.P. Fripp, Design and science: the life and work of Will Burtin. Lund Hum­ phries Pub Limited, Hampshire 2007. Nell’ultimo decennio il panorama del design internazionale ha visto affermarsi un nuovo scenario fondato sulla contaminazione tra design e scienza. L’evoluzione delle conoscenze scientifiche e degli strumenti di indagine del mondo fisico (microscopi digitali, scanner e altri sistemi di imaging avanzati) procede con una velocità esponenziale, in particolare nel settore delle bioscienze che includono anche biologia sintetica, bio-robotica, bioingegneria dei materiali. Molte delle conquiste ottenute in questi ambiti costituiscono delle rivoluzioni che impattano profondamente sul modo di vivere delle persone, sulle loro opinioni e scelte. Nasce così una nuova responsabilità per il design, chiamato a dare forma ai cambiamenti indotti dalla scienza, per trasmetterli alla società mediante immagini, oggetti, dispositivi comunicativi, espressioni critiche e interpretazioni, elaborati con linguaggi accessibili che possano consentire alle persone di metabolizzare e implementare le nuove conoscenze. L’intensificarsi delle esperienze di collaborazione tra designer e scienziati e la crescente consapevolezza del contributo che il design può offrire alla scienza ha portato alla nascita di nuove figure professionali, sia nel campo del design per la comunicazione che in quello di prodotto, che si occupano di progettare graphical abstract, cover di riviste, video


multimediali, animazioni digitali, infografiche, app, exhibit e nuovi prodotti che rappresentano la ricerca scientifica con gli strumenti del progetto. Alla luce di questo crescente interesse per le nuove e inedite prospettive offerte dal mondo della scienza al design è interessante leggere Design and science: the life and work of Will Burtin, un bellissimo libro, utile ai designer sia da un punto di vista storico-critico che come riferimento metodologico e progettuale, pubblicato nel 2007, ma mai tradotto in italiano. Nato a Colonia nel 1908 e stabilitosi negli Stati Uniti nel 1938, Will Burtin è considerato uno dei più importanti designer dell’informazione del XX secolo, noto soprattutto per aver fornito un contributo fondamentale e fondativo all’ambito del design definito Scientific Visualization. Burtin fu teorico del design, docente, progettista, organizzatore di conferenze, art director e grafico per prodotti editoriali in diversi contesti, da quello farmaceutico a quello militare. Design and Science è la prima monografia dedicata interamente a Will Burtin. Il suo lavoro viene presentato ponendo in evidenza il prezioso e originale apporto in alcuni ambiti del design in cui fu precursore e si distinse per la sua capacità di produrre innovazione: l’uso della grafica per la visualizzazione della scienza e delle informazioni (periodo precedente alla prima guerra mondiale); corporate identity (dalla metà degli anni quaranta); multimedia (che Burtin aveva definito come “Integration”, dal 1948); exhibit per la visualizzazione

della scienza in 3D (dal 1958); e con altri la promozione del font Helvetica negli Stati Uniti. Il testo dimostra come il contributo di Burtin sia stato rivoluzionario per la cultura internazionale del design. Sia in qualità di progettista che di teorico. Burtin ha fornito molteplici esempi e modalità di tradurre principi, fenomeni e conoscenze scientifici attraverso gli strumenti del design, allo scopo di renderli fruibili per un pubblico più ampio possibile che comprende scienziati e non esperti. Le opere di Burtin hanno ispirato il modo di interpretare visivamente la scienza e sono ancora un preziosissimo riferimento per il design della visualizzazione scientifica. Opere non solo grafiche ma anche concrete, modelli tridimensionali con cui Burtin si distinse maggiormente per originalità e innovazione che hanno anticipato la nascita degli ambienti virtuali digitali e influenzato il design di exhibit scientifici per la didattica e per i musei della scienza. Il libro percorre in ordine cronologico le fasi più importanti della sua vita e del suo lavoro, attraverso capitoli specificamente dedicati. Vengono illustrati con ricchezza di dettagli, fonti e immagini gli anni di lavoro professionale e di insegnamento in Germania e i successi americani nei settori della grafica pubblicitaria e della corporate identity (flex O prop, Upjohn), dell’editoria (Fortune, Scope, Story of Mathematics for young people, manuali militari per la U.S. Air Force e la Army Air Force), delle esposizioni (Integration, The New Discipline in Design), dell’organizzazione di conferenze specialistiche (Vi-

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sion) e della visualizzazione scientifica mediante exhibit tridimensionali (Cell, Brain, Atomic Energy in Action, Metabolism, Genes in Action, Defense of Life). Fasi e attività che nel libro sono descritte mettendo in luce le relazioni che legavano le sue visioni agli eventi, alle persone, ai progetti e ai luoghi che hanno caratterizzato la sua attività. Ogni lavoro descritto contribuisce ad assemblare il profilo di un professionista eclettico, visionario e audace che scelse di sperimentare il suo personale approccio al design in campi inusuali e complessi. Nel libro parti testuali e immagini sono perfettamente equilibrati. La narrazione è arricchita da citazioni originali di Burtin, che propongono una sorta di manifesto metodologico del Design and Science, e da testimonianze di critici e professionisti che hanno lavorato con lui, che mostrano diverse sfumature del personaggio. I testi sono accompagnati da un corredo iconografico di grande qualità che comprende sia fotografie delle opere che di momenti della sua vita con didascalie molto approfondite che costituiscono un percorso narrativo parallelo al testo principale. Nonostante il progresso della scienza contemporanea, degli stru­ menti di indagine e rappresentazione e dei processi e materiali produttivi offrano oggi strumenti molto più dettagliati e sofisticati di quelli che il designer tedesco-statunitense aveva a disposizione, le sue opere non appaiono ingenue né tantomeno superate. Burtin era dotato di una stupefacente intuizione e di una incredibile capacità di prefigura-

re dettagli che la scienza avrebbe spiegato soltanto anni dopo. Pur non avendo una formazione scientifica discuteva moltissimo con gli scienziati di tematiche complesse per pervenire ad una coesione di obiettivi comunicativi, ad una sorta di alleanza che riusciva ad abbattere le frontiere disciplinari e di linguaggio per generare visioni comuni e condivise. I suoi successi, come emerge dal libro, dimostrano quanta curiosità, caparbietà, capacità di prefigurazione, intuizione, attitudine ad osservare con meticolosità i dettagli della natura intesi come manifestazioni visibili di dati scientifici, ed anche umiltà sono necessarie ad un designer per collaborare concretamente con gli scienziati, allo scopo di offrire un contributo alla scienza. Un esempio per i designer che intendono affrontare con profondità e consapevolezza il difficile compito di interpretare la scienza con strumenti progettuali. Oggi più che mai il riferimento di Burtin è utile a emancipare i progettisti da un approccio semplicistico e superficiale, che accomuna molti giovani designer che si ispirano alla scienza in modo sommario fondandosi su interpretazioni personali, non validate, che rischiano di produrre fraintendimenti piuttosto che valorizzare i risultati della ricerca scientifica. La storia personale di Burtin e gli eventi storici che la caratterizzarono hanno influito sul suo orientamento professionale e sulle sue attitudini. Con l’avvento della Prima Guerra Mondiale fu costretto a interrompere gli studi primari. Burtin non conseguì mai l’equivalente del diploma supe-


