Op.cit. 162

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maggio 2018

numero 162

Il BIM. Un parere in evoluzione - Bruno Zevi e lo spazialismo architettonico - Semantiche del sublime architettonico - Brecht nostro contemporaneo - Il dono e l’arte, la festa e la dépense ai tempi di internet - Il “nuovo” nel modello Design-Oriented Handmade in Italy - Libri, riviste e mostre



Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea

Direttore: Renato De Fusco Comitato scientifico Philippe Daverio Kenneth Frampton Giuseppe Galasso Vittorio Gregotti Juan Miguel Hernández León Aldo Masullo Vanni Pasca Franco Purini Joseph Rykwert

Comitato redazionale Roberta Amirante Pasquale Belfiore Alessandro Castagnaro Imma Forino Francesca Rinaldi Livio Sacchi Alberto Terminio Segretaria di redazione Emma Labruna

Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 info: +39 081 7690783 - fax: +39 081 7705654 e-mail: rendefus@unina.it - elabruna@unina.it Amministrazione: 80128 Napoli, Via B. Cavallino, 35/G info: +39 081 5595114 - +39 081 5597681 e-mail: info@graficaelettronica.it Abbonamento annuale: Italia e 50,00 - Estero e 70,00 Un fascicolo separato: Italia e 18,00 - Estero e 25,00 Un fascicolo arretrato: Italia e 20,00 - Estero e 27,00 Grafica Elettronica


Il BIM. Un parere in evoluzione A. Castagnaro Bruno Zevi e lo spazialismo architettonico G. Contessi Semantiche del sublime architettonico C. Fiorillo Brecht nostro contemporaneo O. Scotto Di Vettimo Il dono e l’arte, la festa e la dépense ai tempi di internet M.A. Sbordone Il “nuovo” nel modello Design-Oriented C. Gambardella Handmade in Italy Libri, riviste e mostre F. Purini

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Pasquale Belfiore, Marcella Camponogara, Olga Izzo, Irene Pasina, Paolo Rizzoli, Dario Russo, Alberto Terminio.

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Il BIM. Un parere in evoluzione FRANCO PURINI

La situazione attuale dell’architettura, sia sul piano locale sia su quello globale, è quanto mai multiforme. Se fino a un paio di decenni fa era infatti possibile identificare un numero ristretto di orientamenti disciplinari oggi è quasi impossibile redigere un elenco completo delle tendenze che si confrontano nella ricerca teorica, nella progettazione e nella realizzazione delle opere. Agli ultimi esiti di un decostruttivismo che ha generato più varianti all’archiscultura di cui ha scritto Germano Celant; dai cultori dell’involucro ai fautori di un’architettura ambientale; dai sostenitori dall’high tech ai profeti di un paesaggismo sempre più pervasivo, che ha assorbito di fatto i concetti di territorio, di città e di edificio; da coloro che credono nel design come esito di un corto circuito tra media, moda e installazioni a chi immagina e a volte dà vita a visioni neoutopistiche, tanto per citare solo alcune di queste correnti di pensiero, si assiste a un dispiegamento sempre più vasto di ipotesi progettuali. Tali ipotesi sono inoltre contraddistinte da un forte specialismo che nella sua esclusività impedisce ad esse di confrontarsi con altri punti di vista. Ciò che è stato sinteticamente descritto è una specie di labirinto che si sta estendendo sempre di più, rendendo, come si è già detto, impossibile individuare con la necessaria oggettività alcune problematiche attorno alle quali radunare alcune di queste tendenze. Per di più la critica architettonica di questi ultimi anni non aiuta gli architetti a pensare e ad agire in modo logicamente chiaro, avendo rinunciato a formulare metodi di indagine e trasparenti idee inter-

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pretative per farsi semplice informazione o, nel peggiore dei casi, una forma di pubblicità nella quale la propaganda si associa all’assenza totale di un confronto con altre posizioni e con altre architetture.

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In realtà, a un esame più approfondito, emerge qualcosa che unifica gran parte degli orientamenti ai quali si è fatto cenno. Si tratta di un neofunzionalismo, che per qualche ragione incomprensibile, non viene chiamato con il suo nome anche se è il vero contenuto della quasi totalità dell’architettura di questo periodo. Un neofunzionalismo che esalta soprattutto gli aspetti tecnici dell’architettura, dal suo concepimento al progetto e alla realizzazione. È indiscutibile che rispetto ad altre attività umane quella architettonica trovi nella dimensione dell’uso una componente molto importante, sebbene essa non sia solo sua. Spesso si considera l’arte figurativa priva di una vera e propria funzione ma in realtà anch’essa altri linguaggi, compresi quello poetico, filmico, teatrale esprime una sua concreta necessità certamente inferiore a quella del costruire ma senz’altro capace di influenzare le opere relative a questi generi linguistici solo apparentemente più liberi. Il risultato più consistente della proliferazione di orientamenti sotto il segno del funzionalismo è l’abbandono dell’idea che l’architettura abbia un senso il quale, trascendendo quelli tecnicocostruttivi, affermi una serie di valori umani che si situano nello spazio tematico, ma in prima istanza spirituale, dell’abitare. Uno spazio che comprende la bellezza non tanto come una delle tre componenti della ratio architettonica, secondo la visione pratica di Vitruvio, ma come, ripensando alle opere di Le Corbusier e di Mies van der Rohe, compimento dell’architettura stessa. Una bellezza nella quale la memoria dell’abitare e delle vite che in esso si sono svolte è il lievito del futuro, l’energia narrativo-rappresentativa che fa dell’architettura non tanto un utensile ben fatto, ma un’opera d’arte che rinvia a quanto Edoardo Persico aveva intuito e detto alla fine delle sua conferenza a Torino nel 1935, Profezia dell’architettura. Mettendo in relazione l’architettura con la fede, attraverso San Paolo e Dante, il più importante critico del Novecento aveva stabilito una corrispondenza operante tra il costruire e la necessità che questa azione si fondasse su alcune


certezze superiori, in grado di conferire ad essa una verità duratura. Da ciò la dimensione umana e culturalmente umanistica dell’architettura, il suo essere un’arte come la pittura, la scultura, la musica, alla quale è stata da molti accostata, la poesia, la letteratura, la danza, il teatro. Che l’architettura sia pienamente un’arte è una convinzione avversata dal Novecento a oggi da non pochi teorici, critici, nonché da un numero costante di architetti. Oggi prevale l’idea che un edificio, ma anche una città siano utensili che debbono essere prima di tutto funzionali, costruiti in modo sicuro, ben inseriti nell’ambiente, accoglienti ed esteticamente gradevoli. Tutto ciò è importante ma non basta a fare dell’architettura un elemento veramente vitale dell’abitare. Occorre che in essa circolino contraddizioni, conflitti, armonie, c’è bisogno che un edificio crei un luogo ma al contempo sappia separarsi da questo per divenire universale. Non è forse necessario dire che nella modernità, ovviamente, l’architettura è stata arte in modo diverso da come lo era stata fino a metà dell’Ottocento. Il Romanticismo aveva introdotto nell’idea di bellezza alcuni elementi del suo contrario come la disarmonia, l’eccesso e anche il deforme, in una drammatizzazione iconografica nel quale il pittoresco e il sublime si fondevano. Inoltre dalle avanguardie in poi la bellezza non si presentò più come qualcosa di statico, di retorico e di impositivo, ma al contrario come processuale, una bellezza apprezzata dinamicamente nel movimento, che ad esempio nelle opere di Le Corbusier si svolgeva lungo la promenade architecturale, una processualità definita attraverso il montaggio di elementi iscritti in una visione analitica dell’opera. Nonostante queste mutazioni l’idea di bellezza si è conservata nella modernità, seppure passata spesso dalla forma all’informe, studiato da Rosalind Krauss, in opere che spesso possiedono la stessa complessità tematica dei capolavori del passato. Tuttavia, nonostante quanto si è appena affermato, in un universo culturale come quello globale, sempre più relativistico, legato al consumo e alla comunicazione, ampiamente materiale nel senso più rigorosamente marxiano del termine, la bellezza dell’architettura come espressione non tanto e non solo del suo tempo, ma, superando questo, della continuità-discontinuità

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dell’abitare o, se si preferisce della discontinuità-continua dello stesso, è molto spesso rifiutata a favore di una sua concezione utilitaristica, propagandistica e performante. La bellezza non è più, come pensava Stendhal, una promessa di felicità, ma al massimo una manifestazione del gusto corrente, l’affermazione di valori estetici non intrinseci ma esterni ad essa, di attributi superficiali come l’eleganza, la coerenza della scrittura formale, una certa sprezzatura; insomma intesa come un modo appropriato di espressione sociale invece è che come un prezioso momento del comporre. Il bello non è che il tremendo al suo inizio di Rainer Maria Rilke è una sentenza profonda oggi dimenticata, così come l’intuizione di Sigmund Freud che ogni città – oltre Roma, dalla quale parte la riflessione del padre della psicoanalisi contenuta nel libro Il disagio della civiltà – è un’entità psichica, vale a dire che possiede un’anima, una volontà, desideri e ricordi. In breve oggi la bellezza dell’architettura non riguarda più il senso dell’abitare, le istituzioni umane – il tema centrale di Louis Kahn – la durata, l’unione tra la corrispondenza logica delle parti di un’opera e insieme il loro silenzioso conflitto, la simbiosi poetica tra spazio e tettonica, su cui Kenneth Frampton ha scritto parole importanti, il rapporto organico con un sito che si fa luogo.

