gennaio 2018
numero 161
La metodologia circolare della progettazione in architettura - Aldo Rossi. Topografia urbana - Artisti italiani e realtà sociale nel secondo dopoguerra - La rivista «October»: novità metodologiche e crisi di un paradigma - Il design (morale) dell’ordine - Ernesto Basile. Dall’architettura d’interni all’industrial design - Enzo Mari. Opera, multiplo, serie - Libri, riviste e mostre
Selezione della critica d’arte contemporanea
rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco
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G. D’Amato, R. De Fusco La metodologia circolare della progettazione in architettura 5 Aldo Rossi. Topografia urbana 19 L. Coccia N. Galvan Artisti italiani e realtà sociale nel secondo dopoguerra 32 M.G. Mancini La rivista «October»: novità metodologiche e crisi di un paradigma 46 I. Fiorino Il design (morale) dell’ordine 55 Ernesto Basile. Dall’architettura D. Russo d’interni all’industrial design 68 D. Turrini Enzo Mari. Opera, multiplo, serie 81 Libri, riviste e mostre 91
Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Pasquale Belfiore, Alessandro Castagnaro, Antonio Labalestra, Andrea Sciascia, Alberto Terminio, Massimo Visone
La metodologia circolare della progettazione in architettura GABRIELLA D’AMATO - RENATO DE FUSCO
La symmetria vitruviana, la concinnitas di L.B. Alberti, la gestaltheorie, lo strutturalismo, il rapporto fra progetto architettonico e piano urbanistico, ogni altra concezione fondata sul rapporto fra «il tutto e le parti» possono considerarsi metodologie «circolari»: tra queste la più emblematica è l’ermeneutica, che si fonda sul concetto di «circolo ermeneutico», come vedremo più avanti. Il nostro articolo si ispira prevalentemente ad essa innestandovi tuttavia temi e problemi dell’architettura. Com’è noto, l’ermeneutica (da Hermes il messaggero degli dei) nasce quale interpretazione dei fatti certi (le sacre scritture), ricerca di norme e di canoni, e come lotta contro l’arbitrarietà e il soggettivismo nelle discipline attinenti all’interpretazione. Successivamente si è trasformata in una vera e propria filosofia, rispecchiando, sempre nell’ambito delle scienze umane, le mutevoli esigenze delle diverse età della storia. Esistono infatti un’ermeneutica classica, medievale, rinascimentale, illuministica, romantica, ecc. Quanto ai fatti certi e ai canoni, giova ricordare il concetto di téchne. Esso è molto antico ed era considerato un dono degli dei agli uomini per sopperire alla loro intrinseca debolezza (Esiodo). È importante sottolineare che le divinità possedevano le tecniche non perché le avessero apprese o inventate, bensì perché erano a loro sostanziali: Efesto e Atena esercitavano le technai perché esse si identificavano con loro1. Col passare del tempo, la divisione del lavoro e la nascita di nuovi mestieri all’interno delle comu-
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nità, il problema divenne preminente e il concetto stesso di téchne si ampliò progressivamente. Le tecniche, da prerogativa divina, diventano invenzione umana: così appare infatti nelle opere di Senofane, Eschilo, Sofocle2. Un’altra proprietà che ci porta ad apprezzare il concetto di téchne sta nel fatto che a suo sostegno troviamo il nòmos, cioè la legge e l’ordine, le norme inderogabili, presenti sì in ogni forma d’arte, ma in architettura più condizionanti e formative che in altre. Ci si potrebbe dunque chiedere: l’architettura intesa come téchne è quindi un’arte nomotetica, così come le scienze matematiche e naturali? La risposta è affermativa, pur aggiungendo che è anche un’arte idiografica così come le scienze storiche, orientate verso lo studio descrittivo di eventi colti nella loro individualità e irripetibilità. È Hans Gadamer a far rientrare nell’ermeneutica anche l’architettura, motivandola e conferendole un ruolo preminente: le forme artistiche che dal punto di vista dell’arte dell’Erlebnis rappresenterebbero casi periferici vengono a collocarsi al centro: e sono quelle forme d’arte in cui il contenuto proprio rimanda, al di là di esse, alla totalità di un contesto da loro e per loro determinato. La più nobile e grandiosa di queste forme è l’architettura3. Da ciò anche la necessità di rinnovare tale rapporto con il contesto, stabilendo un’integrazione tra antico e nuovo: le opere architettoniche non se ne stanno immobili ai bordi del fiume della storia, ma sono trascinate da esso. Anche quando un’epoca di particolare sensibilità storica si propone di restaurare strutture architettoniche antiche, non può pretendere di far girare a rovescio la ruota della storia; ciò che le è dato è solo di operare una nuova, migliore mediazione tra passato e presente4. Il rapporto tra architettura e contesto, di cui Gadamer ha sottolineato l’importanza fondamentale, è affidato al progetto, del quale occorre dunque ripensare natura e funzione. In effetti, l’architettura si avvale dell’ermeneutica sia per la costante ricerca normativa, sia per tener conto di quanto propone la dinamica del pensiero filosofico e/o artistico. In breve, per procedere col passo dei tempi le metodologie architettoniche, caduti molti riferimenti e quasi ogni fondamento, hanno ricercato in loro stesse le valenze euristiche necessarie a tener in vita fabrica et raziocinatio dell’architettura.
Un collegamento specifico fra il pensiero filosofico e quello architettonico viene operato da Vattimo: C’è un tipo di soluzione del problema della perdita della centralità, in filosofia, che si può mettere in parallelo con l’idea della progettazione per parti. In entrambi i casi si tratta di riflettere sul modo di uscire dalla o articolarsi nella parzializzazione. In filosofia l’orientamento che più di altri ha approfondito questo tema è quello che va sotto il nome di ermeneutica5. L’attualità di tale disciplina è data dal fatto che La filosofia si configura oggi (anche) come presa di congedo dal pensiero del fondamento, ossia come constatazione del venir meno della fiducia nella possibilità di trovare un principio primo, un punto di riferimento sicuro e definitivo in base al quale ordinare l’esperienza6. All’esegesi dell’ermeneutica va anteposto un richiamo al «circolo ermeneutico». Con tale espressione si indica un processo per cui l’interpretazione va continuamente dal tutto alle parti e viceversa. Ma come risalire dalla parte alla comprensione del tutto se per capire la parte occorre già una comprensione preliminare (una precomprensione) del tutto? A questa problematica domanda che definisce l’intera metodologia ermeneutica sono state date molte risposte. La più convincente implica la nozione di «appartenenza». Rifacendosi ad Heidegger, Vattimo ritiene che il circolo ermeneutico non si applichi solo alla comprensione di un testo, ma sia una definizione generale dell’esistenza, nel senso che l’esistenza è un circolo di parte-tutto, un’articolazione di appartenenza. Comunque, la comprensione della parte suppone. una certa appartenenza preliminare al tutto in assenza della quale non comprenderemmo neanche la parte7. Lo stesso autore osserva: Quando dico “appartenenza al tutto” ho di mira un significato preciso; perché non un certo possesso del tutto e invece un’appartenenza di me al tutto? Qui se pensate all’apprendimento della lingua capite perché. La condizione per cui un bambino apprenda la lingua non è che la possieda già tutta in qualche modo oscuro, ma piuttosto che sia nato in una certa comunità linguistica. Cioè il tutto in base al quale si capiscono le parti non è mai un tutto che già possiedo, ma rispetto al quale sono in una condizione di appartenenza8.
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Il concetto di appartenenza – già visto in altre occasioni parlando, specie per i centri storici, del binomio piano/progetto – si pone come chiave risolutiva del rapporto parte-tutto che l’ermeneutica ha stabilito nel concetto di circolo ermeneutico. Richiamare tale assunto a proposito dell’architettura significa non solo ammettere una progettazione per parti, ma soprattutto affermare il riconoscimento dell’appartenenza del progettare a una situazione globale, al luogo e alla tradizione, che «è la constatazione delle tracce, delle vocazioni, delle esigenze». Ora, questa posizione della filosofia ermeneutica si può forse applicare all’architettura; nel senso che guardare filosoficamente il fenomeno del costruire comporta anche un atteggiamento di fondo per cui non “io possiedo il piano” ma “appartengo” ad una situazione: dentro questa situazione progetto9. Un’altra motivazione per legare la progettazione alla metodologia ermeneutica, grazie alla nozione di appartenenza, sta in ciò che chi interpreta un testo ne rimane a sua volta modificato e che l’interpretazione è sempre un atto progettuale da effettuare nella dimensione storica del presente. È tempo di precisare. a questo punto, che il termine progetto viene inteso, qui e altrove, sia nel senso generale sia in quello specificamente tecnico, ovvero appartiene sia ai filosofi che agli architetti. Alle suddette indicazioni di metodo, che rendono l’ermeneutica espressione fondamentale della condizione postmoderna, affianchiamo una nostra proposta che mira a individuare nell’ermeneutica una chiave interpretativa valida per cogliere la struttura invariante del processo progettuale dell’architettura. Pensiamo, perciò a quattro parti o momenti (che possono essere di numero diverso senza modificare il processo): 1) i dati di partenza; 2) l’intuizione; 3) la rappresentazione; 4) la critica operativa. Anzitutto va osservato come molte confusioni, alcuni malintesi, più di un errore concettuale in materia di progettazione derivino dal fatto di non avere chiarito l’eterogeneità riscontrabile nel lavoro progettuale trattandosi ora di implicazioni pratiche (la tecnica), ora concettuali (i criteri), ora inventive (l’estetica), ora soggettive (la qualità), ora oggettive (la quantità), ecc. Prendere coscienza di queste diversità significa in primo luogo rafforzare
l’idea che nel processo progettuale si opera per parti, che mirano tuttavia a tradursi in un esito unitario. Nondimeno, come conciliare parzialità e unitarietà? Chi si mette a interpretare un testo, sostiene Gadamer, attua sempre un progetto. Sulla base del più immediato senso che il testo gli esibisce egli abbozza preliminarmente un significato del tutto. E anche il senso più immediato il testo lo esibisce solo in quanto lo si legge con certe attese determinate. La comprensione di ciò che si dà da comprendere consiste tutta nella elaborazione di questo progetto preliminare, che ovviamente viene continuamente riveduto in base a ciò che risulta dall’ulteriore penetrazione del testo. Questa descrizione è beninteso uno schema estremamente sommario: bisogna infatti tenere conto che ogni revisione del progetto iniziale comporta la possibilità di abbozzare un nuovo progetto di senso; che progetti contrastanti possono intrecciarsi in un’elaborazione che alla fine porta ad una più chiara comprensione dell’unità del significato10. Fin qui ci muoviamo ancora in un ambito metaforico, confermando ciò che è esperienza comune del progettista, e cioè che il suo lavoro procede per successive approssimazioni, consiste in una sorta di fare e disfare, in un intreccio di soluzioni che danno luogo a una nuova ipotesi progettuale. Molto spesso abbiamo disegnato la pianta di un edificio, nella quale tutto sembrava «funzionare», salvo a doverla radicalmente rivedere allorquando da quella pianta scaturivano prospetti e sezioni insoddisfacenti da questo o quel punto di vista e comunque incongrui alla conformazione dell’intero organismo. Più significativo e pertinente al nostro tema è quanto Gadamer scrive continuando il passo citato: bisogna tenere conto che la interpretazione comincia con dei pre-concetti i quali vengono via via sostituiti da concetti più adeguati. Proprio questo continuo rinnovarsi del progetto, che costituisce il movimento del comprendere e dell’interpretare, è il processo che Heidegger descrive11. Come possiamo utilizzare ai nostri fini le indicazioni contenute nei brani citati, allorquando il termine «progetto» non esprime un modo di effettuare un’opera d’interpretazione, bensì un
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vero e proprio progetto nel senso «tecnico» della parola? Notiamo intanto che il ragionamento di Gadamer affronta in maniera complessiva un testo tutto intero e già redatto, mentre il nostro «testo» (il progetto di un’opera architettonica) è una elaborazione in fieri che comporta inevitabilmente, per quanto si possa avere una precognizione globale, una successione di fasi. Tuttavia, nonostante questa diversità tra il classico problema dell’interpretazione di un testo e quello della redazione di un progetto, dai brani di Gadamer ci sembrano desumibili due indicazioni. Quella per cui, operando globalmente, con un continuo confronto col testo, si ricercano sempre nuove e più adeguate soluzioni – ed è ciò che fanno empiricamente tutti i progettisti, confermando la già nota affinità tra progettazione e attività ermeneutica – e quella, funzionale alla prima, ma da intendere anche come autonoma e più analitica via, della sostituzione dei pre-concetti con i concetti, delle precognizioni con le cognizioni. La seconda indicazione costituisce il nodo della nostra proposta progettuale: i pre-concetti o le precognizioni vengono sostituiti dai concetti o dalle cognizioni grazie all’interagire delle quattro parti o momenti sopra indicati; ma procediamo più analiticamente. I dati, ovvero le istanze della committenza e/o i vincoli ambientali possono assumersi «provvisoriamente» come il punto di partenza della progettazione e soprattutto come l’insieme più obiettivo delle informazioni utili al progettista, tant’è che si ritiene spesso necessario fissare il maggior numero di requisiti dell’opera per giungere quasi automaticamente alla sua definizione progettuale. Ma non è così. È evidente che se gli stessi dati vengono forniti a due o più progettisti, i risultati saranno notevolmente dissimili fra loro, e ciò non solo e non tanto per le differenti capacità degli artefici, ma perché i dati stessi, niente affatto obiettivi e indeclinabili, come si pretende, costituiscono un problema d’interpretazione. Il progettista, infatti, appena prende nota dei dati, effettua una loro prima provvisoria analisi; inoltre, già intuisce la forma dell’oggetto da progettare rispondente a quei dati; ancora, predispone mentalmente gli strumenti della rappresentazione della forma intuita; infine, richiama, sia pure in modo approssi-
mativo, i criteri della critica operativa utili alle sue scelte e manipolazioni. Più esattamente, posto che il progetto si componga di quattro parti e che esse siano tra loro interrelate, l’architetto assume i dati come una pre-cognizione, che diventa cognizione adeguata allorquando passerà al vaglio delle altre componenti. Analogamente, nella fase dell’intuizione (una precognizione per antonomasia), il progettista la tradurrà in una cognizione adeguata allorquando la sottoporrà al vaglio delle altre componenti. Lo stesso accade per la fase della rappresentazione. Questa, fondandosi sull’esperienza dei mezzi espressivi già posseduti dall’architetto (il tecnigrafo, l’autocad) costituisce in un primo tempo, evidentemente, una precognizione, che diventerà cognizione allorquando passerà al vaglio delle altre componenti. Finalmente nella fase o parte o momento della critica operativa, quest’ultima – una precognizione fondata su teorie, esperienze precedenti, ricordi storici, criteri estetici, funzionali, tecnici ecc. – diventerà una cognizione adeguata allorquando sarà soggetta al vaglio delle altre componenti. E proprio di quelle storicamente individuate nello specifico problema da risolvere, e non di altre. Come si vede, lo abbiamo già detto, per ogni parte del progetto si tratta del passaggio da un pre-concetto a un concetto, da un già noto generico a una conoscenza specifica, da un fare indefinito a un’azione delimitata: a causa di tale passaggio e dell’interagire delle parti, ciascuna di esse trova il suo posto nel tutto; ma non basta: bisogna riconoscere una circolarità tra le parti e il tutto per sostenere che le prime non trovano solo un posto, ma si integrano con il tutto. La circolarità sembrerebbe compromessa dal fatto che, a differenza di un testo dato come interamente compiuto, il progetto, ripetiamo, è un «testo» che si viene elaborando e nel quale, tra l’altro, si pone il problema di una successione, di un prima e di un dopo. Tuttavia ciò non comporta necessariamente una sequenza lineare: la circolarità tra il tutto e le parti è ancora riscontrabile. Infatti, dato l’interagire delle parti, queste non devono necessariamente rispettare una cronologia. La rispettano sì nella fase precognitiva: i dati provvisoriamente precedono l’intuizione, questa viene prima della rappresentazione, fino all’intervento della critica operativa, ma non è più così allorquando ciascuna di
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queste parti, richiamando tutte le altre, si trasforma in una cognizione. Detto diversamente, quando i preconcetti empirici «realistici», posti in una successione cronologica, si trasformano in concetti, essi fanno capo a una concezione generale e unitaria del problema progettuale da risolvere. Una volta raggiunta tale unità, le parti-concetto possono considerarsi indipendenti dal posto che occupavano nella primitiva sequenza. La critica operativa, ad esempio, empiricamente all’ultimo posto, essendosi poi «contaminata» con gli altri momenti, può confermare o smentire l’intui zione e/o la rappresentazione; la rappresentazione può confermare l’intuizione e/o la critica operativa, e così via; persino la presunta obiettività dei dati di partenza può essere smentita dalle altre componenti del processo. Potremmo parlare allora del nihil addi albertiano. In caso contrario, non è casuale che tanti propositi progettuali, inizialmente basati su precisi dati ed esigenze, rimangano inattuati o necessitino di una radicale revisione di programma. Altresì, all’opposto, non è casuale che tante realizzazioni siano state effettuate, grazie ai vincoli dati o intervenuti successivamente. Ogni progetto, dunque, nella natura eterogenea sì, ma interagente delle sue parti, nella finalità interpretativa e nella circolarità della logica ermeneutica, trova forse il metodo per risolvere il suo principale problema: quello, cioè, di ricavare soluzioni all’interno del suo stesso processo o di introitare in esso tutte le possibili eteronomie. È appena il caso di notare come la circolarità della nostra proposta progettuale non vada vista quale chiusura verso l’esterno, un «recinto» che separa il progetto dal contesto, né come la nozione di appartenenza (del progettista) possa isolare il problema progettuale da risolvere a scapito del più generale contesto. Già le nozioni di dialogo, di interpretazione indicano che il progetto non solo è aperto al mondo, ma che neanche potrebbe impostarsi senza gli apporti esterni che vengono richiamati a ogni fase del processo. Del resto, il processo progettuale auspicato si traduce in segni e la semiologia, come noto, studia i segni nel quadro della vita sociale. Si tratta in sostanza di introitare nella specificità «tecnica» del progetto quegli aspetti del rea le storico che risultano pertinenti all’opera da progettare. Inoltre, anche alla circolarità ermeneutica non manca un pro-
cedimento di verifica. Infatti, per Gadamer, chi cerca di comprendere è esposto agli errori derivanti da pre-supposizioni che non trovano conferma nell’oggetto. Compito permanente della comprensione è l’elaborazione e l’articolazione dei progetti corretti, adeguati, i quali come progetti sono anticipazioni che possono convalidarsi solo in rapporto all’oggetto. L’unica obiettività qui è la conferma che una pre-supposizione può ricevere attraverso l’elaborazione. Che cos’è che contraddistingue le pre-supposizioni inadeguate se non il fatto che, sviluppandosi, esse si rivelano insussistenti? Ora il comprendere perviene alla sua possibilità autentica solo se le pre-supposizioni da cui parte non sono arbitrarie. C’è dunque un senso positivo nel dire che l’interprete non accede al testo semplicemente rimanendo nella cornice delle presupposizioni già presenti in lui, ma piuttosto, nel rapporto col testo, mette alla prova la legittimità, cioè l’origine e la validità di tali presupposizioni»12. Nell’attuale crisi di fondamenti, ciò che resta, e a cui è possibile appellarsi è proprio tale assunto di «validità verificabile» dei criteri nell’effettivo prodursi di un testo critico come di un progetto. Ma vorremmo in proposito ricordare, così come abbiamo fatto all’inizio del presente articolo, senza sottovalutare le specifiche e pur notevoli differenze, che un simile assunto appartiene anche ad altre proposte teoriche le quali, non a caso, presentano una loro circolarità: lo strutturalismo ortodosso di Hjelmslev, che tra i suoi postulati ammette il carattere necessariamente arbitrario, ma adeguato di ogni teoria (come quella che desume da ogni processo il sistema soggiacente), e soprattutto il metodo di Max Weber e la sua concezione del tipo-ideale. Che cosa più di que st’ultimo, infatti, tenta di fornire un mezzo per rappresentare una realtà eterogenea e confusa come la nostra senza ricorrere a «fondamenti», ma ponendo in luce aspetti più o meno evidenti della realtà stessa al fine di una sua interpretazione univoca? Quale concezione diversa dal tipo-ideale è così disponibile a rivedere il suo schema quando questo si rivela inadeguato ai fatti e pronta a riproporne un altro più adatto alla loro lettura? In altre parole, il tipo-ideale, grazie alla sua natura ipotetica e «finzionistica», costituisce una possibile guida per poterci regolare, benché in ma-
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niera provvisoria, in un universo estremamente sregolato. Compito analogo, benché suscitato da diverse premesse, può svolgere l’ermeneutica, almeno nell’accezione in cui qui è stata intesa.
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Ciò nonostante, altri due temi vanno trattati per chi voglia stabilire il rapporto tra ermeneutica e architettura: quello del linguaggio e quello della storia. La natura comunicativa e interpretativa dell’ermeneutica ha indotto a studiare questa disciplina come prevalentemente legata al linguaggio verbale e scritto, raramente riferita ad altre forme linguistiche. Da parte di molti autori si sostiene che noi pensiamo in termini di linguaggio; e l’assunto viene interpretato in due modi. Da un lato, si ritiene che a ciascun sistema concettuale corrisponda un determinato tipo di linguaggio: quello verbale, quello pittorico, quello musicale, quello architettonico ecc. Ed è questa l’interpretazione di Fiedler e della scuola purovisibilista, che per prima riscontrò una struttura auto-espressiva nel linguaggio della figurazione, per molti aspetti analoga a quella del linguaggio verbale. Dall’altro lato, si reputa che ogni pensiero, qualunque ne sia l’oggetto, corrisponda unicamente al linguaggio verbale. In breve, l’alternativa è pensiamo e comunichiamo con le parole o con le immagini? La maggioranza degli studiosi opta per la linea del linguaggio verbale. Whorf scrive: Il mondo si presenta in un flusso caleidoscopico di impressioni che le nostre menti devono organizzare: e ciò significa in larga misura, organizzarle secondo il sistema linguistico delle nostre menti13. Humboldt accenna ad una realtà oggettuale, ma osservando: L’uomo vive con i suoi oggetti prevalentemente anzi si può dire, dato che il suo sentire ed agire dipende dalle sue percezioni, esclusivamente – nel modo in cui il linguaggio glieli presenta14. Dal canto suo Cassirer sostiene: «Non soltanto nell’organizzazione ed articolazione del mondo dei concetti, ma anche nella struttura fenomenica della percezione stessa, e qui anzi in misura più impressionante, si rivela il potere del formare linguistico»15. Ancora, per Sapir «persino gli atti percettivi relativamente semplici sono in balia assai più di quanto possiamo supporre dei patterns sociali chiamati parole […]. In larga misura il modo in cui vediamo, udiamo o sperimentiamo in qualche modo, dipende
dalle abitudini linguistiche della nostra comunità, che predispongono certe scelte interpretative; la persuasione, che tanti hanno, di poter pensare e persino ragionare senza valersi del linguaggio è un’illusione. Il pensiero può costituire un settore della natura separato da quello artificiale del linguaggio, ma sembra che la parola sia l’unica via conosciuta che porti ad esso»16. Il linguaggio «nella prospettiva humboldtiana, non è l’esito di un’attività volontaria e intellettualistica, ma una spontanea produzione del pensiero, nella quale si radicano le forme storiche dell’umanità; così che ogni lingua possiede una innere Sprachform, una forma interna, che esprime la peculiare visione del mondo propria del popolo in cui si è originata. La linguistica comparata sfuma così, senza soluzione di continuità, nell’antropologia e nella riflessione storica, proprio nella misura in cui costituisce la via privilegiata d’accesso alle diverse Weltanschauungen delle nazioni17. In altri punti di Verità e metodo leggiamo: «Il linguaggio è storia: la sua assolutezza coincide con la sua finità. I singoli discorsi non sono mai solo articolazioni di possibilità già presenti nel vocabolario, ma ne modificano continuamente la struttura, arricchendola e trasformandola. Il mondo, d’altra parte, non è qualcosa che si contrapponga a questo vocabolario in continuo divenire: il divenire del linguaggio è il suo divenire e viceversa»18. E veniamo al rapporto tra ermeneutica e storia. In precedenti studi abbiamo sostenuto che la storiografia possa considerarsi progettazione; ora questa tesi può trarre sostegno dalla metodologia ermeneutica e soprattutto dal «circolo ermeneutico» Infatti, questo va oltre il rapporto strutturale parti/tutto riscontrabile all’interno di una singola opera-evento. Betti, riferendosi a Schleiermacher, scrive: «la totalità complessiva si può cogliere anche riferendola oggettivamente a un sistema culturale in cui rientri l’opera da interpretare, in quanto costituisce un anello nella concatenazione di significati esistenti tra opere di consimile contenuto e genere. Perciò anche a codesto superiore livello la comprensione avrà, all’inizio del processo interpretativo, un carattere di provvisorietà, per poi consolidarsi e arricchirsi progressivamente»19. Secondo questa più ampia prospettiva, tutto quanto abbiamo visto applicabile, tramite il circolo ermeneutico, ad un solo testo-evento, si può legittimamente estendere ad un livello pro-
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gettuale più alto, formato cioè da un insieme di testi-eventi e per estensione a tutta una vicenda storica che il ricercatore intende studiare. Cosicché, il progetto storiografico diventa trascendente la gran parte degli altri tipi di progettazione. La più ampia dimensione dell’oggetto da studiare ci pone di fronte ad un più articolato sistema interpretativo. In tal caso, riteniamo ragionevole non basarci più sull’idea della precognizione pura e semplice, ma su qualcosa che, pur essendo ipotetica, provvisoria e funzionale al compito interpretativo, abbia un più solido fondamento metodologico. La pre-cognizione diventa allora un tipo-ideale, ovvero una costruzione ipotetica finzionistica, provvisoria, funzionante da parametro di riferimento dei fatti storicosociali, da paradigma per la loro interpretazione. Ammettendo, come già detto, che ogni interpretazione sia modificazione, che lo stesso interprete venga modificato, in quanto agente nell’ambito dell’appartenenza, ecco che delle tre dimensioni temporali della storia a prevalere sia quella del presente. Certo, alcuni filosofi escludono addirittura il presente dai tempi della storia, come Heidegger, che privilegia la dimensione futura o, meno radicalmente, Koselleck, che vede nel presente una soluzione di continuità tra «esperienza» e «aspettativa». Altri ancora legittimano la storia solo se serve alla vita (evidentemente presente), come nel caso di Nietzsche, o se serve alla modificazione, appunto attuale, della situazione esistente, come pragmaticamente ritiene Dewey. La tesi della storiografia come progetto richiede qualche ulteriore considerazione: la teoria della previsione e quant’altro concerne le tre dimensioni del tempo storico, nonché la possibilità di discutere un altro importante fattore convalidante la nostra prospettiva: quello della «manipolazione». Assegnando la massima valenza alla chiave selettiva – riconosciuta da tutti gli storici («tutta la storia è scelta» ribadisce Febvre), dai più ortodossi impegnati nella narrazione dei fatti a quelli che hanno invocato ogni sorta di teoria per meglio comprenderli, interpretarli e spiegarli – non possiamo ignorare che tale chiave è intimamente connessa con un’altra, quella appunto della manipolazione storiografica. Ne hanno parlato in maniera
più o meno esplicita, ora dalla prospettiva filosofica, ora da quella metodologica, Nietzsche, Weber, Heidegger, Cassirer, Hempel (in particolare con i suoi partial explanation sketches), Hjelmslev, i rappresentanti della scuola cliometrica con la loro counterfactual speculation, i nuovi storici sociali di Bielefeld in termini di Fragestellung, ecc. Peraltro scelte e manipolazioni sono fra loro così intimamente correlate che non si danno le une senza le altre, così come non si dà pensiero senza azione. Pertanto l’opera manipolativa costituisce un fattore indispensabile per la «costruzione» della storiografia. Inoltre, se le caratteristiche più riconosciute della storia e conseguentemente della storiografia sono la relatività, ivi compresa quella riguardante la cosiddetta verità storica, l’incompletezza, lo scarto fra l’essere e il dover essere, la incessante revisione dei giudizi e tutto quanto di incerto e problematico le concerne, la manipolazione, nel senso migliore del termine, cioè quello euristico, non può non intervenire nello studio di una materia tanto inafferrabile. In conclusione e riassumendo: visto che le caratteristiche proprie della storiografia sono, accanto a quelle dell’individualità e della causalità, anche quelle delle scelte e della manipolazione, fondate sugli artifici storiografici, sulla logica strutturalistica e sui canoni ermeneutici, specie quello del circolo, la tesi della storiografia come progetto ci sembra legittimata. Cosicché, la storiografia che, pur non essendo arte, ha con questa molte affinità, è assimilabile a qualunque altro progetto, con le specificità, beninteso, considerate a suo tempo, di ricostruzione del passato e di costruzione per il futuro.
1 Cfr. G. Cambiaro, Platone e le tecniche, Laterza editori, Bari 1991, p. 15. 2 Ivi, pp. 17-19. 3 H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, p. 192. 4 Ivi, p. 193. 5 G. Vattimo, Abitare viene prima di costruire, in «Casabella», n. 485, novembre 1982. 6 G. Vattimo, Progetto e legittimazione, in «Lotus international», nn. 48/49, 1986. 7 Ibidem. 8 Ibidem.