riore, ma all’età di 14 anni frequentò un percorso di apprendistato in tipografia di 4 anni per poi proseguire con gli studi in Arte e Architettura. Nonostante il livello professionale e i riconoscimenti ottenuti, Burtin sentì sempre di avere una lacuna di educazione formale che influì molto sulla sua carriera non come una carenza ma come una attitudine a voler imparare il più possibile in ogni occasione con grande curiosità e profondità. Attitudine che gli ha consentito di dialogare e collaborare con alcuni dei principali protagonisti della scienza del Novecento come Albert Einstein, il neuroscienziato Wilder Penfield della McGill University e Garrard Macleod della Upjohn Pharmaceutical. Come affermano gli autori Burtin sviluppò una straordinaria abilità nell’imparare intuitivamente – sul campo, durante il lavoro, nei laboratori dei clienti – ovunque, ogni volta che aveva bisogno di imparare. Dedicò molta della sua vita professionale a tradurre le più recenti ricerche di farmacologia, microbiologia, biochimica e fisica nucleare in pubblicazioni, grafica, esposizioni e film per il pubblico scientifico e per il pubblico non specializzato. Burtin affrontò nei suoi lavori risultati di ricerche che a quel tempo erano di frontiera in settori come microbiologia, genetica, neuroscienze, metabolica traducendo dati e conoscenze nuovissimi ancora non consolidati e mai rappresentati. Questioni aperte, oggetto di dibattito scientifico, rispetto alle quali scelse di fornire interpretazioni chiare, ma non definitive, volte a spingere

gli utenti a riflettere e a interrogarsi sulle implicazioni dei più recenti risultati della ricerca scientifica. La copertina del numero 1 della rivista «Scope» del 1941, ad esempio, che rappresentava gli avanzamenti della procreazione assistita ha anticipato l’espressione “test tube baby” (bambino in provetta) usata tuttora. L’obiettivo di coinvolgere l’utente nella questione scientifica attraverso un’esperienza emotiva che caratterizzò le opere di visualizzazione della scienza di Burtin lo condusse a elaborare strategie di rappresentazione innovative fondate sulle più recenti scienze cognitive. La scelta dei colori, delle forme, dei materiali, delle tecnologie e dei linguaggi era influenzata da principi di psicologia cognitiva allo scopo di pervenire a prodotti inclusivi ed emozionali. La scienza per Burtin era, dunque, sia oggetto della rappresentazione che strumento per rendere tale rappresentazione più efficace, un approccio che ancora oggi costituisce un riferimento metodologico valido. Sul tema “the reality of science” Burtin scrisse: La realtà extra-sensoriale della scienza fornisce all’uomo nuove dimensioni. Gli consente di vedere i funzionamenti della natura, rende trasparente la solidità e dà sostanza all’invisibile… Il designer si colloca al centro di queste due dimensioni, grazie alla sua attitudine di comunicatore, connettore, interprete e ispiratore… Attraverso la continua comparazione e interrelazione di fattori, riesce a comprendere e a conoscere, emotivamente

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oltre che razionalmente, la loro natura e il loro valore, e a rappresentare anche ciò che era invisibile. Da tutto ciò il designer crea. Tra i molti progetti eseguiti da Burtin per l’azienda Upjohn tre exhibit sono particolarmente noti: Cell, Brain e Chromosome, exhibit definiti walk-in perché l’intera struttura veniva realizzata in una scala abbastanza grande da consentire allo spettatore di entrarci dentro in modo da poter offrire un punto di vista dall’interno, che avrebbe consentito di comprendere meglio tutte le relazioni tra le diverse parti. Cell, completata nel 1958, è stata sviluppata per proporre un approccio metodologico visivo in grado di spiegare nuove conoscenze sulla struttura organica al pubblico sia professionista che generalista. Una delle scelte progettuali più interessanti di Burtin fu quella secondo cui Cell rispondeva a quelle che secondo Burtin erano le domande della società in relazione alle nuove scoperte della biologia. Nel 1958 la biologia molecolare aveva già scoperto molti componenti e funzioni delle cellule, ma era un ambito nuovo e in divenire che prometteva di disvelare alcuni dei segreti più importanti della vita. Watson, Crick, Wilkins e Franklin avevano scoperto la doppia elica del DNA soltanto 5 anni prima. Il microscopio elettronico restituiva immagini di strutture cellulari che la scienza non aveva ancora pienamente spiegato ed interpretato. Le domande che scienziati e società si ponevano erano tantissime e Cell rispondeva ad alcune di esse con

una visione concretizzata attraverso la collaborazione con gli scienziati, con i produttori e con gli esperti di nuovi materiali e tecnologie. Burtin scelse di interpretare i nuovi principi scientifici attraverso linguaggi, materiali e tecnologie altrettanto nuovi come le nuove plastiche, facilmente lavorabili e plasmabili, in morfologie anche molto complesse in grado di offrire un’infinità di opportunità espressive, attraverso molteplici effetti tattili, di trasmissione e riflessione della luce. Anche l’uso delle tecnologie elettriche fu strategico e innovativo, l’impiego di reostati e di complessi impianti elettrici consentiva di ottenere effetti di retroilluminazione, di illuminazione dinamica che prefiguravano le attuali tecnologie LED. L’integrazione con scienziati, medici e imprenditori era uno degli aspetti prioritari del suo lavoro. Attraverso l’opera di Burtin scienziati e ingegneri potevano visualizzare e testare le loro teorie e i risultati del loro lavoro, riducendo i lunghissimi tempi richiesti dall’indagare tutte le possibili soluzioni. La visualizzazione scientifica dei concetti con Burtin si propone, dunque, come strumento di problem solving. Riferendosi alla sua opera Cell Burtin scriveva: Il valore primario di questi modelli, come del graphic design, (per la scienza), si fondava sul fatto che erano in grado di ridurre il tempo necessario per studiare e comprendere un problema scientifico… Un medico dopo aver vagato all’interno della struttura della cellula base ha dichiarato “riduce sei mesi di studi approfonditi a cinque mi-


nuti di esercizio visivo e fisico”. Questo ha stimolato in lui e nei suoi allievi ulteriore curiosità di approfondire lo studio della cellula originale al microscopio, ma questa volta sulla base di una comprensione più dinamica rispetto alla totale, generalizzata, immagine. Il lavoro di Burtin, quindi, aveva un impatto sulla scienza e sulla società. La forma visiva coadiuvava gli scienziati nel loro lavoro poiché risultava più facile da memorizzare rispetto alla forma astratta ed anche più semplice da tradurre in modelli matematici. Allo stesso tempo era un ottimo strumento di divulgazione in grado di sensibilizzare le persone nei confronti della bellezza dei dettagli della natura e delle stupefacenti nuove conoscenze guadagnate da una scienza biologica in grande espansione. In queste dimensioni ibride generate dall’integrazione (usando l’espressione prescelta da Burtin) tra espressione creativa e scienza si posizioneranno molti dei più interessanti episodi di arte e design dei prossimi anni. Per questo motivo è importante che testi come Design and Science entrino nel patrimonio culturale dei designer del futuro affinché essi acquisiscano la consapevolezza che metodi multidisciplinari, linguaggi trasversali e capacità relazionali di integrazione non sono solo slogan e concetti teorici e, soprattutto, che se vengono applicati con competenza e capacità critica possono produrre risultati di altissima qualità come avveniva nell’opera di Burtin già dalla metà del secolo scorso. C. L.