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È necessario, prima di continuare il percorso negli aspetti salienti della ricerca progettuale di questi anni, dire qualcosa su come la globalizzazione è concepita. È possibile riconoscere in questo ambito tre modalità. La prima si configura come una sorta di esperanto consistente nel proporre scritture architettoniche composte da frammenti di espressioni linguistiche diverse. A riferimenti dell’architettura nordamericana si aggiungono ad esempio echi dell’high tech inglese, un certo rigorismo tedesco e una velatura di grazia formale tutta italiana. La seconda modalità si riconosce nella scelta di alcuni architetti – si pensi a Mario Botta o a Daniel Libeskind – di non tener conto di dove si costruisce ma di ripetere in ogni condizione urbana, fosse anche la più remota, lo stesso codice espressivo. Infine la terza modalità, quella che appare più efficace, è rendere globale ciò che è locale, rifiutando l’ambiguità della mediazione sintetizzata dalla parola


glocal per affermare il valore della singolarità di una cultura architettonica che sia capace di essere, nell’esprimere i propri contenuti, nello stesso tempo individuale e collettiva. Il problema è infatti non tanto quello di cercare una mescolanza o una sintesi tra diverse espressioni architettoniche quanto di difendere in altri contesti una forma architettonica dotata di un forte radicamento nel suo luogo. Per l’estensore di queste note solo questa terza modalità è in grado di rispondere architettonicamente alla sfida della globalizzazione. Per inciso va riconosciuto che, mentre si temeva che la stessa globalizzazione avesse come conseguenza una crescente omologazione dei paesaggi e delle città è successo invece il contrario. Nonostante la diffusione di quello che è stato appena definito l’esperanto architettonico, nonché di risposte esclusivamente individuali a questioni specifiche, le conurbazioni urbane come le attuali megalopoli e i loro territori si sono identificate sempre di più modificando le loro differenze invece di diminuirle. Tra Londra, l’unica vera città globale europea e Shanghai, tanto per limitarsi a due esempi, nonostante la presenza in entrambe delle stesse tipologie architettoniche e il medesimo genere di infrastrutture, le differenze sono cresciute esponenzialmente negli ultimi trent’anni. Nel quadro descritto, gli unici elementi che si ritrovano in quasi tutti i contesti globali sono la cancellazione del rapporto tra architetture e luoghi, la prevalenza dell’high tech, la generalizzazione della questione della sostenibilità e una tendenza, piuttosto ambigua, alla rinaturalizzazione degli insediamenti urbani. La città globale è infatti atopica in modo radicale, nel senso che le sue architetture sono considerate più come oggetti ingigantiti di industrial design o sculture fuori scala che come individui formali chiamati a tessere un dialogo vitale con le preesistenze in vista della creazione di narrazioni collettive che mettano in relazione le memorie urbane con il futuro. Al contempo l’high tech è diventata la forma più consueta dello stesso futuro, con la spiacevole conseguenza che, dopo un certo tempo, una novità costruttiva diventa tanto più obsoleta quanto più è ricercata ed esibita. Per quanto riguarda la sostenibilità si può senz’altro affermare che essa, al di là della sua necessità, è divenuta oggi più uno stile che

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una serie di soluzioni riguardanti la questione ambientale. Inoltre l’idea di smart city – che per inciso non significa tanto città intelligente quanto città dalle prestazioni efficienti, legate soprattutto al consumo, rinviando in effetti più a Mercurio e alle sue abilità nei commerci che a Minerva, dea della sapienza – apre sicuramente prospettive operative di notevole interesse per ciò che riguarda le prestazioni utilitarie ma non dice cose importanti per ciò che riguarda l’organismo urbano come testo molteplice, multiforme, conflittuale e insieme concorde, luogo narrativo, fonte di una mitologia che alimenta in profondità l’abitare in tutte le sue dimensioni. Per ciò che concerne gli aspetti ambientali, anche essi ovviamente di notevole rilievo, va messo in evidenza ad esempio che le varie ipotesi di rinaturalizzazione della città vivono una interessante contraddizione in quanto accettano la sua crescente artificializzazione, la sua sempre maggiore estensione e una complessità al limite delle possibilità di essere gestita. In un significativo contrasto logico la soluzione è cercata nell’inserimento di una natura per più versi neutralizzata, più usata entro limiti precisi che accettata nella sua autenticità, che, come è noto, può essere rischiosa. L’architettura, e successivamente le città, sono nate per difendersi dai pericoli di una natura che è ostile all’essere umano, il quale non sarebbe certo sopravvissuto senza qualcosa che lo mettesse al riparo dagli inconvenienti anche molto gravi e a volte irrimediabili che provengono dalle condizioni ambientali e climatiche. Il racconto vitruviano della nascita dell’architettura è da questo punto di vista straordinariamente chiaro. Chi scrive ritiene che di queste categorie che sovrintendono l’architettura contemporanea – senza dimenticarne un’altra, altrettanto discutibile, ovvero la crisi, che sembra irreversibile, del progetto urbano – la più discutibile sia la prima, ovvero la cancellazione dei luoghi a favore di uno spazio urbano atopico. A fronte di questa scelta, che sembra condivisa dalla maggioranza degli architetti, anche da coloro che qualche anno fa l’avrebbero esclusa, anche i non luoghi di Marc Augé sembrano portatori di un rilevante valore positivo. Va anche detto che la rinaturalizzazione si associa spesso alla rigenerazione urbana, vale a dire alla riformulazione/revisione delle pratiche di ristrutturazione di cui si parlava qualche anno addietro, una rigenerazione ispirata tra


l’altro al nuovo paradigma della resilienza, il tutto all’interno del già citato paesaggismo. L’emergere del neofunzionalismo, suddiviso in molte voci, tra le quali quelle che sono state sinteticamente esposte, ha gettato la sua ombra su un altro aspetto fondamentale dell’architettura, un aspetto presente fino a due decenni fa in ogni sua stagione. Si tratta dell’impronta dell’origine che vive in qualsiasi edificio come una specie di termine di confronto che misura l’evoluzione tipologica, costruttiva e formale del costruire. Pensare l’origine dell’architettura, nonostante Vitruvio e molti altri trattatisti, è pressoché impossibile, ma è proprio questa impossibilità che apre alla mente percorsi conoscitivi e immaginativi necessari a dare all’attività progettuale e costruttiva un efficace fondamento. Si potrebbe anche dire che è proprio l’impossibilità di vedere concettualmente il momento nativo dell’architettura che fa nascere, per una sorta di opposizione logica, la grammatica generativa del comporre, quel sistema di segni elementari, teorizzato da Noam Chomsky, attivo anche nell’architettura. L’origine precede lo spazio e il tempo ma nello stesso tempo li produce. Si tratta di un paradosso apparente, in quanto queste due entità non sono presenti nell’architettura di per sé, ma solo quando sono coscientemente evocati dall’architetto come principi teorico-operativi e al contempo come risultati del processo progettuale. In definitiva la perdita dell’idea di origine come ambito nativo di un’architettura contribuisce, assieme a quella sottovalutazione della sua bellezza che è stata prima ricordata, a negare all’edificio, ma anche al paesaggio e alla città, il loro senso più vero e duraturo. Sul paesaggio c’è bisogno di soffermarsi per qualche considerazione ulteriore. Si è già detto che il paesaggio ha espropriato, per così dire, il territorio, la città e l’edificio attraverso una totalizzazione del suo significato e del suo ruolo. Questa estremizzazione non è un fatto recente, essendo già presente nella famosa definizione dell’architettura che William Morris aveva proposto. In realtà il paesaggio, nella sua estensione, viene modificato dagli esseri umani non attraverso una precisa intenzionalità architettonica espressa in un progetto. Le azioni esercitate sul paesag-