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Ibidem. H.G. Gadamer, op. cit., p. 314. 11 Ibidem. 12 Ibid. 13 B.L. Whorf, Language, Thougth and Reality, New York 1956, cit. in R. Arnheim, Towards Psychology of Art, University of California 1966; tr. it. Verso una psicologia dell’arte, Torino 1964, p. 174. 14 W. von Humboldt, cit. in R. Arnheim, op. cit., p. 174. 15 E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, Berlin 1923-29, cit. in R. Arnheim, op cit., p. 175. 16 E. Sapir, Language. An introduction to the Study of Speech, New York 1921; tr. it. Il linguaggio, Torino 1969, p. 15. 17 M. Ferraris, Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano 1988, p. 126. 18 G. Vattimo, Introduzione a H.G. Gadamer, op. cit., p. XXVI. 19 E. Betti, L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito, Roma 1987, p. 68. 9
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Aldo Rossi. Topografia urbana LUIGI COCCIA
Aldo Rossi ha sempre ritenuto L’architettura della città niente più che uno “schizzo”, assimilabile ad un disegno limitato ai tratti essenziali, finalizzato a specificare un modo di intendere l’architettura, un modo di fare ricerca piuttosto che una ricerca conclusa. I numerosi studi intrapresi negli anni successivi alla pubblicazione del libro e l’ampio dibattito internazionale hanno contribuito ad avvalorare quello “schizzo di una fondata teoria urbana” tracciato nel 1966. Il libro viene pubblicato in un momento storico particolarmente stimolante. Sullo sfondo del realismo degli anni ’50, Rossi matura un impegno culturale e uno spiccato interesse per le tematiche urbane entro le quali inscrive la ricerca architettonica. La collaborazione con la rivista Casabella-Continuità, diretta da Ernesto Nathan Rogers, e il fertile dibattito con tutto il gruppo redazionale concorrono ad ampliare il campo dei riferimenti culturali attraverso letture geografiche, antropologiche, sociali, economiche nonché filosofiche, letterarie e artistiche. L’architettura della città risente positivamente di tutto ciò: rivolgendo l’attenzione sulla realtà e osservando le cose con una diversa angolazione, Rossi con il suo libro contribuisce a riscattare il ruolo intellettuale dell’architetto, confinato in quegli anni in un ambito prevalentemente professionale. La città, intesa come struttura formale, è il centro del suo interesse. Pur assumendo la città storica come fonte di insegnamento, Rossi non è indifferente alle più recenti evoluzioni dei
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fatti urbani, come si evince dall’ultimo capitolo de L’architettura della città, in cui si accenna al problema della “dimensione” e alla imprescindibile ridefinizione del “campo”, ambito spaziale entro cui la città rinnova incessantemente la sua forma. A partire dagli anni ’60, Rossi intuisce che il futuro della città è nelle aree di espansione e che il nuovo disegno della forma urbana non potrà che essere inscritto nel disegno più generale del territorio, entro il quale un sistema di relazioni a distanza terrà assieme una moltitudine di monadi solitarie che già in quegli anni cominciava a manifestarsi e che sarebbe esplosa in anni più recenti. Nel 1962, Aldo Rossi apre il n. 264 della rivista CasabellaContinuità con un editoriale dal titolo Nuovi problemi. Apprezzando quanto di “progressivo e di moderno” vi è nella violenta trasformazione dei territori contemporanei, Rossi invita gli architetti a recuperare il ruolo di pensatori in grado di elaborare sistemi spaziali nuovi e anticipatori, immaginando nuove città dove “i centri commerciali, le università, i centri culturali, gli edifici pubblici, riacquisteranno la loro importanza formale: essi saranno i monumenti di un più vasto territorio metropolitano solcato da una imponente rete di trasporti”1. Città e territorio negli aspetti funzionali e figurativi della pianificazione continua è il titolo di una relazione firmata da Mattioni, Polesello, Rossi e Semerani e presentata al X Congresso INU tenuto a Trieste nel 1965. Il problema della “nuova dimensione della città” associato alla definizione del “campo” riapre l’annosa diatriba tra architetti e urbanisti sul controllo della trasformazione urbana. “La cultura architettonica e urbanistica colpita e quasi ossessionata dal problema dell’insieme, del disegno generale della città, sta perdendo di vista la nozione concreta dell’intervento”, si legge in conclusione alla relazione. La nuova dimensione urbana non esclude la possibilità di continuare a riconoscere le singole parti che concorrono a definire il disegno generale, giungendo così ad affermare che “città e territorio si costruiscono per fatti definiti: una casa, un ponte, una strada, un bosco; l’insieme di questi fatti costituisce la città e il territorio ed esiste il disegno di questi fatti”2. Da un lato, dunque, la presa d’atto della estensione del concetto di urbanità a tutti i luoghi abitati e non solo a quelli contraddistinti dalla reciproca prossimità dei manufatti entro un’area geografica; dall’al-
tro la volontà di non perdere di vista il riconoscimento formale dei singoli manufatti che concorrono alla definizione della realtà urbana. Nell’arco di mezzo secolo le città sono cresciute a dismisura e i fenomeni urbani hanno assunto di fatto una dimensione territoriale. Ma in alcuni contesti, da qualche anno, si registra un arresto della espansione urbana e le città richiedono nuovi studi finalizzati alla comprensione dell’esistente in vista di una auspicabile risignificazione. Gli effetti disastrosi di una edificazione selvaggia del territorio hanno inoltre spostato l’attenzione sulle tematiche ambientali, richiedendo all’architetto di esercitare, nel suo operato, una competenza tecnica, relegata ad un ambito squisitamente professionale. Una rilettura angolata de L’architettura della città, pietra miliare nella letteratura architettonica internazionale grazie anche alle numerose traduzioni estere, consente oggi di verificare l’attualità delle tesi espresse da Rossi. Focalizzando l’attenzione su alcuni concetti, identificati da parole chiave, è possibile ricostrui re il senso del ragionamento, tutt’altro che astratto e ideologico, che, a partire dalla esplorazione del reale, dallo studio di fatti concreti, giunge alla definizione di una teoria dell’architettura. La questione topografica assume un valore cruciale nella rivisitazione del testo. Di derivazione greca, la parola “topografia”, composta da topos, luogo, e grafein, scrivere, può essere intesa come “rappresentazione grafica di un luogo”. L’espressione “topografia urbana”, concorre a specificare ulteriormente l’utilizzo del termine nello studio della forma della città. Rileggendo L’architettura della città si comprende la valenza analitica e progettuale insita nella parola topografia, nonché il senso di una affermazione utilizzata da Rossi a commento della edizione tedesca del suo libro: “ho cercato di mostrare come il leggere la topografia da architetti, significhi cogliere anche i valori formali insiti nella topografia e questo soprattutto per creare un riferimento alla progettazione”3. La topografia urbana, l’analisi tipologica, la storia dell’architettura espressa dalle opere ideate e realizzate, indagate da Aldo Rossi nel suo libro, diventano elementi fondanti per una teoria
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della progettazione. La città è assunta come campo di applicazione dell’architettura ma anche come architettura essa stessa nella sua forma più complessa. “Nel descrivere una città noi ci occupiamo prevalentemente della sua forma”, scrive Rossi in apertura alla sua trattazione teorica, e aggiunge “questa forma è un dato concreto e si riferisce a una esperienza concreta”4. Lo studio della forma urbana conduce al riconoscimento della struttura spaziale e più precisamente alla individuazione delle relazioni tra i singoli elementi che concorrono alla manifestazione della forma stessa. La descrizione della forma coincide con l’esplicitazione consapevole dei dati empirici dello studio urbano e può essere compiuta attraverso l’osservazione. Osservare e descrivere una città sono dunque azioni imprescindibili nella comprensione dei fatti urbani, ma queste due operazioni non sono sufficienti per visualizzare la forma della città o di una sua parte. La topografia, intesa come restituzione grafica di un luogo fisico, traduce in disegno l’oggetto della osservazione e della descrizione, attribuendo misure e proporzioni agli elementi che concorrono alla determinazione dell’oggetto stesso. La topografia riduce dunque la città osservata e descritta ad una rappresentazione in piano dello spazio, ossia ad una planimetria. Il rigore delle convenzioni grafiche utilizzate nella elaborazione planimetrica conferisce al risultato così ottenuto una valenza scientifica divenendo un indispensabile strumento di conoscenza della realtà urbana. La topografia svolge dunque un ruolo decisivo nella conoscenza della forma urbana e si pone a fondamento dello studio dei processi di sviluppo e trasformazione della città nel tempo. Per comprendere la struttura formale di un organismo urbano Rossi ritiene indispensabile risalire alla sue ragioni costitutive esplicitate dalle mappe catastali, dai regolamenti edilizi, dalle idee di architettura che hanno concorso alla costruzione di una città. La topografia urbana recepisce tutto ciò: descrivendo planimetricamente l’insediamento urbano, ne rende intelligibile la forma, espressione di una costruzione, se pur storicamente determinata, in continua mutazione. “La forma della città è sempre la forma di un tempo; ed esistono molti tempi nella forma della città”5. La città, intesa come
manufatto, è un’opera di ingegneria e di architettura che si realizza nel tempo con ampliamenti e stratificazioni. Rossi è interessato ad esplorare la città nel suo processo formativo ed attribuisce alla topografia un ruolo strumentale per lo studio dei fatti urbani nella loro evoluzione piuttosto che nella conservazione. Depositaria di storia, la città registra nella forma i diversi tempi della costruzione, descrive il cambiamento ed è testimonianza di una inarrestabile vitalità dei fatti urbani. Il rapporto tra analisi e progetto è una questione lungamente dibattuta: all’analisi formale dei manufatti urbani, esplorati nel loro divenire, si attribuisce una valenza conoscitiva che ne fa il primo momento della progettazione. “Considerare la città come architettura”, scrive Rossi nella prefazione alla seconda edizione de L’architettura della città, “significa riconoscere l’importanza della costruzione dell’architettura come disciplina dotata di una propria determinata autonomia che, appunto nella città, costituisce il fatto urbano preminente e, attraverso tutti quei processi che vengono qui analizzati, collega il passato al presente”6. Nel porre le basi per la fondazione di una scienza urbana, Rossi studia la città antica, ritenendola insostituibile in quanto rappresentativa di un nodo di problemi e di una complessità tale da offrire spunti nella comprensione della realtà contemporanea. Avvalendosi delle ricerche condotte da Marcel Poëte e Pierre Lavedan, giunge ad approfondire la teoria delle permanenze rivolta alla scoperta di “un passato che sperimentiamo ancora”7. Le permanenze sono segni fisici del passato rilevabili nella forma del presente; sono dunque elementi persistenti, rintracciabili nella topografia urbana, che hanno indirizzato il processo di trasformazione della città. La topografia urbana si afferma come supporto imprescindibile nella individuazione delle permanenze ossia degli elementi generatori che hanno dato vita alla formazione spaziale della città. La permanenza più significativa è espressa dal tracciato stradale che, in molti casi, costituisce l’asse di fondazione e di sviluppo della città. Alcune città sono sorte lungo una strada, un camminamento che nel tempo ha dato origine al l’insediamento: in questi casi il tracciato viario, segno persistente, può essere inteso come elemento primario. Altre città hanno preso forma su un sistema di tracciati, un reticolo geometrica-
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mente determinato che ha innescato il processo di urbanizzazione. In questi casi il dato di permanenza è espresso dal piano, dalla volontà di tracciare un disegno planimetrico al fine di controllare la crescita urbana prefigurando così la sua manifestazione formale. La teoria delle permanenze si fonda sulla conoscenza storica dei fatti urbani. La centuriazione costituisce il primo atto pianificato di antropizzazione e quindi di civilizzazione del territorio: pertanto da essa non si può prescindere per la comprensione dell’origine e della evoluzione della forma urbana fino alla territorializzazione dei fenomeni insediativi che contraddistingue la città contemporanea. Che si tratti di permanenze o di trasformazione di tracciati, la ricerca conduce alla scoperta dei primi elementi dell’analisi formale. In campo architettonico, e più precisamente all’interno degli studi urbani, Rossi ritiene importante questa ricerca quanto quella relativa alla questione delle radici e delle persistenze in campo linguistico8. Partendo dalla centuriatio, si sofferma ad analizzare il passaggio dalle insulae romane ai lotti della città medievale fino ad interpretare l’unità edilizia rinascimentale come fusione e integrazione di più unità preesistenti. Nell’approfondire questo processo di continua rielaborazione della forma urbana basato sul riutilizzo razionale dell’esistente, Rossi si avvale di rilievi tipologici strategicamente condotti su alcune aree-studio nell’intenzione di valutare il fenomeno alla scala della città. Nel corso della trattazione teorica non mancano però riferimenti ad alcuni manufatti eccezionali che, se pur analizzati nella loro singolarità, non fanno altro che confermare la sua tesi, quella di valutare l’operato architettonico esclusivamente all’interno di una visione urbana riconducendo la ricerca formale al riconoscimento di quel sistema di relazioni fisiche che determina la forma della città. L’anfiteatro di Lucca e il palazzo di Diocleziano a Spalato sono opere emblematiche, monumenti dell’antichità romana che hanno innescato un processo di trasformazione urbana internamente alla loro struttura. A Lucca il sistema radiale del l’anfiteatro ha determinato il supporto per la costruzione delle botteghe che concorrono alla definizione della piazza del mercato. A Spalato il palazzo si è trasformato in città: la sua forma ti-
pologica ha generato la morfologia urbana e gli spazi interni all’edificio hanno subito una inversione di senso divenendo spazi esterni, strade e piazze. Il rapporto tra tipologia edilizia e morfologia urbana costituisce un punto di approfondimento delle ricerche condotte sulla città antica. Se il rilievo topografico, mediante l’individuazione netta delle sagome planimetriche dei manufatti, concorre allo studio morfologico della città e quindi al riconoscimento della sua struttura spaziale, il rilievo tipologico consente una esplorazione formale più dettagliata dei fatti urbani rivelando il principio d’ordine che sottende la costruzione dei singoli manufatti. La città sottoposta ad una analisi tipologica si mostra come uno scheletro restituito dalle tracce murarie dei singoli edifici che concorrono alla identificazione della struttura spaziale insita nella forma dell’insediamento. In questo senso il rilievo tipologico è assimilabile ad una radiografia dell’organismo urbano. Analizzando la città antica nel suo processo evolutivo, Rossi mette in evidenza la relazione binaria tra tipologia edilizia e morfologia urbana: molto spesso la ripetizione di un principio elementare, espresso da un tipo edilizio, concorre alla formazione di una intera città o di una sua parte. La tipologia edilizia consente quindi di scoprire le invarianti formali, gli elementi di continuità, all’interno di un processo di trasformazione che agisce sulla forma urbana. L’indagine tipo-morfologica si compie entro il campo sottoposto alla osservazione e può essere intesa come una descrizione accurata dei fatti osservati; in questo senso tale indagine assume un ruolo strumentale: “essa si avvicina alla conoscenza della struttura ma non si identifica con essa”9. Adeguatamente applicata ai tasselli urbani consolidati, l’indagine tipo-morfologica offre spunti nella conoscenza non solo dei processi formativi, ma anche rigenerativi della forma urbana. Nel descrivere la città nella sua configurazione formale, l’analisi tipo-morfologica opera tramite un procedimento di astrazione che tira fuori dalla realtà alcuni elementi essenziali e li pone in evidenza nella restituzione topografica. Questo procedimento analitico, palesemente attuale, contribuisce a rafforzare il ruolo degli elementi primari nella costituzione della forma urbana, di antica o recente formazione, nonché la loro persistenza
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nella evoluzione della forma stessa. Oltre al tracciato stradale, permane molto spesso nel disegno urbano l’originaria suddivisione del suolo espressa dalla geometria dei lotti: “quando anche le singole costruzioni siano scomparse e siano state soppiantate da edifici più recenti, quella suddivisione non poté mai più essere cancellata”, scrive Hans Bernoulli nel libro La città e il suolo urbano, richiamato da Rossi nel suo saggio sul territorio veneto10. Divisione ed occupazione del suolo descrivono la lunga storia della proprietà urbana come è attestato nei documenti cartografici, dagli antichi cabrei alle più recenti mappe catastali. La forma del suolo concorre alla determinazione della forma della città: “il suolo urbano è un dato naturale ma è anche un’opera civile, è un dato sostanziale dell’architettura della città”11. Lo stretto rapporto tra la forma del suolo e la forma dell’edificato si rafforza nell’indagine tipo-morfologica che contribuisce al disvelamento della struttura spaziale di un organismo urbano. In alcuni casi la costruzione della città si realizza attraverso la conformazione dell’edificio al lotto, che diventa forma in sé e come tale permane. Questo spiega il fenomeno della fissità di alcune tipologie edilizie che si riscontra all’interno di determinati contesti spaziali. In altri casi il processo conformativo si manifesta nel rapporto tra artificio e natura, nello scontro tra un ordine formale imposto dall’esterno e un ordine formale insito nella geografia del sito. L’architettura si adatta alla morfologia del contesto e le tipologie edilizie, pur conservando la loro riconoscibilità, subiscono una deformazione. In entrambi i casi si riconosce un carattere di unicità nella formazione dei fatti urbani che conferisce identità ai luoghi costruiti dall’uomo. Geografia e storia custodiscono dunque le radici dei fatti urbani, forniscono una spiegazione sull’origine della città, sulla sua evoluzione, ma a volte anche sul suo decadimento avvenuto nel corso del tempo. Il 1970 è l’anno della pubblicazione de La città di Padova, una ricerca condotta sul territorio veneto che costituisce un importante momento di discussione e di verifica degli enunciati teo rici espressi da Aldo Rossi. Rivolgere l’attenzione alla realtà, alla costruzione della città e del territorio, costituisce un passaggio obbligato, un presupposto imprescindibile nella conoscenza del l’architettura. La delimitazione del campo di studio consente
inoltre di circoscrivere l’ambito su cui attivare un esercizio di osservazione e di descrizione dei fatti urbani per poi giungere, tramite l’astrazione, al riconoscimento della struttura formale. A partire dalla individualità espressa dai manufatti che concorrono alla definizione di uno specifico paesaggio formale, e avvalendosi della conoscenza storica e geografica che consente di scoprire influenze culturali e affinità topografiche tra le realtà urbane analizzate, la ricerca, pur se applicata ad un ambito territoriale circoscritto, supera i limiti di una trattazione locale e si pone come riflessione generale sui temi dell’architettura e del progetto. In apertura del suo saggio, I caratteri urbani delle città venete, Rossi afferma:“questo studio sull’architettura delle città venete vuole essere un contributo allo studio delle città d’Italia e all’approfondimento delle principale questioni oggi emergenti negli studi di tipologia e morfologia urbana”12. Nella esplorazione delle dinamiche costitutive della città veneta, Rossi si sofferma ad analizzare la topografia urbana, distinguendo situazioni in cui l’assetto formale risente dei condizionamenti imposti dalla naturalità del sito, da situazioni in cui tale assetto esprime l’applicazione di un principio d’ordine fissato dal piano che si impianta sul sito mostrando un grado di maggiore autonomia. In ogni caso il suo interesse è rivolto alla evoluzione dei fatti urbani, alle sovrapposizioni e alle giustapposizioni avvenute nel corso del tempo, nonché alle modalità con cui i cambiamenti hanno generato variazioni della topografia urbana. Rossi giunge anche ad approfondire il ruolo degli elementi primari, molto spesso identificati con i fatti monumentali, nella determinazione della forma urbana. Se in alcuni casi il monumento si inscrive nella trama urbana e contribuisce a ribadire un ordine costruttivo implicito, in altri casi esso occupa uno spazio vuoto, un’area marginale che diviene luogo propulsore di una nuova configurazione formale, una opportunità per sovvertire un ordine preesistente e per innescare nuove dinamiche di sviluppo urbano. Da un lato dunque il monumento è espressione di una soluzione tipologica che riassume la costruzione dell’intera città, dall’altro il monumento è un fatto tipologico isolato che si contrappone al tessuto edilizio e si afferma come un frammento autonomo nella topografia urbana.
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Prato della Valle a Padova è uno degli esempi su cui Rossi si sofferma per chiarire il concetto di monumento come frammento urbano, giungendo a sostenere una idea di modernità di questa città, nel senso di una sua riconosciuta disponibilità alla trasformazione. Il progetto di Andrea Memmo, opera architettonica e ingegneristica, si traduce nel disegno di uno spazio aperto delimitato da un canale di forma ellittica, una figura che si inscrive in un grande vuoto ai margini del nucleo storico della città di Padova. In questo luogo i caratteri urbani e quelli rurali che contraddistinguono il sito si integrano nella costruzione di un originale fatto urbano. La soluzione progettuale tende inoltre a ribadire l’uso originario del sito, quello appunto di uno spazio pubblico all’aperto, e di assumere tale spazio come luogo in cui la città si rappresenta con le sue tensioni e le sue contraddizioni, lasciando così inalterata l’articolazione morfologica, estremamente complessa, dell’ambito di intervento. La modernità di Padova è la stessa riscontrata in altre città del territorio veneto, come in quelle in cui ha operato Andrea Palladio, dove la soluzione progettuale espressa ancora una volta in forma di frammento, ossia di spazio a priori opportunamente collocato in un vuoto disponibile, ha concorso al rinnovamento dell’immagine urbana. Gli studi condotti sul territorio veneto forniscono ulteriori chiarimenti intorno al rapporto tra analisi e progetto nell’intento di evitare qualsiasi “deformazione storicista” che conduca a ripetere o ricalcare le forme del passato. Rossi, riferendosi alle indagini tipologiche condotte da Saverio Muratori, sostiene: “anche ricerche molto serie non sono esenti da questo tipo di equivoco”13. Pur ritenendo fondamentale la storia in quanto grande repertorio di esempi assunti come materiale dell’architettura, e nonostante la sua propensione verso la città antica, Rossi non perde di vista la finalità dei suoi studi, quella di avvalersi criticamente dell’esperienza del passato per costruire la città del presente. In questo senso apprezza la modernità della città veneta e sofferma l’attenzione su alcuni esempi emblematici, catalizzatori di un processo rigenerativo riscontrabile alla scala architettonica e urbana. Il pensiero logico che guida l’analisi meticolosa degli esempi architettonici selezionati si intreccia con un pensiero ana-
logico che, sulla base di una riscontrata somiglianza tra tali esempi, apre ad una nuova visione del progetto. Nella introduzione alla seconda edizione de L’architettura della città pubblicata nel 1970, Rossi elabora l’ipotesi della città analoga facendo riferimento ad un procedimento compositivo imperniato su alcuni fatti fondamentali della realtà urbana, intorno ai quali costituisce altri fatti, il tutto entro il quadro di un sistema analogico. “Quello che cerchiamo di fronte allo studio della città in cui viviamo è il tentativo di procedere alla costruzione di una città analoga; in altri termini di servirci di una serie di elementi diversi, collegati tra loro dal contesto urbano e territoriale, come cardini della nuova città. Questa città analoga usa luoghi e monumenti di un sistema il cui significato è nella storia e si costruisce attorno ad essi definendo la propria forma”14. Si comprende chiaramente l’intenzione di superare i limiti fisici della città consolidata, e di esplorare progettualmente le aree di recente formazione, quegli spazi in cui le diverse parti della città si interrompono bruscamente manifestando spesso tensione e irrisolutezza. Ragionando in termini paradigmatici e concependo il mondo come una rete di corrispondenze tra manufatti architettonici di riconosciuto valore formale, Rossi si avvale del concetto di città analoga per elaborare una nuova teoria della progettazione. “Sono convinto che gli elementi qui analizzati, come elementi fisici di costruzione della città, conservino inalterato il loro valore e la loro qualità”, si legge in conclusione del suo saggio sui caratteri urbani delle città venete. Facendo implicitamente riferimento al procedimento analogico, Rossi afferma: “resta da decidere in che misura questi elementi vengono da noi usati nella progettazione della città moderna”15. La tavola esposta alla Biennale di Venezia del 1976 intitolata La città analoga, un’opera collettiva elaborata da Aldo Rossi con Eraldo Consolascio, Bruno Reichlin e Fabio Reinhart, può essere assunta come la metafora grafica della teoria della città analoga. Costruita sul rapporto tra realtà e immaginazione, la tavola compone forme architettoniche antiche e recenti in un disegno planimetrico e prospettico che, mediante l’esercizio della memoria, richiama un territorio, o come direbbe Rossi una “patria”, coincidente con l’alta Lombardia, il Lago Maggiore, il Canton Ticino
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con i suoi segni e i suoi emblemi. “Storia e geografia si confondono nelle pitture di Tanzio da Varallo e nelle case di pietra e all’interno di esse si collocano e si sistemano i progetti”16. Questa inedita rappresentazione topografica preserva il valore dei singoli pezzi che definiscono il collage, ognuno dei quali conserva la sua riconoscibilità nonostante gli evidenti adattamenti apportati alle singole forme, resi necessari dal raffinato gioco combinatorio. La tavola è dunque uno strumento divulgativo di una teoria dell’architettura che offre delle alternative allo sviluppo delle città, uno strumento critico predisposto “per fare in modo che queste alternative siano discusse, capite e quindi accettate o respinte dalla gente che vive la città”17. Auspicando un progresso civile o quanto meno un miglioramento della città, Rossi attraverso la tavola de La città analoga intende ribadire il ruolo fondamentale dell’architettura nella costruzione di un progetto del futuro: “tra passato e presente, tra realtà e immaginazione, la città analoga è forse semplicemente la città del progettare giorno per giorno, affrontando i problemi, superandoli, con una discreta certezza che alla fine le cose saranno migliori”18.
A. Rossi, Nuovi problemi, in Casabella-Continuità n. 264, 1962. E. Mattioni, G. Polesello, A. Rossi, L. Semerani, Città e territorio negli aspetti funzionali e figurativi della pianificazione continua, in R. Bonicalzi (a cura di), A. Rossi. Scritti scelti sull’architettura e la città, Clup, Milano 1975, pp. 296-297. 3 A. Rossi, Commento all’edizione tedesca, in Die Architektur der Stadt, pubblicato nella quinta ristampa del volume in italiano, Clup, Milano 1983, p. 347. 4 A. Rossi, L’architettura della città (1966), quinta ristampa, Clup, Milano 1983, p. 23. 5 Ibidem, p. 57. 6 Ibidem, p. 229. 7 Ibidem, p. 52. 8 A. Rossi, I caratteri urbani delle città venete, in AA.VV., La città di Padova, Officina Edizioni, Roma 1970, p. 424. 9 A. Rossi, L’architettura della città (1966), quinta ristampa, cit., p. 26. 10 H. Bernoulli, La città e il suolo urbano (1946), richiamato da Aldo Rossi in I caratteri urbani delle città venete, cit., p. 463. 11 A. Rossi, L’architettura della città (1966), quinta ristampa, cit., p. 61. 12 A. Rossi, I caratteri urbani delle città venete, cit., p. 421. 1 2
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13 A. Rossi, L’analisi urbana e la progettazione architettonica, Clup, Milano 1970, p. 15. 14 Ibidem, p. 20. 15 A. Rossi, I caratteri urbani delle città venete, cit., p. 486. 16 A. Rossi, La città analoga: tavola, in «Lotus International» n. 13, cit., 1976. 17 Ibidem, p. 7. 18 Ibidem, p. 8.
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Artisti italiani e realtà sociale nel secondo dopoguerra NICOLA GALVAN
La stagione del Realismo italiano, sviluppatasi negli anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, appare profondamente lontana dalla sensibilità artistica contemporanea. Una distanza avvertibile non solo considerando gli esiti figurativi della corrente, ma anche le premesse e le finalità che ne caratterizzarono la vicenda, entrambe connesse al pensiero politico e al suo tradursi in iniziativa di valore collettivo. Proprio questo intreccio, che già al tempo motivava non poche perplessità, rappresenta l’aspetto di forse maggiore difformità rispetto alla pratica artistica odierna e alle riflessioni che da essa scaturiscono. Condivisa o, quantomeno, diffusamente intuita, è oggi l’idea che non la politica, ma i più ampi territori della cultura e della comunicazione siano la sede di una eventuale “responsabilità” dell’arte: è in essi che vengono verificate le conseguenze della sua azione, come reperiti gli strumenti critici finalizzati alla sua interpretazione e al suo giudizio. Necessario appare così comprendere il contesto storico culturale in cui l’esperienza realista conobbe la propria epifania e la successiva affermazione; una fase in cui poté verificarsi quella convergenza tra espressione individuale e ideologia che, concretamente, si articolò attraverso il rapporto che gli attori della produzione culturale strinsero con la politica rappresentativa e il mondo intellettuale a essa legato.