La Biennale di Venezia - 57ª E­sposizione Internazionale d’Ar­te, Venezia, 13 maggio 26 novembre 2011. VIVA ARTE VIVA è l’esclamazione, dal tono appassionato, che titola la 57. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia curata da Christine Macel, parigina, classe 1969, attraverso una proposta critica volta a mettere programmaticamente l’arte e gli artisti al centro. La Biennale di Macel prende quindi le distanze dai disegni espositivi militanti delle precedenti edizioni e che hanno contraddistinto, più in generale, le altre grandi manifestazioni europee degli ultimi anni. Le scottanti questioni sociali e politiche non costituiscono quindi più il punto di partenza, ma è piuttosto lo specifico dell’arte a essere riaffermato in tutta la sua forza come luogo per eccellenza della riflessione, dell’espressione individuale e della libertà, così come degli interrogativi fondamentali. Gioie e paure, sogni e utopie, legami con il tempo, con la natura e il cosmo, relazioni con sé e con gli altri, sono queste le domande aperte e indagate da una prospettiva di dichiarata impronta “neo-umanista”. Un indirizzo di ricerca a cui va certamente riconosciuto il merito, nonostante gli esiti più o meno convincenti, di aver spostato il discorso su un nuovo e coerente registro. All’interno di questo quadro la manifestazione si struttura in nove sezioni, chiamate dalla curatrice “capitoli” o “trans-padiglioni” sottolineando così la com­ ponente narrativa del percorso espositivo e al contempo la sua

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programmatica dimensione trans­ nazionale, in riferimento alla dibattuta suddivisione dei padiglioni ai Giardini. Si tratta di un’impostazione che ben rispecchia il profilo professionale di Macel e la sua carriera prettamente istituzionale (dal 1995 è stata conservatrice e ispettore della creazione artistica del Ministero della Cultura francese, e dal 2000 è curatore capo del Centre Pompidou). L’impianto dell’itinerario che si dipana tra i Giardini e l’Arsenale, asseconda difatti un taglio in un certo qual modo museale, dove la suddivisione in capitoli ha comunque il pregio “didattico” di individuare possibili nessi tra nuclei di opere eterogenee e di ritmare così, in particolar modo nella lunga infilata delle Corderie dell’Arsenale, la narrazione espositiva. Dei centoventi artisti invitati, un centinaio di questi ha esposto per la prima volta alla Biennale, anche se non mancano comunque alcuni nomi affermati (tra cui Olafur Eliasson, Ernesto Neto, Philippe Parreno e Kiki Smith) ai quali viene dato ampio spazio all’interno della manifestazione. Percorrendo i trans-padiglioni orchestrati nella mostra internazionale, due sono le costanti linguistiche e concettuali che sembrano emergere con forza: da un lato la componente testuale, materializzata in particolar modo ai Giardini attraverso libri, scritture, narrazioni, dall’altro la pratica del tessere e cucire che contraddistingue molti degli interventi presentati agli Arsenali. Atto intellettivo e materiale si intrecciano così inscindibilmente negli universi estetici proposti dalla mostra senza gerarchie di

spazio e di tempo, dove si afferma l’attualità e il valore di numerosi lavori “storici” realizzati a partire dagli anni Sessanta da autori rimasti spesso ai margini delle affermate vicende artistiche internazionali. Emblematiche del­ l’indirizzo di ricerca emergente ai Giardini sono, ad esempio, le cosmologie di John Latham composte da gesso e frammenti di volumi, le “trascrizioni” prive di lettere e parole realizzate negli anni Settanta da Irma Blank e i più recenti libri di Geng Jianyi quasi corrosi dall’inchiostro e dalla pittura che sviluppano un racconto puramente visivo, gli oggetti-copertina attraverso cui Liu Ye dichiara le sue predilezioni letterarie, o ancora i diari di Abdullah Al Saadi in cui risuona l’eco di antiche memorie e tradizioni. Agli Arsenali il tema della tessitura è introdotto in apertura dalle opere di Maria Lai, artista sarda recentemente scomparsa che, dai Telai della fine degli anni Sessanta agli sconfinamenti urbani e partecipativi dell’azione collettiva Legarsi alla montagna (1981) nella sua Ulassai, ha fondato la propria ricerca sulla gestualità e sul significato profondo di questa antica pratica manuale. Fili, tessuti, telai, nastri ritornano poi in numerose opere di natura oggettuale e relazionale, tra cui l’installazione interattiva The Mending Project (2009-2015) di Lee Mingwei, le “calde” strutture di stoffa di Franz Erhard Walther (esponente tedesco dell’arte postmininalista premiato come miglior artista in questa cinquantasettesima edizione) o ancora le farfalle notturne realizzate con tessuti kosovari da Petrit Halilaj insieme a sua madre, che si sono


aggiudicate la menzione speciale della Giuria. L’importanza del recupero di una dimensione manuale, sempre più urgente in un mondo dominato dalla smaterializzazione tecnologica, è testimoniata inoltre all’Arsenale, per quanto riguarda le presenze italiane, da due maestri storici della pittura analitica, Giorgio Griffa e Riccardo Guarneri, accomunati da una ricerca tesa a far emergere il dato concreto della materia pittorica. Riguardo ai padiglioni dei Giardini, in linea generale non troppo persuasivi, spicca fra tutti quello della Germania, vincitore con merito del Leone d’Oro, con l’installazione dell’artista tedesca Anne Imhof. Lo spazio architettonico di impronta neoclassica viene riconfigurato da una glaciale barriera di acciaio e vetro, all’interno della quale si svolge una serie di azioni della durata di quattro ore, eseguite da giovani performer, che propone una potente indagine sul peso del corpo nella sua dimensione individuale e collettiva. Il Padiglione Italia curato da Cecilia Alemani s’impone finalmente con forza e originalità tra le partecipazioni nazionali, allineandosi alle proposte straniere attraverso la necessaria scelta, già suggerita negli indirizzi progettuali del MiBACT-Direzione Generale Arte e Architettura Contemporanee e Periferie Urbane, di contenere il numero di artisti. L’obiettivo, dichiarato dalla curatrice, non è quindi quello di organizzare una panoramica esaustiva sull’arte italiana (più consona, aggiungiamo noi, a un allestimento museale che alle sale temporanee della Biennale),