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gio sono di matrice agricola, così come i percorsi che lo attraversano sono in gran parte – come hanno spiegato magistralmente, tra alcuni altri, Saverio Muratori e Gianfranco Caniggia – dovuti ai caratteri orografici e agli effetti su questi degli eventi climatici. Il paesaggio può accogliere modifiche parziali che sono architettura – si pensi alle città, ai parchi e ai giardini – così come alcune infrastrutture dotate di una scala geografica come strade, acquedotti, ponti e canali artificiali, il tutto in una tessitura, dal grande valore figurativo, delle coltivazioni. In questi casi è probabilmente più appropriato parlare di architetture nel paesaggio invece che architetture del paesaggio, tenendo presente che è l’architettura, intesa nel suo senso più completo, che rivela il paesaggio a se stesso umanizzandolo, conferendo ad esso una misura riconoscibile, tracciando nella sua orografia, che va dal piano a configurazioni scultoree, confini reali e virtuali capaci di differenziarlo. In questo modo esso può passare da un’estensione illimitata a un sistema di aree diverse riunite in un mosaico plastico e cromatico di grande suggestione. Un paesaggio che è dominato dal costruire o dà l’impressione di esserlo, come a Versailles o a Caserta, interventi nei quali l’impianto geometrico sembra assoggettare la scena naturale, sebbene la vastità di questa sia invincibile. Come in alcune architetture di Frank Lloyd Wright, un edificio può anche imitare, seppure in modo traslato, un certo intorno paesaggistico, ma in tale mimesi c’è sempre una componente oppositiva, una resistenza dell’architettura a identificarsi totalmente con il luogo nel momento stesso in cui essa ha un ruolo primario nel crearlo.

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Una questione che si è posta con una certa regolarità nella storia dell’architettura riguarda la relazione con la tecnica, da quella relativa alla modalità della progettazione a quelle della costruzione. Un punto di vista considera la tecnica un apparato di strumenti che serve alla realizzazione di un’idea ma che di per sé non ha una reale incidenza sul risultato finale. A questa concezione si oppone un’altra per la quale, anche se resta un insieme strumentale, la tecnica entra in parte o in una percentuale maggiore nella determinazione della qualità dell’architettura. Nell’architettura moderna e contemporanea questa seconda interpretazione è


prevalsa. La cultura del Novecento – si pensi ad esempio a Martin Heidegger e a Romano Guardini con il suo libro Lettere dal Lago di Como. Sulla tecnica e l’uomo – è profondamente pervasa da questo tema, che si è nutrito, dal Futurismo alle tesi di Sigfried Giedion e di Reyner Banham, anche di mitologie macchiniste. L’high tech è la rappresentazione più evidente di questa centralità della tecnica, che negli ultimi anni si è fatta sempre più dominante, soprattutto a partire dalla rivoluzione digitale. È corretto pensare che per un verso la tecnica sia uno strumento che può avere un semplice ma necessario ruolo di servizio al pensiero dell’architetto, ma è anche lecito affermare che la tecnica non è e non può essere del tutto estranea al contenuto di un’opera. In questo senso essa non è più uno strumento ma un materiale dell’architettura, nel senso che Vittorio Gregotti ha dato di quel termine. Un materiale che entra nella progettazione di un’opera architettonica non solo per quanto riguarda la sua costruzione, ma più in generale nelle modalità molteplici e complesse con le quali essa è concepita in quanto immagine e programma organizzativo della sua definizione ed espressione individuale dell’abitare. Ovviamente l’influenza della tecnica nell’immaginazione e nella definizione di un’architettura deve essere coscientemente contenuta. Inoltre va ancora una volta ricordato che un’opera architettonica, se testimonia il tempo in cui è stata concepita, deve anche e soprattutto oltrepassare questa datazione per conquistare una attualità in ogni sua stagione, vale a dire una durata sovrastorica, come è accaduto alla opere di Palladio e probabilmente accadrà a quelle di Mies van der Rohe. Ciò non riguarda solo l’architettura, ma qualsiasi opera che abbia qualcosa a che fare con l’arte come una poesia, un romanzo, un quadro, un film, una composizione musicale, un balletto, una commedia o una tragedia. La rivoluzione digitale ha avuto e continua ad avere un ruolo molto importante nel quadro che si è cercato di tracciare. All’inizio il disegno elettronico fu visto come un modo più esatto e rapido di rappresentare in tutte le sue fasi un processo progettuale, eliminando alcuni limiti artigianali del disegno manuale. Il disegno elettronico consentiva tra l’altro di intervenire sugli elaborati in modo molto più efficiente rispetto al lavoro grafico tradizio-

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nale. Con le avanzate teorizzazioni di William J. Mitchell, soprattutto nel suo lavoro ad Harward, viene compiuto un salto di scala concettuale. Il digitale si organizza come un sistema complesso che comincia ad avere un ruolo anche nell’immaginazione dell’architettura, ponendosi come un territorio conoscitivo estremamente esteso, che consente all’architetto di disporre di una serie vastissima di dati. Al contempo tali dati si organizzano progressivamente in blocchi conoscitivi interconnessi i quali, mentre sintetizzano scelte progettuali significative, dialogano con altri ambiti problematici dando vita a una nuova forma dei precedenti manuali d’architettura. L’approdo teorico-operativo del processo di estensione del digitale, da sostituto efficiente del disegno tradizionale, rappresentato dal programma CAD (Computer Aided Design) al BIM (Building Information Modeling), ha avuto come conseguenza la produzione di una modalità progettuale consistente nell’uso di una rappresentazione digitale condivisa della costruzione di oggetti come edifici, ponti, strade, per rendere più agevole ed esatta la realizzazione di tali opere, con una particolare attenzione alla loro gestione del tempo. L’acronimo BIM, risalente al 1987, ha conosciuto una crescente diffusione internazionale a partire dagli studi di Jerry Laiserin dei primi anni del nuovo secolo, entrando progressivamente nella legislazione sul settore delle costruzioni in diversi paesi, compresi tra questi alcuni stati della Unione Europea. Anche in Italia l’adozione di questo sistema interattivo di conoscenze sarà reso presto obbligatorio. A proposito dell’influenza del calcolo elettronico nella cultura architettonica italiana è utile ricordare tra alcune altre, esperienze anticipatrici come l’architettura parametrica di Luigi Moretti; le ricerche di Maurizio Sacripanti sia sulla figuratività delle antiche schede perforate dei primi calcolatori sia sul movimento di particolari elementi dell’edificio governato dal computer in accordo con gli esperimenti dell’arte cinetica; le proposte che Ludovico Quaroni formulò assieme a Salvatore Dierna nel suo progetto per l’Università di Firenze del 1971.

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L’opinione che chi scrive ha di questo procedimento progettuale è positiva – soprattutto perché dà la possibilità di vedere il risultato delle scelte nella loro interezza e in una significativa


proiezione nella vita del futuro manufatto – sebbene con qualche avvertenza. Negli scritti di Carlo Ratti, ad esempio, le tecniche progettuali sostenute dal digitale sono presentate come preziose occasioni di una vera e propria rifondazione dell’architettura. Questa posizione non sembra si possa condividere. Le considerazioni su questo argomento esposte recentemente da Livio Sacchi su questa stessa rivista contengono indicazioni adeguate su questo argomento. Si è già detto che non è possibile considerare uno strumento tecnico indifferente al risultato, come veniva sostenuto nell’ambito della concezione idealistica delle arti in Italia (in particolare quella crociana), e nelle sue propaggini, anche contemporanee, ma la sua influenza sulla concezione, sullo sviluppo progettuale e sull’esecuzione di un’opera è, e deve essere, limitata. Deve esserlo perché l’architettura, contrariamente a quanto oggi si pensi da parte di quasi tutti gli architetti – si tratta di una posizione condivisa ad esempio anche da uno dei massimi protagonisti del dibattito contemporaneo come Rem Koolhaas – non può fondarsi principalmente su un avanzamento tecnologico delle modalità progettuali e costruttive ma in prima istanza su una visione complessiva del paesaggio, della città, dell’edificio capace di scaturire da un’analisi storica e da una interpretazione dei luoghi. Un’analisi e un’interpretazione che siano capaci di definire un campo tematico nel quale le inevitabili discontinuità nei confronti delle strutture insediative si confrontano con la continuità ideale e fisica delle strutture stesse. Uno dei compiti più importanti e urgenti dell’architetto è oggi quello di riconquistare uno sguardo generale o generalista, come si preferisce dire oggi, che non può però prescindere dalla consolidata presenza degli specialismi. Se fino a qualche decennio addietro si scendeva dal generale al particolare attualmente è necessario fare il percorso inverso, ovvero risalire dalla settorializzazione della conoscenza a una sua ricomposizione. Il fine di questa operazione è quello di concepire opere che siano per un verso una conseguenza dei contesti nei quali sorgeranno, per l’altro introducano in essi enzimi trasformativi compatibili con il loro carattere. Questa nuova circolarità conoscitiva e operante, che deve mettere di nuovo l’architetto di fronte all’unità fisica e culturale dell’abitare, non può essere prodotta dal digitale. Occorre riscoprire gli studi urbani, 15