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Ipotesi per una cultura popolare Nel campo filosofico di ispirazione marxista possono essere rinvenuti spunti di riflessione fondamentali per inquadrare un fenomeno che non fu solo italiano, nonché riconosciute alcune delle principali istanze che orientarono l’agire dei suoi protagonisti. Una fra tutte sembra rappresentarne il senso più profondo e, forse, la migliore eredità: la volontà di annullare la tradizionale distanza tra cultura e masse popolari. Un problema certo avvertito anche in precedenza, non esclusivamente dagli esponenti di un’unica categoria ideologica, e distinguibile quale fenomeno intrinseco alle collettività segnate da una marcata segmentazione sociale. È indubbio tuttavia che un impulso decisivo alla sua discussione sia giunto dalle considerazioni di Marx ed Engels a proposito della relazione tra le classi dominanti e l’affermarsi delle diverse poetiche espressive, che del loro gusto e delle loro esigenze sarebbero, storicamente, il riflesso. Relazione che molti letterati e artisti italiani, reduci dalle tragedie della guerra e dal conformismo caratterizzante la vita culturale durante il Ventennio, collocarono al centro della propria riflessione critica, e a cui opposero l’orientamento costruttivamente “popolare” della loro attività. Il proposito di superare la propensione degli intellettuali italiani verso l’autoreferenzialità e, di conseguenza, l’isolamento sociale, appare motivare, nel secondo dopoguerra, tanto l’avvicinamento a una determinata dimensione linguistica, quanto l’adesione di molti di essi al Partito Comunista. Scrive Cesare Pavese, in un appunto del 1946 a lungo rimasto inedito: Non si ‘va verso il popolo’. Si è popolo. Anche l’intellettuale, anche il ‘signore’, che soffrono e vivono l’elementare travaglio del trapasso da una civiltà di impedimento e di spreco a quella organizzata nella libertà e dalla tecnica, sono popolo e preparano un governo di popolo. Che è quello che vuole il comunismo1. La necessità di indicare modalità comunicative che risultino in sintonia con il sentire delle classi meno abbienti, e a esse riconoscano un ruolo adeguato nello sviluppo del processo storico, conduce un esponente autorevole del pensiero marxista come Gryörgy Lukàcs a presentare come cruciale l’opzione tra il «nar-
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rare» ed il «descrivere», esemplificata grazie al confronto tra Tolstoj e Zola; ovvero il racconto umanamente partecipe degli episodi di vita collettiva svolto dal primo nelle pagine di Anna Karenina, la rappresentazione “distaccata” dei medesimi offerta dal secondo in quelle di Nanà. Significativamente, i meccanismi narrativi e gli aspetti stilistici connotativi dell’opera di Tolstoj rientrano in veste d’esempio anche nelle riflessioni sulla letteratura2 di Antonio Gramsci, la cui voce, liberata grazie alla pubblicazione de I quaderni del carcere, si leva con particolare autorevolezza entro il dibattito culturale e politico contestuale alla sinistra italiana nel secondo dopoguerra. Al suo pensiero è riconducibile la teorizzazione, in ambito nazionale, della responsabilità storica e civile dei depositari del sapere nella costruzione di un nuovo ordine sociale: Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza motrice esteriore (…) ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, che dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnicascienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” (specialista più politico)3. Nell’analisi gramsciana si compie un disegno, quello di una figura d’intellettuale la cui attività sia strutturale all’organizzazione di partito, che si presterà successivamente a numerose strumentalizzazioni, supportate d’altronde dagli aspetti di ambiguità che essa presenta, tesi apparentemente a fondare la legittimità di un controllo politico sulla produzione culturale: La coercizione, il controllo, il piano sono semplicemente un terreno di selezione degli artisti, nulla più (…). Se la coercizione si sviluppa secondo lo sviluppo delle forze sociali non è coercizione, ma “rivelazione” di verità culturale4. Spiega la larga fortuna di Gramsci, oltre il carattere esemplare della sua vicenda umana, la lucidità ed il rigore che scandiscono i suoi principali argomenti polemici: la natura implicitamente classista ed elitaria di poetiche come quella del decadentismo, l’assenza in Italia di una dimensione culturale comune alle diverse aree del paese – tra le ragioni di un innaturale “cosmopolitismo” che connoterebbe il gusto per le arti – nonché l’inclinazione individualistica degli artisti. Le soluzioni sono affidate ad un
esprimersi, in campo letterario e figurativo, che riconosca l’urgenza di nuovi contenuti, ove questi siano la manifestazione di una cultura condivisa dagli strati sociali tradizionalmente esclusi dalla sua elaborazione: La “bellezza” non basta. Ci vuole un determinato contenuto intellettuale e morale che sia l’espressione elaborata e compiuta delle aspirazioni più profonde di un determinato pubblico, cioè della nazione-popolo in una certa fase del suo sviluppo storico5. Simili problemi sono avvertiti, sin dagli anni trenta, da una generazione nuova di artisti italiani, destinati a costituire le fila del movimento realista e a trovare nel pensiero di Gramsci un’importante conferma teorica. Verso il Realismo Corrente di vita giovanile, in seguito più semplicemente Corrente, è una rivista fondata nel 1938 per iniziativa del pittore Ernesto Treccani. Il quindicinale è una delle voci più interessanti di una nuova condotta espressiva contrassegnata da un’insofferenza verso la rinnovata classicità di Novecento, coerente formalizzazione degli ideali estetici del regime e, in scala monumentale, suo strumento propagandistico. Pur mancando di un circoscrivibile orientamento ideologico, il versante più irrequieto della pittura italiana aveva già dato vita alle esperienze della Scuola romana, del gruppo de I 6 di Torino, del cosiddetto Chiarismo lombardo, quali altrettante manifestazioni di una pittura dalla vocazione “europea”, che traduceva liberamente gli aspetti salienti delle rivoluzioni impressionista ed espressionista. Gli artisti che si raccolgono in Corrente – vi sono, accanto a Treccani, anche Guttuso, Birolli, Cassinari, Morlotti, Vedova e altri ancora – sembrano veicolare attraverso i loro lavori uno spirito di rivolta che, inizialmente diretto contro l’astoricità di contenuto del gusto artistico coevo, in favore di una adesione ai temi del presente e del quotidiano, viene reso più esasperato dalle tragedie della guerra. Al rapporto con il mito intrattenuto da Novecento si sostituisce, quale strumento di comunicazione più diretto, una sorta di epos popolare, a cui è contestuale l’utilizzo in senso laico del soggetto religioso: le sofferenze determinate dal conflitto trovano così una
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rappresentazione metaforica in opere come la Crocifissione di Guttuso del 1941 e la Deposizione di Cassinari dell’anno successivo. All’evidente matrice espressionista, di cui è segno il cromatismo tendenzialmente anti-naturalistico, si affianca in seguito l’influsso della più recente pittura di Picasso. Guernica è, fin dal suo apparire nel 1937, una sorta di rivelazione per gli artisti europei, che vedono nell’opera la dimostrazione di come la pittura possa divenire, a tutti gli effetti, un fatto sociale. Il potente e drammatico capolavoro di Picasso dimostra inoltre che la ricerca formale più avanzata, pur non convenzionalmente figurativa, può esprimere una profonda verità storica. L’urgenza realista trova dunque un punto di riferimento imprescindibile nell’artista spagnolo, che nel 1944 formalizza il proprio impegno ideologico iscrivendosi al partito comunista francese. La riflessione sull’ultimo cubismo è una componente decisiva nell’opera dei jeunes peintres francesi Fougeron, Pignon, Bazaine, attualizzandone – a volte in termini superficiali – le reminescenze fauve e i contenuti schiettamente realisti; non meno importante è per gli esponenti di Nuova secessione, gruppo che si costituisce dopo la Liberazione e che rappresenta un ideale proseguimento dell’esperienza di Corrente. Il loro sodalizio, che mostra dal punto di vista artistico una marcata eterogeneità, scandita anche dalla diversificata assimilazione dei modi picassiani, trova coesione in un’ipotesi di impegno comune di tipo più morale che strettamente ideologico: l’idea cioè che l’artista sia chiamato a svolgere la sua azione nel cuore della storia e della società del proprio tempo, assecondando con la sua opera le istanze progressiste. Il manifestarsi di un nuovo movimento programmaticamente realista è dunque alle porte. Al suo riconoscimento, promozione e definizione teorica contribuiscono gli ambienti intellettuali militanti del PCI, di cui molti degli stessi artisti entrano a far parte. Antonello Trombadori, che della corrente diverrà uno dei più convinti sostenitori attraverso un’inesausta attività critica, ne annuncia con enfasi le ragioni più profonde dalle pagine di Rinascita, rivista culturale del partito: Nell’attuale momento storico, dopo l’esperienza e la lotta antifascista, dopo la fase più acuta di questa lotta sotto il tallone tedesco (…) possono gli artisti considerarsi cittadini di una astratta repubblica, lontana dalle
lotte, lontana dalla vita, capace solo di celebrare secondo forme di elementare incoscienza o di complicato decadentismo, un unico aspetto, il più retrivo, della storia che intorno ci vive? l’aspetto caduco, individualistico. (…) È a questo punto che, entrando in merito della soluzione, alcuni di noi hanno parlato di arte popolare, di contenuto sentito dalle masse, sentito dalla nazione6. La presentazione nel 1944 di Gott mit uns, raccolta grafica di Renato Guttuso, che del Realismo diviene in breve il caposcuola, rappresenta l’occasione per un ulteriore approfondimento critico di Trombadori, che coglie la pregnanza simbolica – aggiornamento della “strategia” comunicativa sviluppata negli anni di Corrente – delle immagini dell’artista siciliano, autentici «equivalenti figurativi del fatto sociale». Gli episodi legati all’esperienza della guerra e della Resistenza, caratterizzanti Gott mit uns, sono largamente indagati, in questa sua fase aurorale, dalla pittura italiana che si volge veementemente alla realtà. Presto, a risultare preminenti, saranno i nuovi temi di carattere sociale. Pittura rossa Il reclutamento degli intellettuali e degli artisti, da parte del PCI guidato da Palmiro Togliatti, è in parte mirato, quantomeno nel biennio 1945-46, ad allargarne il consenso presso la classe media, attraverso l’utilizzo di “voci” che con questa possano entrare in sintonia. L’esigenza di una coerente politica culturale, pur oggetto di discussione interna, non può da subito articolarsi sistematicamente, né ha tra le sue prime conseguenze un’esplicita attività di verifica sulla produzione creativa. A prendere corpo è piuttosto, in quello stesso periodo, la polemica incrociata, che, come quella tra Elio Vittorini e lo stesso Togliatti a proposito della plausibilità di un’estetica comunista, trova spazio negli organi di stampa. Il peso di una pregiudiziale di tipo ideologico nel selezionare e promuovere l’attività degli artisti, agendo nel contesto della recensione e dell’organizzazione diretta o indiretta di iniziative espositive, annuncia però i contorni vagamente clientelari che potrà assumere la relazione tra essi e i responsabili del settore culturale. L’apertura ecumenica del PCI a ogni contributo
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di segno generalmente democratico e antifascista è lo specchio della situazione politica nazionale, che vede le forze di sinistra accanto a quelle cattoliche e moderate guidare il Paese verso l’approdo alla repubblica costituzionale. In campo artistico, un’ampia alleanza è rappresentata anche dal Fronte Nuovo delle Arti, ulteriore evoluzione, dalla più definita connotazione ideologica, del sodalizio di Secessione. Il Fronte fa il proprio esordio nel 1947 con un’esposizione alla galleria romana “La Spiga”. Il gruppo, che avrà la propria consacrazione alla Biennale veneziana del 1948, contiene già in sé, alla luce dei protagonisti coinvolti – vi sono, fra gli altri, Guttuso, Vedova, Pizzinato, Santomaso, Viani, Turcato – e delle loro diverse sensibilità espressive, la ormai prossima spaccatura tra la corrente più figurativa e realista e le tendenze astratte e informali. Storicamente rilevante ma isolata, è invece l’esperienza cui danno vita i protagonisti – di dichiarato credo marxista, oltre che iscritti al PCI – di Forma 1, compagine romana la cui sofisticata ricerca formale è oggetto della disapprovazione dell’establishment culturale del partito. L’asserzione non figurativa di Dorazio, Accardi, Consagra e degli altri sodali appare irriducibile anche alla formula espressiva elaborata dal rappresentante più “cosmopolita” della critica militante, Mario De Micheli, sostenitore di una sintesi tra contenuto socialista e forma cubista. La naturale maturazione di un movimento artistico e le ragioni dell’azione politica, alle quali esso si andava saldando, procedono però secondo esigenze e tempistiche non coincidenti. Di particolare complessità è inoltre la posizione, dal 1947 in poi, del partito di Togliatti, che l’esclusione dal governo e il tramontare dell’ipotesi di una fusione con il Partito Socialista rendono più isolato politicamente. Si prospetta così la necessità di serrare i ranghi anche tra le fila degli intellettuali e degli artisti, cui sarà sempre più richiesta una piena convergenza con la direzione estetica e ideologica ufficiale. Una radicalizzazione che diverrà esplicita con le direttive del VI congresso del gennaio 1948 e a cui darà ulteriore impulso la sconfitta elettorale nell’aprile dello stesso anno. Sul versante artistico, possibile conseguenza di questa evoluzione nel segno dell’ortodossia è la stroncatura, apparsa su Rinascita, della grande mostra collettiva organizzata nell’ottobre
’48 a Bologna da l’Alleanza della Cultura. La firma della Segnalazione, “Roderigo di Castiglia”, rimanda direttamente alla segreteria del Partito; sotto accusa sono le deformazioni della figura umana e gli «scarabocchi» ascrivibili alle ricerche meno tradizionali. Nonostante la difesa di carattere unitario di molti degli artisti espositori, apparsa in seguito sulle stesse pagine e sottoscritta da un fronte ampio, da Guttuso a Turcato, da Mafai a Consagra, l’incidente polemico può essere assunto simbolicamente come un punto di svolta. Le strade della sperimentazione – neo cubismo, astrazione – e quelle del realismo figurativo di diretta decifrabilità, più in sintonia con l’esigenza comunicativa del partito, sono da allora destinate a separarsi. Spiegare compiutamente il mutare della strategia culturale del Partito Comunista significa non ignorarne il rapporto con il principale referente nel contesto internazionale, ovvero l’apparato dirigente sovietico. Durante i lavori che portano alla costituzione del Cominform, nel 1947, i delegati italiani devono subire una pubblica reprimenda da parte di Andrej Ždanov7, inflessibile sorvegliante della linea culturale del partito in URSS. Oggetto della sua arringa è, in senso ampio, l’insufficiente incisività dell’azione politica condotta in Italia dal PCI, ma la rilevanza della sua iniziativa nel campo artistico e letterario ne fanno già una figura di riferimento per l’ala più rigorosa del fronte comunista italiano. Quest’ultima è impegnata in un serrato confronto dialettico, condotto anche sul piano della comunicazione e della cultura, con lo stesso Togliatti, la cui strategia sembra disegnare un progetto a essa alternativo, in cui l’affermazione del socialismo non prescinda dalla specifica realtà nazionale. Un clima di tensione che verrà analizzato efficacemente, molti anni dopo, da un testimone diretto, Italo Calvino, che affronterà proprio le sue ricadute in ambito culturale: Togliatti anche nella cultura, come nella politica, cercava di muoversi nelle linee generali dettate da Stalin al movimento comunista internazionale per sviluppare una politica che aveva dietro ragioni italiane, una continuità di storia italiana. (…) Nello stesso tempo cercava di neutralizzare le pulsioni degli zdanoviani espliciti del partito, di quelli che importavano le direttive sovietiche pari pari, senza neppure lo sforzo di “tradurle”8.
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La pubblicazione su Rassegna della stampa sovietica di uno scritto di Kemenov sulle ricerche “formaliste” internazionali quali espressione della decadenza culturale e morale dell’occidente; la risonanza di un articolo della Pravda che rivolgeva simili argomentazioni contro l’opera di Picasso, rappresentano ulteriori stimoli per un giro di vite anche in ambito italiano. Questo coinciderà con la nascita, nel 1948, della Commissione culturale interna al partito, la cui direzione sarà affidata a Emilio Sereni, seguace coerente – pur entro una più ristretta possibilità di manovra – delle teorie zdanoviane sul controllo della produzione artistica. I suoi perentori richiami all’ordine, rivolti a pittori, scultori e letterati, cercheranno legittimità nel pensiero di Gramsci, di cui nel 1947 è iniziata l’ampia diffusione grazie alla pubblicazione ragionata degli scritti composti durante la prigionia9. Una strategia che si appoggia su alcune forzature interpretative che, nel loro servire la crociata contro ogni «spontaneismo» espressivo, debitamente ignorano l’ampiezza e la versatilità della riflessione estetica gramsciana10. La censura dunque di ogni impulsività creativa, a favore di contenuti dati, che si porrebbero quale premessa dell’attività creativa degli artisti e dei letterati militanti, è ragione di disagio soprattutto nei secondi; un sentire ben rappresentato dal tono dalle polemiche con Sereni condotte in forma epistolare da scrittori quali Calvino e Vittorini, che afferma: Ma i miei libri sono soltanto spontaneità. Se io ne tolgo la spontaneità, a che cosa li riduco?11 La volontà di sviluppare un grande movimento per la cultura popolare si è ormai tradotta in programma, e all’elenco dei suoi avversari va annoverato anche «l’oscurantismo clericale», esplicitamente indicato nelle direttive del partito dal 1949. È questo l’anno più intenso delle rivolte contadine nel sud Italia, che si concretizzano in numerosi tentativi d’occupazione delle terre incolte e innescano, con esiti a volte tragici, la repressione poliziesca. Sull’onda degli eventi, diversi pittori realisti si recano nei luoghi interessati dalla protesta in qualità, al tempo, di artisti, di “inviati speciali” ma anche di mediatori per conto del partito, preoccupato dalle esplosioni di violenza e di eventuali derive insurrezionali. È forse nell’ambito di questa esperienza che il Realismo italiano dispiega compiutamente le proprie facoltà espres-
sive e, se vogliamo, anche propagandistiche: strumento di un’indagine dai toni partecipati, proiezione epica – dunque: corale – della lotta dei braccianti per la terra. Uno dei cicli pittorici più importanti di Guttuso, forse il vero paradigma dell’intero movimento, viene progressivamente alla luce proprio in queste circostanze: si tratta de L’occupazione delle terre in Sicilia, che verrà esposto alla Biennale veneziana del 1950. La condivisione delle fatiche e delle aspirazioni contadine costituisce, per alcuni di questi autori, un’indimenticabile esperienza umana, ideale punto d’arrivo del lungo processo di identificazione tra popolo e artisti. Così scrive il pittore Ernesto Treccani, testimone dell’occupazione delle terre a Melissa, futuro rappresentante politico dei suoi protagonisti: A Melissa io sono ormai legato da vincoli indissolubili: la mia vita di artista non sarà mai abbastanza lunga per esaurire i motivi di ispirazione che la vita e le lotte dei suoi figli mi hanno dato e mi potranno dare. Questo legame è uno dei tanti, degli infiniti legami che oggi stringono gli italiani che combattono per una vita nuova, per la nuova civiltà12. Gli importanti risultati espressivi scaturiti dalla mobilitazione degli artisti, l’intensità del loro rapporto con il meridione agricolo in lotta, sono anche un riflesso dell’incisiva penetrazione in quel particolare contesto della propaganda comunista, che risulta meno persuasiva ed aggregante, almeno in questa fase, nei confronti del mondo operaio13. Il versante della pittura realista dedicato esplicitamente al lavoro e alle lotte delle masse – seconda polarità tematica accanto a quella della Resistenza, connessa perciò alla memoria recente – mostra in effetti una propensione “meridionalistica” e, nella scelta dei soggetti, pre-industriale. La medesima constatazione servirà da spunto per l’ampia riflessione critica che nel decennio successivo, in particolare sulle pagine della rivista Realismo, porterà a rintracciare le radici della corrente nella tradizione ottocentesca. Accanto ai nomi del toscano Fattori, ma anche del lombardo Piccio, emergeranno con forza quelli di Gemito e Mancini, esponenti della scuola realista napoletana, proposti con assiduità e passione dal critico, nonché pittore, Paolo Ricci. Il dibattito italiano seguirà, pervenendo a conclusioni idealmente affini, quello già svoltosi in URSS, ove il precedente del più rozzo e
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propagandistico realismo socialista era individuato nella pittura dei cosiddetti ambulanti, e quello francese, ove più debitamente risuonavano, in qualità di numi tutelari, i nomi di Courbet e Daumier. Il tentativo di collocare il movimento entro una continuità storica sarà segno di una sua stabilizzazione linguistica, e coinciderà con un graduale defilarsi della sua matrice antagonista. Come sovente accade, la sistemazione teorica interverrà a fondare criticamente una prassi ormai consolidata. Nonostante non venga meno la sua peculiarità ideologica, gli anni cinquanta vedono un progressivo rifluire della corrente entro il sistema convenzionale dell’arte. L’appoggio dell’apparato intellettuale del PCI, più che alla costruzione di un mercato alternativo per i suoi artisti – che ha d’altronde già i suoi riferimenti nel circuito delle gallerie private “progressiste”, nelle strutture sindacali, nelle cooperative – appare finalizzato ad imporre gli stessi nell’ambito delle manifestazioni e del collezionismo tradizionali. La rimozione di Sereni dalla guida della citata Commissione culturale nel 1951, le nuove prospettive politiche determinate dalla morte di Stalin nel 1953, sono altrettante occasioni per creare maggiori aperture nel dibattito interno sui temi della cultura, attraverso le quali si guarda ora con minore scetticismo alle esperienze artistiche non allineate. La grande retrospettiva italiana dedicata a Picasso, svoltasi tra Roma e Milano nel 1953, vede significativamente impegnati fianco a fianco, nel contesto della sua organizzazione, critici comunisti militanti e importanti esponenti del mondo culturale indipendente, con in testa Lionello Venturi. È a quanto pare lo stesso Togliatti a suggerire il titolo con cui Rinascita recensisce l’esposizione: «Il più grande pittore dei tempi nostri». Il quotidiano l’Unità pubblica nel 1956, a firma di Mario De Micheli, una fino a qualche anno prima impensabile stroncatura del Padiglione Sovietico alla Biennale di Venezia e, sulle stesse pagine, compaiono alcune prese di posizione critiche sul settarismo che ha contraddistinto l’attività di quelli che Pietro Consagra, senza mezzi termini, definisce i «sergenti del realismo». Dal 1957 un’ulteriore fronda interna è rappresentata dalla rivista Città aperta, con cui pittori come Vespignani e Attardi si fanno promotori di una maggiore attenzione verso la realtà industriale e urbana. I soggetti riguardanti il mondo opera-
io intensificheranno la loro presenza nelle opere della fase matura del Realismo, accompagnando il progressivo esaurirsi della sua spinta propulsiva, e dunque il compiersi della sua parabola storica. Conclusione Dopo la sua progressiva obsolescenza nel sistema dell’arte italiano, che non ha mancato di stigmatizzarne gli aspetti stilisticamente regressivi e l’inclinazione retorica, il Realismo del secondo dopoguerra può essere oggi osservato con uno sguardo nuovo, che sappia ponderarne con obiettività il lascito espressivo nonché i contenuti – in senso esteso – ideologici. Riconsiderare in questi termini la sua storia non implica rivalutarne superficialmente l’estetica, che la distanza del tempo rende in effetti gustosamente vintage, ma piuttosto affermare l’oggettiva qualità pittorica che caratterizza i suoi risultati migliori, riconducibili ad autori che vissero in quegli anni una stagione particolarmente intensa del loro percorso creativo: Guttuso, Pizzinato, Treccani, Zigaina tra gli altri. Allo stesso modo non pertinente, nel contesto di tale riflessione, sarebbe richiamare la vocazione “politica” di alcune esperienze artistiche contemporanee, come quelle che hanno trovato rappresentazione nella Biennale d’arte veneziana 2015 curata da Okwui Enwezor; esperienze nelle quali sono francamente irrintracciabili i segni di una sua eventuale eredità. A nostro avviso, riconoscere il valore della vicenda realista significa, prima di tutto, riconoscere la profonda verità di un fervore che condusse numerosi artisti a ritenere il proprio operare un atto di concreto contributo sociale, di testimonianza storica. È quanto essi stessi, anche nel tempo dell’autocritica, o della disillusione politica, non hanno mai rinnegato. Affermava nel 1970 Renato Guttuso: Intorno al 1948, io mi resi conto che fare violenza alla realtà era, per una reale intenzionalità realistica, un compromesso; e che espressionismo, stilismo, ecc., erano intercapedini, mediazioni, schermi, che m’impedivano d’accostarmi alla realtà qual essa è, e quindi anche qual essa ci appare. (…) Fui accusato di verismo ottocentesco, di contenutismo, di arte propagandistica, ecc. (…) Ma le tesi erano giuste.
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Eravamo i soli ad aver ragione, facendo brutti quadri, di fronte ai nostri colleghi che facevano bei quadri e avevano torto14.
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1 C. Pavese, in G. Carpi, Ždanovismo all’italiana. Gli intellettuali del dopoguerra e l’“ingegneria delle anime”, Toronto Slavic Quarterly, n. 15, 2006, p. 1. 2 «Nel Tolstoj è caratteristico appunto che la saggezza ingenua e istintiva del popolo, enunciata anche con una parola causale faccia luce e determini una crisi dell’uomo colto (…) [nel Tolstoj] le concezioni del mondo non possono non essere elaborate da spiriti eminenti, ma la realtà è espressa dagli umili, dai semplici di spirito». A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1950, p. 76. 3 A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi, Torino 1953, in N. Misler, La via italiana al Realismo, Gabriele Mazzotta Editore, Milano 1973, p. 51. 4 A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, cit., p. 28. 5 Ibidem, p. 81. 6 A. Trombadori, Artisti e critici dopo la Liberazione, in «Rinascita», n. 3, a. I, agosto-settembre 1944, in N. Misler, op. cit., p. 23. 7 Un’interessante ricostruzione del rapporto tra il partito al potere e le arti figurative in Unione Sovietica è stata svolta, diversi anni fa, da Giuliano Briganti. Ne riportiamo qui alcuni passaggi: «La storia delle interferenze del partito al vertice delle quali troviamo lo zdanovismo, è una storia che comincia molto presto (…) forse già quando, con l’inizio della Nep (1921) si andò progettando una nuova struttura burocratica dello Stato, e si gettarono le fondamenta di un edificio che diverrà crescendo, sempre più pauroso. (…) È da allora che si osservano con diffidenza crescente quelle “elites” sospettate di portare avanti, dietro la bandiera del rinnovamento, idee ed espressioni ritenute impenetrabili alla comprensione del proletariato (…) È il nuovo dirigismo che si accompagna al varo del primo piano quinquennale (1928) che sarà decisivo per il compiersi dell’isolamento delle avanguardie storiche». G. Briganti, E in un gelo mortale i “pompieri” spensero la scintilla dell’arte, in «la Repubblica», 14 dicembre 1977. 8 I. Calvino, B. Valli, Ma Togliatti-Roderigo consigliava ai compagni di leggere De Sanctis, in «la Repubblica», 14 dicembre 1977. 9 Secondo Calvino, «l’operazione culturale che Togliatti seppe condurre meglio», in I. Calvino, B. Valli, op. cit. 10 «Ciò che si esclude è che un’opera sia bella per il suo contenuto morale e politico e non per la sua forma, in cui il contenuto s’è fuso e immedesimato». A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, sub indice ‘Arte e politica’, Einaudi, Torino 1975, p. 1316. 11 E. Vittorini, Gli anni del “Politecnico”. Lettere 1945-1951, Torino 1977, in G. Carpi, op. cit., p. 8. 12 E. Treccani, Gente di Melissa, in «Quaderno di disegno popolare», Ed. Cultura Sociale, n. 1, Roma 1951, in N. Misler, op. cit., p. 70. 13 Scriveva un giovane Renzo Vespignani: «Ormai gli operai mi cono-
scevano. Io adesso nascondevo i miei lavori, sempre più vergognoso: preferivo parlare con loro dei turni più lunghi, del sole che arroventava le tettoie di lamiera. (…) Guardavo gli ultimi disegni, quei paesaggi oscuri, velati, quelle figure condotte in punta di penna, come un prezioso ricamo, e cercavo di sentirmi contento. Mai come in quel momento ho sentito il mondo lontano e incomprensibile». R. Vespignani, 10 disegni sugli operai romani, in “Quaderno di disegno popolare”, cit., p. 68. 14 R. Guttuso, M. de Micheli, Guttuso, l’occupazione delle terre, E. Schubert, Roma 1970, in N. Misler, La via italiana al Realismo, cit., p. 45.
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La rivista «October»: novità metodologiche e crisi di un paradigma MARIA GIOVANNA MANCINI
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La rivista «October», a cui nel numero precedente di «Op. cit.» ho dedicato un’approfondita analisi, in particolare dei temi che hanno costituito la peculiare proposta teorica della rivista, si è distinta fin dal 1976, anno della sua fondazione, in area anglosassone per essersi interrogata sul ruolo e sugli strumenti della critica. Per usare un’espressione cara a Filiberto Menna, potremmo indicare nel continuo processo di “critica della critica” ciò che è stato attuato dalla rivista, prima, con la revisione delle coeve letture dell’avanguardia europea; poi, attraverso la formulazione di inedite idee sul postmoderno, inseguito con l’indagine differita su queste ultime e, infine, seppur con un esito di istituzionalizzazione dei discorsi critici, mediante l’edizione della Storia dell’arte raccolta nel volume Arte dal 19001. La rivista ancora oggi in corso di pubblicazione probabilmente ha perso la posizione d’avanguardia mantenuta per tutti gli anni ’90. Nonostante sia indubbia la qualità teorica degli scritti pubblicati su «October», oggi altre riviste occupano una posizione più avanzata nel dibattito teorico. Si pensi tra tutte al blog e alla rivista «eflux» fondata nel 2008 da Anton Vidokle nell’ambito di un più ampio progetto artistico attivo dal 1998 e alla rivista «The Third Text» di Rasheed Araeen che apparve per la prima volta a Londra nel 1987. Le questioni di metodo fino agli anni Novanta vengono continuamente poste in primo piano dal lavoro dei critici attivi su «October». Un’occasione importante di analisi è il numero dedi-
cato alla riflessione sui Visual Studies e, più in generale, sulla Visual Culture. Tale numero costituisce una presa di posizione critica nel contemporaneo dibattito internazionale che, in un modo del tutto nuovo, coinvolge la disciplina della storia dell’arte e della critica in un territorio, quello dell’immagine e del visuale, non di esclusiva pertinenza delle discipline storico-artistiche. Il nodo problematico di tale, supposta, nuova disciplina, la cui disciplinarità è messa in discussione dagli stessi suoi fautori, travolge qualunque presupposto metodologico che la storia e la critica dell’arte si erano tradizionalmente attribuite. Eppure la questione del visuale sulla rivista «October», da sempre attenta a mettere in discussione i caratteri di una pratica critica in divenire, non è sollevata esclusivamente in occasione dell’emergere di quello che Mitchell definisce pictorial turn, bensì viene analizzata secondo quanto espresso da Foucault e Lyotard circa il vedere, il figurale: luoghi centrali di una condizione critica trasformativa che coinvolge non solo il ripensamento del moderno e del postmoderno, ma soprattutto la stretta contemporaneità. John Rajchman, a questo proposito, dedica un denso saggio2 alle proposte estetiche formulate da Lyotard nel Discours, figure del 1971 che anticipa di gran lunga il dibattito sul visuale, che negli anni ’90 approda anche sulla rivista «October». Il problema che Rajchman vede nel discorso di Lyotard è il tentativo di far emergere un Figurale non subordinato al discorso, liberare il processo della visione e di ciò che è sensibile nell’incontro con ciò che non è rappresentabile. Lo stesso Rajchman, dieci anni prima, aveva dedicato un articolo alla centralità della visione e del visivo nel pensiero di Foucault. Al di là della fondamentale questione tutta interna al dibattito sugli studi foucaultiani circa la denigrazione o l’importanza della visione nel pensiero di Foucault, la cosa che appare interessante è che, in netto anticipo sull’emergenza in ambito accademico delle riflessioni metodologiche legate ai visual studies, la rivista «October» ha posto da subito i riflettori sulla questione critica del visivo dando spazio ad indagini teoriche aggiornate. Un fronte, quello della riflessione sui metodi della storia dell’arte che è tra quelli più caldi lungo i quali la rivista ha, da sempre, combattuto battaglie in campo aperto. Eppure la questione del visivo e degli studi visuali nasce come una
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spina nel fianco della militanza della rivista. Va registrato, infatti, seppur in termini di un confronto ideale, un attrito tra la posizione di Jean Claire, pubblicata sulla stessa rivista nel ’783, e quella di Rosalind Krauss circa il Grande Vetro di Duchamp: per l’uno è il chiaro esempio della centralità della visione nelle macchine celibi, allegorie stesse del vedere; per l’altra, invece, costituisce la pietra di volta della parabola teorica che connette la fotografia al ready-made4. Il discorso della Krauss, ancorato saldamente alla teoria mediale che centra i propri ragionamenti sul medium come linguaggio e supporto fondamentale irrinunciabile dell’arte, non può in alcun modo subire il fascino di un metodo che segue i barbaglii delle picture, immagini senza supporto. Nel numero dedicato all’indagine sui Visual Studies furono pubblicati anche un saggio sulla teoria di Warburg e il dibattito sulla cultura visuale. Il saggio di Mitchell, What do Pictures “Really” Want?5 appare in posizione centrale nel numero. Mitchell interpreta il desiderio delle immagini facendosene portavoce. Sostiene che esse vogliono rompere con la vecchia storia dell’arte che distingue tra immagini di cultura alta e cultura popolare e, così, trasformare la storia dell’arte in storia delle immagini. Mitchell indica negli strumenti discorsivi della semiotica i modelli per avviare una trasformazione metodologica all’interno della disciplina. A conclusione del numero e del dibattito, quasi a tirare le somme sull’utilità della prospettiva visuale, appaiono i saggi di Rosalind Krauss e Hal Foster. Hal Foster, affondando la sua analisi nei testi di Riegl, Wölfflin e Malraux, individua due tensioni – e antinomie – nella “storia dell’arte critica”: una che tende a legittimare l’autonomia del l’arte e un’altra che la radica nel sociale. Il nuovo approccio visuale per la storia dell’arte non è esente da queste antinomie e Foster lo sottolinea con il riferimento al lavoro inaugurale di Baxandall in cui vengono messi in relazione “visual skills” e “social facts”. Nei testi recenti di Visual Studies, che Foster provocatoriamente definisce “disciplina epifanica”, il soggetto è un soggetto specifico: “quest’osservatore non è visto in termini idealistici come uno Zeitgeist in persona, ma in termini materialisti persino nominalisti come una costruzione sociale”6. La storia dell’arte degli Studi Visuali è spaccata in due tra la virtualità
dell’arte e il materialismo della storia, per cui si assiste al progressivo scivolamento, non solo terminologico, da art a visual e da history a culture. Facendo leva sulla posizione di Fredric Jameson, che argomenta nel volume The Political Unconsciuous la relazione indissolubile tra le nuove concettualizzazioni e forme di vita e i sistemi di valori della società capitalista, Rosalind Krauss sostiene la relazione tra l’economia globale e la “rivoluzione” nell’ambito culturale e legge il passaggio dai Cultural Studies ai Visual Studies come il cambiamento dell’interpretazione degli strumenti alla radice dei due metodi teorici7. In particolare si chiede se l’accento posto sulla funzione dell’immaginazione in Lacan (lo stadio dello specchio per cui, attraverso la visione, si ha l’identificazione) non abbia fatto equivocare la teoria lacaniana. La Krauss dimostra, con l’attento riferimento ai testi, che i Visual Studies hanno pochi punti in comune con i Cultural Studies autoproclamatisi come una rivoluzione all’interno del sistema accademico e che l’interesse per l’immagine, del tutto scorporato dalla materialità delle immagini, è rivolto alla necessità interna della storia dell’arte di costruire i propri requisiti. L’indagine sugli strumenti della critica e sulla disciplina della storia dell’arte culmina nel 2002 con il centesimo numero in cui gli editorialisti dedicano l’intero volume al tema benjaminiano dell’obsolescenza. A chiusura del numero, ma in posizione centrale rispetto ai discorsi, sono pubblicati gli esiti di un dibattito tra i teorici impegnati sul fronte dell’indagine critica e metodologica, già collaboratori della rivista, e altri studiosi invitati per l’occasione. Alla questione della crisi della critica posta da George Baker in apertura dei lavori rispondono con analisi e proposte Rosalind Krauss, Benjamin Buchloh, Andrea Fraser, David Joselit, James Meyer, Robert Storr, Hal Foster, John Miller e Helen Molesworth. L’intervento di apertura di George Baker è chiaro: la disciplina della critica d’arte è in crisi e, anche se sembra nostalgico riferirsi al ciclo di innovazione e obsolescenza, per cui ad una posizione d’avanguardia succede una successiva idea più nuova del nuovo che stabilisce l’obsolescenza del paradigma precedente, è indubbio che lo stato della critica, all’inizio del nuovo millennio, è di estrema sofferenza. In qualche modo anche Hal Foster, nel saggio sui ‘critici in extremis’, instilla l’idea di una
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parabola discendente delle metodologie; persino la critica proposta sulla rivista «October», che nel suo esito accademico trova una delle concause di tale declino, ha ‘perso terreno’8. Tale crisi per Baker è evidente. Usando a modello la figura del ciclico superamento del nuovo suggerita da de Man, egli riconosce che l’utopico auspicio di Craig Owens di cancellare le “cultural ‘divisions of labor’ ” si è verificato non nel superamento dell’elitismo del critico modernista ma, piuttosto, nel travisamento del modello della trans-disciplinarità metodologica della ‘nuova’ critica atto a legittimare un linguaggio esoterico della critica9. La posizione di Benjamin Buchloh mette in questione proprio il ruolo della critica rispetto al contesto di riferimento. Il campo di azione della critica indiscutibilmente non può essere identificato tout court con una supposta “sfera pubblica dell’arte”, dove è piuttosto pervasiva la presenza del mercato e dell’industria culturale, più in generale, in cui si richiede la figura dell’esperto piuttosto che quella del critico. La funzione critica, come la funzione museale, sono le prime obsolescenze che il contemporaneo sistema culturale ha decretato. Una crisi più generale della teoria critica viene rilevata da Hal Foster in coincidenza con le crisi politiche e con le scelte guerrafondaie dei governi conservatori. Hal Foster, che da sempre ha stretto nell’analisi culturale l’analisi socio-politica, dedica un editoriale recente10 alla condizione che ormai definisce post-critica. «October» e l’Italia
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Il rapporto di «October» con l’Italia è marginale. All’arte italiana viene dedicato il numero 124 del 2008 a cura di Claire Gilman, pubblicato con il titolo monografico Postwar Italian Art, in cui si registrano la totale assenza di studiosi italiani e una prospettiva americanocentrica nell’analisi della situazione italiana. Molto di recente l’articolo di Romy Golan, aggiornato alle riflessioni che negli ultimi anni in Italia sono state dedicate ai prestiti e alle resistenze culturali che tra gli anni ’60 e i ’70 caratterizzarono la pratica artistica nel rapporto tra Italia e America, racconta l’esperienza della mostra Vitalità del negativo11. Piuttosto complesso è, invece, il rapporto dell’Italia con la costellazione «Oc-
tober». Raggruppati in apocalittici e integrati, per usare impropriamente la celebre definizione di Eco, in Italia i lettori si sono divisi, per lo più, tra gli acritici sostenitori e i detrattori refrattari al metodo analitico critico. Il lavoro costante di Elio Grazioli, che ha curato le traduzioni dei saggi di Rosalind Krauss, è stato un lavoro pioneristico e fondamentale per la diffusione in ambito italiano delle idee della teorica statunitense. Più di recente sono apparsi in traduzione italiana alcuni saggi di Hal Foster grazie all’attività di traduzione e pubblicazione della casa editrice Postmedia. Accompagna il volume Il ritorno del reale un saggio di Roberto Pinto, mentre la traduzione di The Anti-Aesthetic: Essays on Postmodern Culture è corredata da una postfazione di Ester Coen la quale, prima di tutto, rileva il ritardo trentennale con cui arriva la pubblicazione di un saggio “vademecum di una intera generazione”12. La pubblicazione della prima edizione negli Stati Uniti di The Anti-Aesthetic nel 1983 non solo arrivava quando in Francia la discussione era giunta al capolinea, ma aveva costituito una tappa fondamentale della rivoluzione culturale promossa da «October». La discussione sul postmoderno negli Stati Uniti, infatti, non si era articolata, come in Francia e più in generale in Europa, intorno alla posizione centrale di Lyotard, l’illustre assente dell’antologia statunitense, ma intorno a figure eccentriche. Nell’antologia spicca la posizione di Baudrillard che, sottolinea la Coen, riporta “i significati nella società contemporanea”. Nel dibattito fomentato dalle riviste di letteratura, arte e architettura, infatti, il discorso della decostruzione assume negli Stati Uniti una peculiarità che non ha pari in Europa. Nel rapporto con il contesto italiano restano, però, da rilevare, con le dovute differenze, le congruenze di temi e strumenti metodologici che avvicinano, anche solo per la contemporaneità in cui sono apparsi, il lavoro critico di Filiberto Menna e di Angelo Trimarco a quelli degli autori di «October». Il rapporto idea le tra la rivista «Figure. Teoria e Critica dell’arte» fondata da Filiberto Menna nel 1982 e la rivista «October» è stato oggetto della mia relazione alla Giornata di Studi per Filiberto Menna tenuta il 19 dicembre 2014 con il coordinamento dei lavori di Stefania Zuliani, presso il Museo Madre di Napoli. Tra i tanti punti di tangenza va sottolineato che il discorso sul fotografico è
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presente in entrambe le riviste. Il paradosso fotografico, insieme messaggio con codice e senza codice secondo Barthes, denota, nella proposta di Rosalind Krauss raccolta nel saggio The photographic Conditions of Surrealism, una relazione specifica con il reale. Tale posizione era già stata argomentata nel lungo saggio Notes on index: Seventies’ Art in America, in cui il concetto del fotografico viene utilizzato nell’analisi dell’opera di Duchamp e degli artisti degli anni Settanta che ne raccolgono l’eredità. È lo stesso paradosso che inaugura il numero doppio dedicato alla fotografia del 1985 della rivista «Figure». In prima battuta, nell’editoriale del numero, è segnalata la necessità di fare i conti con la fotografia, «crocevia delle esperienze delle avanguardie» e «spazio drammatico dello scontro tra reale e rappresentazione del rea le»13. Calabrese, servendosi lungamente di Barthes, analizza il segno fotografico in quanto segno semiotico sgombrando, però, il campo dai problemi che la letteratura sull’argomento aveva già battuto (la specificità del mezzo, la referenzialità e la minimalità del linguaggio fotografico), considerati falsi problemi che non inficiano la natura dell’oggetto del discorso. Piuttosto Calabrese è indirizzato a considerare il linguaggio fotografico attraverso alcune caratteristiche specifiche, quali la doppia spazialità e la doppia temporalità della fotografia. Menna, nello stesso numero, rilegge un altro tema pressante nel dibattito internazionale sulla fotografia: il rapporto tra arte e fotografia, selezionando attraverso la procedura del fotografico il lavoro degli artisti pop americani e di una frangia europea che vede nelle sperimentazioni pittoriche di Richter un’analoga intenzione. L’indagine sul significato del termine postmodernità, che sulla rivista «October» trova ampio spazio e un clima nient’affatto raffreddato o pacificato al l’ombra dell’idea del pluralismo, è oggetto di dibattito anche della rivista italiana, che si contraddistingue nel panorama nazionale come il luogo privilegiato per condurre riflessioni teoriche su tali argomenti. In ambito statunitense, contro un presunto pluralismo che nasconde svolte conservatrici nell’arte quanto nella politica, si scaglia in più occasioni Hal Foster. Sulla rivista «October» si ritaglia il profilo di un postmoderno inquieto, un postmoderno of resistance che sceglie contro-pratiche di resistenza alla cultura ufficiale del modernismo e alla falsa normatività di un postmo-
dernismo reazionario, quello molto meglio conosciuto dell’ornamento architettonico o quello che riscopre il valore di una soggettività artistica narcisisticamente arroccata sull’individuale. Con la consapevolezza che il postmodernismo è un fenomeno in parallasse14 si produce quell’“uscita dal postmoderno” di cui i teorici attivi su «Figure» discutono in considerevole anticipo già nel decennio degli anni ’80. Sia gli autori di «Figure» sia gli octoberists riflettono sul concetto di “nuovo”, strettamente segnato da quello di “ripetizione” a cui proprio Menna dedica un saggio, pubblicato nel 198815. Stavolta Menna condivide con Lyotard l’idea che la ripetizione declinata nel prefisso ‘post’ di postmoderno non sia un movimento di come back ma, piuttosto, anamnesi o anamorfosi che elabora un ‘oblio iniziale’. Si tratta di un’uscita dal postmoderno che, nel celebre saggio di Trimarco pubblicato su «Figure», si produce affinando due armi: lo storicismo debole, prendendo atto con Vattimo che pensare il postmoderno come fine della storia è un problema che non si pone più, e attraverso una teoria sistemica che rinunci a ridurre il sociale ad una rete di funzioni. È questa una soluzione implicante un atteggiamento etico che non ignora il progetto moderno, ma che muove singolarmente dal moderno dopo il postmoderno. Trimarco scrive di una modernità “che pensa il suo futuro come un tempo pieno e di ripresa dopo l’apocalisse della “post-histoire”16. Egli ci suggerisce la via d’uscita dall’empasse: pensare il postmoderno come governato da una temporalità fratturata, discontinua, incerta. Nella contemporaneità, dove i problemi critici legati al postmoderno sono ormai datati e i dibattiti alimentati dalle riviste sono solo oggetto d’interesse per gli storici, il problema della produzione dell’arte e delle idee si pone su scala globale e nel tempo simultaneo delle reti, dove il recupero della radicalità del discorso critico (come quello scaturito da «October» o «Figure», per esempio), può essere utile a produrre ancora quelle discontinuità, opacità e incertezze, nutrimento della progettualità.