quanto di dare agli artisti selezionati spazio, tempo e risorse per presentare un grande progetto ambizioso, che costituisca un’occasione imperdibile nella loro carriera e che possa offrire al pubblico un’opportunità di immergersi nel loro mondo. L’universo disvelato dal progetto curatoriale del Padiglione Italia trae la sua fonte di ispirazione, dichiarata sin dal titolo Il mondo magico, dal libro omonimo del­ l’antropologo napoletano Ernesto de Martino (1908-1965) pubblicato subito dopo la seconda guerra mondiale e dedicato allo studio dei rituali, dei miti e delle credenze che riaffiorano nei momenti di crisi e di cui gli individui tentano di impadronirsi per riaffermare il proprio essere nel mondo. Una fonte che, sia pur fortemente radicata nella storia del secolo breve, si rivela capace di parlare anche al nostro tempo e di essere interpretata come privilegiata chiave di lettura per ricerche artistiche accomunate oggi da una rinnovata fiducia, scrive Alemani, nel potere trasformativo dell’immaginazione e un interesse nei confronti del magico. I tre artisti del Padiglione Italia, Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey, oltre a una affinità generazionale (in quanto nati tra gli anni Settanta e Ottanta ed affermatisi nel nuovo millennio), condividono appunto il recupero di una dimensione magico-ritualistica intesa nella sua valenza costruttiva, creando – sia pur attraverso l’impiego di differenti linguaggi, tecniche e materiali – complessi dispositivi estetici dal forte potere immaginativo. Lo spazio espositivo del padiglione

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è articolato in tre ampie sezioni dove ciascun artista ha dato vita a un unico grande intervento installativo appositamente prodotto per l’occasione. L’allestimento rinnega volutamente l’impiego di invasivi elementi funzionali per la separazione e disposizione delle opere, così da creare uno stretto dialogo tra i lavori a scala ambientale e la suggestiva struttura architettonica delle Tese delle Vergini, con i suoi alti muri di mattoni e le grandi travi di legno a vista sui soffitti. Tra i tre interventi, dominati da toni cupi e misteriosi, quello di Giorgio An­ dreotta Calò, Senza titolo (La fine del mondo), appare il più riuscito in virtù dell’intima e al contempo potente relazione instaurata, sia a livello espressivo che concettuale, con lo spazio architettonico. Il lavoro si ricollega e rinnova la riflessione condotta dall’artista su Venezia, sua città natale, e quindi sulla forza primaria, tanto vitale quanto distruttrice, dell’elemento acquatico (si ricordano le sue evocative Clessidre realizzate fondendo in bronzo i calchi dei pali di legno usati nella città lagunare per ormeggiare le barche, corrosi dal movimento costante delle onde e delle maree). L’ampia porzione del padiglione viene strutturata da Calò su due piani; quello inferiore, nel quale s’immerge inizialmente il visitatore, consiste in un’architettura di tubi da ponteggio disposti su file a distanze regolari e “animati” in alcuni punti da grandi conchiglie in bronzo quali evocazioni di un mondo marino sommerso. A conclusione di questo ambiente è posta una grande scala per raggiungere il livello superiore, do-

ve si apre allo sguardo uno spettacolare e inedito paesaggio acquatico che si estende per l’intera copertura sorretta dai tubi da ponteggio e su cui si riflettono le travi lignee del soffitto, così da creare un’esperienza percettiva altamente straniante. Nell’opera Senza titolo (La fine del mondo), il tema ricorrente nella ricerca di Calò del doppio e del riflesso si carica di suggestioni tratte esplicitamente dagli scritti postumi di Ernesto de Martino in cui si narra dell’antico mito romano del mundus Cereris quale fossa di collegamento tra l’universo terrestre e quello degli inferi, proponendo così una potente metafora visualizzata della creazione artistica come dimensione liminale e immaginifica tra infiniti mondi possibili. A. A. F. Irace, Codice Mendini. Le regole per progettare, Electa, Milano 2016. Il volume si inserisce propriamente nel filone di quella costituenda storiografia del design che, pionieristicamente inaugurata da Renato De Fusco, manca ancora dei caratteri di una consuetudine operativa, ma che, proprio grazie ad autori come Fulvio Irace, si sta indirizzando verso un più sistematico dibattito storicocritico. Una dialettica degli opposti (mutabile-stabile, effimero-permanente, ripetizione-innovazione, gigantismo-miniaturizzazione, tanto per citarne alcuni) è quella che emerge dal testo, che si pone il compito – non certo


semplice – di decifrare, oggettivare e fornire una chiave di lettura delle svariate produzioni e dei progetti visionari di Alessandro Mendini. Partendo dal titolo, “Codice Mendini. Le regole per progettare”, ci troviamo quasi in presenza di un ossimoro: codificare la leggerezza, l’ironia, la creatività stravagante, singolare e ondivaga, dell’architetto/designer milanese sembra impossibile. Svelare le regole del gioco, ecco quello che fa questa monografia, individuando, nell’ossessione e nella ritualità dei gesti, delle costanti che si traducono in una vera e propria metodologia progettuale: bisogna imparare a costruire delle mappe, sistemi di orientamento di triangolazione che ci aiutino a percepire il senso dei percorsi. Un codice, quindi, per individuare una struttura non immediatamente visibile o intelligibile. Il tentativo di questo libro – scrive l’autore nell’introduzione – è quello di equiparare il labirinto costruito da Alessandro Mendini alla rete di un ragno, a una struttura cioè riconoscibile da una calcolata distanza dello sguardo. In tal modo quello che appare casuale finisce col corrispondere a un sotteso modello, mentre persino l’andirivieni nei paradisi delle invenzioni, alla lunga e alla lontana, rivela una simmetria di movimenti, un sincronismo che stupisce per il suo continuo avvitarsi nella danza di un falso movimento. Nel testo Fulvio Irace costruisce una biografia non sistematica, o comunque non canonica in senso classico, che ha più i toni e i caratteri di un racconto retrospettivo che si svolge attraverso l’indi-

viduazione di nove temi di ricerca specifici che vanno a definire i vari codici-capitoli: Bio-grafismi, Utopie, Gulliver, Fragilismi, Metodo Proust, Oggetto Romanzo, Stanze, Progettare è dipingere, Together. Qualsiasi mia azione intellettuale e culturale è basata sulla mia esistenza, asserisce lo stesso Mendini, per cui è forte la componente autobiografica e di autoanalisi da cui non è possibile prescindere per comprendere in toto quegli aspetti del suo lavoro spesso messi in ombra dalla sua personalità istrionica. Il prodotto riflette l’autore e viceversa, sono in simbiosi, io sono in quanto coincido con me stesso – spiega Mendini – tant’è che nel testo l’io narrante è affidato agli stessi oggetti assunti come aforismi visivi. Irace, con una scrittura incalzante, costruisce, allora, un dispositivo narrativo che opera una sorta di ribaltamento conoscitivo, per cui non sono tanto le parole che fanno da commento agli oggetti quanto, piuttosto, sono le tracce grafiche che, attraverso una gestualità ripetuta, illustrano lo svolgersi di pensieri pulviscolari. I concetti sono tradotti in forma e identificati da espressioni appositamente coniate quali, ad esempio, il progetto infelice, il progetto molle, il design pittorico, l’architettura banale, l’arredo vestivo, ecc. Esiste, in altri termini, un carattere di letterarietà, o meglio di discorsività del progetto, che porta a una possibile “romanzatura del­l’og­ getto” stesso, di cui la Poltrona di Proust – dal carattere programmaticamente incompiuto – costituisce il caso più emblematico.