per ripensare la relazione essenziale dal punto di vista della comunità tra il territorio-paesaggio, la città e l’architettura; la tipologia degli edifici, oggi incomprensibilmente scomparsa; le strutture compositive in quanto promessa di un linguaggio architettonico che non sia casuale e precario com’è, quasi sempre, da qualche decennio. Bisogna fare in modo che la frammentazione delle tendenze, l’egemonia del neofunzionalismo, il conseguente eclettismo, sotto la copertura spesso opportunistica di un ambientalismo più stilistico che reale, sia progressivamente corretta al fine di ricondurre il progetto a una attività di ricerca su temi essenziali, che non sono troppo numerosi e non sono un assecondamento delle mode. Gli strumenti digitali, compreso il BIM, possono senza dubbio entrare in questo quadro, ma solo se non si dimentica il fine primo dell’architettura, ovvero l’esprimere tramite il suo fine secondo, il costruire, il senso dell’abitare in tutta la sua ampiezza e nell’emozionante mistero che da sempre lo accompagna.

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Bruno Zevi e lo spazialismo architettonico ALESSANDRO CASTAGNARO

Per ricordare Bruno Zevi (1918-2000) in occasione del centenario della sua nascita, si potessero trattare molteplici tematiche, tutte di grande interesse, visto il suo vasto ed eterogeneo campo di azione e i suoi differenti apporti in ambito architettonico, urbanistico, accademico, storiografico, politico e sociale. Molti di questi sono stati trattati e ricordati nelle diverse giornate di studio affrontate ed in corso di svolgimento in quest’anno1. Tra i tanti meriti, che danno ragione della sua importanza, è innanzitutto opportuno ricordare la fondazione nel 1945 dell’APAO (Associazione per l’architettura organica), la direzione dal 1955 della rivista «L’architettura. Cronache e storia», la promozione nel 1959 dell’IN/ARC (Istituto nazionale di architettura) e con esso la diffusione dei problemi attuali e sociali dell’architettura2. Il tema dello spazialismo ha rappresentato per Zevi una delle linea di ricerca tra le più importanti, sviluppata per un esteso arco temporale, che ha caratterizzato in maniera specifica il taglio storiografico dei suoi scritti. Ricordarlo su questa tematica ci sembra il modo migliore per attenerci al filone culturale promosso dalla rivista che ospita questo scritto. Un interesse che Zevi ha coltivato sin dai suoi primi studi negli Stati Uniti d’America, da studente della Columbia, quando, nel 1939, vi si trasferì per sfuggire alle leggi razziali dopo essere stato un anno a Londra alla Architectural Association e per un breve periodo a Parigi.

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Giunto ad Harvard, per laurearsi con Walter Gropius (18831969), lì si imbatte nel tema della spazialità del tutto rinnovata di Frank Lloyd Wright (1867-1959), le cui architetture erano contraddistinte da una dinamica che procedeva dall’interno verso l’esterno, con uno stretto rapporto tra invaso ed involucro, nel pieno rispetto dell’assunto che aveva fatto suo: fu Lao Tse il primo che io sappia, cinquecento anni prima di Cristo, a dichiarare che la realtà di un edificio non consiste in quattro pareti e nel tetto, ma nello spazio racchiuso, nello spazio entro cui si vive3. Inoltre va osservato che, unitamente all’importanza che la spazialità interna riveste quale elemento primario di organizzazione architettonica, nella poetica del maestro dell’architettura organica statunitense sono contemplati anche quei valori immateriali – che risalgono alla Raumgestaltung e, in particolare, alla scuola dei pensatori tedeschi e viennesi – di cui lo spazio dell’architettura si fa portatore: il valore simbolico del fuoco in posizione centrale, l’attenzione agli aspetti legati alla percezione degli ambienti, il valore della luce, il rapporto con il verde. Wright sosteneva che l’edificio non è più un blocco di materiali da costruzione da trattarsi artificialmente dal di fuori, al modo della scultura. L’ambiente interno, lo spazio entro cui si vive, è il grande fatto dell’edificio, l’ambiente che deve essere espresso all’esterno come spazio racchiuso4. A Bruno Zevi, con il suo primo libro Verso un’architettura organica, pubblicato da Einaudi nel 1945, appena ventisettenne, dobbiamo non solo lo sdoganamento di Wright in Italia, ma anche i primi segni di un forte legame con il concetto di spazialismo e con un nuovo modo di fare architettura, anticipato anche da Walter Curt Behrendt (1884-1945) con il suo Modern Building del 1937. Sul legame tra Zevi e l’architetto tedesco-americano, attivo sostenitore del modernismo tedesco, va richiamato il saggio di introduzione all’edizione italiana del libro appena citato, Il costruire Moderno, a cura di Roberta Amirante e Emanuele Carreri5, nel quale si ipotizza che Zevi, ancora studente alla Columbia, abbia assistito a una conferenza di Behrendt tenuta il 5 marzo del 1941 in quella Università, che avrebbe dato l’incipit al suo primo testo, appunto Verso un’architettura organica. Come sostenuto dagli autori: Zevi riecheggia il dualismo di Behrendt


tra Architecture e Building (ma anche – chissà – quello crociano poesia/non poesia) […]. Non gli è bastato neanche rileggerlo, lo ha copiato, studiato, chiosato, assimilato, recitato, predicato6. Ammesso che la tesi esposta dai due autori napoletani possa essere accettabile, condividiamo il pensiero di Renato De Fusco che nella prefazione allo stesso libro scrive: Sono certo che Amirante e Carreri, una volta operato il confronto “funzionale” al loro discorso, riconoscano che Zevi – visto tutto quanto ha prodotto dopo – con o senza l’autore tedesco ci avrebbe comunque insegnato molto, avrebbe in ogni caso fortemente contribuito alla nostra formazione7. Per comprendere le linee d’indagine perseguite da Zevi, va considerato l’apporto della Scuola di Vienna e dei pensatori tedeschi – che fanno capo a personaggi come Ernst Gombrich (19092001), Alois Riegl (1858-1905), Heinrich Wölfflin (1864-1945), August Schmarsow (1853-1936) e Robert Vischer (1847-1933), tutti legati al tema della Raumgestaltung – i quali furono approfonditi, in Italia, assieme alla cultura dell’Einfühlung, da Benedetto Croce (1866-1952) e dalla sua scuola. I risultati di tali studi vennero pubblicati su «La Critica», la rivista di letteratura, storia e filosofia diretta dallo stesso Croce. Queste teorie e tutti questi sistemi, più o meno imparentati con la dottrina dell’empatia, portavano con sé il peso della loro duplice origine: da un lato il Positivismo ottocentesco della Vorschule der Aestetik di Gustav Theodor Fechner (1801-1887), dall’altro uno storicismo mezzo hegeliano e mezzo evoluzionista8. D’altronde non possiamo trascurare, in merito alla spazialità, l’apporto che le avanguardie figurative, soprattutto il Neoplasticismo, ma anche la poesia e la letteratura, forniscono a partire dal 1910. Il poeta Guillaume Apollinaire fu il primo a rendersi conto di quanto stava accadendo, sul piano della teoria, in pittura. Nei suoi articoli, scritti intorno al 1911, trovò conforto alle sue idee nei fisici che proclamavano l’inscindibilità di spazio e tempo […]. Nella pittura, nell’architettura e nelle strutture si utilizzano, per realizzare nuovi compiti, mezzi analoghi. Il piano, che aveva perduto il suo significato a partire dal Rinascimento, diviene un elemento essenziale della concezione spazio-temporale nata nel nostro tempo9. 19