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1 Gli autori più attivi sulla rivista pubblicano nel 2004 un volume monolitico di Storia dell’arte contemporanea: AA.VV., Art since 1900. Modernism, Antimodernism, Postmodernism, seconda edizione in trad. it. AA.VV., Arte dal 1900, Milano 2013. 2 J. Rajchman, Jean-François Lyotard’s Underground Aesthetics, in «October», 86, 1998, pp. 3-18. 3 J. Clair, Opticeries, in «October», 5, 1978, p. 108. 4 R. Krauss, Marcel Duchamp ou le champ imaginaire, in «Degrés», n. 26-27, 1981, trad. it., in Id., Teoria e storia della fotografia, trad. it. p. 70. 5 W.J.T. Mitchell, What do Pictures “Really” Want?, in «October», 77, 1996. 6 H. Foster, The Archive without Museums, in «October», 77, 1996, p. 103. 7 R. Krauss, Welcome to the Cultural Revolution, in «October», 77, 1996, pp. 95-96. 8 «Dove ci troviamo ora? Se il declino del critico modernista in stile “Artforum” è stato anche il momento nascente del critico-teorico di “October”, possiamo dire che questa figura ha iniziato a perdere terreno a sua volta. Sul fronte culturale, lui o lei si sono moltiplicati attraverso diverse discipline e dibattiti postmoderni. Sul fronte professionale, se i critici di “Artforum” avevano un piede nel loft, i teorici di “October” hanno un piede nel l’accademia, e oggi lui o lei provengono spesso da quell’ambiente. Ma questo arrendersi all’accademia è solo una parte della storia». Tale stralcio del discorso di Hal Foster pone l’interrogativo su quale debba essere il contesto in base al quale si deve misurare il critico, non certo nell’arroccamento accademico né tantomeno nel mercato totalmente disinteressato alla funzione critica. H. Foster, Critici d’arte in extremis, in Id., Design & Crime, trad. it., Milano 2003, pp. 110-111. 9 AA.VV., Round Table: The Present Conditions of Art Criticism, in «October», 100, 2002, pp. 200-228. 10 H. Foster, Post-Critical, in «October», 139, 2012. 11 R. Golan, Vitalità del negativo/Negativo della vitalità, in «October», 150, 2014. 12 E. Coen, Nel segno del postmoderno, in H. Foster (a cura di), L’antiestetica, Saggi sulla cultura postmoderna, trad. it., Postmedia, Milano 2014. 13 Editoriale, in «Figure. Teoria e Critica dell’Arte», 10-11, 1985. 14 H. Foster, Postmodernism in parallax, in «October», 63, 1993. 15 F. Menna, Il cambiamento dell’arte e la questione del nuovo, in «Figure», 0, 1988. 16 A. Trimarco, L’uscita dal postmoderno, in «Figure», 0, 1988.
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Il design (morale) dell’ordine IMMA FORINO
Chiamiamo suppellettile ogni comodità della casa, come i vasi, i piatti, i drappi, i divani e le altre cose del genere, senza le quali non sarebbe possibile vivere comodamente1, scrive Giovanni Pontano in De Splendore (1498), riconoscendo agli oggetti d’uso un’ineludibile identità, che lega il loro destino a quello umano. Al contempo, gli oggetti possono qualificare il valore del l’«uomo sozzo» o dell’«uomo splendido» a seconda della qualità della loro ornamentazione: La suppellettile dell’uomo splendido sarà … tersa e abbondante, non solo corrispondente alle possibilità economiche, ma anche all’attesa degli altri e alla dignità sua; ma non sarà sconveniente eccedere un poco in questo caso. […] la suppellettile deve essere […] anche rara e distinta2. Con quasi quattro secoli d’anticipo rispetto al sociologo Pierre Bourdieu (La distinction, 1979), l’umanista Pontano evidenzia l’importanza della distinzione degli oggetti nella casa dell’«uomo splendido» come espressione del gusto personale, ma soprattutto della sua volontà di distinguersi dagli altri: si tratta di suppellettili da esporre e da valorizzare allo sguardo dell’ospite attraverso il mobile della credenza. Costruito per parti sovrapposte e riccamente decorate, con sportelli in basso, uno o più ripiani liberi e rientranti al centro, ante con fregi o intagliate nella parte superiore, l’arredo funge da appoggio di servizio per piatti e cibi freddi (il «servizio di credenza»), ma è altresì un abaco per esibire il vasellame prezioso della casa, sorvegliato dai credenzieri. Il mobile riflette peraltro il senso dell’igiene e la
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paura del contagio, che presiedono all’organizzazione del ser vizio da tavola in epoca rinascimentale secondo i precetti della «suntuosa lindura»3 prescritta da Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, nel trattato De honesta voluptate et valetudine (1474): non a caso – riporta Raffaella Sarti –, in Italia l’uso del termine «cre denza» (dal lat. credo, dar fiducia) è riferito sia al tipo di arredo sia al modo di porgere le pietanze senza toccarle con le mani, ma usando due salviette, due pezzi di pane o due piatti4. Pur discorrendo di «suppellettili rare e distinte», Pontano non può fare a meno di elencare generi e tipi, sottolineando cioè la numerosità degli oggetti che servono quotidianamente a svolgere le proprie attività. Si tratta della moltitudine delle cose banalmente servili, che non meritano la nobilitazione dello sguardo quanto quella dell’uso e che, più che all’esposizione, sono destinate al nascondimento, a essere cioè messe da parte dopo aver espletato la loro funzione. Il celare alla vista gli strumenti quotidiani è per lo più presieduto da quel desiderio di «occultare il disordine», in un recesso o in un recipiente, che sembra attraversare quasi tutte le età storiche: in epoca medievale per esempio il cassone funge da contenitore, panca, giaciglio, ma consente anche – quasi a guisa di valigia – di portare via i beni della famiglia, che si sposta di castello in castello per sfuggire alle razzie barbare. «Fare ordine» è formalizzato da architetti, mobilieri e arredatori come un consapevole progetto etico durante l’Ottocento: prendendo a prestito il credo vittoriano («ogni cosa a/ha posto»), l’arredo per l’ordine interseca mondi che, nella medesima epoca, si stanno definendo come contrapposti, quali l’abitazione e il luogo di lavoro. Per Walter Benjamin un elemento significativo dello svi luppo del capitalismo moderno va rintracciato proprio nel contrasto fra lo spazio privato e quello del lavoro: Il primo si costituisce nell’intérieur. Il suo complemento è nel comptoir. Il privato, che tiene conto della realtà nel comptoir, esige dall’intérieur di essere cullato nelle proprie illusioni5. Eppure nell’arredo dell’ordine si intrecciano ingegnosamente soluzioni e dispositivi di entrambi, quasi a riconnettere universi distinti attraverso il medesimo imperativo morale, fino ad arrivare alla costruzione razionalista del built-in furniture, un mobile integrato alla muratura dell’invaso edilizio e dato in dotazione negli alloggi popolari.
L’«arredamento morale» ha un interessante precedente alla fine del Settecento, all’interno del nucleo sociale degli Shakers. Trasferitasi nel Nuovo Mondo con alcuni seguaci (1774), l’inglese Ann Lee Standerin fonda il movimento religioso Millennial Church (noto anche come United Society of Believers in Christ’s Second Apparing o, più semplicemente, Shakers6). Non si tratta solo di un’interpretazione del Cristianesimo, quanto dell’istituzione di una nuova società: influenzata dal Quaccherismo inglese e da una personale convinzione religiosa – la «femminilizzazione» del secondo avvento di Cristo –, Mother Ann richiama una spiritualità che fa leva sul celibato, oltre che su un «ideale androgino» e «di genere» della religione7. All’abolizione del nucleo familiare tradizionale corrisponde la formazione di un’organizzazione sociale funzionante come una grande famiglia (da trenta a cento individui), secondo un’ortodossia disciplinata dalle Millennial Laws (1821-1845). Pur se secondo un rapporto paritario, la divisione delle attività fra uomini e donne è funzionale a sco raggiare le relazioni interpersonali, mentre le frenetiche danze religiose, sincronizzate in gruppi, sembrano sublimarne la sessualità. La privazione delle pratiche sessuali fra gli adepti e la parziale chiu sura al mondo esterno garantiscono un’esistenza morale secondo una chiara «retorica della separazione», ma sono anche i principali motivi di estinzione del movimento dopo la fine della Guerra Civile8. Un’attenta pianificazione concorre a inquadrare ogni adepto per controllarlo socialmente. La rettitudine ne caratterizza l’esistenza: incarnata nell’uso delle linee rette, domina nell’insediamento dei villaggi e nella costruzione delle architetture, nella sistemazione degli interni, nel disegno di arredi e attrezzature secondo un modello di vita razionale, poco dispendioso, ordinato. La rigidità permea ogni aspetto: non è consentito fare percorsi a piedi secondo una direttiva obliqua, mentre altre regole determinano i colori delle costruzioni e degli spazi, l’abbigliamento, i rapporti fra le persone, dentro e fuori la confraternita. Negli stereometrici edifici residenziali della comunità (Dwelling House, Hancock 1830) la linea retta corre anche lungo le pareti degli ambienti: è un listello di legno che segna l’orizzonte morale, imponendo ai «fratelli» e alle «sorelle» di appendervi sopra, me-
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diante dei pioli, sedie, piccoli contenitori, indumenti, in modo che nulla possa ingombrare la superficie del pavimento. Queste strisce lignee, sottolineando l’ortogonalità dell’organizzazione, avevano una costante funzione inibitoria contro una maggiore casualità nella disposizione degli oggetti9. Portati all’inizio in dote dai fedeli o acquistati sul posto, dalla prima metà dell’Ottocento gli arredi sono costruiti dai fratelli, evolvendo dallo stile New England a un gusto più autonomo e definito: il disegno è raffinato nella sua sintetica funzionalità, privilegia l’angolo retto e il legno (acero, pino, betulla, ciliegio) è selezionato privo di nodi. I mobili si replicano in modo più o meno omogeneo nelle varie stanze e nelle diverse comunità, anticipando un’ipotesi di standardizzazione secondo un’idea razio nale dell’arredamento, pur se declinati in molte varianti. I conte nitori a muro in legno massello, ordinatamente segmentati in sportelli e cassetti, indirizzano all’ordine grazie all’adozione di un sistema alfanumerico, che facilita la disposizione degli oggetti, con i cassetti via via più sottili verso la cima. Ricordano i cabinet flat files (prod. Amberg File & Index Co., 1868), alti mobili in legno con cassetti per sistemare la corrispondenza in ordine alfabetico adottati negli uffici inglesi e americani durante l’Ottocento, ma i contenitori degli Shakers sono delineati a partire da un’invisibile griglia, su base rettangolare, proporzionata sulle di mensioni delle suppellettili da accogliere e libera da influenze decorative – un tema progettuale esplicato, come si vedrà più avanti, da Catharine Beecher e Harriet Stowe Beecher negli arredi di un cottage ideale (1869) e, successivamente, da Le Corbusier nel progetto dei casiers standard (1924-28). Nell’Inghilterra vittoriana ordine e pulizia sono sinonimo di bellezza etica, da coltivare accuratamente fra le pareti domestiche. Un’enfasi particolare è posta sulla famiglia, che presenta un triplice carattere: morale, sociale e affettivo. È una cittadella sacra, una piccola unità patriarcale. È il luogo della pace domestica. Nella stabilità del corpo sociale la famiglia svolge un ruolo essenziale, perché fa parte di quelle convenzioni sociali che nessuno mette in discussione10. In una società improntata all’austerità e alla rispettabilità, alla padronanza degli istinti e al sacrificio, fino a sfociare nella strenua condanna del piacere e
nell’esaltazione del senso di colpa, la dottrina dell’Evangelicalismo cristiano influenza la vita familiare e questa è, del resto, con siderata dagli evangelicali il perno della vita cristiana, il riparo dal traviamento, il fulcro per un’auspicata riforma dei costumi. La casa è ritenuta un tempio o un santuario in cui trovare rifugio dopo il lavoro, come recita una nota massima: «An Englishman’s home is his castle», parafrasi della nota espressione giuridica di Sir Edward Coke sul rispetto della proprietà privata. La disposizione architettonica della dimora, mediante uno sviluppo per ambienti altamente specializzati (drawing room, dining room, lady’s sitting-room, gentleman’s sitting room, nursery, ecc.), riflette peraltro un’idea dell’ordine secondo i principi della «genderizzazione» (la separazione per sesso e per generazione: le donne lontane dagli uomini, le nubili dagli scapoli, i bambini dagli adulti) e della «gentrificazione» (la divisione per classe sociale, che distingue gli spazi del personale di servizio da quelli dei padroni di casa). Sono principi consapevoli della progettazione d’interni, sottolineati dall’architetto Rober Kerr in uno dei più noti e seguiti manuali sulla costruzione dell’abitazione, The Gentleman’s House (1864), che pone la privacy della famiglia, anche rispetto alla coabitante servitù, come un valore assoluto rispetto alla facile ostentazione dell’agiatezza del padrone di casa11. In età vittoriana l’imperativo dell’ordine è poi rinsaldato secondo la prospettiva sociale: «fare ordine» è un valore etico che deve contraddistinguere l’intera società umana, oltre che gli spazi del suo quotidiano. Il precetto, di derivazione gentry12, è quindi perseguito con costanza dalle istituzioni governative e filantropiche che cercano di promuovere l’ideale di vita vittoriano fra le classi più povere, trasferendo dall’alto verso il basso il modello abitativo – privacy, pulizia, comfort – delle classi alte13. All’orrore batterico, cui si contrap pone l’ossessione igie nista, cor ri sponde il pregiudizio del sudiciume come vizio, ancorché foriero di malattie, che dalle case malsane può propagarsi ai quartieri ricchi. La lotta contro l’altra depravazione, l’alcolismo (da cui la nascita delle varie società per la temperanza, come la National Temperance League), è poi considerata essenziale al controllo sociale in nome della rispettabilità e del self-respected, cui tutti devono protendere. Infine, si provvede agli indigenti con il loro
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internamento nelle workhouses, ospizi con obbligo di lavoro, perché il presupposto della legge (Workhouses Act, 1722, e New Poor Law, 1834) è che la povertà sia un crimine dovuto alla pi grizia e all’assenza di valori morali. Così come nelle case e nella società della gentry inglese «ognuno ha il suo posto» nella gerarchia di ceto e di genere, anche nell’ambiente dell’ufficio, e in particolare nei suoi arredi, vi è «un posto per ogni cosa, e ogni cosa [è] al suo posto» – come recita l’entusiastica pubblicità di una scrivania dell’epoca14. Nell’esportazione in America dei valori etico-sociali vittoriani, l’obbligo morale dell’ordine viene efficacemente declinato in un mobile altamente specializzato per il lavoro, che serve anche a rinchiudere metaforicamente l’impiegato in un singolo alveo, identificandone il ruolo e, al tempo stesso, segregandolo con l’isolamento rispetto agli altri addetti. Il Wooton Patent Desk (1874) di William S. Wooton è un arredo in legno dotato di molti scomparti per archiviare i documenti e di un piano di scrittura ribaltabile; grazie ad ante simili a quelle di un armadio permette inoltre di nascondere il lavoro non completato. Imitato da ditte europee e americane, è un mobile costoso e con diverse varianti, declinato per lo più in un esotico stile neorinascimentale15. Il Wooton Patent Desk è l’espressione della cultura tardo-vittoriana importata negli Stati Uniti che dà grande rilievo, oltre che all’ordine, alle «strategie per fare ordine»16: in tal senso, può essere considerato come un modo per controllare il contabile tramite l’organizzazione minuziosa dei suoi gesti. I sessanta o cento scomparti dello scrittoio consentono di conservare altrettanti documenti e oggetti, ma il maggiore problema per l’impiegato è ricordare dove li ha riposti: è cioè necessaria una mente affidabile ed esercitata all’autocontrollo, secondo quella sfaccettata psicologia coercitiva che ha ben indagato Michael Foucault nei dispositifs di controllo17. La ditta cesserà la produzione del complesso scrittoio-archivio – sommerso dalla quantità di carte note vol mente aumen tate al passaggio del secolo – dopo circa vent’anni, nonostante le numerose esportazioni e la preferenza accordatagli da nomi altisonanti del mondo imprenditoriale. Ancora in America, un rinnovato credo morale orienta invece l’arredamento della cucina delle sorelle Catharine Beecher e
Harriet Stowe Beecher, presentata nel trattato The American Woman’s Home (1869)18. Utensili e alimenti sono ordinatamente sistemati in mobili in legno con sportelli e cassetti, organizzati fra loro in modo da avere una superficie di lavoro continua. Ogni contenitore è studiato per un uso specifico, quali conservare le farine o gli alimenti secchi, riporre le posate o i piatti. È inoltre replicato il listello in legno degli Shakers per appendere mestoli e strofinacci, da tenere sempre a portata di mano. Il disegno complessivo della cucina è estremamente lineare, senza concessione a fronzoli o a spreco di spazio: un imperativo morale, di impronta religiosa, ordina il ridotto universo femminile. Se Catharine Beecher si interroga sulla «responsabilità della donna americana» nei confronti del proprio paese, mettendone in rilievo il ruolo di educatrice delle future generazioni, il suo Trea tise on Domestic Economy (1841) è soprattutto pervaso da un forte sentimento di religiosità cristiana, che vede nella famiglia e nella casa il centro dell’esistenza femminile sulla scorta dei va lori del Puritanesimo presente nel New England sin dal XVII se colo19. Chiare sono le conseguenze sul ruolo della donna: la motherhood – la femminilità come supporto all’unione della famiglia, ma anche la sua autorità all’interno della casa – diventa il credo con cui si officia il culto domestico e, allo stesso tempo, quello della nazione democratica. Contraria al movimento per il suffragio femminile, benché fermamente convinta della superiorità morale della donna vista la sua innata capacità di sacrificio, Beecher sostiene la necessità dell’autoconsapevolezza nella ge stione della propria «professione» fra le mura di casa20. La cucina progettata con la sorella Harriet Stowe non solo riflette nella razionalizzazione della sua organizzazione una precoce idea di efficientismo del lavoro domestico – come sottolineano Siegfried Giedion e Reyner Banham21 –, ma si offre anche quale strumento tecnico di elevazione morale della massaia. È ancora una volta un progetto direttamente collegato a un’idea etica dell’esistenza umana, in particolare di quella femminile, cui è affidata la trasmissione dei valori educativi, religiosi e patriottici alla generazione futura. Durante il Novecento, la nuova abitazione dalla struttura puntiforme in cemento armato richiede contenitori incassati nelle
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pareti o che dividano gli ambienti, piuttosto che mobili ingom branti e addossati ai muri. La normalizzazione dell’arredamento è intuita da Le Corbusier e Pierre Jeanneret nel progetto dei casiers standard, su cui lavorano sin dal 1924: sono elementi multifunzionali, modulari e componibili in orizzontale e in verticale. Sono presentati nel padiglione de «L’Esprit Noveau» alla Exposition Internationale des Arts décoratifs et industriels modernes (Parigi 1925) come contenitori e, al tempo stesso, divisori dello spazio: disposti di spina, lo chiudono fino a una certa altezza. Le casse e gli sportelli sono in compensato con impiallacciatura di mogano22, con chiusure scorrevoli, a saracinesca o a battente al naturale o verniciate a colori, appoggiate sul pavimento o sollevate grazie a esili pilotis metallici. Dimensionati esattamente sugli oggetti da contenere23 – dai piatti ai cappelli, da libri ai dischi – grazie alle loro divisioni interne, i casiers richiamano gli archivi da ufficio o i bauli da viaggio ammirati dal maestro svizzero in cerca di una «norma confortante» ovvero di «un’attrezzaturaprotesi» che risponda a tutti i bisogni umani, almeno nel campo dell’arredamento24. In seguito, diventano ancora più versatili: nell’allestimento Equipement de l’habitation: des casiers, des sièges, des table di Le Corbusier, Jeanneret e Charlotte Perriand al Salon d’Automne (Parigi 1929) segmentano un ipotetico appartamento per tre persone di circa 90 mq in un’area di servizio (cucina, letto ospite, bagno, letto matrimoniale), compattata su un lato del perimetro e dal luminoso soffitto in vetro opalescente, e in un ampio soggiorno, dal pavimento in lastre di vetro Saint Gobain. In profilati d’ottone e chiusi da lamiera metallica (dipinta di bianco, azzurro, marrone, rosso) o da vetro, questi casiers métalliques funzionano da vetrine, contenitori a doppia faccia e schermi separatori, cui i tre autori contrappongono tavoli e sedute su loro disegno25. I casiers standard rappresentano il primo progetto razionalista del «mettere ordine» secondo le misure standardizzate dei contenitori in relazione agli oggetti da conservare; negli alloggi popolari questi ultimi vengono invece occultati nei più economici contenitori integrati nella muratura. Nel volume Die neue Wohnung: Die Frau als Schöpferin (1924), Bruno Taut declina il funzionalismo alla luce della razionalizzazione del lavoro dome-
stico, ma fa leva sulla capacità femminile del riordino per liberare definitivamente lo spazio e sollevarla così dalle fatiche quotidiane26. Contro l’ensemble, imperante nella casa bor ghese e scimmiottato dalla classe operaia, l’architetto propone una dimora priva di orpelli, tendaggi e carte da parati, con arredi alle pareti dalle linee semplici e ambienti multifunzionali, abolendo così la «fredda suntuosità» dell’inutilizzato salotto e rammentando, invece, l’elegante disposizione spaziale della casa giapponese tradizionale. Nelle ville borghesi come nelle abitazioni meno abbienti, la cucina è per Taut il «nucleo della casa», attigua al soggiorno-pranzo, da cui è separata da una doppia porta e dal mobile a doppia faccia per il vasellame da tavola; incorpora le varie attrezzature nei contenitori a parete ed è organizzata secondo tracciati derivati da Christine Frederick, autrice del famoso manuale The New Housekeeping (1913), che tanta influenza avrà, attraverso traduzioni ed epigoni, sulla casa europea razionalizzata in termini di efficientismo. Il contenitore «a muro» è concretamente proposto da Taut nelle Siedlungen realizzate fra gli anni Venti e Trenta (per es. alloggi nella Siedlung Onkel Toms Hütte, Berlino 1926-32), con l’intento di dotare la casa popolare delle attrezzature essenziali. In Italia, invece, è Enrico A. Griffini a sottolinearne l’appropriatezza, scrivendo in proposito: «La casa totalitaria, alla quale occorre giungere, deve essere concepita per un determinato mobilio particolarmente studiato per essa»27, e accompagnando al testo gli arredi presentati insieme a Piero Bottoni per l’allestimento della Casa popolare alla V Triennale (1933) di Milano28. Negli Stati Uniti, già presente negli ambienti di servizio di alcune case progettate da Frank Ll. Wright (per es. George Furbeck House, Oak Park 1897), ma realmente in auge solo dall’inizio del Novecento, il built-in furniture è diffuso dalla manualistica corrente sull’arredamento economico, riferito tanto ai contenitori (armadi per abiti e biancheria, mobili per cucina e per il bagno, librerie e scarpiere) quanto alle altre attrezzature fisse della casa (sedute comprese). In seguito, l’espressione built-in furniture è ripresa dall’architetto inglese Frederick Gibberd29 in relazione alle emergenze abitative del secondo dopoguerra, sulla scia dell’«utility scheme» supportato dal governo britannico durante
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la guerra, cioè l’esenzione dalla tassa di consumo dei mobili dalle linee essenziali30. Diventa infine un oggetto di catalogo compreso nella vendita delle case o favorisce il «fai-da-te». In seguito, il built-in furniture individua soprattutto i contenitori da dare in dotazione con l’abitazione del ceto medio – e il cui costo è riscattato dal prezzo dell’affitto o dell’acquisto dell’immobile –, privilegiati dal pubblico perché consentono di avere una maggiore flessibilità degli spazi e non obbligano alla difficile pulizia delle articolate superfici dei mobili isolati, oltre a celare efficacemente il disordine. Il progetto di siffatti armadi è per lo più molto semplice, risolto avvitando compensati della produzione corrente, lasciando a vista l’essenza lignea o, più spesso, laccandola in bianco o in un colore chiaro. L’armadio «a muro» evolve in un definito progetto di product design grazie a George Nelson e Henry Wright: lo Storagewall, concepito a partire dal 1944, rappresenta il passaggio da un arredo realizzato sul posto, atto a ridurre i costi dell’arredamento negli alloggi più a buon mercato, a un elemento prodotto in serie dall’industria mobiliera. Nato da una ricerca sulla produzione corrente dei due giovani architetti per la rivista «The Architectu ral Forum», lo Storagewall è una parete-armadio che ribalta l’idea tradizionale di contenitore: «gli architetti avevano costruito per decenni armadi dentro i muri»31. A doppia faccia, con struttura in alluminio, profonda da venti a trenta centimetri circa (contro i più co muni sessanta/sessantacinque centimetri degli ar madi), il contenitore può sostituire intere pareti dell’abitazione. Il progetto formalizza il principio base del divisorio attrezzato che, con molte varianti, tanta fortuna avrà sino ai giorni nostri: lo Storagewall costituisce un «nuovo ibrido – non esattamente ar chitettura né arredamento, ma con le qualità di entrambi, struttu ralmente auto nomo e so lido, ma an che modu lare e fles sibile all’infinito»32. Suo successore è uno dei primi progetti di George Nelson per l’azienda Herman Miller (Zeeland, Mich.), il sistema Basic Storage Component (BSC) del 1949, che inaugura il pas saggio dall’arredo spostabile a quello fisso, integrato con l’architettura. Il mobile, inoltre, materializza la prima idea teorica del l’architetto sul furniture design: Nelson è, infatti, principalmente interessato a riformulare il concetto di sistema – di produzione,
di arredi, di analisi delle motivazioni ed esigenze sottese alla realizzazione di un prodotto – secondo una visione globale del progetto, più che all’invenzione originale di un manufatto. Rispetto all’ipocondria vittoriana per l’ordine e la pulizia, emerge una diversa volontà di sistemazione: occorre che tutto sia intercomunicante, funzionale – non più segreti e misteri: tutto si organizza, dunque tutto è chiaro. Non esiste più l’ossessione organizzativa tradizionale: ogni cosa pulita e al suo posto. Quello di allora era un’ossessione morale: oggi è ossessione funzionale, scrive Jean Baudrillard33. Nell’analizzare semioticamente il significato degli oggetti, il filosofo individua dunque un nuovo rigore morale, che attraversa il Novecento fino all’attualità. «Fare ordine» continua a essere un imperativo, benché le motivazioni a esso sottese siano di altro tipo rispetto ai valori etici precedenti: l’organizzazione non è sempre nascondimento, coniugandosi piuttosto con la rappresentazione di un «sé ideale», o altrimenti celare alla vista gli oggetti sembra corrispondere al sottile desiderio di liberarsi di essi, idealmente sot traendosi alle modalità coercitive del consumismo.