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Una biografia sentimentale e culturale, quella di Mendini, che vede i suoi esordi nella casa natale – fu in quello spazio magico che vidi le prime cose – espressione di un universo familiare e domestico, che trae alimento dall’arte e dagli stimoli figurativi e pittorici profusi dalle figure rappresentate nei quadri appesi alle pareti di Morandi, Severini e Sironi. Ma è soprattutto l’opera di Alberto Savinio – in bilico tra surrealismo e metafisica – a generare in lui una sorta di imprinting iconografico-progettuale de­ finendo una persistente linea di indirizzo che, assumendo la “stanza” come luogo della sedimentazione della memoria del­ l’abitare, lo accompagnerà per tutta la sua carriera. L’Annunciazione, nonché, L’isola dei giocattoli – ispiratrice dell’armadio Archetto – non a caso sono per Mendini quadri dell’anima espressione della necessità di ritrovare nell’infanzia primordiale dell’Homo ludens motivo di riscatto dalla monofunzionalità della ragione. La scrittura di Irace ci racconta di tormenti, di movimenti ciclici dei pensieri, della memoria e del fare. Ci parla di gesti volontariamente ripetuti, temi ritmicamente riproposti, ma sempre riformulati, che si declinano in varianti continuamente diversificate che rimandano ad altro da loro stesse e che raccontano di una carriera creativa e di un universo poetico basato sui ritorni, sull’introspezione, sulla sperimentazione emotiva tutta costruita sul filo sottile di un ricercato fragilismo. Sia che si tratti di un autoritratto, di un grafismo, di un macro o micro oggetto di design, di

un’architettura artistica, del gioco delle grandezze invertite o delle ricercate distorsioni percettive (effetto Gulliver o Alice a seconda dei casi), emerge come costante la teorizzazione di un pensiero che descrive una traiettoria circolare – espressione di una certa ritualità di approccio – che conduce a una interminabile riscrittura dell’oggetto che riattiva, con ogni sua rivisitazione, un nuovo ciclo. In questo senso è possibile concepire la progettazione come un infinito fenomeno di redesign, di styling e di fantasia che parte da oggetti già esistenti in commercio, per arrivare agli stessi oggetti purché trasformati nella loro immagine e perciò da “scarichi” divenuti “carichi”. Il tema del rammendo – da cui scherzosamente Mendini fa derivare l’etimologia del proprio nome (ram-mendini) – il procedere per frammenti, l’assemblaggio, l’arte della “crettatura”, il patch­ work, la stratificazione, il riciclo ecc. corrispondono tutti a una visione non lineare, ma ricorrente della Storia. Un ritorno che non è revival, ma è un riportare alla vita forme ormai condannate all’obsolescenza. Per il lavoro “labirintico” di Mendini, infatti, è possibile postulare una sorta di principio di conservazione del­ l’energia – in questo caso creativa – che porta a un’operosità incessante, effetto di una ruminazione ininterrotta, che assimila per trasformare. È il carattere ciclico del suo metodo […] – spiega Irace – a renderlo labirintico: ogni elemento viene usato e poi accantonato momentaneamente, per essere poi ripreso con una serie di varianti


e reintegrato in un nuovo contesto. È come se nulla appartenesse mai esclusivamente a un tempo storico, ma anzi si dilatasse più o meno impercettibilmente, sfibrandosi in declinazioni che lo fanno apparire di volta in volta nuovo. Un labirinto, tuttavia, che trova nella continuità un elemento di connessione tra gli elementi eterogenei e consente, così, di mappare concetti e pensieri visivi. Il ritratto di Mendini, che emerge dalla lettura del testo non risulta tanto quello dell’inesausto creatore di icone a getto continuo. Irace sceglie, piuttosto, di rappresentare il designer milanese nell’abito più veritiero di un Arlecchino contemporaneo: caleidoscopio o patchwork di ritagli e frammenti recuperati dalla memoria. Immaginandolo così: chino sul baule dei ricordi come un artigiano sulla cesta degli scarti del suo lavoro, riposti in un angolo e mai abbandonati, perché buoni per possibili usi futuri. In questo consiste il senso del suo singolare progetto: nell’estrarli di volta in volta per riannodarli uno con l’altro, noncurante dei colori contrastanti, fino a ridurli a un unico, infinito filo. Quello che serve a tessere la stoffa di Arlecchino: “ironica e tragica”. A. P. M F. Celaschi, Non industrial design. Contributi al discorso progettuale, Luca Sossella Edi­ tore, Vignate (MI) 2016. È un’analisi attenta e molto attuale, quella di Flaviano Cela-

schi, sulla figura del designer e sul design: una disciplina che mai come in questo momento ha goduto di consenso e di attenzione nella società contemporanea, non di un’accolita di esperti e annoiati analisti o professionisti del progetto, ma della società intesa come un “noi plurale ed esteso”. Ciò accade perché il design è una disciplina che va affiancata: chi sa solo di design non sa niente di design è l’anonima citazione che introduce il libro. Nelle prime pagine, introducendo il discorso progettale contemporaneo, Celaschi offre una bella definizione di design: è il nome che diamo all’esigenza del­l’uomo contemporaneo di modificare la realtà attraverso l’esercizio progettato del possibile. Design è una forma d’intelligenza, individuale e collettiva, che dà senso al futuro, mutando la situazione esistente in una situazione migliore (Herbert Simon). Certamente il design è l’arte dell’anticipazione: la capacità di formulare delle ipotesi di futuro, di configurare uno scenario desiderato. Collegato a questa proiezione sul futuro, tema cruciale, è quello della ricerca: un’attività strettamente legata al design in quanto non esiste progetto senza ricerca sulla realtà. Per l’autore ci sono due traiettorie di ricerca tipiche del designer: la ricerca continua, rappresentata da una retta infinita, la naturale inclinazione del designer (non può farne a meno), e la ricerca meta progettuale, rappresentata da un segmento, che corrisponde a un obiettivo specifico, a una commessa e a una deadline. Mentre