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Pertanto il dualismo, proiettato ora sulle orme del maestro americano ora sul filone crociano, rappresenta una costante degli studi zeviani e delle numerose pubblicazioni ad essi legate. Nel volume Pretesti di critica architettonica dedica un capitolo al filosofo napoletano intitolato Croce e la riforma della storiografia architettonica, in cui si legge: quante volte si è affermata l’illegittimità di un «saper vedere» la pittura o la scultura, essendo la distinzione fra le arti «un’astrazione»? e, tanto più, di un «saper vedere l’architettura», poiché questa è inscindibile dalle altre arti visuali? quante volte è stato condannato l’uso specificamente architettonico del concetto di «spazio», pretendendo di diluirlo in una «spazialità» generica, estesa persino alla musica? Invero, molti dogmatismi del sistema crociano vanno ascritti non a Croce, ma ad alcuni epigoni che lo hanno reso meccanicistico. È ben noto che, nell’esercizio della critica letteraria, il filosofo sapeva affrancarsi da ogni postulato rigorista10. Questo legame con Benedetto Croce e con «La Critica», uno dei cardini degli studi di Zevi, emerge anche in altri suoi scritti come Architectura in nuce dove, nella sua premessa, considera che la crisi dell’estetica istituzionale non ha che avallato teorizzazioni specifiche per ogni arte, Kunstwissenschaften, ribadendo il suo distacco da tali correnti filosofiche. Distacco sottolineato dal titolo del volume che non solo rievoca quello della riedizione del 1928 dell’Aestetica crociana – intitolata, appunto, Aesthetica in nuce –, ma anche la teorizzazione empirica delle singole arti, riferendosi alla voce Aestethics, elaborata da Croce per l’Enciclopedia Britannica, dove, nel richiamare la crisi dell’estetica istituzionale e delle teorie empiriche dell’arte riguardanti specifiche attività creatrici, afferma che è un dichiarato riconoscimento della formazione culturale dell’autore; e la terminologia in larga misura tratta dallo storicismo anche quando si espongono tesi remote dal suo orientamento11. Nello stesso volume Zevi, in merito alle definizioni culturali, psicologiche e simboliste, ritorna su Croce riportando le sue parole: la storiografia moderna dell’architettura si è comportata rettamente quando si è discaricata di tutta la simbologia circa le cattedrali e altri edifizi della quale tanti detti volumi sono pieni12.


L’influenza crociana si evidenzia ancora nel suo testo Poetica dell’architettura neoplastica (1953) dove, approfondendo la sua concezione spaziale, mette a confronto l’apporto alla Bauhaus della poetica neoplastica del movimento De Stjil da un lato e l’apporto di Theo van Doesburg dall’altro, prendendo le mosse da una «postilla» di Croce nella quale confermava la sua adesione alla distinzione di Francesco De Sanctis (1817-1883) che definiva «intenzioni dei poeti» le loro poetiche e contrapponeva ad esse la loro effettiva poesia. In questo volume Zevi desume dalla teoria neoplastica uno strumento di lettura storiografica: in ogni edificio, la scomposizione delle parti, la loro caratterizzazione, il loro montaggio costituisce un’indispensabile esercitazione mentale, un processo analitico didatticamente proficuo. Van Doesburg non era uno storico e, benché colto, poco si preoccupava del passato. Ma l’indagine neoplastica, poiché indica meglio d’ogni altra il tempo e il procedere della composizione architettonica, fornisce uno strumento fecondo anche nel campo storico-critico e riconferma l’attualità e l’urgenza di un metodo di lettura dinamica dell’architettura13. Il forte legame tra la citata Scuola Viennese e l’architettura wrightiana viene richiamato nell’importante saggio Spätrömische Kunstindustrie di Alois Riegl cui fa riferimento Bruno Zevi sulla sua rivista «Architettura. Cronache e storia» per la lettura di una delle opere più significative di Wright, la Fallingwater. La storia attesta una precisa evoluzione: si passa da una visione che ha orrore dei vuoti e li conculca ad un’età che li esalta ponendoli in unione con l’infinito. Per il Riegl questa età era il gotico; per noi ha un’espressione assai più avanzata e matura, che si concreta nel più coraggioso e coerente raggiungimento della ricerca moderna, in uno dei sommi monumenti creati dal genio umano lungo il suo arco millenario: la casa Kaufmann a Bear Run14. E proprio Bruno Zevi, da convinto wrightiano, è uno dei massimi interpreti italiani dell’architettura come arte dello spazio. A lui si deve anche una delle prime sistematizzazioni, nel contesto nazionale, dell’apporto che i teorici della Sichtbarkeit e dell’Einfühlung fornirono per la configurazione della teoria basata sulla Raumgestaltung. Ancora in Architectura in nuce, nella prima par-

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te dedicata alle definizioni dell’architettura, passa in rassegna il contributo di tutti quei filosofi, trattatisti, artisti e teorici in cui è ravvisabile la preminenza del concetto di spazio. Egli, pur ammettendo l’indiscusso merito di August Schmarsow che ha individuato lo spazio come luogo centrale dell’espressione architettonica15, ne prende le distanze soffermandosi sull’estrema individualità dell’esperienza spaziale e sulla negazione dello spazio come concetto categoriale, ovvero «culto dello spazio in astratto» per dirla con Bernard Berenson (1865-1959)16. Tale considerazione viene richiamata anche da Renato De Fusco17 ne L’idea di architettura. Storia della critica da Viollet-le-Duc a Persico, in cui sottolinea come Zevi abbia individuato la contraddizione di fondo insita nel sistema estetico-critico di Schmarsow quando osserva che i suoi seguaci rilevavano il divario tra spazio naturale e artistico, tra dato fisiologico e prodotto spirituale, ma poi classificavano lo spazio artistico staticamente, come un’ulteriore categoria della figuratività, dominata da astruse norme ottiche, dimensionali e psicologiche. Queste renderebbero la Raumgestaltung un modo di interpretare l’arte in senso sovrastorico e quindi inaccettabile per il pensiero contemporaneo che valuta la spazialità dell’architettura in una visione creativa individualistica e pertanto rigorosamente storica18. Ancora Zevi si sofferma sul valore della definizione «architettura = arte dello spazio» nell’ambito di una visione storica. Per essa, non solo ogni cultura avrà il suo spazio, ma ogni architetto, in ogni immagine poeticamente verace, ne creerà uno originale, irripetibile. La vicenda architettonica non sarà una storia astratta di “concezioni” spaziali, ma una storia caratterizzata da personalità creatrici di spazi. In antitesi alla Raumgestaltung e ai suoi molteplici derivati, dunque, lo spazio architettonico espunge ormai ogni attributo mitico, atemporale, simbolico di rivelazioni o di aspirazioni incorruttibili, esterne e immutabili, e insieme ogni legame meccanicistico19. Pertanto Zevi, escludendo fattori meccanicistici, conferisce allo spazio un valore legato al tempo e alla creatività del singolo architetto che, in quanto tale, reinterpreta quei fattori contestuali i quali, pur non essendo di carattere fisico e spaziale, ne condizionano la costituzione. A questo proposito non possiamo trascurare la critica di Gian


Carlo Leoncilli Massi alla rielaborazione zeviana della Raumgestaltung di Schmarsow: Zevi assume lo spazio, che è tradizionalmente dimensione classica, secondo termini anticlassici, attribuendo al progresso un valore che è segnato dalla “libertà creativa”, dall’“interpretazione organica”, che fa evolvere in positivo il pensiero architettonico moderno. […] “L’architettura è arte dello spazio”. Ma “l’arte dello spazio”, cioè la Raumgestaltung, è una definizione di Schmarsow, di Sörgel e Adler, su basi che derivano da Hildebrand, Fiedler, da Burckhardt e Riegl. Zevi se ne appropria, cambiando le carte in tavola. Usa una definizione di un classico come Schmarsow, in chiave anticlassica20. Zevi avrebbe imposto lo spazio come tema centrale per l’architettura, ma superando la tradizionale accezione incentrata sugli interni e puntando anche sullo spazio urbano determinato dagli esterni, così da arrivare a negare che il tempio greco debba ritenersi architettura e considerandolo invece come una sorta di scultura, perché non concepito per un’abitabilità interna. Sulla interpretazione della spazialità zeviana e del rapporto con la Raumgestaltung, ci sono altre letture contemporanee tra cui quella di Emanuele Severino (1929) che dà grande concretezza alle interpretazioni dell’architettura […] ricordate da Zevi, riconducendole […] ad August von Schmarsow, autore nel 1894 di Das Wesen der architektonischen Schopfung – L’essenza della creazione architettonica – (in cui lo spazio appariva come principio guida che sottostava ad ogni forma architettonica), ma soprattutto indicando, per tale interpretazione, alcune sue profonde ragioni d’essere21. Queste motivazioni profonde del costruire sarebbero da cercarsi nel mito e nelle forme in cui esso si concretizza: il che seguendo gli sviluppi del pensiero di Severino, significa che lungo l’intera tradizione occidentale la “configurazione dello spazio” (Raumgestaltung) – come ogni altra opera – è determinata dal senso del mondo che si presenta nel contenuto eterno dell’episteme filosofica e teologica greco-cristiana. La “figura” (Gestaltung) che l’architettura conferisce allo spazio rispecchia cioè in se stessa l’ordinamento eterno che viene mostrato da tale sapienza22. La ripresa degli studi estetici otto-novecenteschi incentrati