1 G. Pontano, De Liberalitate De Beneficentia De Magnificentia De Splendore De Conviventia, Ioannem Tresser de Hoestet et Martinum de Amsterdam Almanos, Neapoli 1498 [trad. it. I trattati delle virtù sociali: De Liberalitate, De Beneficentia, De Magnificentia, De Splendore, De Conviventia, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1965, p. 270]. 2 Ivi, pp. 270-271. 3 Cit. in M. Montanari, Convivio: Storia e cultura dei piaceri a tavola, dall’Antichità al Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 507. 4 R. Sarti, Vita di casa: Abitare, mangiare, vestire nell’Europa moderna, Laterza, Roma-Bari 1999, 2006, p. 199. 5 W. Benjamin, Schriften, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1955 [trad. it. Angelus Novus: Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995, p. 153]. 6 La definizione di Shakers sembra derivi dall’agitarsi convulso (dal verbo ingl., to shake) degli adepti durante le funzioni celebrative. 7 S. Thurman, “Dearly Loved Mother Eunice”: Gender, Motherhood, and Shaker Spirituality, in «Church History», vol. 66, n. 4, dicembre, pp. 750-761. 8 M.L. Ray, A Reappraisal of Shaker Furniture and Society, in «Winterthur Portfolio», vol. 8, 1973, p. 119. 9 D. Hayden, Seven American Utopias: The Architecture of Communitarian Socialism, 1790-1975, The MIT Press, Cambridge MA e London
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[trad. it. Sette utopie americane: L’architettura del socialismo comunitario, 1790-1975, Feltrinelli, Milano 1980, p. 95] 10 F. Bédarida, L’ère victorienne, P.U. de France, Paris 1974 [trad. it. L’era vittoriana, Garzanti, Milano 1978, p. 37]. 11 R. Kerr, The Gentleman’s House: Or, How to Plan English Residences, from the Parsonage to the Palace; with Tables of Accommodation and Cost, and a Series of Selected Plans, J. Murray, London 1864; Johnson Reprint, London e New York 1972, pp. 66-68. 12 Il temine inglese gentry individua la piccola nobiltà, cui in seguito si associa l’alta borghesia; mentre con peers o nobility si indica l’aristocrazia elevata. 13 T. Maldonado, Il futuro della modernità, Feltrinelli, Milano 1987, p. 102. 14 Si tratta della pubblicità del Wooton Cabinet Office Secretary, 1874 (prod. Wooton Patent Desk, Indianapolis). 15 Per le varie tipologie del Wooton Patent Desk si veda C. Showalter e J. Driesbach (a cura di), Wooton Patent Desks: A Place for Everything and Everything in Its Place, Indiana U. P., Bloomington 1983. 16 D.A. Norman, Things That Make Us Smart: Defending Human Attributes in the Age of the Machine, Addison-Wesley Publ., Reading MA 1993 [trad. it. Le cose che ci fanno intelligenti: Il posto della tecnologia nel mondo dell’uomo, Feltrinelli, Milano 1995, p. 165]. 17 Sui dispositifs si rimanda a M. Foucault, Naissance de la biopolitique: Courses au Collège de France 1978-1979, Seuil-Gallimard, Paris 2004 [trad. it. Nascita della biopolitica: Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2015, p. 69]; Id., The Confession of the Flash, in N. Gordon (a cura di), Power/Knowledge: Selected Interviews and Other Writings 1972-77, Harvester Press, Brighton 1980, pp. 194-195. Per l’uso della psicologia coercitiva, si veda M. Foucault, Surveiller et punir: Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975 [trad. it. Sorvegliare e punire: Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976, 1993, pp. 188, 194, 221]. 18 C. Beecher, H. Beecher Stowe, The American Woman’s Home: or, Principles of Domestic Science; Being a Guide to the Formation and Main tenance of Economical, Healthful, Beautiful, and Christian Homes, J.B. Ford & Co., New York 1869, p. 34. 19 D. Hayden, The Grand Domestic Revolution: A History of Feminist Designs for American Homes, Neighborhoods, and Cities, The MIT Press, Cambridge MA e London 1981, 1985, p. 56. 20 C. Beecher, Woman’s Profession, as Mother and Educator, with Views in Opposition to Woman Suffrage, Maclean, Gibson & Co., New York, Philadelphia e Boston 1872, p. 55. 21 S. Giedion, Mechanization Takes Command: A Contribution to Anonymous History, Oxford U.P., New York 1948 [trad. it. L’era della meccaniz zazione, Feltrinelli, Milano 1967, pp. 483-484]; R. Banham, The Architecture of the Well-Tempered Environment, Architectural Press, London 1969 [trad. it. Ambiente e tecnica nell’architettura moderna, Laterza, Roma-Bari 1978, pp. 93, 95]. 22 Originariamente dovevano essere realizzati in metallo, ma nel padiglione sono esposti i prototipi in legno realizzati da Boufferet a Parigi.
23 Le misure indicate da Le Corbusier per un casier sono larghezza e altezza 75 cm, profondità da 37,5 a 50 cm; oppure 150 e 75 cm, profondità da 37,5 a 75 cm. 24 Le Corbusier, L’art décoratif d’aujourd’hui, Vincent Fréal & Cie, Paris 1925 [trad. it. Arte decorativa e design, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 71, 73]. 25 R. De Fusco, Le Corbusier designer: I mobili del 1929, Electa, Milano 1976. 26 B. Taut, Die neue Wohnung: Die Frau als Schöpferin, Klinkhardt & Biermann, Leipzig 1924 [trad. it. La nuova abitazione: La donna come crea trice, Gangemi, Roma 1986, pp. 57-58]. 27 E.A. Griffini, Costruzione razionale della casa - I nuovi materiali - Orientamenti attuali della costruzione la distribuzione la organizzazione della casa, U. Hoepli, Milano 1931; poi come Costruzione razionale della casa - 1: Distribuzione, organizzazione, unificazione della casa, nuovi orientamenti, U. Hoepli, Milano 1946, p. 149. 28 Si tratta di due alloggi per l’edilizia economica, il n. 6 (per quattro persone) e il n. 3 (monolocale). 29 F. Gibberd, Built-in Furniture in Great Britain, Tiranti, London, Transatlantic Arts, New York 1948. 30 H. Molotch, Where Stuff Comes From: How Toasters, Toilets, Cars, Computers, and Many Other Things Come to Be as They Are, Routledge, London 2003 [trad. it. Fenomenologia del tostapane: Come gli oggetti quotidiani diventano quello che sono, Cortina, Milano 2005, p. 294]. 31 G. Nelson, Introduction, in «Design Quarterly», nn. 98-99, 1975, p. 7. 32 S. Abercrombie, George Nelson: The Design of Modern Design, The MIT Press, Cambridge MA e London 1995, 2000, p. 72. 33 J. Baudrillard, Le système des objets, Gallimard, Paris 1968 [trad. it. Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 1972, pp. 36-37].
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Ernesto Basile. Dall’architettura d’interni all’industrial design DARIO RUSSO
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Ne Lo Studio Basile. Un crocevia di arti e mestieri (2013), il già Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Palermo Roberto Lagalla affermava: Illustrare, commentare e divulgare l’attività di […] Basile non è solo esercizio di cultura e di sensibilità storiografica; è soprattutto un’operazione civile che restituisce identità alla Città di Palermo e ne invera la dimensione internazionale, la sua ambientazione e i suoi sogni in un momento in cui essa è protesa verso la ricerca di un nuovo futuro1. Ernesto Basile, infatti, è non soltanto architetto raffinato d’un passato glorioso ma designer proteso verso il Futuro. La sua opera si offre ai nostri occhi come una straordinaria macchina del tempo. Ma essa non guarda il passato come sarebbe ovvio pensare […] ci invita a traguardare il futuro di una Palermo che avrebbe potuto essere e non è stata2. Perché allora gli ottimi e sorprendentemente innovativi arredi di Basile, a differenza di altri capolavori del passato, non sono stati riediti dalle aziende del nostro tempo? Come mai, tanto per fare un esempio, Charles Rennie Mackintosh, architetto scozzese contemporaneo di Basile, è diventato simbolo culturale di Glasgow negli anni Ottanta e un’azienda italiana ha ricostruito i suoi mobili nella Collezione “I Maestri | Cassina”, mentre di Basile si trovano tracce soltanto tra gli addetti ai lavori? È possibile progettare una strategia che faccia dell’opera di Basile un volano per la diffusione della cultura del progetto sul territorio anche in direzione economico-imprenditoriale?
Basile architetto Ernesto Basile passa alla storia come insigne architetto palermitano a cavallo tra Otto e Novecento: l’esponente italiano più importante dell’Art nouveau (o Liberty che dir si voglia); l’unico, in Italia, a fare “progettazione integrale” o Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale). Per alcuni Basile è un genio; per altri, soltanto un buon professionista. Stranamente, non compare nei saggi di autorevoli storici dell’architettura come Nikolaus Pevsner, Kenneth Frampton e Malcolm Haslam3. Leonardo Benevolo, nella sua Storia dell’architettura moderna, dedica a Basile due righe: Ernesto Basile (1857-1923) all’Esposizione agricola di Palermo accetta i medesimi motivi dell’Art nouveau4. Secondo Bruno Zevi, Basile è artista secondario, benché eccezionale e sincera voce liberty ancora nel 19105. Comparato a progettisti del calibro di Adolf Loos, Louis Sullivan, Otto Wagner, Hendrik Petrus Berlage, Victor Horta, Henry van de Velde, Charles Rennie Mackintosh, Josef Hoffmann e Joseph Maria Olbrich – afferma Zevi – Basile rappresenta una personalità coraggiosa ma pallida6. Eppure, nonostante la storiografia dell’Architettura non abbia sempre messo in rilievo l’opera di Basile, le caratteristiche che lo hanno reso grande sono oggi ben note e abbondantemente evidenziate: 1) la rinuncia ai modelli antichi sia nel tema sia nel linguaggio; 2) il collegamento tra le arti maggiori (architettura, pittura, scultura) e le arti cosiddette minori o applicate (oggetti d’uso e design); 3) la sintesi di funzionalità e decorazione, vale a dire di tecnica ed estetica; 4) l’aspirazione a un linguaggio cosmopolita non privo di riferimenti locali, perché l’Art nouveau è al tempo stesso internazionalista e regionalista, glocal (global + local), per usare una crasi in uso ai nostri giorni7. Basile designer Se sull’opera architettonica di Basile molto è stato scritto, il suo lavoro nell’ambito del design, e in particolare del design d’interni, potrebbe essere ulteriormente indagato, perché altrettanto interessante ma molto meno conosciuto. Alcuni suoi arredi,
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infatti, non soltanto possono essere annoverati tra le migliori produzioni del primo Novecento, ma sono tanto innovativi da irrompere nel Futuro ben oltre le idee dello stesso Basile. I motivi per i quali l’architetto palermitano può essere considerato anche designer a pieno titolo sono sostanzialmente tre. In netto anticipo rispetto al suo tempo, Basile: 1) progetta per l’industria; 2) subordina l’ornamento alla funzione pratica; 3) assume il ruolo di art director o design coordinator (dell’azienda Ducrot). All’inizio del Novecento Vittorio Ducrot, diventato proprietario del mobilificio palermitano Carlo Golia & C. Studio, più tardi soltanto Ducrot, riuscì a impiantare un’industria moderna con macchine tecnologicamente avanzate tali da ottimizzare ogni fase della lavorazione, aumentando la produttività senza cedere mai sul piano della qualità, anzi perseguendo la cura del dettaglio. Così, riuscì a mettere a sistema l’intero ciclo produttivo, potendo contare su laboratori di ebanisteria, di intaglio, di tappezzeria di lusso, di fonderia e patinatura di apparecchi metallici (oggetti di illuminazione, finimenti, montature, ecc.), di cuoio inciso, di vitraux, di tarsia… nei quali i perfezionamenti meccanici più recenti, i processi tecnici più nuovi, le macchine più moderne, rendevano possibile una raffinata produzione di tutti i rami di arte applicata8. Nelle officine di via Pao lo Gili alla Zisa (oggi Cantieri Culturali della Zisa), con 20 macchine e 200 operai, la razionalizzazione del ciclo produttivo rese possibile la separazione dei processi di lavorazione e quindi la definitiva scissione del lavoro esecutivo dalla fase progettuale, non più affidata all’operaio-ebanista ma a una figura nuova: il designer. In questo senso, Basile giocò un ruolo fondamentale: progettare arredi per l’industria ovvero una bellezza immediatamente riproducibile mediante processi meccanici9. Definendo quindi design – disegno industriale – ciò che è pensato per la serie10, ne consegue che gli arredi di Basile progettati per uno spazio architettonico predeterminato, quello specifico Palazzo o quello specifico appartamento, rientrano nell’architettura (d’interni): “progettazione integrale” la cui parte (arredo) corrisponde esteticamente col tutto (architettura); mentre i mobili per così dire fuori-contesto, non pensati per uno spazio architettonico predeterminato, sono a piano titolo design (d’interni). Ed è questo il
caso dei mobili disegnati da Basile per essere riprodotti in serie nelle officine Ducrot, appunto, all’interno di un processo di produzione a tutti gli effetti industriale. Del resto, negli anni Trenta del secolo scorso, come affermano Renato De Fusco e Raffaella Rosa Rusciano nella storia tra Design e Mezzogiorno, nonostante la tenace persistenza dell’industria nel Sud la fine della Ducrot segna la crisi dell’industrial design in Sicilia11. La seconda ragione che spiega perché Basile è designer ante litteram consiste nel suo modo di considerare il rapporto tra funzione e ornamento; ornamento che per tutto l’Ottocento è considerato parte indispensabile dell’artefatto “bello”: Ho immaginato la mia casa pensando dapprima all’ordinamento interno per la comodità dell’uso, poi alla costruzione e infine all’ornato, che deve essere logica conseguenza dell’ordinamento e della struttura, non affermato preventivamente con dei preconcetti di stile o di speciali partiti estetici12. Perciò Basile, se pure non ritiene che l’ornamento sia “delitto”13, si avvicina al concetto compositivo dell’architettura moderna, secondo cui l’ornamento è insito nell’opera, quale sintesi degli elementi tettonici e funzionali, che si rivelano quindi quali elementi figurativi14. E qui Basile si rivela – ancora una volta – pioniere, anticipando Henry van de Velde il quale rimarca, in occasione del Congresso del Werkbund a Colonia nel 1914, l’urgenza di sostituire l’ornamento “immorale” degli stili tradizionali con quello “morale” dello “stile moderno”15. In altre parole, morale è l’ornamento legato all’oggetto e alla sua funzione; immorale, quello posticcio, appiccicato sopra. La terza peculiarità di Basile designer è poi il suo rapporto privilegiato e prospettico con l’azienda Ducrot. Per il mobilificio palermitano, infatti, Basile progetta non soltanto mobili ma anche negozi, stabilimenti, spazi espositivi, oggetti d’uso, marchi, biglietti, targhe, carte intestate, carta da regalo, ecc., imprimendo uno specifico “carattere” modernista al volto ufficiale della Ducrot16. Tale attività registica è senz’altro atipica e si collega a un tema cruciale che segna il Novecento: l’immagine coordinata dell’azienda (corporate image); cosa doppiamente interessante e ancora una volta sorprendente. Da una parte, Basile si occupa della “riorganizzazione del visibile” Ducrot ancor prima del pro-
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gramma di immagine coordinata dell’AEG (industria tedesca dell’elettricità) ad opera di Peter Berhrens (1907-1914), al quale va riconosciuto, secondo Gillo Dorfles, il merito – o la fortuna – di essere stato forse il primo caso di “consulente artistico” – di designer dunque – chiamato al fine di curarne ad un tempo la organizzazione tecnica ed artistica17. Dall’altra, Basile lega la sua reputazione all’immagine (coordinata) Ducrot dando luogo al formidabile binomio Basile-Ducrot che esplode e s’impone all’attenzione internazionale nel corso delle successive partecipazioni alle esposizioni di Torino, di Milano e di Venezia nel breve arco di un decennio tra il 1902 e il 190918. Questo sodalizio tra progettista e produttore – un rapporto stretto, sistematico e fruttuoso – caratterizzerà il design italiano nel Dopoguerra contribuendo decisamente al suo successo; si pensi al binomio Ponti-Cassina, Magistretti-De Padova, Castiglioni-Flos o, più di recente, Giovannoni-Alessi19. Laboratorio di disegno industriale
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Riconosciuta la qualità di Basile nell’ambito del design del mobile, la sua opera torna a vivere oggi nelle aule universitarie del Dipartimento di Architettura di Palermo. Alcuni arredi selezionati, infatti, sono oggetto di “ricostruzione materiale e immateriale” nei laboratori di disegno industriale ideati e coordinati da chi scrive grazie alla collaborazione dell’Archivio Basile, dov’è conservata gran parte dei progetti dell’architetto palermitano, e dell’azienda Caruso Handmade, mobilificio palermitano che, proprio come Ducrot un tempo, riesce a contenere l’intero processo produttivo del mobile nelle sue officine. Ciò che caratterizza tali laboratori è la presenza delle aziende che partecipano all’esercizio didattico operativamente, con visite guidate nei luoghi di produzione e confronti frequenti circa le implicazioni tecnico-costruttive. Si determina così una strategia a vantaggio di tutti: l’Università attinge a risorse esterne, strutturali ed economiche, potendo contare su atelier e macchine professionali; le aziende mettono a frutto la ricerca accademica ovvero sperimentano le idee a briglia sciolta degli studenti; questi ultimi possono finalmente coniugare teoria e pratica, proiettati in una prospettiva
imprenditoriale con possibilità di assunzione ed eventuali royalties20. Una iniziativa – osserva Antonio Labalestra – che, oltre a rappresentare una rilettura antologica dell’attività pluriennale di ricerca svolto sull’architetto palermitano e della sua collaborazione con una delle aziende più nodali per la nascita della cultura d’impresa e dell’industrial design nel nostro Paese, riproduce un’indicativa prospettiva di un modello di didattica calibrata intorno a un’aura di autentica adesione disciplinare rispetto ai diversi materiali indagati, ricomposti, rivissuti e riprogettati […] Gli esiti presentati in quest’occasione, oltre a rappresentare un termometro dello stato della ricerca nell’ambito del design, compiono un ulteriore passo verso quella modalità operativa che rifiuta la concezione disgiunta della didattica rispetto alla ricerca, contestando un equivoco diffuso secondo il quale si tende, erroneamente, a costruire antitesi dialettiche tra manufatto e il fare ricerca e didattica tra progetto e prodotto21. Il passo immediatamente successivo è la comunicazione di un’avventura progettuale, che si propone come marchio – Basile-Caruso Handmade – carico di fascino e qualità intrinseca. È una virtuosa triangolazione, tra l’Università di Palermo (didattica, ricerca e disseminazione nella società), l’Archivio Basile (memoria storica, fonti, documenti) e Caruso Handmade (know-how tecnico, processi produttivi, imprenditorialità): una storia Made in Sicily, anzi tutta Made in Palermo22. Metodo di ricostruzione In che modo gli arredi di Basile possono essere oggi ricostruiti? E perché parliamo di ricostruzione e non di riprogettazione o di riproduzione? L’idea non è certo quella della copia filologica, con materiali, tecniche costruttive e processi di un tempo. Ciò sarebbe anacronistico e quindi non avrebbe una prospettiva imprenditoriale. Che s’intende allora per ricostruzione di un arredo del passato? A tal proposito, nella recente storia del design esiste un precedente importante: la Collezione “I Maestri | Cassina” ossia una serie d’importanti arredi del passato progettati da: Le Corbusier (1965), Charles Rennie Mackintosh (1973), Gerrit
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Thomas Rietveld (1973), Erik Gunnar Asplund (1983), Frank Lloyd Wright (1986), Charlotte Perriand (2004), Franco Albini (2008), Zanuso (2015)23. Se il successo commerciale e massmediatico si deve senz’altro all’abilità imprenditoriale di Cassina, il merito scientifico dell’operazione va riconosciuto a Filippo Alison, professore di Architettura d’interni dell’Università di Napoli, ideatore di un efficace metodo di ricostruzione materiale e immateriale, tale da attualizzare gli arredi senza perdere l’aderenza al progetto storico. Il metodo di Alison consiste fondamentalmente in tre fasi: selezione, rilievo e ridisegno. La prima – la selezione – richiede molto studio, ragionamento prospettico e osservazione dell’esistente, non soltanto com’era ieri ma anche come sarebbe qui e ora. In breve, ricerca. Per fare una selezione, infatti, occorre inoltrarsi nel processo ideativo e costruttivo di un progetto. È possibile così comprenderne le reali possibilità di applicazione nello spazio e d’interazione con gli utenti: Processo metodologico che va compreso non per essere pedissequamente applicato, ma per porsi in continuità con esso, evolvendolo e rapportandolo all’oggi24. La seconda fase è quella del rilievo, la parte più impersonale del processo. Qui, la molla ideativa che caratterizza il progettista deve essere frenata, perché bisogna prendere atto di quanto è stato fatto, del come e del perché di ogni cosa. Si tratta allora di una restituzione quanto più possibile asettica (dimensioni, proporzioni, configurazioni ecc.) mediante un codice convenzionale e trasmissibile. Il rilievo permette di cogliere la dimensione funzionale dell’arredo, in termini sia pratici sia simbolici, registrare dimensioni, posture, comportamenti, azioni, movimenti, anche in relazione ad altri arredi e allo spazio architettonico, cogliere le ragioni dell’uso dell’arredo e la sua presenza fisica nello spazio. La terza fase è infine quella del ridisegno: l’ultimo atto della ricostruzione. Se il rilievo restituisce oggettivamente l’esistente, il ridisegno è il momento in cui s’interviene criticamente scommettendo sul futuro: Se il rilievo mette in luce le caratteristiche dell’oggetto ferme al momento in cui è stato pensato e prodotto, il ridisegno invece ne insegue le potenzialità, ne legge le
dinamiche in divenire in esso contenute, e lo infonde delle conoscenze tecnologiche e culturali contemporanee. È quindi l’operazione in cui l’intervento progettuale si manifesta a tutti gli effetti25. È ora che bisogna valutare se le scelte metodologiche che hanno guidato il progetto nel passato possono essere integrate e sono ancora attuali rispetto alle esigenze odierne. Per quanto riguarda gli aspetti materiali, è evidente che le tecniche di lavorazione, i materiali e i processi del nostro tempo sono ben diversi e più performanti di quelli del passato. Se Basile progettasse nel Terzo Millennio, ovviamente, non utilizzerebbe certo processi costruttivi di un secolo fa. Ogni buon progettista, del resto, come pure ogni artista, matura una profonda conoscenza dei mezzi tecnici di cui dispone. Per quanto riguarda gli aspetti immateriali, considerato il passaggio dell’arredo da un’epoca all’altra, il che vuol dire da una cultura a un’altra e da un sistema di valori a un altro, per non rischiare il fraintendimento conviene tenere conto di eventuali aggiustamenti progettuali. Gli arredi, infatti, non sono soltanto prodotti d’uso (pratico): sono veicoli di una comunicazione molto più ricca e articolata, in quanto depositari, sia pure indiretti, di usi, comportamenti e, più in generale, di quei valori formali che si riconnettono all’etica sociale o di gruppo, con la differenza che i valori storici degli oggetti di arredo devono essere acquisiti e goduti anche con l’uso effettivo di essi, ritenuti efficaci portatori e diffusori di tali valori, in quanto oggetti di quotidiana utilità26. Pertanto, per mantenerne intatto il significato e il sistema di valori che vi sono connessi, è necessario ricostruire l’arredo in sintonia con la struttura abitativa e la sensibilità dei nostri giorni. Insomma, senza riferimenti che esorbitano dal nostro discorso, vale ancora una volta il celebre adagio di Tomasi di Lampedusa: perché tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi. Arredi Quali sono allora gli arredi selezionati di Basile, e perché? Questi si dividono in sette temi. Il primo è quello della Sediascaletta, disegnata per la Biblioteca di Palazzo Francavilla (1898) quale parte integrante di un’opera d’arte totale. La Sedia-scaletta,
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sia pure con un timbro Art nouveau che più si confà all’artigianato artistico che non al disegno industriale, è un pezzo asciutto e doppiamente funzionale (arredo trasformabile). Il secondo tema è quello dei mobili Torino, esposti all’Esposizione Internazionale di Torino del 1902: il Divano, la Sedia, il Tavolo e la Libreria. Memore delle ricerche di Richard Riemershmid, Basile progetta un tipo che, ulteriormente semplificato, permette a Ducrot di avviare una produzione di mobili economici denominata “Tipo Torino”. Tali arredi, contrassegnati da funzionalità, logica strutturale e predisposizione ai processi industriali, anticipano sorprendentemente il Razionalismo dei decenni successivi27. Il terzo tema è quello dei mobili del Villino Ida, progettati da Basile per uso personale o comunque realizzati per sé e per la sua famiglia. Tra questi, il Tavolo da pranzo (1906), il portarotolicomò Acanto (1906) e la scrivania Cervello (1094) sono senz’altro ancor oggi accattivanti. Il Tavolo da pranzo, pezzo unico fatto realizzare per il Villino Ida a Palermo, è un semplice fratino, già di per sé adeguato agli usi odierni, reso ancor più versatile grazie all’applicazione di due pezzi supplementari che ne prolungano la superficie. Il portarotoli Acanto, inedito arredo disegnato da Basile per il suo atelier, assume la funzione di comò, elegante, semplice e lineare. La scrivania Cervello, progettata per Giuseppina Cervello (figlia del medico palermitano di chiara fama e amico di Basile) e in seguito realizzata per Casa Basile (1906), presenta una configurazione asciutta, la cui decorazione si risolve in piante che si adattano alla posizione che assumono sulla superficie del mobile; quando ad esempio si trovano in una zona poco illuminata, le piante sono ombrifere28. Il quarto tema è un trio di mobili contrassegnati da semplicità formale e facilità di ricostruzione, se così si può dire, quindi di altrettanto facile inserimento negli scenari odierni, secondo la ricerca di mercato di Caruso Handmade: il Cavalletto da esposizione (1904), l’Armadio in quercia e acero (1907) e il Vaso portapalma (1907). Il primo è un oggetto tecnico, nitido ed essenziale, ideale per le più disparate esigenze espositive. L’Armadio in quercia e acero, della serie Papavero, è un arredo geometrico e modulare, suscettibile di svilupparsi in direzione lineare o ango-
lare nella zona notte. Il Vaso porta-palma assume nuove prestazioni tecnologiche, mantenendo un tipico carattere identitario, legato al territorio. Ancor più identitario, se possibile, è il tema “Tipo Carretto Siciliano” (1906), ispirato al folklore insulare, alle trame e ai colori dei mosaici arabo-normanni rivisitati nel Carretto. Gli arredi “Tipo Carretto Siciliano”, il Carrello, il Divano, la Dormeuse e il Paravento, sono presentati all’Esposizione di Milano del 1906 quali versioni semplificate di pezzi già in produzione. Per il sistema costruttivo ad assemblaggio e incastro di elementi lineari, in effetti, potrebbero essere accostati ai mobili “Tipo Torino”, ma a differenza di quest’ultimi sono caratterizzati da motivi e rapporti cromatici legati alla tradizione popolare e alla cultura locale29. Perciò esprimono un immaginario Made in Sicily, una fascinazione che fa presa sui mercati internazionali e che Basile ha saputo raccontare ben prima di D&G: il riferimento al carretto siciliano, ormai solamente figurativo e concettualmente obsoleto fino a sembrare anacronistico, è dunque proiettato oltre l’idea di Basile, fino a trasmutare in un oggetto seriale che permetta di configurare i più svariati spazi dell’abitare contemporaneo, pur mantenendo una forte eredità30. Il sesto tema è la sedia Faraglia, progettata nel 1906 per il Grand Café Faraglia di Roma. Il “Tipo Faraglia”, per via della sua semplicità strutturale, è senz’altro uno dei pezzi più versatili di Basile: la risposta italiana alla ben più nota sedia Thonet n. 14. Della Faraglia, in effetti, esistono diverse versioni, che si differenziano per finitura e sedile ora totalmente ligneo, ora in paglia di Vienna ora imbottito e rivestito di stoffa: modello unico pensato per essere declinato variamente e dunque soddisfare le esigenze di personalizzazione. Lo scrittorio in quercia e acero (1907), infine, è il pezzo in cui l’aggiornamento materiale e immateriale è tanto nascosto quanto evidente. Quando è chiuso, si presenta come una consolle elegante dall’ingombro minimo. L’apertura del pannello, che diviene piano orizzontale (scrittoio), mette in scena l’ideale armamentario tecnologico (carica-batterie wireless, casse bluetooth, led), tipico dello studioso del nostro tempo31.
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Conclusioni Se questo lavoro di ricostruzione ha qualche attendibilità, è possibile tracciare una parabola che parte dall’Art nouveau e si proietta nel futuro. La sedia-scaletta, pensata per la Biblioteca di Palazzo Francavilla, rivive oggi nella sua configurazione schematica, quale agile oggetto d’uso (doppio). Allo stesso modo, la Scrivania Cervello, il Portarotoli-comò, il Vaso porta-palma, il Cavalletto da esposizione, il Tavolo da pranzo, l’Armadio in quercia e acero assumono nuova linfa quali arredi dotati d’intrinseca bellezza, portatori d’una storia importante e adesso aggiornati secondo parametri ergonomici e funzionali odierni. La parabola attraversa il Novecento, con i suoi postulati di produzione industriale e di standardizzazione, dove spiccano gli arredi “Tipo Torino”, abbondantemente semplificati, e quelli “Tipo Carretto Siciliano”, esemplificativi della doppia natura – internazionalista e insieme regionalista – dell’Art nouveau: glocal. La parabola culmina nella sedia Faraglia e nello Scrittoio in quercia e acero. La Faraglia, come accennato, si presta a essere declinata variamente, superando la rigida uniformazione del Movimento moderno: un prodotto attuale, con virtualmente infinite possibilità di applicazione a partire da una configurazione minima e strutturale. Lo Scrittorio è forse un ancor più evidentemente collegamento tra il passato e il futuro, con una configurazione trasformabile e funzionale, già così determinata all’inizio del Novecento, e un nocciolo tecnico ora dotato di tutti i confort. Forse appare allora evidente quanto geniale e ricca sia l’attività di Basile come designer (non solo come architetto): un simbolo culturale – della città di Palermo – di qualità progettuale e intrigante bellezza, che rivive così in linea col nostro tempo.
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1 R. Lagalla, in M. Marafon Pecoraro, E. Marrone, Lo Studio Basile. Crocevia di arti e mestieri, 40due, Palermo 2013, p. 7. 2 M. Carta, in M. Marafon Pecoraro, E. Marrone, op. cit., p. 11. 3 N. Pevsner, I pionieri dell’architettura moderna. Architettura, pittura, design: la storia del movimento da William Morris a Walter Gropius, Garzanti, Milano 1999 (1943); K. Frampton, Storia dell’architettura moderna, Zanichelli, Bologna 1993 (1980); M. Haslam, Stile Art nouveau, Rizzoli, Milano 1990 (1989).