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quest’ultima è ciò che il designer fa per guadagnare (una prestazione professionale) o per raggiungere un certo traguardo prefissato (ricerca applicata), la ricerca continua è ciò che caratterizza il designer ontologicamente, un’inclinazione naturale, qualcosa che fa da default: la ricerca sui nuovi materiali, sull’evoluzione dei processi di lavorazione, sul comportamento dei consumatore ecc. Il libro, dunque, mette a fuoco la fisionomia del designer ricostruita attraverso tre temi cardinali che stanno alla base del discorso progettuale contemporaneo: l’anticipazione del futuro con metodi scientifici, lo studio del corpo come materia prima di progetto, il ruolo della creatività nei processi progettuali culturali, perché il design non riguarda tanto oggetti belli e funzionali quanto i meccanismi processuali che stanno dietro agli oggetti materiali e immateriali che noi consideriamo belli e funzionali. La necessità di modificare il proprio habitat, costruire gli oggetti più sofisticati e tecnologicamente avanzati, dai computer alle navicelle spaziali, comincia ovviamente dalla materia più basica che abbiamo a portata di mano, fin da subito, nel momento in cui veniamo al mondo: il nostro corpo. Non si tratta evidentemente delle abluzioni o dei mille gesti “estetologici” che compiamo ogni mattina davanti allo specchio ma del progetto di noi stessi ovvero del nostro corpo sapientemente designed: “il prodotto per antonomasia” dell’intelligenza, della volontà, delle culture umane e delle esigenze ambientali e sociali. […] il più completo e sistematico campionario di

obiettivi, forme, tecniche, materiali, che ci sia mai stato offerto dalla storia […] “modello” di ogni possibile trasformazione già tentata, dall’homo sapiens in poi, nel suo incedere multi-millenario dell’evoluzione. In breve, per quanto una scimmia possa usare strumenti perseguendo obiettivi pratici, non rivolgerà mai la sua operatività sul proprio corpo. “Il papua decora il suo braccio”, affermava Adolf Loos; la scimmia, no. E questa cruciale differenza – il corpo come prodotto – rende l’uomo un “individuo tecnico”, faber, artigiano, designer, perché design è laddove c’è un corpo che muta, con estensione al fashion (design) e al gioiello – sempre in relazione col nostro corpo – fino alle più evolute tecnologie; anzi alla capacità del nostro corpo di assimilare la tecnologia introiettandola sotto ai propri tessuti per aumentarne le performance tradizionali, percettive, sensoriali, di monitoraggio, di assistenza, protesiche. Del resto, il corpo è inalienabile, fare design è tenere sempre l’uomo al centro del progetto e saper sfruttare la necessità continua di trasformazione della realtà, anche e soprattutto a partire dal proprio corpo. Per quanto riguarda il tempo come dimensione del progetto, come recita il titolo del secondo capitolo del libro, è evidente che il designer usa il futuro da sempre: è quella dimensione nella quale si avverano i progetti. Si tratta dunque di acquisire conoscenza scientifica sul fenomeno che chiamiamo futuro e come condividere e rinforzare la no-


stra consapevolezza sull’uso di strumentazioni e processi che ci permettono di operare sul futuro come fenomeno. Ora, se è vero com’è vero che il passato dipende dal presente, nel senso che – lo dico come storico del design – i fatti storici non arrivano mai in forma pura ma sempre riflessi nella mente dello storico, è forse vero che il presente dipende dal futuro e non viceversa, come comunemente si pensa, se ci riferiamo al design. Per innovare bisogna infatti immaginare, non fantasticare a briglia sciolta, ma configurare sapientemente, avere una visione. Senza una (pre-)visione o prefigurazione, che non può essere appiattita su quello che c’è al momento, non si può far altro che interrogare il presente, ascoltando il cliente e osservando l’azione svolta dai competitori attivi (benchmarking) ai quali è necessario allinearsi per non incorrere in ingiustificati ed elevati rischi di investimento. Il risultato di cinquant’anni di marketing è sotto gli occhi di ognuno di noi: ogni prodotto si assomiglia fortemente e nessun consumatore ha mai suggerito al produttore un’innovazione discontinua rispetto al presente che vive. In quanto designer, siamo dotati di spiccata immaginazione e di una certa capacità di anticipazione sul futuro (progetto) attraverso l’osservazione sistematica e analitica sul presente (ricerca). La nostra “arte” non si esplica in valori numerici oggettivi, in tabelle o in grafici per addetti ai lavori, come nel caso dei micro-economisti e degli ingegneri. Il designer analizza, sintetizza e rappresenta scenari possibili con

competenza e cognizione: è il professionista che per capacità di osservazione dei comportamenti e delle interazioni con le tecnologie, per ricchezza e proprietà dei linguaggi espressi in sintesi della realtà, per capacità di costruzione di un immaginario verosimile e intriso di oggetti e di componenti realistici, si pone nella scena contemporanea come l’interlocutore più attendibile e competente. Nondimeno, per incidere significativamente, quanto più diventa complesso il progetto tanto più il designer ha bisogno di confrontarsi con altri professionisti o demiurghi, come li chiama Celaschi, relazionandosi con il sistema scientifico, culturale e artistico, perché il compito del designer è quello di stare in squadra con altri demiurghi che svolgono parti del processo altrettanto imponenti e importanti: collaborare e integrare le proprie competenze e partecipare così a un sistema di lavoro articolato, temporalmente importante. In questa prospettiva, l’autore rilancia il concetto di “Advanced design”, attività in grado di generare innovazione ampia e condivisa con un rilevante numero di risorse in un tempo medio-lungo. Tale concetto può essere espresso come un quadrifoglio, citando il noto “artificio storiografico” di Renato De Fusco per definire la fenomenologia del design (progetto, produzione, vendita, consumo). Come spiega Celaschi, i quattro punti fondamentali del­ l’Advanced design sono: il medio-lungo periodo, la lunga distanza, in contrapposizione al­ l’obsolescenza programmata (pseudo-strategia perversa e irri-

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spettosa del pianeta), per congetturare intorno a mutamenti […] che possono investire condizioni sociali, economiche e comportamentali che con il presente potrebbero avere poco a che vedere e per indirizzare l’attenzione del progettista rispetto a condizionamenti della continuità scontata del sistema che aprono spiragli di cambiamento che altrimenti non potrebbero aprire; l’estensione territoriale agevolando l’azione del ricercare innovazioni potenziali alla realtà facendosi ispirare da luoghi notevolmente distanti da quella nella quale opera il committente o nella quale il designer si è prefigurato di agire; una certa attitudine open-source, la condivisione della ricerca – continua –, come se il contenuto della ricerca, anzi la materia stessa della ricerca fosse il testimone da consegnare per raggiungere un ulteriore punto di avanzamento, al­l’infinito, perché è solo producendo innovazione in continuo e producendola senza immaginare sempre e solo un prodotto finale, ma singoli componenti, processi, parti, dispositivi […] che si può innescare un processo di innovazione di portata collettiva assai cospicua; la mancanza di un cliente, di un committente, di un obiettivo specifico, in quanto l’obiettivo è l’innovazione stessa, e la ricerca continua è un modo di essere, l’attitudine naturale del designer, dicevamo. Ma quand’è che quest’attitudine naturale si rivela quanto mai necessaria? Quando si affermano nuove tecnologie e occorre quindi un’interfaccia in grado di umanizzarle; perché questo fanno, i designer: progettano inter-

facce, spontaneamente, perché sono affetti da una sorta di “malattia di progetto”. La peculiarità del designer rispetto ad altri progettisti o analisti che pure elaborano scenari futuri è la capacità di prefigurare creativamente: la creatività che diventa innovazione, oggetto del terzo e ultimo capitolo. Ecco perché il designer non è sostituibile da un modello efficace […] ha l’onere e l’onore di poter/dover progettare il proprio percorso a ogni progetto, adottando la strada più interessante e meno dispendiosa per raggiungere gli obiettivi dati tenendo in altissima considerazione che egli stesso è il fenomeno attraverso il quale tenta di modificare in modo soddisfacente la realtà. Ciò, ovviamente, non vuol dire che il designer non abbia un metodo, ma che il suo metodo dipende da una visione di per sé soggettiva, e non può essere oggettivamente predeterminato. Quel che è certo è che in ciascuno dei comportamenti del designer, dall’analisi del problema all’osservazione della realtà, dalla valutazione del progetto fino al collaudo, esiste la creatività che dobbiamo intendere […] come l’attitudine ad agire ponendo se stesso nell’azione medesima. Il saggio di Celaschi si chiude con una postilla critica: “Una fiaba mitologica” animata da due fratelli: Prometeo (colui che pensa e riflette prima di agire) e Epimeteo (colui che riflette solo dopo aver agito). Il primo, osservando e valutando, riesce a imporre il suo dominio sulla realtà; ma ciò provoca non pochi effetti collaterali: La hybris del progetto e i primi successi gli danno il