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sul tema della spazialità architettonica viene affrontata da Zevi sia nella lettura delle opere nella sua Storia dell’Architettura Moderna, sia nel volume Spazi dell’architettura moderna del 1973 dove in esergo è riportato un passo di Albert Einstein riguardo il concetto di spazio: Fin qui, il nostro concetto di spazio è stato associato alla scatola. Ci si accorge, però, che le caratteristiche formative dello spazio-scatola sono indipendenti dallo spessore delle pareti della scatola. Non sarebbe dunque possibile ridurre a zero questo spessore, senza che si abbia per risultato la perdita dello “spazio”? Tale passaggio, al limite, sembra ovvio: […] uno spazio senza scatola, autonomo. Questa idea può essere formulata drasticamente: se la materia dovesse scomparire, rimarrebbero ancora lo spazio e il tempo, come un continuum quadridimensionale oggettivamente inscindibile. Si è resa, quindi, necessaria un’altra idea: l’evento localizzato non soltanto nel tempo ma anche nello spazio23. In conclusione, possiamo sostenere che – talvolta in piena condivisione con i suoi concetti, talaltra con le dovute distanze – va dato il merito a Bruno Zevi di essere stato tra i primi autori italiani ad operare una attenta sistematizzazione delle teorie relative allo spazialismo architettonico. Egli seppe tradurre, sulla scorta di tali studi, le considerazioni di natura estetica che furono espresse in merito allo spazio, volte perlopiù al disvelamento della natura del godimento estetico nella fruizione di certe opere architettoniche, in un efficace strumento di lettura capace di rendere manifesta l’originalità dell’opera architettonica e della individualità creatrice dell’architetto, costituendone la vera essenza.

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Per le numerose iniziative, in corso di svolgimento ed in programmazione, per la celebrazione del centenario della nascita di Bruno Zevi riferirsi al sito web della Fondazione Bruno Zevi: www.fondazionebrunozevi.it. 2 Cfr. R. Dulio, Introduzione a Bruno Zevi, Laterza, Roma-Bari 2008; R. Lenci, voce enciclopedica, Bruno Zevi, quinta appendice Enciclopedia Italiana Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/bruno-zevi_(Enciclopedia-Italiana); C. Conforti, Le radici del progetto storico di Bruno Zevi, in «Roma moderna e contemporanea» 17, n. 1/2 (aprile 2009); A. Saggio, Bruno Zevi, «Arch’it», 31 dicembre 2000, http://architettura.it/coffeebreak/20001232/. Tra le sue pubblicazioni, che hanno avuto numerose riedizioni e aggiornamenti: Verso un’architettura organica (1945); Frank Lloyd


Wright (1947); Erik Gunnar Asplund (1948); Saper vedere l’architettura (1948); Storia dell’architettura moderna (1950); Architettura e storiografia (1950); Poetica dell’architettura neoplastica (1953); Richard Neutra (1954); Architectura in nuce (1960); Biagio Rossetti architetto ferrarese (1960); Michelangelo architetto e Borromini (1964 e 1970, in coll. con P. Portoghesi); Erich Mendelsohn (1969); Sterzate architettoniche: conflitti e polemiche degli anni Settanta-Novanta (1992). Oltre alle numerose collaborazioni a diversi periodici di attualità e specialistici, ai molteplici e fondamentali saggi, tradotti in oltre venti lingue e più volte editi, ricordiamo gli ultimi scritti: Ebraismo e architettura (1993); Linguaggi dell’architettura contemporanea (1993); Zevi su Zevi: architettura come profezia (1993); Leggere, scrivere, parlare architettura (1997); Storia e controstoria dell’architettura in Italia (1997); Controstoria e storia dell’architettura (3 voll., 1998); Capolavori del XX secolo (2000). Con il titolo Tutto Zevi è stata pubblicata tutta la sua attività progettuale, teorica e politica (1934-2000), in L’architettura, cronache e storia (aprile-ottobre 2000) e in una collana di 11 CD ROM. 3 Cfr. B. Zevi, Architectura in nuce, Sansoni, Firenze 1972, p. 38. 4 B. Zevi, Il vaticinio del Riegl e la Casa sulla Cascata, in «L’architettura. Cronache e storia», n. 82, 1962, p. 218. 5 R. Amirante, E. Carreri, Il costruire moderno. Natura, problemi e forme. Walter Curt Behrendt, Editrice Compositori, Bologna 2007. 6 Ivi, p. 23. 7 R. De Fusco, Prefazione all’edizione italiana, in R. Amirante, E. Carreri, op. cit., p. 11. 8 R. De Fusco, Prefazione, in A. Castagnaro, August Schmarsow: dalla Raumgestaltung alla critica d’arte contemporanea, Progedit, Bari 2017. 9 S. Giedion, Breviario di architettura, Garzanti, Milano 1961, pp. 73-74. 10 B. Zevi, Pretesti di critica architettonica, Einaudi, Torino, 1983, p. 263. 11 B. Zevi, Architectura in nuce, op. cit., p. 9. 12 B. Croce, in B. Zevi, Architettura in nuce, op. cit., p. 26. 13 B. Zevi, Poetica dell’architettura neoplastica, Libreria Editrice Politecnica Tamburini, Milano 1953, p. 155. 14 B. Zevi, Il vaticinio del Riegl e la Casa sulla Cascata in «L’architettura. Cronache e storia», n. 82, 1962, p. 218. 15 B. Zevi, Architectura in nuce, cit., p. 39. 16 Cfr. A. Castagnaro, August Schmarsow , cit. 17 R. De Fusco, L’idea di architettura. Storia della critica da Viollet-leDuc a Persico, Edizioni di Comunità, Milano 1964, p. 103. 18 R. De Fusco, ivi, p. 103. 19 B. Zevi, Architettura in nuce, cit., p. 63. 20 G.C. Leoncilli Massi, La leggenda del comporre, Alinea editrice, Firenze 2002, p. 98. 21 E. Severino Tecnica e Architettura, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, pp. 87-88. 22 Ibid. 23 A. Einstein, Esergo, in B. Zevi, Spazi dell’architettura moderna, Giulio Einaudi Editore, Torino 1952.

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Semantiche del sublime architettonico GIANNI CONTESSI

In uno dei suoi aforismi più suggestivi, il grande architetto estone americanizzato Louis Kahn (1901-1974) osserva come il sole scoperse l’entità della propria gloria quando per la prima volta vide l’ombra da sé medesimo proiettata colpendo lo spigolo di un grande edificio. Molto prima, Etienne-Louis Boullée aveva rivendicato a sé l’invenzione dell’architettura della luce e delle ombre, che si confrontava direttamente con la natura anche in virtù del ricorso al Colossale (il Cenotafio di Newton 1784, per esempio) che determina il rango delle più nobili fabbriche e che, nella fattispecie, invera per mimesi strabiliante l’universo mondo nonché la calotta celeste. Molti anni dopo Adolf Loos avrebbe indicato come archetipo dell’architettura, Ur-architektur, il tumulo di terra lungo sei piedi e largo tre disposto con la pala a forma di piramide, che il viandante scorge, sgomento, nella radura di un bosco. Immagine degna, ad evidenza, di un quadro di Caspar David Friedrich. Più tardi ancora, Giorgio De Chirico avrebbe tradotto il linguaggio della luce e delle ombre facendo parlare le porticature Rundbogenstil mutuate dal transito torinese e dal soggiorno monacense via Firenze.