4 L. Benevolo, Storia dell’architettura moderna, Laterza, Roma-Bari, 1993 (1960), p. 331. 5 B. Zevi, Storia dell’architettura moderna dalle origini al 1950, Einaudi, Torino 1961, p. 541. 6 B. Zevi, op. cit., p. 210. 7 Cfr. A. Sciarra Borzì, Ernesto Basile. Il Liberty degli architetti siciliani e la tradizione locale rivissuta come memoria creativa, Mazzone, Palermo 1982, p. 21. 8 R. Savarese, L’Arte decorativa moderna in Sicilia, in «L’Arte decorativa moderna»; II, 1, 1903, p. 13. 9 Per approfondimenti sulla produzione Ducrot, cfr. E. Sessa, Ducrot. Mobili e arti decorative, Novecento, Palermo 1989; vedi anche Id., Ernesto Basile. Mobili e arredi, Novecento, Palermo 1987. 10 Cfr. R. Falcinelli, Critica portatile al Visual Design. Da Guetenberg ai social network, Einaudi, Torino 2014, p. 40. 11 R. De Fusco, R.R. Rusciano, Design e Mezzogiorno tra storia e metafora, Progedit, Bari 2015, p. 130. 12 E. Basile, “La Casa”, 1909, cit. in L.V. Masini, Liberty. Art Nou veau, Giunti, Firenze 2006 (1976), p. 369. 13 Cfr. A. Loos, Ornamento e delitto (1908), in Id., Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 1972, pp. 217-229. 14 A. Catalano, G. Lo Jacono (saggio critico di), in E. Basile, Architettura dei suoi principi e del suo rinnovamento (1882), Novecento, Palermo 1981, pp. 217-218. 15 T. Maldonado, Disegno industriale: un riesame (1976), Feltrinelli, Milano 2008, p. 35. 16 E. Sessa, Ducrot. Mobili e arti decorative, Novecento, Palermo 1989, p. 19. 17 G. Dorfles, Introduzione al disegno industriale (1963), Einaudi, Torino 1972, p. 23. 18 G. Pirrone, Prefazione a E. Sessa, Ernesto Basile e la produzione Ducrot, Novecento, Palermo 1987, p. 7. 19 Sul rapporto progettista-produttore nel design italiano, cfr. D. Russo, Il design dei nostri tempi. Dal postmoderno alla proliferazione dei linguaggi, Lupetti, Milano 2012, segnatamente il paragrafo «Il design è come l’amore», pp. 186-190. 20 Sul rapporto tra Università e aziende nel suddetto laboratorio universitario, cfr. l’editoriale della rivista «Sicilia InForma | Notizie sul design insulare», nn. 5, 6 e 7 (autunno 2016 - autunno 2017), i cui articoli sono dedicati ai progetti realizzati da diverse aziende che hanno investito sull’Università e sugli studenti. 21 A. Labalestra, Caruso Handmade | Identità siciliana, profilo internazionale e attualità della riforma modernista nella produzione Ducrot, «Sicilia InForma | Notizie sul design insulare», 7, autunno 2017, p. 17. 22 Negli ultimi anni, Palermo è teatro di un rinnovato interesse artistico: già “Patrimonio Mondiale dell’Umanità” grazie all’itinerario arabo-normanno o siculo-normanno che dir si voglia, nel 2018 Palermo è “Capitale Italiana della Cultura” e ospita Manifesta 12, una delle più importanti Biennali del mondo.
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23 «Con la collezione “I Maestri” Cassina stimolava e educava il gusto del pubblico, offrendo mobili che, consegnati alla storia, costituiscono le radici del design contemporaneo, dando una risposta all’implicita attesa di architetti, professionisti, consumatori colti e attenti di tutto il mondo. Per la prima volta il mercato poteva acquistare repliche di archetipi disegnati dagli esponenti più autorevoli e significativi del Movimento Moderno». A. Spadoni (a cura di), L’indiscreto fascino del design. Breve storia del design italiano dall’arredamento attraverso le esperienze di un imprenditore: Rodrigo Rodriquez, Skira, Milano 2011, p. 116. 24 P. Giardinello, La ricerca come metodo di conoscenza, in M. Santoro (a cura di), Filippo Alison. Un viaggio tra le forme, Skira, Milano 2013, p. 74. 25 Ivi, pp. 76-77. 26 F. Alison, I Maestri: ideologia della ricostruzione, in G. Bosoni (a cura di), Made in Cassina, Skira, Milano 2008, p. 76. 27 «Con questo “tipo” di funzionali mobili economici, Vittorio Ducrot orienta parte dell’attività produttiva della ditta verso il filone internazionale della ricerca di una “qualità democratica” per l’arredo moderno […] modelli semplificati, più accessibili alle classi medie ma pur sempre riferiti ai modelli di vita e al gusto di una società aristocratica o alto borghese». E. Sessa, Ducrot. Mobili e arti decorative, cit., pp. 10, 25. 28 In questo senso la posizione di Basile coincide con quella di Louis Henry Sullivan, uno dei maggiori architetti americani e autore del motto form follow function per il quale è stato definito «padre del funzionalismo e profeta della nuova architettura», E. Di Stefano, Ornamento e architettura. L’estetica funzionalistica di Louis H. Sullivan, Aesthetica Preprint, Palermo 2010, p. 7. Per Sullivan l’ornamento, lungi dal sembrare “appiccicato” sopra, dovrà apparire «come se fosse promanato dalla sostanza stessa del materiale grazie all’intervento esterno di un qualche fattore favorevole ed esistesse con lo stesso diritto di un fiore che appare tra le foglie della pianta che l’ha generato». L.H. Sullivan, cit. in E. Di Stefano, cit., p. 32. 29 Cfr. E. Sessa, Ducrot. Mobili e arti decorative, op. cit., pp. 25-26. 30 A. Labalestra, op. cit., p. 15. 31 Per quanto riguarda la ricostruzione di: Sedia-scaletta (D. Pizzurro), Divano (F. Lanza) e Sedia Torino (F. Mangia), sedia Faraglia (L. Cantoni) e Carrello Tipo Carretto Siciliano (G. Vassallo), cfr. Dario Russo, Caruso Handmade | L’importanza di chiamarsi Ernesto, “Sicilia InForma | Notizie sul design insulare”, 3, ottobre 2015, pp. 4-5; per quanto riguarda la ricostruzione di: Tavolo (V. Lo Giudice) e Poltrona Torino (G. Giordano), Scrivania Cervello (R. La Vecchia), Tavolo da pranzo (G. Gambino), Scrittoio in quercia e acero (A. Scherma), Portarotoli-comò (E. Cavataio), dormeuse (A. Gulotta) e divano Tipo Carretto Siciliano (A. Noto), cfr. M. Marafon Pecoraro, Caruso Handmade | Ricostruire il passato per progettare il futuro, “Sicilia InForma | Notizie sul design insulare”, 5, ottobre 2016, pp. 12-17; per quanto riguarda la ricostruzione di: Libreria Torino (C. Vitabile), Cavalletto da esposizione (C. Verace), Armadio in quercia e acero (M. Lo Meo), Vaso porta-palma (S. Dolce), Paravento Tipo Carretto Siciliano (M.F.P. Burgio), cfr. A. Labalestra, op. cit., pp. 12-17.
Enzo Mari. Opera, multiplo, serie DAVIDE TURRINI
Enzo Mari realizza i suoi progetti in un costante processo di discernimento e bilanciamento tra i caratteri peculiari di diversi approcci creativi e produttivi, approdando a molteplici declinazioni di opere uniche, multiple o di più ampio sviluppo seriale. Con le prime sperimentazioni percezionistiche di arte programmata nella seconda metà degli anni Cinquanta, egli dimostra un immediato interesse per il legame tra manifestazione artistica e riproducibilità tecnica dell’opera; così arte e design sono interpretati prima di tutto come strumenti per mettere in discussione i rapporti di produzione, promuovendo una visione secondo la quale l’attività creativa deve essere ricerca ed esperienza, e deve, soprattutto, uscire da una dimensione puramente individuale per diventare momento di partecipazione collettiva. Tra enunciazioni teoriche e realizzazioni, Mari pratica con continuità scenari in cui artigianato e industria sono entità sovrapposte e a tratti coincidenti, in una prassi ribadita, fondata sul modello collegiale, sulla progettualità e l’autorialità diretta e non delegata, sull’appropriato e giustificato valore economico del lavoro e del prodotto. In tale visione, ogni opera è il risultato di un’evoluzione culturale allargata e i concetti di calco replicativo alienante (manuale o meccanico che sia) e di puro valore simbolico di un artefatto, sono e saranno sempre, necessariamente, stigmatizzati. Confermative ed emblematiche in proposito sono anche le sue affermazioni più recenti, contenute nel saggio 25 modi per piantare un chiodo dove egli dichiara ad esempio: Non sto affermando che
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l’avvento dell’industria sia stato solo una calamità: al contrario, credo che metà della sua produzione sia positiva […]. Ma l’altra metà è infernale, soprattutto per la decerebrazione che induce in chiunque lavori alla catena, dai semplici operai ai pubblicitari, ai top manager, e così via. […] Da giovane mi illudevo di essere libero dai condizionamenti della catena. Anche perché la produzione industriale e quella artigianale non mi sembravano separate come accade oggi. Ma poi, anche ai nostri giorni, è così vero che lo siano? […] Quando si realizza un prodotto in serie – sia esso una sedia o un elettrodomestico – il cuore, l’intelligenza della fabbrica si trova nel reparto dei prototipi, dove il lavoro di tutti, dal progettista all’ultimo tecnico, è comunque artigianale, indipendentemente dal fatto che lo si elabori con l’aiuto di un computer o di una matita. […] La quasi totalità dei prodotti commercializzati con l’etichetta “design” sembra industriale, eppure viene realizzata in serie limitate o quantità minime1. Con queste parole Enzo Mari ritorna sulla relazione tra artigianato e industria. Il tema, affrontato in maniera problematica e sperimentale sin dagli anni della formazione, discende da una più ampia riflessione condotta dall’autore sul lavoro dell’uomo, analizzato e valorizzato pariteticamente in tutti i suoi gradi di avanzamento: dal momento intellettuale-progettuale, alla fase esecutiva manuale o industrializzata2. Come atto polemico e a tratti sovversivo nei confronti delle dinamiche contraddittorie del lavoro, Mari propone da sempre oggetti che ricercano gli archetipi della produzione. In un provocatorio azzeramento dei termini formali e funzionali del processo di configurazione, egli utilizza materiali poveri, tecniche industriali di base, interventi minimi, giungendo a realizzare artefatti primari ed essenziali, semplici ed economici, come i contenitori della serie Putrelle del 1958, il cui significato non sta nella ricerca di una forma ma nella pura enunciazione d’uso di un elemento prefabbricato e nel valore “informale” dei tagli e nelle saldature lasciati in vista. Negli anni ’60 il processo di industrializzazione investe anche il mondo dell’arte, con l’avvento dell’idea di arte democratica e con la questione del multiplo. Contrapposto sin dai suoi
esordi alla “riproduzione d’arte” intesa come copia o surrogato dell’opera unica, l’oggetto multiplo nasce per comunicare un’informazione di carattere estetico, diffondendo e rendendo comprensibili nozioni di percezione ottica e cromatica. Uno degli aspetti più importanti del multiplo è quello della partecipazione del pubblico che, manipolando l’oggetto, esperisce direttamente e memorizza un fenomeno. Secondo Bruno Munari, tra i primi sperimentatori e teorici della poetica dei multipli in Italia alla fine degli anni Cinquanta, questi oggetti vengono prodotti in serie per poter dare a tutti la possibilità di arricchire la propria cultura visiva […]. La serie dei pezzi può essere limitata o illimitata a seconda della natura dell’informazione e delle possibilità tecnologiche. Sono quindi eliminate le materie preziose se inutili all’informazione e viene ristabilito un più giusto rapporto tra valore dell’opera e prezzo di vendita. […] L’operazione multipli vuole quindi anche portare una nota di onestà e di socialità nel mercato delle opere d’arte3. Parallelamente a Munari è proprio Mari a cogliere e a sviluppare appieno i caratteri sperimentali e sociali del multiplo. Egli spinge la sua ricerca verso uno scarto iniziale dell’esecuzione manuale, che può originare l’equivoco e la mistificazione del “tocco personale dell’artista”, e opta per l’integrazione nel mondo industriale, nelle sue tecniche, ma anche nei suoi aspetti economici e commerciali. Multipli come Progressione di tre o Relazione di quattro, o come i Cilindri, le Sfere e i Cubi (tutti realizzati in resina poliestere per Danese, tra il 1959 e il 1963), dimostrano che in questo momento per Mari l’industria rappresenta una straordinaria occasione di affrancamento dallo status dell’artigiano, in genere impegnato in prima persona nell’intera filiera di realizzazione e diffusione dell’oggetto, dall’ideazione alla vendita. Il ricercatore-artista può così dedicarsi alla pura ricerca e alla progettazione, affidando ad altri esperti le fasi esecutive e commerciali. Se la proposta di Enzo Mari sembra propendere in maniera decisa per il processo industriale, permane comunque in lui una piena consapevolezza di certi limiti e pericoli che tale soluzione può comportare, come l’acquiescenza ai gusti del pubblico, o un eccessivo assoggettamento ai vincoli economici della produzione
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in serie; il concetto di multiplo rimane così in ogni caso problematicamente aperto. Ecco allora che Mari si accorge della necessità di una serialità limitata poiché solo una piccola categoria di persone è in grado di apprezzare una merce di questo genere. […] Occorrerà dunque trovare quei tipi di organizzazione che oltre ad avere buone possibilità di realizzazione tecnica e canali di distribuzione appropriati, possono unire ai fini puramente commerciali quello di prestigio culturale4. A partire dal 1962, con il progetto del multiplo Tetrastilo per Danese, Mari inizia a porre l’accento sulla dialettica spesso contraddittoria tra le necessità di una creazione e fruizione artistica partecipata e le dinamiche produttive e commerciali dell’industria; l’oggetto, artigianale nella fattura e realizzato con litotipi naturali, è composto da piccoli pezzi a formare un raffinato gioco delle costruzioni per adulti. Parallelepipedi e cilindri di marmo, travertino, granito o basalto, si prestano a comporre modellini evocativi di architetture classiche, creando un insieme di componenti che stimola la comprensione delle qualità sensoriali dei materiali e che, in maniera colta e provocatoria, induce a riflettere sugli archetipi della costruzione. Se Tetrastilo non rimane a lungo nel catalogo dei prodotti Danese5, di maggiore sviluppo e successo è la Serie della Natura elaborata tra il 1961 e il 1976. Mari propone in questo caso un realismo figurativo che discende dalla sua insistita volontà di rea lizzare opere da esternare e comunicare in maniera diretta e comprensibile agli altri. Una mela, un fungo, un lupo, un’oca, un elemento del paesaggio come un vulcano; per l’autore il ciclo di raffigurazioni è l’occasione per selezionare soggetti semplici e simbolici, da restituire in maniera sintetica ma perfetta, in un processo finalizzato a coglierne la quintessenza. L’obiettivo non è infatti quello di rappresentare un’oca; come Mari affermerà in seguito, ancora una volta nel volume 25 modi per piantare un chiodo, si tratta piuttosto di individuare l’“oca-nità” di tutte le oche del mondo. La serie, che si concretizza in una tiratura di serigrafie su texilina per le edizioni Danese, segna l’apertura di una stagione maggiormente orientata ad esplorare gli orizzonti replicativi e quantitativi del design; essa nasce come superamento delle esperienze nel campo dell’Arte programmata, delle
belle speranze legate al tema del multiplo d’arte e al loro sostanziale fallimento. Questo, per via dei costi troppo elevati e dei gusti del pubblico, poco incline ad accogliere gli esperimenti dell’arte moderna. Mari precisa ulteriormente: Mi ero domandato: cosa avrebbe preferito, invece, quel pubblico? […] Scelgo quei soggetti semplici, sapendo che, dal punto di vista simbolico, sono significativi da millenni. Mi sarebbe piaciuto provarne altri, con una carica espressiva maggiore, e per questo avevo scovato un paio di foto impressionanti di una terribile scrofa, ma capisco che avrei potuto trarne al massimo un pezzo unico. Già allora ero consapevole di come il design, il progetto per molti, sia costretto a corteggiare il banale sentire collettivo6. È chiaro come Mari affronti ancora una volta il tema della replicazione dell’oggetto in maniera problematica, concependo sempre i suoi artefatti come serie e come sistemi, attraverso una critica radicale dei ruoli dei diversi attori coinvolti nella realizzazione e nella fruizione dell’opera, dal progettista al pubblico di riferimento. Tale approccio continua ad esplicarsi parallelamente ad un ripensamento delle forme e dei processi produttivi in relazione alle proprietà dei materiali; si tratta di un tentativo di profonda innovazione, messo in campo provocatoriamente a partire dalle essenze materiche maggiormente caratterizzate dal prevalere di una tradizione artigianale “in stile”. Non è un caso quindi che tra le prime esperienze più spiccatamente inserite nel settore del design figurino i vasi Paros, realizzati in marmo per Danese nel 1964. Mari pensa ad un uso “funzionale” del materiale lapideo, che a suo avviso deve essere lavorato soltanto in un contesto industriale; per il progettista il permanere delle lavorazioni artisticoartigianali del marmo nella contemporaneità porta a mistificazioni di linguaggio e di significato, conferendo al materiale ambigue connotazioni di pregio, connesse ad ingiustificati aumenti di costo. I lapidei devo essere apprezzati invece per le loro peculiarità di aspetto, di resistenza e durata; devono essere scelti insomma per le loro proprietà fisico-meccaniche ed espressive, in applicazioni specifiche, da realizzare con lavorazioni industriali semplificate, finalizzate alla competitività dei costi7.
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È Pier Carlo Santini, nel presentare i vasi Paros alla Galleria Danese di Milano nel 1964, a cogliere appieno il significato e il valore della ricerca condotta sul design litico; il critico scrive: La fantasia di Mari si è messa in moto partendo da una premessa: usare il marmo; cui hanno fatto seguito alcune più circostanziate domande: come lavorarlo? Prevedendo in pratica dei pezzi unici, o non piuttosto serie sia pure modeste? Come limitare al massimo l’intervento artigianale, una volta scelta la seconda ipotesi? Quali i tipi di marmo da scegliere? […] Mantenersi in un ordine puramente sperimentale, oppure prendere ogni decisione valutando anche i costi di produzione?8. Così i vasi sono ottenuti sfruttando in modo diretto le possibilità operative delle macchine più moderne per la lavorazione della pietra; carotature, tagli retti o fresature curve creano geometrie elementari e precise, individuando una nuova fisionomia del prodotto litico, originale e riconoscibile, fatta di forme cilindriche cave, troncate o articolate da asportazioni di materia verticali, orizzontali o diagonali. La produzione di design per Danese si amplia per tutti gli anni ’60; impiegando i metalli, il vetro, la melammina e il PVC, Mari sperimenta configurazioni semplici, spesso dettate dall’uso diretto di semilavorati come tubi, profilati e lamiere, che con minimi tagli, fori e piegature diventano contenitori e oggetti d’uso. Gli scopi di tale fertile lavoro sono quelli di limitare l’obsolescenza espressiva dell’oggetto di design e di innescare processi di economia produttiva; la ricerca dello standard si fa quasi ossessiva ed è riconfermata anche dalla prima esperienza nel settore dell’arredamento rappresentata dalla libreria Glifo per Gavina. Il sistema modulare, progettato nel 1966, diviene paradigmatico di una struttura a composizione “programmata”, dalla geometria semplice e rigorosa, il cui nitore volumetrico e formale è garantito da un giunto ad incastro di straordinaria perfezione. Sempre nel 1966, in occasione della mostra allo Stedelijk Museum di Amsterdam, Enzo Mari progetta il manifesto della produzione Danese nel quale ogni oggetto del marchio è presentato attraverso un particolare replicato innumerevoli volte. In questo modo si crea un palinsesto concettuale ancor prima che grafico, secondo cui l’opera trascende il suo significato funzionale ed espressivo
specifico per entrare a far parte di un mondo di artefatti dove il vero obiettivo non è costituito dall’oggetto, ma dalla ricchezza formale ottenibile con le macchine industriali. Per l’autore, infatti, una ricerca finalizzata agli oggetti come proposta di metodo può portare a «risultati degradanti», mentre tutti i pezzi realizzati sino ad ora per Danese scaturiscono da «ricerche non finalizzate», che solo in seguito «sono state utilizzate per la produzione»9. Se è vero che il progetto di design di questi anni, per coerenza tecnologica e tipologica, converge verso la realizzazione di “forme industriali”, è altrettanto vero che la riproduzione seriale degli oggetti di Mari rimane sempre sospesa nella positiva ambiguità tra artigianato e industria. Emblematica in proposito è l’alternativa posta dal vaso doppio Pago Pago (1968) e dalla serie di vasi Fitomorfici (1969): da un lato un modello altamente standardizzato con un alto investimento in stampi, dall’altro una serie di proposte che implica alti costi in termini di lavoro manuale10. Il mai sopito interesse nei confronti del patrimonio tecnicoculturale e delle dinamiche ideative ed esecutive dell’artigianato dà un nuovo scatto alla ricerca di Enzo Mari nel 1973, con la Proposta per la lavorazione a mano della porcellana che si concretizza nei vasi della serie Samos. Parlando di questo lavoro l’autore affermerà: Nei primi anni Sessanta avevo già provato a studiare come le macchine, se utilizzate correttamente, possano produrre una certa ricchezza formale. Mi ero cimentato, per esempio, con l’artigianato del marmo […]. Tuttavia, era un’operazione in cui un progettista definiva una forma e un operaio la realizzava. Quando nel 1973 Danese mi chiede alcuni vasi in porcellana, penso che sarebbe giusto cambiare le regole. Vorrei che l’ideazione di un prodotto artigianale scaturisse dalla partecipazione creativa di chi lo realizza. […] Individuo una bottega veneta, il laboratorio artigiano Tarcisio Tosin, e coinvolgo i tre o quattro artigiani presenti. […] Spiego più volte che non devono preoccuparsi se ci sono delle irregolarità, in particolare sul bordo, perché sono eleganti. Quando arrivano i vasi, sono splendidi, anche se fragili. La porcellana è talmente sottile da risultare trasparente. […] Però la conclusione di questa esperienza è ancora una volta deprimente: mesi dopo torno in bot-
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tega e scopro che i primi modelli sono disposti su una mensola di fronte al piano di lavoro. Gli operai misurano con un calibro i tagli irregolari e li riproducono al millimetro11. In questo cantiere pilota, in cui ritorna a sperimentare e a sviluppare il tema della progettazione come processo creativo partecipativo, Mari è costretto a constatare che anche il lavoro artigianale tende a riprodurre certe dinamiche negative della catena di montaggio industriale; questa «conclusione deprimente» non scoraggia tuttavia la prosecuzione del lavorio di analisi dei ruoli e delle relazioni tra progettisti ed esecutori, che viene suggellato, nel 1981, dalla mostra Dov’è l’artigiano. L’allestimento, realizzato da Enzo Mari alla Fortezza da Basso di Firenze, è un’ulteriore occasione per affinare e approfondire le riflessioni sulle contaminazioni tra processi artigianali, artistici e industriali nella realizzazione di pezzi unici, prototipi e serie limitate. Il percorso espositivo affronta anche il legame tra qualità del lavoro, valore tecnico-espressivo dei prodotti e struttura del loro costo. Nella nota introduttiva del catalogo, Mari suddivide ogni processo produttivo in una fase di progettazione e in una fase di esecuzione: la prima è a sua volta distinta in un momento imprenditoriale e tecnico-organizzativo, e in un momento tecnicoscientifico ed espressivo; la seconda può essere caratterizzata da un esecutore che per la complessità del prodotto concorre alla responsabilità del progetto, o da un esecutore che per la semplicità e la ripetitività del lavoro non concorre a tale responsabilità. I modi di interrelazione tra progettisti ed esecutori sono otto: si va da quello proprio dell’espressione artistica a quello industriale, attraverso dinamiche intermedie. Nel caso dell’arte un solo autore è protagonista delle tre fasi di progettazione tecnico-organizzativa, espressiva e di esecuzione complessa che concorre alla responsabilità ideativa; nel caso dell’industria quattro operatori distinti sono impegnati in ognuno dei momenti progettuali ed esecutivi identificati12. L’analisi delle fasi di lavoro non implica mai la schematizzazione o, ancora meno, la semplificazione: comprendere la produzione artistica, artigianale o industriale, significa e significherà sempre per Mari analizzare caso per caso, luogo per luogo, i di-
versi aspetti progettuali ed esecutivi dell’opera, assegnando un valore preminente al sincretismo degli approcci e dei ruoli, ai processi misti e trasversali, al lavoro collettivo. Più tardi, riferendosi alle Allegorie, le sue opere d’arte esposte in mostra a San Marino nel 1988, Mari sembra quasi rimpiangere le dinamiche ideative del design, nel cui sviluppo la valutazione su modelli e prototipi è imprescindibile; egli dice: Il mio modo di lavorare consiste nel contrapporre via via modelli, l’uno all’altro e nel modificarne elementi […]. (Nel caso dell’opera d’arte) devo lavorare meno per modelli reali, e più per modelli mentali, con qualche piccolo vantaggio economico ma direi con moltissimi svantaggi. Ne segue che, terminato l’oggetto (che di fatto risulta soltanto il primo dei modelli realizzati), io stesso ho difficoltà di giudizio sulla qualità. Difficoltà che non ho quando, come nel design, ne ho potuto produrre numerosi modelli: perché il giudizio viene sempre espresso per confronto, mai in astratto13. Ancora poi sottolinea il valore irrinunciabile della sua “bottega” dove si fanno progetti per l’industria, o per altri settori produttivi, e afferma: Se scegliessi di essere artista e basta, metterei in dubbio, o in crisi, il discorso della bottega come gruppo di lavoro. […] Intendo ancor oggi muovermi in contemporanea su ambedue i campi, arte e design, […] vedo che quanto io ritengo una maggior consapevolezza dei problemi mi nasce proprio da questa complessa compromissione tra i diversi compiti e materiali. […] La mia ambizione principale è di riuscire a mantenere questa bottega, luogo di lavoro collettivo, con le sue preziose possibilità di dialogo, dove il progetto viene espresso oggettivamente e non soggettivamente; e mi diventa difficile accettare la scelta dell’isolamento dell’artista, che prova e riprova da sé con carta e matita14. Mari rifiuta l’idea di specializzazione, che a suo avviso l’artista ha mutuato dalla parcellizzazione della scienza per un «demenziale desiderio imitativo» e ancora nel 2004, nel saggio La valigia senza manico, rivendica per sé il ruolo del progettista totale, capace di esplicare la sua attività in più settori, cercando di compartecipare alla formazione e alla trasmissione di un sapere complessivo15.
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Arte, artigianato e design continuano così a integrarsi nelle molteplici sfaccettature della personalità di Enzo Mari e le contraddizioni in cui egli stesso si mette, esplorando un campo d’azione ampio e diversificato, non impediscono alla sua lezione di essere univoca ed efficace, anzi fortificano la sua capacità di delineare una chiara sintesi formale e una valorizzazione specifica dei processi produttivi, più che mai utile, come riferimento, per la cultura progettuale contemporanea.