“fuoco”, si riempie di orgoglio e di arroganza e si immagina un super uomo, potente come un dio. Fa di sé il centro del mondo e riempie di proprie opere la terra e gli uomini. Così Zeus lo punisce: il modello del designer genio-creatore (passando dal mito greco al Rinascimento) entra in crisi; e Prometeo si rende conto che conviene condividere il fuoco con suo fratello, per riflettere sulle conseguenze disastrose delle sue azioni. Comincia qui la dimensione partecipativa del design: la consapevolezza, da parte di Prometeo, che coinvolgere gli uomini nel suo progetto giova, perché una gran quantità di persone spingerà con lui nella stessa direzione desiderata e co-progettata, accrescendo il valore e aumentando le possibilità (di successo). Si delinea così un quadro “mitologico” che riassume la situazione attuale del design attraverso quattro momenti fonda-

mentali: la forte personalità del progettista che non deve precipitare nel delirio di onnipotenza; la capacità di relazionarsi con gli altri, di mediare gli interessi e condividere i processi di progettazione; la necessità, da parte del designer quale esperto del progetto, di dialogare con le scienze, traendo immenso vantaggio operativo e accrescendo sempre più il suo sapere; la strategica e sistemica arte di mettere tutto in sinergia per produrre risultati di gran lunga più convenienti ed “eco-logici”. Fatto ciò, gli dei sono contenti e premiano Prometeo accogliendolo nei fertili campi dell’Olimpo. Ed è lì che si trova adesso, infondendoci una piccola scintilla di luce celeste, la coscienza progettuale, e guidandoci nella ricerca – costante – della fiamma che illumina ma non inquina. D. R.

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Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 1.  Le «Nuove Iconi» e la «civiltà del consumo» - Architettura utopistica - La sociologia dell’arte dei sociologi - Esperienze della Biennale - Tecnologia e poetiche contemporanee - Nouveau roman e arti figurative - Il Gaudi di Pane (fascicolo esaurito) N. 2.  Design e mass media - Gestalt prima e dopo - L’estetica neonaturalistica di Romanell - Della Pop Art e di una mostra a Vienna - La poetica urbanistica di Lynch - Semantica dell’arte - Architettura come linguaggio (fascicolo esaurito) N. 3.  Architettura e cultura di massa - Alcuni temi dell’Informale - Kunstwollen e intenzionalità in E. Panofsky - Dal pragmatismo alla fenomenologia - Libri, riviste e mostre N. 4.  La critica discorde - S.K. Langer, L’influenza sociale del design - T. Munro, Recenti sviluppi dell’estetica in America - G. Veronesi, Sull’architettura del secolo - L. Vinca Masini, Le mostre dell’estate ’65 - Libri, riviste e mostre N. 5.  I criteri di valutazione dell’arte contemporanea - Una politica culturale per i socialisti - Il visual design - Pareri sulla IX Quadriennale - Libri, riviste e mostre N. 6.  Il disegno di architettura - J.P. Hodin, Esiste un’estetica dell’arte moderna? - Alcune voci dell’urbanistica contemporanea - Breve antologia delle ultime Biennali - Libri, riviste e mostre N. 7.  Note per una semiologia figurativa - W. Hofmann, Gli inizi dell’attività formale - E. Garroni, 33a Biennale di Venezia: «jeu» e «sérieux» - Libri, riviste e mostre N. 8.  Artisticità dei mass media - B. Jessup, Arte e storia - Il design scientifico di Alexander - Incontri di studi urbanistici - Libri, riviste e mostre

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N. 9.  Il pensiero estetico di Adorno - 4 artisti scelti da Barilli - A. Vivas, Filosofia della cultura, estetica e critica: alcuni problemi - Libri, riviste e mostre


N. 10.  Il premio IN/ARCH alla nostra rivista - R. Barthes, Semiologia e urbanistica - Nuove idee per la Gescal - Il metodo scientifico nella pianificazione - G. Veronesi, Su alcune mostre dell’estate italiana - Libri, riviste e mostre N. 11. G. Morpurgo-Tagliabue, L’arte è linguaggio? - Urbanistica e arti visive oggi - Valori ed obiettivi nella pianificazione - Libri, riviste e mostre N. 12.  Tre contributi alla semiologia architettonica - E. Garroni, L’eterogeneità dell’oggetto estetico - V. Corbi, Questioni di estetica empirica - A. Perez, Riflessioni di uno scultore sul tema dello spazio - Libri, riviste e mostre N. 13. L’«environmental design» e il suo insegnamento - Per una teoria dell’architettura - L’estetica del «pensiero negativo» in Marcuse - Libri, riviste e mostre N. 14.  La prossemica: un nuovo apporto all’architettura? - La poetica del­ l’arte povera - Note sull’Università e la professione - O. Ferrari, Una Biennale rimasta senza giudizio - Libri, riviste e mostre N. 15.  I problemi dell’istruzione artistica - R. Segre, Presenza di Cuba nella cultura architettonica contemporanea - Architettura fra retorica e logica Libri, riviste e mostre N. 16.  Significanti e significati della Rotonda palladiana - G. Dorfles, Valori iconologici e semiotici in architettura - Attualità della retorica - Libri, riviste e mostre N. 17.  Il centro della città (definizioni) - M. Tafuri, Ambiguità del Guarini - Lettura storico-semiologica di Palmanova - Libri, riviste e mostre N. 18.  L’architettura per l’Università - E. Garroni, Semiologia e architettura. Alcuni problemi teorico-applicativi - Recenti contributi allo studio dell’«environmental design» - Libri, riviste e mostre N. 19.  Segni e simboli del tempietto di Bramante - Note sull’immaginario in Filarete - Philip Johnson: la funzione della maschera formale - Biennale/ricerca - Libri, riviste e mostre N. 20.  Utilità storiografica di una dicotomia linguistica - Meaning in Architecture - La cultura di Le Corbusier - New Towns (definizioni) - Libri, riviste e mostre N. 21.  Note per una epistemologia della rappresentazione visiva - G. Bonsiepe, Panorama del disegno industriale - Per una poetica del profondo: Blaue Reiter - Libri, riviste e mostre N. 22.  Nomi, luoghi, immagini di città nella «Recherche» di Proust - U. Eco, Analisi componenziale di un segno architettonico - Percezione ed esperienza estetica - Libri, riviste e mostre