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Come si vede, la misura del sublime in architettura, anche per paradossi di scala e possibilmente scansando troppo prevedibili e scolastiche convocazioni, non riguarda il gigantesco o il colossa-


le di cui discorre l’inflazionato Derrida. Né qui è il caso di insistere ulteriormente sui fondamenti concettuali dell’idea stessa di sublime da applicare liberamente ma anche aderentemente ad alcuni casi dell’architettura propriamente detta. Meglio provare a fuoriuscire dal costruito più tipico e topico per inoltrarsi in altre regioni del vasto territorio del Progetto. In verità, non sono necessariamente taluni casi peculiari della storia dell’architettura a rendere interessante l’applicazione della plurisecolarmente collaudata categoria del Sublime che può e non può chiamare in causa le ragioni della dimensione e delle sensazioni estetiche e morali, psicologiche e intellettuali che determinate circostanze topologiche possono stimolare e suscitare e che fanno parte del tradizionale catalogo fenomenologico associato all’idea del Sublime secondo la fortunata ricerca settecentesca di Edmund Burke. Facilmente concorrono alla definizione di qualche smisurato sublime, elementi e motivi propri di un’architettura meno frequentata dai manuali e invece molto interessante al fine di un arricchimento di qualche estetica del costruito e segnatamente di un costruito che coniuga tettonica e natura, eloquenza propria di quell’invenzione semantica della civiltà dell’Illuminismo denominata architecture parlante e di cui Claude-Nicolas Ledoux ha fornito alcuni noti paradigmi. Ci stiamo riferendo a quell’architettura militare che, nei secoli, diciamo a partire dalle opere canoniche di Vauban nel XVII secolo (a non voler risalire fino a Francesco di Giorgio, al Buontalenti e al Sanmicheli), ha contribuito a segnare quanto meno i caratteri di un territorio, di una geografia stabilendo alcuni possibili protocolli di un Sublime diverso la cui definizione è affidata alla geografia e, in fondo, alla cartografia che ne è veritiera e simbolica e persino artistica rappresentazione. Ciò nel senso della peculiare geografia territoriale che la costellazione delle ville palladiane o scamozziane configura e rivela ad una scala inattingibile a qualsivoglia edificio, reale o immaginato dal più inquietante dei progettisti (e non si dice megalomane, poiché non di esagerazioni e abnormità qui si parla). E in fondo la misura del sublime piranesiano non è data tanto dall’uso costante di un fuori scala che attesta lo squilibrio anni- 27


chilente del lascito monumentale della romanità (del resto Roma quanta fuit ipsa ruina docet) rispetto a qualche mediocrità del presente rappresentato dagli astanti ammiratori annichiliti da cotanta, ancorché ruinata grandezza. E si tace delle riflessioni del cavaliere Piranesi circa la decadenza della architettura dei tempi suoi. Contributo prettamente piranesiano alla definizione di un Sublime architettonico ulteriore sono – è cosa nota – le Carceri d’invenzione che inscenano spazialità tanto gigantesche quanto incongrue, razionalmente dominabili, alla stregua di talune topologie concepite dai più classici racconti di Jorge Luis Borges dove il gioco di specchi fra i dati del reale e quelli della sua rappresentazione si confondono creando un corto circuito organizzato tra i dati di un’erudizione abnorme ed esotica che ben presto si rovescia in pronunce esoteriche. Le topologie impossibili ed ingannevoli di Borges giocano proprio sulle specularità banali e sfuggenti attivate dal meccanismo della rappresentazione.

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A volere poi riprendere, ma in altra chiave, il tema della rappresentazione, e pure incrociando quanto prima accennato a proposito della costellazione delle ville venete di terraferma, si potrebbe qui convocare la corona di città fortificate o di veri e propri insediamenti architettonici militari non solo ideati da Vauban nei luoghi di sua pertinenza in Francia ma anche e forse soprattutto il serto di mirabili fortezze che cingono i confini dello Stato sabaudo. A tale proposito basterebbe citare il grandioso complesso di Fenestrelle cui, capovolgendo l’assunto, si potrebbe associare la non meno mirabile e forse concettualmente sublime triangolazione stabilita dal dialogo fra le due emergenze architettoniche di Superga e Rivoli e poi quello fra la Mole Antonelliana e la cupola della Sindone di Guarini, essendo inoltre che, come la Cupola fiorentina del Brunelleschi “è erta sopra tutti e popoli toscani” tarda e costruttivamente attardata, così la meravigliosa Antonelliana Mole tarda e costruttivamente attardata è “erta sopra a tutti e popoli piemontesi…”. Ed essendo infine veramente sublime lo sforzo effettuato da Alessandro Antonelli di sfidare la scienza degli ingegneri continuando ad adottare tecnica e materiali della tradizione, quando da tempo il ferro aveva aperto nuove strade alle possibilità e agli ardimenti edificatorii.


Dimidiata fra classicismo e romanticismo, sempre ammesso che il classicismo moderno non sia un aspetto del più vasto movimento variamente romantico dislocato fra Gran Bretagna e Kulturnation germanica con cospicue e appropriate dépendances francesi. Ovviamente, in ambito scolastico, si potrebbe distinguere fra primo e secondo romanticismo; ebbene, si diceva, dimidiata fra classicismo e romanticismo una ipostatizzazione abbastanza topica ma forse non sempre sufficientemente presa in considerazione dell’idea di Sublime potrebbe essere individuata in un ambito che vede in gioco altre architetture, ancora una volta militari, ma di altra natura. Nel 1839 il grande pittore inglese William Turner, a tutti ben noto per alcuni suoi paesaggi corruschi e fortemente meteorologici, uno dei quali modernisticamente proverbiale e precorritore – quello sì, sublimemente inquietante – realizza una tela di 91 × 122 centimetri il cui soggetto è costituito da una particolare scena di funerale: quello di un grande vascello, la valorosa fregata Téméraire, cadavericamente biancheggiante, trainata da un minuscolo rimorchiatore a vapore all’ultimo ancoraggio per essere demolita. Sublime, nel dipinto, è non solo la circostanza di ora e di luce (il tramonto?), che sfrangia e sfuoca stabilendo quasi la condizione di un pendant capovolto dell’Impressione di Monet al levar del sole nell’opus canonico, nell’Ur-Text dell’Impressionismo ma pure la specularità fra l’occaso in atto e il tramonto di una nave da battaglia gloriosa. Un tramonto che tocca non solo quell’unità ma più in generale quel tipo di nave, destinata alla storia dell’architettura navale e della navigazione. Nonché alla riproduzione a scala modellistica, per gli amatori delle costruzioni in miniatura. Anche in questo caso potrebbe valere la frase famosa del personaggio di Victor Hugo «ceci tuera cela»: questo ucciderà quello. La navigazione a vela sconfitta lungo la via del progresso tecnologico dalle nuove imbarcazioni a vapore. La natura che arretra all’avanzare dell’industria. Che tutto questo sia stato così epicamente e tragicamente rappresentato proprio in Inghilterra, patria della prima rivoluzione industriale da un pittore inglese, parrà un atto dovuto e inevitabile. John Ruskin che vene- 29


ra Turner e non vede di buon occhio le conseguenze civili (o incivili, se si preferisce) di tale rivoluzione è, notoriamente, lì. Un combattimento navale all’epoca dello scontro di Trafalgar fra navi inglese e francesi avrebbe chiamato in causa l’altra e opposta categoria estetica concepita su suolo britannico: quella del Pittoresco. Immaginare scafi tardosettecenteschi con alberature e bordate di fuoco lanciate dalla fiancata, dai tre ponti su cui sono distribuiti i cannoni. Ben più severo l’assetto delle grandi navi da battaglia novecentesche che, nulla avendo di pittoresco, consegnano alla pura forma architettonica tutta la loro espressività. In assenza di un’auspicata “Estetica del mezzo militare” che, si spera, non venga scambiata per manifestazione di militarismo pericoloso, qui possiamo affidare al mezzo cinematografico (la fotografia è strumento importante ma insufficiente) l’assunto secondo il quale un Sublime moderno è dato dallo spettacolo offerto da una nave da battaglia – nel senso di corazzata monocalibro di tipo dreadnought – in combattimento. Quando, cioè, la vista frontale offre allo sguardo, per la larghezza della “pancia”, lo sporgere delle canne delle grandi torri cannoniere. Allora la bordata – cioè lo sparo simultaneo di tutti i grandi calibri (305, 381, 406, 460 millimetri) – da un unico lato dello scafo. Spettacolo epico e drammatico insieme, corrusco ed impressionante, anche in considerazione della distanza notevole alla quale si trovano le navi avversarie: parecchie miglia. Sicché l’azione del cannoneggiamento appare in qualche modo “celibe”, destituita di fondamento funzionale, come se si trattasse dello sparo di un fuoco d’artificio, di una performance violenta che coniuga scienza balistica e traduzione in immagine del suo momento applicativo. A nostro sapere, al di là del materiale cinematografico documentario in circolazione, e al di là di quanto il cinema di invenzione o ricostruzione ci ha descritto circa la sorte delle corazzate tedesche Admiral Graf von Spee o Bismarck soltanto il noto film di Rossellini, La nave bianca, mostra bastantemente, con pagine di repertorio, alcune dinamiche decisive di uno scontro navale durante la seconda guerra mondiale.