E. Mari, 25 modi per piantare un chiodo, Mondadori, Milano 2011, pp. 67-68. 2 F. Burkhardt, Il pensiero di Enzo Mari, in Perché un libro su Enzo Mari, Motta, Milano 1997, pp. 19-23. 3 B. Munari, Codice ovvio, 1974, pp. 89-90, cit. in Guido Ballo, La mano e la macchina. Dalla serialità artigianale ai multipli, Jabik & Colophon/Sperling & Kupfer, Milano 1976, p. 208. 4 E. Mari, Divulgazione delle esemplificazioni di ricerche (Nuova Tendenza 3), 1965, cit. in Guido Ballo, op. cit., p. 218. 5 S. Casciani, Arte industriale: gioco, oggetto, pensiero. Danese e la sua produzione, Arcadia, Milano 1988, p. 84. 6 E. Mari, 25 modi per piantare un chiodo, cit., pp. 59-60. 7 E. Mari cit. in P.C. Santini, Il materiale pietra, pp. 282-283, in Momenti del marmo. Scritti per i duecento anni dell’Accademia di Belle Arti di Carrara, Bulzoni, Roma 1969, p. 284. 8 P.C. Santini, Nuove proposte di Enzo Mari per la lavorazione del marmo e del vetro, pieghevole della mostra allestita a Milano, 6 maggio 1964, Danese, Milano 1964, s. pp. (anche in Marmo, n. 3, 1964, pp. 130-131). 9 E. Mari cit. in A.C. Quintavalle, Enzo Mari, Parma, CSAC, 1983, pp. 157-158. 10 A. D’Avossa, F. Picchi, Enzo Mari, il lavoro al centro, Electa, Milano 1999, p. 90. 11 E. Mari, 25 modi per piantare un chiodo, cit., pp. 85-86. 12 E. Mari, Dov’è l’artigiano, catalogo della mostra allestita a Firenze, 23 aprile - 18 maggio 1981, Electa, Firenze 1981, p. 87. 13 R. Pedio (a cura di), Conversazione con Enzo Mari, in Enzo Mari. Modelli del reale, catalogo della mostra allestita a San Marino, 11 giugno 24 agosto 1988, Mazzotta, Milano 1988, p. 19. 14 R. Pedio (a cura di), op. cit., pp. 20-23. 15 E. Mari, La valigia senza manico, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 39. 1
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Libri, riviste e mostre
A.I. Lima, Dai frammenti urbani ai sistemi ecologici. Architettura dei Pica Ciamarra Associati, Jaca Book, Milano 2017. L’interesse della storiografia più recente per le diverse espressioni dell’architettura contemporanea ad opera del più vasto libero professionismo, quello estraneo al più noto circuito delle archistar, non è di carattere meramente filologico, né tanto meno onnicomprensivo – si ricorda qui il noto paradosso della mappa in scala 1:1 di Borges. Esso, invece, risponde all’obiettivo di inquadrare aspettative, suggestioni, idee, valori, capacità e limiti oggettivi di un’intera generazione nel più ampio orizzonte nazionale e, nei casi di maggiore rilievo, all’interno del panorama internazionale, cosa in realtà ancor più necessaria per chi opera attivamente nel XXI secolo. L’intento è quello di rileggere e ricostruire criticamente il contesto culturale e quello più strettamente urbano in anni in cui si concretizza una significativa transizione operativa nel mondo della progettazione, tenendo conto che la generazione di architetti e ingegneri formatasi negli anni
del secondo dopoguerra ha costruito la maggior parte dell’ambiente fisico in cui viviamo e in cui si collocano le più note opere del secondo Novecento. Sono anni di grande cambiamento nell’approccio al progetto, ricco di elaborazioni concettuali e sperimentazioni formali, in particolare nella sfera teorica dell’indagine e dell’approfondimento critico alla grande scala. Come scrive Aldo Rossi nel 1966, è in quegli anni che l’architettura mentre da un lato rimette in discussione tutto il suo dominio, i suoi elementi e i suoi ideali, dall’altro tende a identificarsi col fatto senza tener più conto di quella separazione che era avvenuta all’inizio e che le permette di svolgersi con autonomia. La città è considerata come un insieme di tanti pezzi in sé compiuti e gli organismi urbani si trasformano in elementi architettonici. Si rivendicano così, da un lato, il valore individuale dell’opera e, dall’altro, l’influenza del segno architettonico nello sviluppo della città, sempre più caotica e disorganica a causa di una feroce aggressione al territorio: tema molto sentito nel Mez-
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zogiorno ed emblematicamente a Napoli. Tanti sono gli architetti che, pur non allineandosi formalmente alla cosiddetta Tendenza, sposano i principi alla base delle riflessioni sul rapporto dialettico tra città nuova e città consolidata. Tra questi è Massimo Pica Ciamarra (1937), laureatosi nel 1960 e fondatore a Napoli dello studio Pica Ciamarra Associati (1972) insieme a Luciana de Rosa. La loro opera appare ricca, significativa e coerente con le linee di sviluppo dell’architettura contemporanea, da sempre sensibile all’incidenza dell’architettura sul fattore sociale, urbano e ambientale, in cui emerge una costante lettura attenta a far emergere dalle singole architetture, più il pensiero urbanistico da cui partiva la loro genesi, che la logica formale. Lo studio pratica la professione con estremo rigore deontologico, senza mai scadere in una produzione edilizia priva di qualità, manifestando sempre una dignità architettonica che li distingue per logica, coerenza, disegno e tecnica, senza cedere alle tentazioni del mercato, anzi partecipando al giudizio dei concorsi, che li tiene costantemente e positivamente sulle ‘braci’ introducendoli in un universo internazionale, con una pratica attiva ancora oggi senza soluzione di continuità. Il confronto con il processo della globalizzazione non li induce alla semplificazione, ma, al contrario, consente di affermare l’incremento di complessità che acquista la loro modalità progettuale negli anni ottanta. All’attività dei Pica Ciamarra Associati, Antonietta Iolanda Lima (1941) dedica un volume monografico di oltre trecento pagine, sulla base di approfondite ricerche d’archivio presso la sede di Posillipo e
un’ampia ricognizione bibliografica, focalizzata in particolare sulla fortuna critica dei loro progetti. Se inizialmente l’autrice si chiede perché l’attività dei Pica Ciamarra Associati non abbia suscitato un interesse adeguato da parte della “critica che conta”, determinante per diffusione e riconoscimenti, questa pubblicazione colloca le loro opere in modo convincente nella storia dell’architettura contemporanea. La studiosa – architetto militante e professore ordinario di Storia dell’architettura presso l’Università di Palermo – è da sempre impegnata a divulgare il rispetto per l’ambiente attraverso pensiero teorico e fare progettuale, il che la porta a una ricerca orientata a esplorare protagonisti dell’architettura contemporanea libera da dogmi. Un’accensione di interesse critico che emerge con maggiore rilievo nel nuovo millennio. Un lavoro inseribile all’interno di quel filone storiografico che trova forma nella tematizzazione della rottura per l’architettura del Novecento, permeato da una progettazione necessariamente “tentativa”, afferma la stessa autrice, ponendo nuove domande per nuove periodizzazioni – tradizionalmente necessarie alle istanze della storiografia. Una rinnovata attenzione alle condizioni locali maggiormente avvalorata da quella breccia aperta da Kenneth Frampton con il regionalismo critico, che si pone in maniera antitetica alle teorie più strettamente di sintesi e di classificazione. Tra i principali studi di Lima si ricordano i contributi sull’opera di Paolo Soleri, uno dei maestri che meglio ha indagato il rapporto tra architettura ed ecologia. Uno dei principali assunti di quest’ultimo afferma che la nostra tecnologia se
non la nostra coscienza non ci consentirà ancora per molto approcci parziali ai nostri problemi […] L’architettura è urbanistica, come è ecologia della natura, trasfigurata in ecologia dell’uomo. L’architettura non può restare un fenomeno atomistico. Deve sorpassare i bisogni dell’uomo e donargli più che il semplice gusto delle cose future. II cosmo nella natura dell’uomo, questo è lo scopo, ben più che l’intervento umano nella natura dei materiali. L’evoluzione è questa rivoluzione che giustifica i suoi balzi ponendo la società su un piano veramente elevato. Come Soleri, anche Pica Ciamarra Associati sono ideologicamente intenzionati, li definisce l’autrice, e come tali tesi a esplicitare l’immagine di un mondo alla cui costruzione vogliono dare il loro contributo. Il forte sostrato culturale nato dalla formazione al l’interno del problematico contesto degli anni sessanta saranno indelebili, contrassegnando inevitabilmente la ratio progettuale dello stesso studio. Il volume è mirato a facilitare al massimo la comprensione per il lettore. È strutturato in due parti, tra loro interagenti. La prima di carattere più strettamente storiografico, con profili biografici dei principali protagonisti dello studio associato (Massimo Pica Ciamarra e Luciana de Rosa), a cui si affiancano quanti hanno lavorato con loro, prima e dopo la costituzione del gruppo di lavoro, come Riccardo Dalisi e Antimo Rocereto, con altre informazioni su altri che hanno collaborato, grazie all’elaborazione di lunghe interviste raccolte nel corso degli anni, in cui sono correttamente collocati i piccoli e i grandi maestri e la delusione di alcuni modelli di riferimen-
to. La seconda, riprendo lo stesso titolo, è il racconto illustrato di alcune esperienze nodali, con una ricca schedature delle realizzazioni, dal fortunoso incarico al neo-laureato Massimo Pica Ciamarra della progettazione e direzione lavori del l’ampliamento delle Officine Angus (Casavatore, 1961-1968), in cui al meglio si applica la teoria dell’open form esposta dal polacco Oscar Hanes, alla costruenda Università del Sannio (Benevento, 2008-), in cui trovano maturazione anni di riflessione sul sistema universitario come generatore del sistema urbano e pratica applicazione il concetto di continuità dei percorsi pedonali urbani come struttura connettiva e spaziale. La storia che accompagna la formazione, le prime esperienze e l’affermazione di Pica Ciamarra e de Rosa rispecchia un tassello particolare di una storia più grande, quella che racconta un momento culturale importante per la storia dell’architettura, in cui si riflettono problematiche, tensioni e dibattiti molto vivi nelle aule delle università italiane, in cui componenti di spicco riportano al legame che spesso si instaura nel mondo universitario tra allievi e docenti, se pronti, questi ultimi, a cogliere potenzialità e capacità dei primi. Sono gli anni in cui si consuma la crisi del Movimento Moderno e le tesi del Team X intaccano la stessa solidità dei CIAM. Ciò che importa non è più l’espressione formale, ma il modo di ragionare che è alla base del progetto. Più che gli aspetti linguistici, è il legame che l’architettura istituisce con la cultura del luogo e con la gente che in esso vive il loro terreno di sperimentazione, aprendosi in tal modo alla dimensione sociale, partecipativa,
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direi antropologica, di cui Giancarlo De Carlo sarà significativo interprete, nella convinzione del l’influenza diretta che il design possa esercitare sui comportamenti degli uomini. La tensione utopica e la vocazione sperimentale che permea un’intera generazione si scontra con il dato di realtà. Nel far comprendere al giovane Pica Ciamarra l’assurdità di qualsiasi soluzione predefinita, le sollecitazioni di quegli anni gli dicono anche che architettura non significa solo struttura, funzione e forma, mettendolo con ciò in guardia da ogni sorta di riduzionismo, semplificazione, esclusione, sicché urbanistica, paesaggio, ambiente, costruito e non costruito rivendicano simultaneamente la loro presenza nel processo progettuale. La sperimentazione della riduzione al grado zero della fisicità dell’architettura, all’immaterialità che caratterizza la lunga stagione della contestazione, prenderà lentamente forma fino a dare valore alla relazione, un principio che conduce in tempi più recenti i Pica Ciamarra Associati a considerare centrale il vuoto urbano, ovvero lo spazio tra elementi costruiti, quello che effettivamente connette, reintegra, costruisce il tessuto della città. Una nota di ambiguità va segnalata talvolta sull’uso del termine paesaggio. Oggi, infatti, si fa largo uso di questa dizione, ma nel parlare comune il senso è spesso indeterminato. L’ampio numero di pubblicazioni che oramai contraddistingue il paesaggio ha visto geografi e storici, studiosi di letteratura e storici dell’arte, sociologi e filosofi, antropologi e agronomi, archeologi, architetti e altri studiosi indagare, analizzare e approfondire questo campo
di studi nel proprio settore di pertinenza. La dimensione profondamente critica della produzione scientifica ha spinto gli studi a definire da un lato la natura ontologica del paesaggio, dall’altra i tempi e la genesi della sua nascita, ma, allo stesso tempo, è innegabile che ciò abbia generato un poliedrico sistema di definizioni dello stesso soggetto, non senza generare problemi, contraddizioni, paradossi, ossimori e interrogativi, confondendo tra loro temi inerenti la natura, l’ambiente, l’ecologia, il territorio, la città e, appunto, il paesaggio. Al contrario, per meglio intendersi sulle parole che caratterizzano qualità e moderno nell’architettura contemporanea, Lima stila un proprio glossario ragionato con cui potersi intendere e che comprende le seguenti voci: relazione; simultaneità di approccio olistico e sistemico; ambiente; città; architettura e architetto; architettura e dimensione urbana; invarianti; progetto; reinvenzione, non riuso; preesistenza; radicamento al suolo; tipo; caratteri tipologici; topologia; forma aperta; elementi significativi della struttura urbana; la mobilità; percorsi; edifici-percorsi; i vuoti e il progetto; obiettivo di un intervento; obiettivi che sostanziano l’intero processo progettuale fondato sulla simultaneità di analisi e intervento; flessibilità; carattere evolutivo. Nonostante, l’esaustività del lavoro eseguito attraverso l’analisi critica della storia e delle opere dello studio Pica Ciamarra Associati, questo libro non risparmia anche interrogativi, non pochi senza risposte; anch’esso un non finito aperto alle riflessioni di coloro che lo leggeranno. M. V.
T. Montanari, V. Trione, Contro le Mostre, Einaudi Editori, Torino 2017. Oggi, siamo costantemente bersagliati da inviti a partecipare a molteplici mostre di ogni natura e tipo: dall’arte sacra a quella pittorica, dalla scultura all’architettura, dalle arti minori alla fotografia, dall’arte culinaria a quella della civiltà contadina e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Un repertorio vastissimo, talvolta approssimativo, che, vista la grande quantità di eventi, molto spesso non fa nemmeno in tempo a rimanere nell’immaginario collettivo o, talvolta, lascia solo ricordi dei momenti più mondani legati ai vernissage o finissage, o alla partecipazione del personaggio più celebre tra gli invitati. Un fenomeno che sta vivendo una decadenza talvolta preoccupante che incide fortemente, e negativamente, su aspetti culturali, di riflessione e di crescita, per dar spazio a fenomeni legati al mordi e fuggi, alla più sfrenata superficialità, a motivazioni prettamente commerciali e ad iniziative prive di ogni funzione di crescita formativa o pedagogica. Su queste tematiche nasce l’incontro, per lo più casuale, a Venezia tra le sale del Padiglione Italia della Biennale del 2015, di due tra i più in auge storici dell’arte italiani, Tomaso Montanari e Vincenzo Trione che, nonostante non si conoscessero personalmente, hanno subito scoperto di essere accomunati da consonanze e affinità, comuni passioni, analoghe idiosincrasie ed hanno maturato l’idea di scrivere e pubblicare questo pamphlet che affronta e approfondisce il fenomeno, prevalentemente italiano, di produrre mostre blockbuster prive di ricerche originali, e di approfondimenti. In-
nanzitutto perché si tratta quasi sempre di puro intrattenimento, a pagamento e di bassa qualità. Un saggio critico, duro, talvolta polemico che, come sostengono gli autori nella premessa, a doppia firma come la conclusione, nasce da un’urgenza quasi “politica”. L’abbiamo scritto perché non potevamo farne a meno: per non voltarci di lato rispetto a certe cattive abitudini che tanti studiosi e tanti osservatori tendono ad accettare pigramente. È questo il filo conduttore che percorre i sei capitoli del volume, suddivisi tra i due autori pubblicati in maniera alternata, dove Trione affronta quelli intitolati Business Art, La banalizzazione dell’arte, Crossover senza senso mentre Montanari gli altri tre: Rompere la gabbia, Riprendiamoci i musei, Servizi pubblici intellettuali. I due mirano a risvegliare, insieme con una santa indignazione, anche il piacere di avere organi ricettivi sani e funzionanti. Per aprirci davvero alla conoscenza del Paese in cui abbiamo la fortuna di vivere, per rimettere in connessione passato e presente, per diventare cittadini critici e liberi. Vengono affrontate le tematiche legate alla Business Art con documentate differenziazioni tra quanto accade nelle maggiori e prestigiose istituzioni museali come il Centre Pompidou di Parigi, la Tate di Londra, il Reina Sofia di Madrid e il MoMA di New York che, libere da pressioni di società private e dalle logiche del marketing, organizzano eventi e mostre con una seria programmazione di lunga durata, con studi e ricerche approfondite, dirette da comitati scientifici di studiosi illustri e seri, al contrario di quanto di sovente accade in Italia dove prevalgono leggerezza, approssima-
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zione. Ignoranza. Populismo. Una deregulation pericolosa. Vengono ricercati i maggiori responsabili ed indicati gli eventi più nefasti e deleteri, rimandando a citazioni di illustri studiosi come Henry James, Federico Zeri, Cesare Brandi, Jean Clair, Mario Vargas Llosa, Mary Kelly ma anche di politici come Piero Calamandrei oppure vengono attivati appelli agli attuali governanti come quelli rivolti a Matteo Renzi o al Ministro Franceschini. Un fenomeno che parte da lontano, come si evidenzia dalle parole di Cesare Brandi in uno scritto del 1968 intitolato Le Mostre Ahimè: «Un’infestante proliferazione di mostre-evento di scarso o nullo valore culturale, votate ad un’effimera spettacolarizzazione fine a se stessa, “vuoti a rendere”, che inducono artificialmente un consumo feticistico, bolle di sapone multicolori che lasciano dietro di sé praticamente il nulla». Trione esamina le mostre che si muovono in un’ottica multidisciplinare e non interdisciplinare, secondo i più attuali criteri che la contemporaneità richiama, e continua, poi, affrontando il tema della banalizzazione dell’arte, perpetrata anche nelle recenti Biennali di Venezia dove, talvolta, vengono adottati schemi di netta separazione tra le arti, oggi ormai superati, che ripropongono obsolete suddivisioni tra i linguaggi dell’architettura, del cinema, del teatro, della danza, della musica. E poi continua analizzando altri fenomeni: Una sorta di caccia al tesoro, fondata su un artificio del crossover inteso come incrocio, attraversamento, riflesso. Un itinerario labirintico, in cui si pongono in risonanza opere contemporanee e opere del passato: artisti della nostra epoca rifanno e rein-
terpretano liberamente dipinti conservati presso la pinacoteca londinese, suggerendo giochi di rispecchiamenti differiti, tra rifiuti e riprese. […] In italia questa consuetudine è diventata un autentico virus. Sviluppando un fenomeno di abbinamenti e confronti che raramente sono stati pacificati e che si basano su ricerche di rapporti storici, formali, simbolici fino a calare ombre oscure e condizionanti sulla tradizione iconografica, il Nostro sembra costringere ad inedite reinterpretazioni che, talvolta, spingono a riconfigurare nuove identità, quasi una ricerca forzata verso diverse connotazioni artistiche. Di analogo tenore sono le pagine di Montanari a favore di un contesto caratterizzato da paesaggio, natura e storia in un intenso rapporto tra presente, passato e futuro, rapporto spesso totalmente trascurato o addirittura dimenticato che pone l’accento sull’arte come espressione della natura e sull’arte come espressione dell’uomo. Decisamente contro l’industria del trasloco delle opere d’arte, affronta il tema del ruolo dei musei intesi esclusivamente come fonte di reddito del patrimonio, principio economico che, a latere, porta alla trascuratezza dei luoghi non produttivi come biblioteche ed archivi, viceversa portando alla creazione di nuovi supermusei e di poli regionali museali, come previsto dalle nuove normative, in cui gettare alla rinfusa tutto ciò che avanza (musei veri e propri, siti archeologici, monumenti), con l’unico criterio, brutalmente burocratico della bigliettazione: se si paga è «valorizzazione», e dunque si rimane nelle soprintendenze. Per l’autore il ruolo del museo è inteso non come deposito di oggetti
datati ma come laboratori del futuro ove operano ricercatori motivati e innovatori. È nostro compito evitare che città d’arte come Firenze e tante altre subiscano delle violenze artistiche, coperte dall’alibi di far dialogare antico e moderno, pur di definirci contemporanei piuttosto che dare il via ad un rinnovato incontro tra conoscenza del passato e critica del presente, che possa consentire un’apertura diversa rispetto a mostre che potrebbero essere etichettate come autentiche forzature. Montanari non trascura un suo leitmotiv, quello della Costituzione, in particolare dell’articolo 9, e si sofferma sui suoi valori sostanziali e non formali, nel rapporto tra arte e natura ponendo al lettore alcune domande semplici ma complesse al tempo stesso: Dove finisce il paesaggio della natura, dove inizia l’arte dell’uomo? È una domanda senza risposta. Anzi: la risposta è che questa fusione, questa comunione sono il vero capolavoro della nostra storia. È esattamente quello che chiamiamo il contesto: ed è ciò che ci aspetta, se solo troviamo la forza di dimenticare il supermercato delle mostre. Il coraggio di rompere la gabbia. Sembra quasi che l’autore, pur di supportare la sua tesi, trascuri totalmente la differenza tra artificio e natura, che pur assumendo ruoli di importanza notevole, talvolta anche nella loro fusione, non può essere non considerata come una differenza sostanziale di base, se non altro per il ruolo che assume l’uomo o l’artista nell’opera di artificio. Viene ancora affrontato il tema della compresenza, in molte esposizioni museali, di opere antiche e contemporanee per tentare un dialogo tra passato e presente e che invece, molto spesso, generano secondo
il Nostro solo una muta solitudine per la loro incapacità di parlare ed ascoltare, essenziali per un dialogo anche tra epoche e momenti storici differenti. Nella conclusione, a firma dei due autori, viene riportato il caso della prima grande retrospettiva dedicata alla storia della Street Art a Bologna nel 2016 che aveva l’intento di avviare una riflessione sulle modalità della salvaguardia, conservazione e musealizzazione di queste esperienze urbane, nel contempo ponendo l’attenzione sul ruolo ed il valore dei writers quali esponenti di una manifestazione sociale e culturale diffusa in tutto il pianeta, basata sull’espressione della propria creatività tramite interventi pittorici sul tessuto urbano. Interventi che talvolta sono stati addirittura considerati atti vandalici e puniti secondo le leggi vigenti, senza tener conto del lavoro di ricerca artistica sotteso a tale forma d’arte al quale, in alcuni Paesi viene data la possibilità esprimersi in campi protetti, nel nostro caso gli autori sostengono: siamo convinti che questa arte di strada, anonima e collettiva esprima un modo di fare e condividere cultura straordinariamente carico di futuro. E diametralmente opposto a quello sviluppato dall’industria delle mostre. Non si può trascurare che il testo ci cala in una realtà italiana critica e che per la prima volta viene chiaramente denunciata, pur riscontrando nei testi di entrambi gli autori e anche nelle parti scritte assieme, forzature talvolta dogmatiche che, lette come artifici storiografici, diventano funzionali alla tesi sviluppata e a quel carattere di politica culturale che il libro sembra imporsi. Come: Il tema decisivo, però, è un altro: mentre le mostre chiudono l’arte
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in gabbie a pagamento, la Street Art la restituisce a tutti, gratuitamente. Mentre le prime la trasformano in intrattenimento, la seconda la trasforma in strumento di liberazione culturale. Mentre l’ennesima mostra di Caravaggio rischia di farci sentire Caravaggio ancora più lontano, la Street Art che ridà forma alla città moderna ci apre gli occhi per comprendere la bellezza e il progetto civile dei nostri centri storici, con le loro chiese e i loro quadri antichi. Se oggi in molti pensiamo che «le parole dei profeti / sono scritte sui muri della metropolitana / e negli androni dei palazzi» (come recitava, già nel 1964, la fine di The Sound of Silence di Simon & Garfunkel) è anche perché i writers continuano a pensare che la loro arte civile e pubblica valga più del mercato, dell’industria culturale, e del loro stesso egotismo. Un messaggio, questo si, profetico. A. C. U. Carughi, M. Visone, Time Frames: Conservation Policies for Twentieth-Century Architectural Heritage, Routledge, London and New York 2017.
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Libro sulla tutela dei beni culturali. Non appartiene alla tipologia editoriale della “denuncia”, la più diffusa e sempre benemerita ma non sempre capace di varcare la soglia giornalistica dello sdegno. Non possiede nel suo insieme tutti i requisiti di un prodotto accademico ortodosso per il carattere compilativo di una sua cospicua parte, mentre sono scientificamente ineccepibili i saggi in esso presenti. Non si occupa dei beni culturali, come nella quasi tota-
lità dei casi, con uno sguardo rivolto ad un passato remoto, ma discute sulla tutela dell’architettura del Novecento così come declinata nelle politiche della tutela a livello internazionale. Si tratta di un argomento di interesse comunque minoritario perché non rientra appieno nel comune sentire della cultura contemporanea, disposta a mobilitarsi per salvare un piccolo edificio storicista insignificante tardo ottocentesco e magari del tutto indifferente di fronte al degrado di un’opera di Nervi. Un libro che sceglie di praticare questa strada editorialmente difficile e rischiosa per queste e altre ragioni, merita d’acchito interesse e diffusione. Dunque e riassuntivamente, libro di utile documentazione e di riflessione critica interdisciplinare. Il giudizio positivo che sarà espresso in questa nota è un non trascurabile valore aggiunto. Giudizio che tuttavia necessita d’una premessa per essere meglio inteso nelle sue motivazioni. Nella letteratura sulla tutela dei beni culturali (ipertrofica, secondo molti), il capitolo che riguarda l’architettura contemporanea non ha fatto registrare fino ad un recente passato titoli cospicui per numero e indiscussi per il credito scientifico dell’autore. In Italia e per tutto il secolo passato, su questo tema ha pesato la mannaia della cronologia calata su tutte le leggi che con differenti ma analoghe finalità hanno normato la tutela dei beni culturali e per essi dell’architettura. Tutto è sembrato risolversi nella due condizioni della distanza temporale dalla realizzazione dell’opera e della scomparsa del suo autore. Se mancavano questi requisiti, la proposta di tutela era addirittura improponibile. Il capitolo del restauro dell’architettura contemporanea è apparso
invece più attivo perché denso di fermenti interpretativi, a partire dall’interrogativo – non immotivato – se per il moderno valessero gli stessi principi che guidano il restauro di architetture del passato. Nella seconda metà degli anni Novanta, nasce all’interno del Ministero per i Beni Culturali un interesse per l’architettura contemporanea sostanziato nell’attivazione di un Censimento delle architetture del secondo Novecento meritevoli di tutela ma non tutelate per l’assenza del requisito della temporalità. Una sorta di corto circuito logico ancor prima che culturale che tuttavia mostra come i tempi siano maturi per un ripensamento dell’intera materia. Così, dal Codice dei Beni Culturali varato nel 2004, anche la tutela del contemporaneo sembra aver recepito la complessità storico-critica del tema affrancandosi da una precedente legislazione in origine esemplare (le due celebri leggi del 1939) ma nel tempo rivelatasi inadeguata ad interpretare i nuovi e più alti livelli attinti dalla riflessione teorica. Stiamo parlando d’un argomento e d’un Paese, l’Italia, che ha esplicato da sempre magistero nel mondo ma non s’è mai confrontato, meglio, comparato – sistematicamente e analiticamente – con l’orizzonte internazionale per verificare la veridicità del suo ruolo di riferimento primario sul tema della tutela. Questa ricerca di Carughi e Visone è il primo tentativo in questa direzione. Segue di pochi anni un saggio di Carughi, Maledetti vincoli per Allemandi del 2013, con un contributo di Visone, che apriva la strada a questo argomento ora ampiamente sviluppato. Titolo e scrittura in inglese e la casa editrice anglo-americana rappresentano nel modo più evidente il contenuto e l’orizzonte interna-
zionale di riferimento dell’opera. (Nel testo che qui segue, le originarie citazioni in lingua inglese sono state riportate nella loro traduzione in italiano). La struttura. Organizzata in due parti, precedute dai saggi di Visone e Carughi. La prima parte, di carattere compilativo, raccoglie i dati salienti di oltre cento Paesi dei cinque continenti sulle politiche di tutela del contemporaneo incentrate prevalentemente sulle differenti declinazioni del fattore tempo, ovvero, della distanza tra la realizzazione dell’opera e la nascita dell’istanza di tutela. Per ogni paese è riportata la foto di un edificio sottoposto a tutela. Come spesso accade, le immagini sono in molti casi più esplicative dei testi, sempre comunque chiari e redatti da specialisti. La seconda parte, di natura storico-critica, contiene saggi organizzati in cinque concetti/parametri: Identity, con interventi di Ola Uduku, Ashraf M. Salama, Mizuko Ugo e Franco Purini; Heritage, Michael Jakob, Roberto Parisi e Filippo De Pieri; Memory, Teresita Scalco e Valeria Carullo; Conservation, Roberta Grignolo e Rosalia Vittorini; Economy, Amedeo Di Maio. Il contributo di Visone – The shadow line: architecture between time and history – è permeato di sano e opportuno relativismo nella lettura della storiografia del movimento moderno nei suoi rapporti con la tutela. Storiografia, è necessario aggiungere subito, scritta dal moderno che ha vinto e si identifica in alcuni linguaggi egemoni come razionalismo e organicismo parlati da assoluti maestri in aree geografiche prevalentemente occidentali. Tutto ciò che non è rientrato in questa epopea non ha avuto l’attenzione dovuta. La stessa periodizzazione va rivista
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perché la nozione di tempo ha misura e senso molto diversi e il “contemporaneo” non è “storico”, come si evince anche dall’uso dell’espressione conradiana della linea d’ombra presente nel titolo del saggio. Sicché, la decisione se un’opera ha o meno un valore storico-architettonico è implicitamente comparativa, non meramente classificatoria, e oggi i termini di comparazione per l’architettura del Novecento dovrebbero essere storiograficamente e geograficamente molto più ampi. Ricco e utilmente esplicativo l’apparato di note, com’è nel consueto costume di scrittura saggistica di Visone. Il contributo di Carughi – Contemporary architecture and the idea of protection – mostra una accentuata familiarità dell’A. con questi temi e al tempo stesso la volontà di tradurli in atti e provvedimenti concreti (legislativi, normativi) per una tutela più efficace del contemporaneo, in linea e ad integrazione del suo pluridecennale impegno all’interno del Ministero per i Beni Culturali. Soglia temporale, identità e contesto sono tre dei cinque concetti/parametro sui quali si appunta l’impegno di ricerca e due sono le proposizioni di sintesi del tutto condivisibili: all’assoluto relativismo della memory, si contrappone il caposaldo della contemporaneità della storia in senso crociano; l’identità e il contesto sono l’estensione a fattori immateriali della materialità dell’oggetto architettonico. Non a caso per il primo si parla di valori relazionali rintracciabili sempre oltre l’architettura. In tale ottica acquista rilievo il ruolo della storiografia quale ineludibile premessa per una tutela intesa come strumento di progetto. Piuttosto che dalle lancette dell’orologio, l’interesse culturale e il destino di
un’opera dipendono, infatti, dallo spirito, dal gusto, dalla cultura continuamente differenti con cui essa è considerata nel tempo. I contributi su aspetti specifici. Dodici, correttamente inquadrati nei più volte citati concetti/parametro. Accentuato carattere interdisciplinare complessivo, aperture su mondi culturali inediti alle nostre latitudini storiografiche occidentali come l’Africa, i paesi arabi, il Giappone. Dalle discipline dell’architettura vengono documentate ricognizioni: con Purini, sul carattere del Novecento architettonico italiano; con Parisi, sull’archeologia industriale che più correttamente viene denominata “archeologia dell’architettura”; con De Pieri, sul significato del termine patrimonio associato all’edilizia residenziale che si tramanda; con la Vittorini, sulla tecnologia i cui metodi e processi legano conservazione e tutela spesso inopportunamente separati; con la Carullo, sulla fotografia come strumento di archiviazione critica della conoscenza; con la Grignolo, sul versante giuridico della tutela, soprattutto nel suo rapporto con la sicurezza degli edifici; con Di Maio, sull’economia dei beni culturali fortemente condizionata dal mercato e dalla volontà politica e nella quale il pubblico è decisamente più tutelato per i suoi valori più diffusamente riconosciuti. La tavola sinottica. Appena una pagina e tuttavia rappresenta il fattore di assoluta novità della ricerca sul piano informativo. Riassume la posizione degli oltre cento paesi interpellati nei cinque continenti sul tema della distanza storica. Nulla di inedito per ogni singola nazione ma inedita e per certi versi sorprendente la comparazione. Oscilla tra i cento anni del Bangladesh e dell’Islanda e nessun limite temporale per oltre
l’ottanta per cento dei paesi. Nelle schede dei singoli Stati si possono leggere condizioni ed eccezioni particolari in gran numero, a conferma della natura oltremodo discrezionale di tutta la materia. L’Italia con i suoi 70/50 anni manifesta un isolamento più problematico che splendido. Il titolo. In esso è riassunto il punto di forza critico del volume. Time frames indica, letteralmente, intervallo di tempo. La scelta risolutiva (e coraggiosa) degli autori è stata quella di prelevare dalla letteratura e dalle legislazioni sulla tutela dei beni culturali il dato apparentemente più neutrale, oggettivo, persino banale – il tempo – e conferire ad esso dignità di parametro critico. Non un avanzamento inerte nel futuro ma misurazione del mutamento, un differenziale tra due storicità dei tempi, una “a quo” e un’’altra “ad quem”. Alla parte del libro che contiene l’inchiesta, in precedenza definita compilativa (termine per nulla riduttivo, come sa bene chi pratica seriamente ricerca), va invece assegnato il merito d’un lavoro inedito e molto utile perché le diverse politiche della tutela per la prima volta hanno una loro rappresentazione unitaria e comparativa. Da raccomandare, ovviamente, a chi si occupa di politica della tutela. P. B. Mario Schifano e la pop art italiana, a cura di L. Madaro e L. Barsi, Castello Carlo V, Lecce, 1 luglio - 23 ottobre 2017. Tra le mostre più interessanti e riuscite del panorama del nostro Pae se nell’anno appena trascorso, un posto di rilievo va sicuramente
alla retrospettiva curata da Luca Barsi e Lorenzo Madaro presso il Castello Carlo V a Lecce, dedicata a Franco Angeli, Tano Festa, Giosetta Fioroni e, soprattutto, al multiforme lavoro di Mario Schifano. Un gruppo di artisti che il critico Maurizio Calvesi ha consegnato alla storia dell’arte con il nome di “Scuola di Piazza del Popolo”, per legarli indissolubilmente con l’epicentro attorno al quale gravitavano, tanto le loro esperienze artistiche quanto le loro controverse esistenze. Sono gli anni Sessanta e l’ingombrante figura di Mario Schifano, visconte dimezzato dell’arte italiana, rappresenta perfettamente la figura dell’artista lacerato da un piano secante, direttamente tracciato tra il bene e il male. Con Franco Angeli e Tano Festa si aggira tormentato nel triangolo compreso tra via di Ripetta e via del Babbuino, una manciata di metri quadri entro cui gravita quasi tutto il microcosmo culturale della capitale. Ben presto agli occhi della critica diventerà l’esegeta di una pittura legata formalmente alla Pop Art americana. A partire dagli anni sessanta, seppur con peculiari ricerche poetiche, questi artisti si muovono all’unisono nella stessa città intrecciando, all’insegna di una seducente anatomia dell’irrequietezza, i sentieri dell’impegno artistico con quelli di un’altrettanto rituale vivacità mondana. Roma in quel momento era, infatti, un palcoscenico in cui convivevano, in una sorta di eden profano e colorato, differenti culture: quella più raffinata della classe intellettuale insieme con una più popolare e gaudente. Proprio la Piazza del Popolo in questo momento è, di fatto, il più vivace salotto dell’intellighenzia romana e internazionale, tempio laico
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della cultura entro cui sacerdoti e adoratori ronzavano festosamente come falene attratte dalle luci della piazza e dei suoi caffè. Qui si danno convegno intellettuali, scrittori, artisti e registi ma anche starlette e ragazzi di vita in cerca di ingaggio, produttori e sceneggiatori e tutto quel sottobosco che gira intorno alle produzioni cinematografiche. Il punto di partenza rimaneva quasi sempre il caffè Rosati. Il luogo dove si incontrano ritualmente personaggi dello spettacolo, artisti ed intellettuali come Pasolini, Moravia e, soprattutto, dove convergono quotidianamente le traiettorie di Angeli, Festa e Schifano, soprannominati da Plinio de Martiis “i maestri del dolore”, perché erano sempre vestiti di nero, con la puzza sotto il naso e l’aria stanca ed annoiata, come ricorda lo sceneggiatore Ugo Pirro. Tutto allora sembrava ruotare attorno a poche centralità, come la libreria Al Ferro di Cavallo, la galleria La Tartaruga – dello stesso De Martiis – e Palazzo Taverna dove la padrona di casa, Graziella Lonardi Buontempo, animava gli Incontri Internazionali d’Arte insieme a Moravia, Giulio Carlo Argan e al giovane critico Achille Bonito Oliva. Ritrovi abituali erano una manciata di osterie nelle quali si ritrovavano gli uomini di pensiero insieme agli esponenti di quella generazione che, in questo momento, è occupata nella radicale trasformazione delle facoltà ed, in particolare, della vicina Valle Giulia. Figure che vanno da Giuseppe Ungaretti a Tristan Tzara, da Sandro Penna a Franco Purini, da Cesare Brandi a Maurizio Sacripanti e Achille Perilli, fino ai giovani e meno giovani artisti italiani più importanti e ai critici come Alberto Boatto, Palma Bucarelli e Maurizio Calvesi.