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N. 23.  La «riduzione» culturale - Libri, riviste e mostre N. 24.  «Arquitectura, historia y teoria de los signos» - Note di terminologia semiotica - Il design: processo e fruizione - Il «silenzio» dell’architettura contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 25.  Note sull’arte concettuale - L. Benevolo, La recente storiografia della città - Lo storicismo e i confini della semiologia - Città-pubblicità: sul caso Las Vegas - Libri, riviste e mostre N. 26.  La «riduzione» culturale nella progettazione architettonica - R. Barilli, Le due anime del concettuale - G. Morpurgo-Tagliabue, Commento alla «riduzione» culturale - L’antidesign - Libri, riviste e mostre N. 27.  Altri aspetti della «riduzione» culturale - Interventi: G. Dorfles, Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto - P. Fossati, Riduzione o trasformazione? - T. Llorens, Sul concetto di comunicazione estetica - Libri, riviste e mostre N. 28.  Elementi semiotico-progettuali d’architettura - M. Krampen, Dalla semiologia della comunicazione alla logica degli strumenti - Libri, riviste e mostre N. 29.  Per una lettura semiotica della prospettiva - Elementi di una tendenza dell’architettura italiana - XV Triennale - Libri, riviste e mostre N. 30.  Problemi di semiotica dell’arte contemporanea - B. Zevi, Sei postille su «Il linguaggio moderno dell’architettura» - Alcune opinioni sull’iperrealismo - Libri, riviste e mostre N. 31.  Elementi della progettazione scientifica - Il segno indefinito della semiologia urbanistica - Note sulla cultura a «mosaico» - Arbitrarietà e motivazione del linguaggio architettonico - Libri, riviste e mostre N. 32.  L’eccentrismo, un momento della avanguardia sovietica - U. Eco, Chi ha paura del cannocchiale? - Nota sul segno urbanistico - I segni e le «figure» del Padiglione di Barcellona - Libri, riviste e mostre N. 33.  Architettura come istituzione - Il «ritorno» alla pittura - Università: le parole e le cose - Libri, riviste e mostre N. 34.  Dall’estetica alla semiologia - La teoria di Hjelmslev e l’architettura: alcuni problemi - Il «realismo» di Giuseppe Samonà - Libri, riviste e mostre N. 35.  Attualità dell’iconologia: alcune questioni metodologiche - R. Barilli, Difficoltà di un approccio semiotico alla culturologia - L’editoria architettonica - Libri, riviste e mostre

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N. 36.  I centri storici nella prospettiva semiologica - Le idee di teatro, oggi - Una riproposta del «multiplo» - Libri, riviste e mostre


N. 37.  Dialettica del «piacere» e identità dell’architettura - Assenza-presenza: due modelli per l’architettura - La «storia dell’arte» nelle scuole - Libri, riviste e mostre N. 38.  Le ricerche di architettura più attuali ed insolite - Dalla fotografia al videotape - Analisi di un corso di laurea: il Dams - Libri, riviste e mostre N. 39.  La sociologia del gusto di Jean Baudrillard - Le posizioni di […] su alcuni temi della critica architettonica in Italia - Libri, riviste e mostre N. 40.  «Aforismi» sui centri storici - Note sulla simmetria in architettura Bataille e la “svolta” di «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 41.  Dipartimento e «architettura» - La «rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica - La critica d’arte in «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 42.  L’idea di pittura in Lévi-Strauss - Sul concetto di gusto - Alcuni contributi alla critica dell’inconscio - Libri, riviste e mostre N. 43.  La post-avanguardia - Luoghi e luoghi comuni della recente critica d’arte - Narciso e «l’altro»: note sul dibattito architettonico - Libri, riviste e mostre N. 44.  Architettura: la «rimozione del nuovo» - Ipotesi per il segno iconico - Storia dell’arte, storia delle cose - Libri, riviste e mostre N. 45.  Topologia e architettura - La casa: norma e «deroga» - Artisti e cinema - Libri, riviste e mostre N. 46.  I quindici anni della nostra rivista - L’Architettura all’Ecole des Beaux-Arts - La Storia dell’arte Einaudi - Una griglia che non sia una grata N. 47.  Architetto e ingegnere - Le scuole di critica d’arte in Italia - L’immaginario nella cultura di massa - Libri, riviste e mostre N. 48.  Prima e dopo il Post-Modernism - L’iconizzazione del mobile - Civiltà del ’700 a Napoli - Libri, riviste e mostre N. 49.  Il restauro architettonico: ricchi apparati e povere idee - F. Menna, La Biennale di Venezia. Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti - Critica d’arte e processi produttivi - Libri, riviste e mostre N. 50.  Fortuna critica della «Tendenza» - R. Bonelli, Storiografia e restauro - La fotografia: indice o icona? - Libri, riviste e mostre N. 51.  Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, riviste e mostre N. 52.  L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre

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N. 53.  Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54. Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55.  Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56.  Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57.  Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58.  E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59.  Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60.  Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61. Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62.  Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63.  Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64.  Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65.  Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre N. 66.  Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre

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N. 67.  Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre


N. 68.  Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69.  Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70.  Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71.  Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72.  Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73.  Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74.  Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75.  Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76.  I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77.  Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78.  L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79.  Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80.  Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81.  Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82.  Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre N. 83.  Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre

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N. 84.  Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85.  Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86.  Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87.  Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88.  L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89.  Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90.  L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91.  «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92.  Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93.  La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94.  Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95.  Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96.  Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97.  Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98.  Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre

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N. 99.  Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre


N. 100.  Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101.  Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102.  Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103.  Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104.  La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105.  L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106.  Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107.  Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108.  Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109.  Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110.  Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111.  Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112.  Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113.  Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114.  L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115.  L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre

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N. 116.  Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117.  Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118.  Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119.  L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121.  La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122.  L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123.  Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125.  Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126.  L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127.  Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128.  Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129.  Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI


N. 131.  Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132.  Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133.  Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134.  Abitare la razionalità - Per una nuova clas­si­ficazione delle arti - Il design ae­ro­nautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135.  Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137.  Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138.  Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­ l’ADI N. 139.  Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI N. 152. Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre N. 153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazione Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre

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N. 154. Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione - Ancora sul rapporto tra arte e pubblico - Design: scenari morfologici della contemporaneità - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI


N. 155. Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia - Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo - Della omologazione in architettura - Arti visive: da zona franca a fronte comune - È del designer il fin la meraviglia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 156. Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» - Modern/post: un territorio in-between - «Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradigma espositivo - Moda: sistema e processi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Campania N. 157. Editoriale - Una “ipostasi” della forma-tatuaggio - Aspetti e intenti del graffitismo d’oggi - Lebenswelt e architettura - Design vs Lebenswelt Libri, riviste e mostre N. 158. Architettura e qualità nell’età dei concorsi - La nostalgia nella cultura digitale - Conformazione e trasformazione degli spazi interni - La ricerca di una definizione di design - Libri, riviste e mostre N. 159. «Corporea» alla Città della scienza di Napoli - Mono-ha nel contesto globale. Poetiche e culture a confronto - Distruzioni e ricostruzioni a Berlino - Il tempo del tipo nello spazio del design - Libri, riviste e mostre

Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998 «Grafica Elettronica» - Via Bernardo Cavallino, 35/g - 80128 Napoli

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ISSN 0030-3305

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