Roma in questi anni è, infatti, uno dei crocevia più vividi del panorama artistico nazionale e internazionale. Il luogo in cui, meglio che altrove, si rappresenta il benessere del dopoguerra e degli anni del boom economico. Ma è anche e soprattutto il riferimento precipuo per artisti, poeti, registi e letterati sensibili alla contaminazione dei linguaggi, alla pluralità di espressione, alla sperimentazione e alle rappresentazioni che si ispirano al quotidiano, alla modernità, al mondo dei consumi e che, facendo questo, interpretano una nuova stagione culturale. Protagonisti indiscussi di questa scena artistica sono, soprattutto, Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli ma anche Giosetta Fioroni, Pino Pascali, Francesco Lo Savio, Sergio Lombardo, Cesare Tacchi, Mimmo Rotella e Renato Mambor. Figure attraenti per l’originalità delle proprie ricerche, per la capacità di meticciare le proprie riflessioni con la tradizione della storia dell’arte italiana e con l’immaginario romano e, non ultimo, per lo stile di vita bohemien che conducono. Il primo momento nodale di questa stagione passa per la mostra inauguratasi il 16 novembre 1960, presso “La Salita”. La galleria, situata nei pressi di Piazza di Spagna e condotta dall’avvocato Gian Tomaso Liverani, aveva già ospitato la prima mostra di Franco Angeli, Tano Festa e Giuseppe Uncini. In occasione delle esposizioni del 23 marzo 1960 alla galleria “Appunto” e della successiva presso la galleria “Il Cancello” di Bologna, il terzetto si era però ampliato, arrivando a coinvolgere Mario Schifano e Francesco Lo Savio. Nel mese di novembre dello stesso anno, il critico francese Pierre Restany, presenta nella galleria di Liverani la collettiva “5
pittori - Roma ’60” alla quale partecipano, gli stessi artisti che sette mesi prima, presentati da Emilio Villa, erano stati ospitati alla galleria “Il Cancello”. Villa e Restany furono, dunque, i primi a definire il movimento e farne un primo bilancio critico, seppur dai loro scritti si evinca di una situazione artistica ancora in fieri e circoscrivibile in un ambito di ricerca i cui riferimenti geografici spaziano da New York a Parigi, dal New Dada al Nouveau Réalisme. La mostra di Restany segna, dunque, un punto di forte discontinuità con il passato e, in qualche modo, la fine dell’esperienza Informale in favore di uno spostamento verso nuove posizioni più ancorate all’iconografia della società dei consumi. Condizione questa che diventa inevitabile soprattutto alla luce dell’affermazione di Robert Rauschenberg alla Biennale di Venezia del 1964, e del conseguente approdo della Pop Art nel vecchio continente. Alla fine di novembre del 1970 si tiene, invece, al Palazzo delle Esposizioni, uno straordinario evento che porterà Schifano e gli artisti della scuola di Piazza del Popolo, alla consacrazione definitiva. La mostra si intitola “Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960-1970” e a curarla è Achille Bonito Oliva che, con l’obiettivo di definire l’avanguardia del tempo, mette insieme oltre trenta artisti: dai futuri esponenti del l’Arte povera, ai concettuali fino agli artisti della Pop italiana. Lo sponsor della manifestazione, la Brionvega, pone sulla facciata del palazzo di via Nazionale una decina di televisori che proiettano l’allestimento interno. Quegli schermi ripropongono all’infinito il tentativo di Bonito Oliva di tracciare un bilancio, ma sono anche particolarmente congeniali nel restituire le
immagini delle opere di Schifano e dei suoi sodali i quali ormai, come sottolinea Ludovico Pratesi, dipingevano ad armi pari con la New York della Pop Art. La retrospettiva leccese ripercorre, dunque, le vicende di questo gruppo, restituendoci la sua capacità di far transitare nel mondo dell’arte, motivi e oggetti provenienti dall’immaginario comune, dalla storia del l’arte e del quotidiano, fornendo un contributo fondamentale all’arte contemporanea. Il progetto espositivo di Barsi e Madaro si apre con due delle opere presentate da Schifano alla Biennale del 1964: due paesaggi anemici che propongono una moderna identità dello scenario naturale attraverso la diluizione del colore. Subito dopo si ripercorre la straordinaria parabola degli omaggi a Giacomo Balla e al Futurismo Rivisitato. Inizia così un percorso espositivo in cui si inseguono figure iconiche catturate dai mass media, dalla tv in primis, che ben evidenzia la declinazione di senso che caratterizzerà le opere del maestro romano negli anni a seguire. Grazie alle opere degli altri artisti in mostra, viene così riproposta l’esperienza di aggirarsi Per il clima felice degli anni Sessanta – come recita il titolo del dipinto di Tano Festa del 1969. Un decennio mitico in cui si passa dalle esperienze informali e astratte a ricerche che riflettono, in contemporanea rispetto alle esperienze Pop americane, la società di massa, l’impegno politico e i paradigmi della città metropolitana. Per questa direzione si giunge ai dollari, all’obelisco di piazza del Popolo e alle aquile e le svastiche di Franco Angeli. Artista che, come un flâneur, capta e riconosce l’importanza delle tracce del passato per sintetizzarle visivamente e ripropor-
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le nelle sue tele. A completare il percorso sono proposte, infine, le argentee opere di Giosetta Fioroni. Volti eterei di figure femminili ferite da velature e segni leggeri. La mostra, in definitiva, rende omaggio a questi quattro maestri, con un’attenzione particolare al l’impresa artistica di Schifano, presentando una selezione di lavori che abbracciano tutto il suo periodo crea tivo, dagli esordi della monocromia alle grandi tele degli anni della maturità. Ma rappresenta in realtà, soprattutto, una riflessione più amplia sull’intero movimento artistico legato a Piazza del Popolo e sul fermento creativo che ha riguardato un’intera stagione culturale del nostro Paese. Un periodo estremamente interessante del panorama artistico e del suo versante romano che contribuisce perentoriamente a comporre l’identità dell’arte italiana degli anni ’60-’70, delle sue peculiarità e di gran parte delle realtà indipendenti – come le numerose e rampanti gallerie private – che, sopperendo al ritardo cronico e alla incolmabile distanza delle istituzioni pubbliche, sono arrivate a destare l’interesse del sistema culturale internazionale e del grande mercato globale dell’arte. A. L. M. Cometa, Il Trionfo della Morte Un’allegoria della modernità, Quodlibet, Macerata 2017.
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Una lunga e intensa attività di ricerca porta Michele Cometa ad affrontare la descrizione del Trionfo della Morte di Palermo dopo essersi dedicato ad approfondimenti che tro vano nell’affresco palermitano un punto di incontro ineluttabile.
Una sorta di incrocio, una meta comune a due sentieri solo apparentemente paralleli [M., Cometa, Descrizione e desiderio. I quadri di E.T.A. Hoffmann, Meltemi editore, Roma 2005; M. Cometa, La scrittura delle immagini. Lettura e cultura visuale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012; M. Cometa, Visioni della fine. Apocalissi, catastrofi, estinzioni, due punti edizioni, Palermo 2004]. Quali sono le due piste? Una è dedicata all’Ékphrasis, cioè alla descrizione delle immagini; l’altra alla fine, alla conclusione, alla morte. Questi due itinerari trovano nella dimensione del tempo, o se si vuole nella sua negazione, l’humus comune. L’affresco realizzato per l’Ospedale nuovo di Palazzo Sclafani occupa, dai primi anni Cinquanta del XX secolo, la parete di fondo della chiesa di Santa Maria della Pietà annessa a palazzo Abatellis, divenuto, grazie al mirabile intervento di Carlo Scarpa, Galleria Regionale della Sicilia. A Scarpa si affiderà la conclusione di queste considerazioni nell’inevitabile connubio tra arte e architettura. Prima di svelare il significato delle immagini e conseguentemente il rapporto tra concetti e figure è utile riflettere sul modo in cui la pittura può influenzare la scrittura alfabetica. Sul rapporto tra pittura e scrittura è eloquente una proposizione di George Simenon: Io cercavo di dare alle parole il peso che una pennellata di Cézanne sapeva dare a una mela [C. Collins, Intervista con George Simenon, Minimum Fax, Roma 1998, p. 47]. Possiamo allora chiederci in che modo l’affresco abbia influenzato la prosa di Michele Cometa. Questa, si può affermare ex abrupto, è vorticosa come la figura
complessiva che anima il Trionfo palermitano e, come questo, è altrettanto incalzante, senza pause. Un procedere circolare, con improvvise accelerazioni che raggiungono delle conclusioni. A forma di vortice sono la coda del cavallo, protagonista della scena, quelle dei cani e la grande falce del cavaliere scheletrico, ma soprattutto, come si diceva, un vortice è l’intera scena del dipinto. L’implicita energia di questa figura sembra animare le proposizioni del libro, spingendo il lettore un po’ in tutta Europa alla ricerca delle fonti, con rapide e precise incursioni in Spagna, in Svizzera, in Inghilterra, in Francia, in Italia. E all’interno di quest’ultima, soprattutto in Toscana. Cometa, con la sua narrazione, costruisce un moto centrifugo riuscendo poi in un attimo a trasformarlo in centripeto e quindi sapendo ricondurre tutto al Trionfo, oggetto di studio. Il peregrinare fra quadri, arazzi e affreschi è tutto tranne che una semplice ricerca delle fonti iconografiche, è soprattutto un errare fra concetti. L’affresco di Palermo, infatti, diventa a distanza di circa seicento anni o meglio grazie a questo ampio lasso temporale, rappresentazione lucida di alcuni contenuti attuali e senza tempo. Quali? Stupore, sdegno, consolazione, nostalgia del futuro, anelito, speranza, forse – nessuno vuole morire da solo – un’onda inenarrabile attraversa tutte le esperienze della morte e ci aiuta a costruirne il concetto. Per questo il Trionfo della morte di Palermo appartiene a pieno titolo alla storia dei concetti (Begriffsgeschichte), così come l’ha pensata Reinhart Koselleck. Ne rappresenta anzi nel contempo uno snodo speciale e un’illustrazione di
come la stessa produca energie che solo molto più tardi nel tempo riusciamo a decifrare, a isolare dal rumore di fondo delle vicende umane. L’attenzione di Cometa si concentra su tre tonalità dell’animo umano presentandole sotto forma di coppie: lo stupore e lo sdegno; la consolazione e la cura; la nostalgia e la speranza. Voci eminentemente filosofiche, decisamente moderne, sostanza di molto pensiero dell’Ottocento e del Novecento. Queste sono enunciate in partenza e poi, pagina dopo pagina, fatte riemergere dopo avere osservato ogni dettaglio, “compreso i fili d’erba”, con un’attenzione spasmodica; come trattenute in superficie da uno speciale vaglio, dopo avere filtrato infinite volte il fluido della narrazione figurativa. I concetti sono sottoposti a un doppio registro: da una parte Cometa, attraverso l’esercizio dell’analogia, svela la miriade di affinità elettive, le parentele e le distanze; dall’altra palesa il logos, il ragionamento alla base dell’affresco. Le cause, cogenti alla metà del Quattrocento, diventano concetti sui quali la modernità ha molto riflettuto come termini estremi della condizione esistenziale. Il cuore del logos, ma anche la struttura del logos, come svela Cometa, sono forniti dalla vicenda umana del cardinale Niccolò Tudeschi (Abbas panormitanus), in basso al centro dell’affresco. Il suo essere interprete della volontà di Alfonso il Magnanimo, trasforma la sua acutezza e la sua cultura in merce. L’abilità di Tudeschi fa prevalere prima il potere del Concilio (Basilea) su quello del Papa (Eugenio IV) e poco dopo, in evidente contraddizione, la stessa capacità è utilizzata per difendere la posizione opposta. Tudeschi, alla fine, risponde esclusivamente all’interes-
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se del suo committente, il re di Aragona, dilaniando la propria anima. È questa circostanza a procurare lo sgomento complessivo dei personaggi trafitti dalle frecce? Ed è la cattiva coscienza del cardinale a dare una serie di sfumature diverse alla complessiva rappresentazione della morte? Quest’ultima è “assediata” dallo stupore e dallo sdegno, dalla consolazione e dalla cura, dalla nostalgia e dalla speranza e, da questi stati d’animo, si divincola con energia. La velocità con cui attraversa la massa umana nasce probabilmente dal fatto che i visi e le posture delle figure sono uno specchio in cui la morte si riflette suo malgrado, cercando di mantenere celata la sua essenza. I pittori, il maestro e il suo allievo, dipingendo descrivono le varie etimologie della morte, riuscendo a capire e a far comprendere all’osservatore che il significato diventa una somma di significati, fra loro anche in contrasto. Infatti, lo stupore non ha nulla a che spartire con il dubbio e con la speranza. In effetti, osservando con maggiore attenzione l’affresco, la morte non è al galoppo, forse sfugge veloce, sicuramente compie un balzo. Da dove proviene questa certezza? Insieme ai concetti specifici del pensiero dell’Ottocento e del Novecento – in tedesco riassunti da Cometa in Staunen, Sorge, Sehnsucht – proprio la componente dinamica conferma ulteriormente l’appartenenza dell’affresco palermitano all’alveo della modernità. Anche se Cometa presenta al lettore tanti cavalli di altre pitture, più o meno coeve al Trionfo palermitano, rompendo gli argini cronologici ci si sofferma in questa lettura sul balzo, paragonando il cavallo possente ma scheletrico di Palermo con due differenti sequenze di Eadweard Muybridge:
The Horse in motion del 1872 e Horse jumping del 1887. Nella prima, dedicata al galoppo, non vi è alcun fotogramma corrispondente al cavallo dell’affresco mentre la postura di quest’ultimo collima con più di un’immagine della seconda sequenza. Le fotografie di Muybridge furono, dalla fine dell’Ottocento in poi, alla base del lavoro di molti pittori, dimostrando come alcuni dipinti del passato fossero sbagliati, laddove restituivano il movimento degli animali. Fra questi i purosangue di Théodore Géricault (The 1821 Derby at Epsom) ritratti nella posa innaturale e inesistente con tutte e quattro le zampe allungate e lontane dal suolo. Accertata la natura della postura del cavallo in un contesto di personaggi cristallizzato, anche questa situazione sembra confermare la tesi di Coeta che vede nel Trionfo una allegoria della modernità. Nel l’af fresco, infatti, è presente sia una componente dinamica, sia una metafisica, ante litteram, e tale condizione trova completa spiegazione nella definizione di modernità data da Charles Baudelaire, nel suo saggio Il pittore della vita moderna. Scrive Baudelaire: la modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile. Nell’affresco palermitano, seguendo l’ermeneutica di Cometa, l’autore anonimo fa leva sul contingente per arrivare all’eterno e all’immutabile. Gli aspetti immutabili sono evidentemente quei concetti messi in luce dall’autore, ma bisogna sforzarsi sempre di riportare tutto al gioco tra pittura e scrittura e capire cosa si contrappone nell’affresco all’azione dinamica e al contingente. Cosa fa resistenza, cosa si oppone
alla rapidità delle frecce scagliate con precisione assoluta? Il Trionfo di Palermo è privo di rifugi, solo la fontana sembra porsi come una pausa, offre ad alcune figure un’ancora al moto vorticoso impresso dalla morte. Piuttosto che un mezzo di soccorso sembra una bitta, forse e meglio una boa galleggiante alla quale però non si trova legata alcuna zattera di salvezza – neppure quella, rivelatasi illusoria, dipinta da Théodore Géricault (La Zattera della Medusa, 1818-1819). Quella che è realmente presente è una sospensione del tempo; un istante dilatato all’infinito o, se si preferisce, una pausa in cui gli stati d’animo prendono corpo, nelle pose, nei colori degli abiti, nei cappelli, nei visi, negli sguardi e nella posizione delle mani. Queste ultime ricordano la cura con la quale François Truffaut sistema quelle della bellissima Jaqueline Bisset in Effetto Notte (La nuit américaine, 1973). La sospensione del tempo è la condizione che permette l’espressione dei concetti; solo questa dimensione, anticipatrice della metafisica, consente di capire qualcosa, permette di insinuarsi – scegliendo il punto di vista del New Historicism o del Cultural Poetics di Stephen Greenbelt – nella selva della raffigurazione dell’affresco, dove nulla è lasciato al caso e ogni viso è un racconto, perché gli sguardi sono gli attori della narrazione. Soffermandosi sugli sguardi, e portate alle estreme conseguenze alcune affermazioni dello stesso Cometa, si rischia di “scavalcare a sinistra” la volontà dello stesso autore. Ad esempio, qualora si prolungassero le traiettorie delle frecce e la direzione degli sguardi – aggiungendo le linee flessuose esplicitate nel libro – si metterebbe in luce una com-
posizione astratta molto simile a quelle prodotte da Vassily Kandinskij, alla metà degli anni Venti del XX secolo. Così è immediato citare lo stesso pittore russo quando scrive: l’arte oltrepassa i limiti nei quali il tempo vorrebbe comprimerla, e indica il contenuto del futuro. Tornando agli sguardi dei personaggi, insieme alla posa dei due cani al guinzaglio, essi indicano un’assenza di limiti e tale condizione spaziale è ulteriormente confermata dagli occhi di quelle figure – primi fra tutti il pittore e il suo allievo – rivolti verso i fruitori, contribuendo a dare all’affresco una tridimensionalità coinvolgente. Azioni, sguardi e linee di costruzione si allontanano dal piano e scuotono le coscienze, trasformando gli astanti in parte della composizione. Trait d’union fra l’affresco e chi osserva, è proprio il ritratto di Niccolò Tudeschi che, grazie all’azione del tempo, sembra uscire dal pennello di Francis Bacon, profondo indagatore di anime e di stati d’animo, attraverso la deformazione estrema di corpi e di volti. Nei suoi dipinti la vibrazione sembra estrarre l’essenza della vita sulla soglia della morte. Il tremito delle figure del pittore irlandese introietta l’azione dinamica tipica della modernità, e in modo diverso conferma quanto anticipato nelle distorsioni dei volti dell’affresco palermitano. Certo questa sorta di pulsione, causata dall’azione dinamica, spingerebbe a osservare il Trionfo con una colonna sonora ben diversa da quella prodotta dall’arpa, dal liuto e dallo scorrere d’acqua. Forse si potrebbe proporre all’attuale direttore della Galleria Regionale della Sicilia che una volta la settimana o anche una volta al mese la sala del Trionfo avesse un commen-
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to sonoro e, tralasciando il più scontato Requiem di Mozart o la più movimentata Nona di Beethoven, si potrebbe arrivare, spingendosi ancora una volta ad anni più recenti, a una sequenza fatta da The End dei Doors e in un crescendo Run Through the Jungle dei Creedence Clearwater Revival, seguita dall’immarcescibile Gimme Shelter dei Rolling Stones. Chiamati in causa gli Stones, le menti proietterebbero sul Trionfo le immagini di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola e quindi La Cavalcata delle Valchirie di Richard Wagner. Anche sovrapporre alcune immagini al Trionfo potrebbe essere interessante in un gioco in cui l’affresco palermitano è qualcosa più di uno schermo ma si dimostra essere il luogo generatore di molte elaborazioni successive. Dall’anonimo capolavoro palermitano a quello di Francis Ford Coppola sembra trovare particolare riscontro una morte che arriva dall’alto e genera stupore, preoccupazione, nostalgia. In ogni caso non tocca terra, compie un balzo, e trafigge in un attimo. La disperazione di molti è per alcuni, alla fine, una folgore desiderata, fortemente richiesta. È questa la conclusione de La morte di Ivan Il’ic di Lev Tolstoj, pubblicato per la prima volta nel 1886. Guardando con attenzione lo stato d’animo del magistrato morente di Tolstoj è ben ritratto nei volti del gruppo di sinistra. Gli occhi dei personaggi sono pervasi dalla nostalgia e da una palpabile speranza. Per loro il destriero dovrebbe invertire la marcia e considerarli nel suo raggio d’azione. In effetti, nel Trionfo della Morte di Palermo lo stupore e lo sdegno; la
consolazione e la cura; la nostalgia e la speranza sono così ben rappresentati da trasformare l’affresco in un’ampia soglia della apocalisse. Ne contiene tutti i significati disponendoli sulle pagine di una speciale enciclopedia frutto della narrazione di Tudeschi. Questa è stata trasformata, attraverso la finzione della pittura, in una speciale realtà senza tempo e il lavoro di scavo di Michele Cometa ha mutato i significati, in alcuni casi reconditi, della pittura in letteratura. Molto è stato scritto, precisato, definito, l’autore dell’affresco resta ignoto ma il suo messaggio, grazie a Cometa, è stato svelato, approfondito dopo essere stato sapientemente decriptato [Cfr. L. De Libero, Il Trionfo della Morte. Galleria Nazionale della Sicilia, Flaccovio, Palermo 1958; M.G. Paolini, Il “Trionfo”, oggi in V. Abbate, M. Cordaro (a cura di), Il “Trionfo della morte” di Palermo. L’opera, le vicende conservative, il restauro, Sellerio, Palermo 1989; E. De Castro, Il Trionfo della morte e la “dissidenza radicale” della cultura figurativa a Palermo e nella Sicilia orientale intorno alla metà del Quattrocento, in M.A. Malleo (a cura di), Antonello e la pittura del Quattrocento nell’Europa mediterranea, Kalós, Palermo 2006]. E l’architettura? L’architettura è tutto: l’affresco prende corpo in uno spazio, quello della finzione pittorica, governato dalla geometria, in un luogo ben definito – un hortus conclusus – ma in realtà, come si è visto, senza limiti. Forse per questo Carlo Scarpa, nella nuova collocazione prescelta per l’affresco, lo immerge in una luce zenitale diffusa e, soprattutto, offre al visitatore due differenti punti di vista: dal basso e dall’alto. Il primo si presta a coglie-
re il ragionamento, facendo però appartenere il visitatore alla catasta dei morenti; quello dall’alto, sposta in modo radicale il punto di vista e mette l’osservatore in una posizione più distante e quindi apparentemente più sicura. Allontanandosi dal gruppo dei trafitti, ci si sente più simili alle figure in prossimità della fontana; abbastanza lontane da non temere di essere coinvolte. Questo sentimento rassicurante, uno stupore compiaciuto, cambia radicalmente se ci si approssima al bordo della doppia altezza dove, sino a non molto tempo addietro, un’elegante corda di canapa segnalava in modo preciso ma discreto la presenza del vuoto, lasciando, però, una continui tà spaziale assoluta. Su quel bordo, lo stupore diventava paura e il Trionfo della Morte mostrava il suo volto più vero perché la vertigine causata dal vuoto, rimetteva in moto il tempo, consentendo alle frecce di terminare il loro compito. Respice finem. A. S. F. Zanella (a cura di), Ettore Sottsass. Catalogo ragionato del l’archivio 1922-1978 CSAC / Università di Parma, Silvana Editoriale, Milano 2017. Tra le varie manifestazioni culturali organizzate su scala nazionale ed internazionale per celebrare il centenario della nascita di Ettore Sottsass jr., il progetto espositivo ed editoriale realizzato dal Centro Studi e Archivio della Comunicazione (CSAC) dell’Università di Parma risulta di grande rilievo per il suo valore documentale e per la vasta opera di diffusione che ne consegue. Il volume, curato da Francesca Zanella e pubblicato in occasione
della mostra intitolata Ettore Sottsass. Oltre il design (18 novembre 2017 - 8 aprile 2018) allestita presso l’Abbazia di Valserena, costituisce l’esisto di un importante lavoro di analisi e catalogazione del fondo donato allo CSAC di Parma dallo stesso Sottsass nel 1979, contenente circa 14.000 materiali progettuali (tra cui schizzi, bozzetti e disegni) e 24 sculture. Un’opera, quindi, di sistematizzazione e ricostruzione volta ad approfondire e, in certi casi, colmare alcuni passaggi della biografia personale e professionale di Ettore Sottsass, in forza di «una inusuale e meticolosa registrazione della propria vita e del proprio lavoro» contraddistinta dall’uso di uno strumento privilegiato: il disegno. Quest’ultimo, come osserva il presidente del comitato scientifico dello CSAC Jeffrey Schnapp, sarebbe rimasto, per Sottsass, per tutta la sua carriera, il laboratorio in cui sviluppare e testare idee con ogni possibile mezzo: dalle ceramiche ai sistemi di arredamento, dagli oggetti casalinghi alle macchine per scrivere, agli edifici, ai paesaggi urbani e naturali. Il risultato, oltre alla mostra sopra citata in cui sono esposte 700 opere selezionate tra quelle dell’archivio, è, per usare le parole della curatrice del volume nonché presidente dello CSAC, un catalogo, quello strumento fondamentale che consente l’accesso ai materiali attraverso una puntuale analisi dei documenti e la loro trascrizione e descrizione. Uno strumento quanto mai necessario, da leggere in stretta relazione con gli scritti dello stesso Sottsass, per cercare di afferrare il significato autentico di quel vastissimo mondo di «segni, immagini e parole» generato dalla creatività debordante di una delle figure
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più poliedriche del panorama architettonico italiano del novecento. La scrittura, come il segno, rappresenta un momento decisivo nella progettazione di Sottsass. […] Sottsass ha scritto per tutta la vita almeno quanto ha disegnato. A conferma di questo inscindibile binomio messo in luce nel saggio di Simona Riva, presente nel catalogo, è utile riportare un passo scritto da Sottsass nel 2007 per comprendere l’importanza dell’esperienza visiva come modo di conoscenza: naturalmente si pensa che la scrittura abbia a che fare con la parola, ma per me la parola è soprattutto un’immagine. Le lettere sono figure. Io cerco di scrivere in modo che la scrittura sia come un pezzo d’arte, che l’immagine della scrittura comunichi già un modo di pensare. Venendo alla struttura del volume, esso risulta composto di due parti: la prima, costituita da dieci saggi redatti da altrettanti studiosi e professori d’architettura, rappresenta una introduzione al vero e proprio catalogo ragionato e costituisce una rilettura storica del personaggio operata, a partire dal materiale d’archivio, attraversando i vari ambiti progettuali (arti visive, architettura, progetto degli interni e di allestimento, design) sperimentati dall’architetto-designer; la seconda parte, come già accennato, dà forma all’imponente opera di catalogazione del fondo Sottsass (1922-1978) attraverso una sistematica riorganizzazione e la conseguente schedatura del materiale d’archivio attuata accompagnando alle illustrazioni le voci descrittive primarie ricavate dai documenti di progetto e delle più estese descrizioni relative alle opere più significative. Le schede catalografiche sono organizzate in sezio-
ni cronologiche definite in modo tale da restituire alcune fasi significative della biografia e della ricerca di Sottsass: gli anni degli studi al Politecnico e della guerra, l’immediato secondo dopoguerra sino alla partecipazione alla VIII Triennale sino al 1947, le ricerche precedenti il viaggio in America (1956), le collaborazioni con l’industria, infine il confronto con la cultura Beat e con le ricerche radicali. Pertanto, come emerge dalla breve descrizione in merito alla struttura del volume, esso si caratterizza per una duplice valenza: da un lato, infatti, la più ampia sezione dedicata al catalogo ragionato esprime il suo carattere precipuo nel valore documentale e la sua utilità nel costituire un importante punto di partenza per riletture e ricerche future; dall’altro, la sezione saggistica, oltre a rappresentare l’avvio delle suddette ricerche, costituisce un nucleo di analisi che, nonostante l’eterogeneità degli argomenti trattati – diretta conseguenza della molteplicità degli interessi del Nostro –, riesce a ridimensionare la complessa e variegata vicenda progettuale di Sottsass entro una sfera concettuale più compatta, attraverso l’enucleazione di significativi punti di riferimento. Prima di esporre alcuni di questi punti-chiave condivisi nell’ambito delle diverse letture presenti all’interno del catalogo, è opportuno inscrivere la figura professionale di Sottsass entro i margini di quella crisi di identità che determina la contestazione al movimento moderno e ai suoi principi per scardinarlo attraverso una de-strutturazione del linguaggio e formarne uno nuovo, in linea con il contesto culturale. Sullo sfondo di una tale crisi, appare evidente che la risposta
del Nostro, sostanziata principalmente nella sua posizione di eccentricità rispetto ai sistemi accademici e nel rifiuto di ogni adesione fideistica a teorie e movimenti programmatici, concorra verso la definizione di un atteggiamento culturale che fa di Sottsass un vero e proprio precursore, anticipando e alimentando le problematiche delle neoavanguardie degli anni sessanta e settanta nell’arte, nell’architettura e nel design, dal Radical al Controdesign, dal Concettuale fino al Postmoderno. Tra i principali temi che segnano la parabola progettuale del Nostro è possibile annoverare quella instancabile ricerca di una autonomia linguistica basata sull’interpretazione eteronoma dei linguaggi artistici, inseguita attraverso una progettazione costante operata nei diversi ambiti disciplinari, per sperimentare linguaggi, modi di costruire spazi e di conformare oggetti, secondo una trasversalità che rappresenta una delle sue caratteristiche più peculiari. Una tematica, quella della trasversalità, che emerge con forza non solo dai saggi presi in esame, ma dagli stessi scritti di Sottsass in un’accezione più concettuale che operativa: sotto la pressione ho fatto il disegno della prima Elea. Che però era un disegno di architettura in realta […] l’oggetto era nel luogo, ma provocava il luogo, diciamo così. E ancora, in merito al settore della ceramica, essa è fatta per stare in uno spazio e per determinarlo. Il tutto sullo sfondo di una più generale ricerca di carattere antropologico, altra tematica fondamen-
tale presente nella maggior parte dei saggi inclusi nel catalogo in riferimento alle diverse applicazioni progettuali, volta all’indagine del senso più profondo dell’abitare. Tali questioni sono affrontate in maniera specifica nel bel saggio di Francesca Zanella che suggerisce due importanti linee guida da tener presenti nella rilettura dell’archivio: l’elaborazione di un linguaggio, di sistemi di segni estesi ai vari ambiti della ricerca visiva e spaziale, e una riflessione sul ruolo dell’immagine e del mito che affonda nella storia dell’uomo. A voler individuare alcuni dei termini invarianti che attraversano le diverse ricerche che compongono la sezione saggistica, questi possono essere rintracciati nello svincolamento della figura di Ettore Sottsass da ogni etichetta storiografica e da ogni attribuzione stilistica, alla ricerca della propria cifra linguistica; nell’importanza del viaggio, segnatamente quello negli Stati Uniti d’America e quello in India, come momento fondamentale di formazione professionale e di ampliamento degli orizzonti artistici; in ultimo, nella volontà di ricondurre una produzione artistica così variegata verso delle tematiche concettuali, emerse anche dagli scritti del Nostro, capaci di restituire una visione unitaria e coerente dell’azione progettuale, pur riconoscendo alcune contraddizioni tipicamente postmoderne come il binomio mercatocontrocultura messo in luce nel breve saggio di Emanuele Piccardo. A. T.
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Sommario dei fascicoli pubblicati
N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137. Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138. Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 139. Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
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N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI N. 152. Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre N. 153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazione Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre N. 154. Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione - Ancora sul rapporto tra arte e pubblico - Design: scenari morfologici della contemporaneità - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 155. Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia - Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo - Della omologazione in architettura - Arti visive: da zona franca a fronte comune - È del designer il fin la meraviglia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 156. Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» - Modern/post: un territorio in-between - «Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradig-
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ma espositivo - Moda: sistema e processi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Campania N. 157. Editoriale - Una “ipostasi” della forma-tatuaggio - Aspetti e intenti del graffitismo d’oggi - Lebenswelt e architettura - Design vs Lebenswelt Libri, riviste e mostre N. 158. Architettura e qualità nell’età dei concorsi - La nostalgia nella cultura digitale - Conformazione e trasformazione degli spazi interni - La ricerca di una definizione di design - Libri, riviste e mostre N. 159. «Corporea» alla Città della scienza di Napoli - Mono-ha nel contesto globale. Poetiche e culture a confronto - Distruzioni e ricostruzioni a Berlino - Il tempo del tipo nello spazio del design - Libri, riviste e mostre N. 160. Il mestiere di architetto: prospettive per il futuro - Téchne e progetto d’architettura - Riflessioni sulla 57ª Biennale di Venezia e Documenta 14 a Kassel - Didattica e design, dal learning by doing al learning by design - La rivista «October»: temi e nuclei teorici - Libri, riviste e mostre
Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998 «Grafica Elettronica» - Via Bernardo Cavallino, 35/g - 80128 Napoli
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