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Naturalmente l’estetica militare non attiene propriamente ad un’estetica della guerra animata da spirito militarista. Qui non è


in gioco un progetto di estetizzazione futuristoide o fascistoide. In questione, è, invece, la necessità di stabilire, anche nell’ambito degli studi di storia del disegno industriale, i confini di un territorio specifico della vita delle forme in cui l’adeguatezza dei mezzi ai fini (la Zweckmässigkeit) riesca a stabilire i protocolli di uno stile, esattamente come è accaduto a proposito di altri mezzi meccanici. Del resto, le dimensioni di un’unità navale come una corazzata – non se ne fabbricano più – o di incrociatori pesanti o da battaglia, ne possiede la Russia, chiamano in causa le ragioni dell’architettura anzitutto della tipologia e della morfologia della nave poi quella dei caratteri distributivi delle varie sezioni di cui si compone la nave. E che di architettura in ogni caso si tratti può essere dimostrato dal fatto che, una volta concepita la carena, e l’intera opera viva, l’opera morta o parte di essa pertenga completamente all’architetto. Gli ambienti della corazzata Vittorio Veneto e di due incrociatori della classe “condottieri” furono progettati da Gustavo Pulitzer, mentre a Nicolò Costanzi si deve l’impostazione di quel gioiello della marineria civile denominato Victoria (1931), prima nave non solo italiana di concezione veramente moderna, completata dallo stesso Pulitzer. Tutto ciò, com’è evidente, nulla ha da spartire con alcunché di Sublime, ma ciò che come tale abbiamo assunto ne dipende assai, per costruzione logica e dunque conduzione – more geometrico – di ogni suo aspetto. Uno scrittore adatto a descrivere i caratteri di un universo siffatto è Daniele Del Giudice, che in minima misura si cimentò nel genere in alcune pagine del suo singolare romanzo d’esordio intitolato “Lo stadio di Wimbledon” (1983). Dobbiamo tuttavia al grande pittore francese Fernand Léger un’immagine verbale folgorante: quella della culatta di un obice colpita dalla luce del sole negli anni della prima guerra mondiale quale movente o detonatore di un linguaggio pittorico capace di interpretare in chiave positiva l’epopea della modernità meccanomorfa novecentesca. La stessa che, in chiave ben diversa, e nel nome di una più profonda e complessa lettura e interpretazione proverrà da Ernst Jünger. Il quale non solo vedrà nell’era

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della tecnica e della disciplina su cui essa basa il suo funzionamento e su quella che il suo funzionamento impone alla collettivizzazione – alla mobilitazione – dei mezzi industriali di produzione. Dalla quale dipende la definizione del nuovo tipo umano, l’operaio (Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt, 1932). Saranno le cosiddette “armate del lavoro”, militarizzate quanto basta dal taylorismo fordista. Ma è vero che il combattente Ernst Jünger, ufficiale eroe dell’esercito tedesco nella prima guerra mondiale e suo impersonale cronista, attribuisce proprio alla guerra significati e funzioni quasi filosofici, in qualche misura omologhi alla visione concettuale e forse persino metafisica ancorché molto pragmatica che di essa guerra ha manifestato von Clausewitz nel suo classico trattato Della guerra (Von Kriege, 1832). Pare lievemente paradossale che l’intuizione formale del pittore comunista Fernand Léger si inscriva con molta pertinenza nella visione delle cose del pensatore nazionalista ma non nazista Jünger e non solo per l’intuizione formale suddetta ma anche per l’assunzione delle pulsioni e dei ritmi del mondo moderno, non esclusi, ovviamente, quelli che si identificano con la dimensione metropolitana e i suoi segni, le sue icone. Léger chiuderà la sua storia di grande pittore con un quadro imponente. Il suo soggetto, operai appollaiati su tralicci metallici (Les Constructeurs, 1950) e impegnati sulle passerelle collocate in altezza. Destinazione dell’opera, le Officine Renault. Ecco l’estetica della macchina vista al di fuori della modernolatria futurista: la stessa civilization machiniste di cui si farà interprete il suo amico Le Corbusier. E forse, più della Cappella di Ronchamp, sarà la Unité d’Habitation di Marsiglia ad attingere l’utopia sublime di una socializzazione urbana pacificata. Ad un altro svizzero, vivente questa volta, Mario Botta, la traduzione in edificio ecclesiale di una costruzione mutuata dalle antiche fortificazioni alpine. La chiesa del Monte Tamaro, nel Cantone Ticino, domina una valle confermando che il pensare la dimensione del Sublime è parte integrante di un’architettura intesa come arte umanistica. Nell’epoca della secolarizzazione il Sublime risiede nel dialogo dell’architettura con il paesaggio. Da pari a pari.

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Brecht nostro contemporaneo CLARA FIORILLO

Tutte le possibili maniere di affrontare i classici possono ormai dirsi praticamente esaurite: abbiamo visto Amleto in smoking e Giulio Cesare in uniforme – e quanto meno lo smoking e l’uniforme ne hanno tratto un utile, guadagnando in rispettabilità1. Questa nota brechtiana è del 1939, ma, da allora, gli smoking e le uniformi si sono moltiplicati e gli eroi e le eroine del passato sono stati visti aggirarsi sul palcoscenico persino in costume da bagno. Si è continuato insomma a praticare operazioni di maquillage scenico sulle opere del passato, disinvolti camuffamenti stilistici col sapore della contemporaneità. Dal canto loro, le nuove tecnologie hanno spesso favorito, da un lato, l’avanzare di un esuberante Kitsch scenico2 e, dall’altro, l’affermarsi di una estetica “minimalista”: scene praticamente vuote, disposte solo ad essere avvolte da un impalpabile velo di immagini proiettate. A distanza di quasi ottanta anni dalla sconfortata riflessione di Brecht, insomma, siamo ancora oggi al cospetto di attualizzazioni intese come ritocco formale, spesso sostenuto da discutibili tecnicizzazioni e improbabili ambientazioni. Per quanto possa apparire attraente l’adozione di nuove tecnologie, non vanno dimenticati gli avvertimenti dello stesso Brecht su un uso inadeguato, nei fatti antiteatrale, dei nuovi ritrovati della tecnica. Ritorna alla mente la sua critica al notevole eppure contraddittorio rinnovamento scenico di Erwin Piscator, con il quale egli stesso aveva collaborato. Brecht mostrò, nella sua cronaca su quella

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esperienza, quanto fosse necessaria una “misura” nell’utilizzo delle nuove tecnologie e come quel modo di far teatro, spinto agli eccessi, avesse finito per minare la stessa resa artistica della rappresentazione: è impossibile in questa sede – egli scriveva – enumerare le invenzioni e le innovazioni di cui Piscator si valse insieme a quasi tutte le conquiste tecniche più moderne. […] Gli esperimenti di Piscator scatenarono a tutta prima un caos completo: trasformarono i palcoscenici in capannoni zeppi di macchinari e le platee in luoghi di comizio3. E dagli eccessi si passò ai disastri: La tecnica scenica si complicò enormemente. […] Le attrezzature meccaniche erano talmente pesanti che a Nollendorf si dovette rinforzare l’impiantito del palcoscenico con contraffissi di ferro e cemento; alle cupole si appendevano tali e tanti macchinari che una di esse una volta crollò4. Naturalmente oggi non è di questo genere di pericoli che si può parlare, ma di una tecnologia che spesso finisce per svolgere un ruolo di accattivante “diversivo” rispetto ai contenuti del dramma da “attualizzare”. Il problema di una resa contemporanea delle opere si limita, così, a un rifacimento di facciata che obbedisce a tutti i crismi di quella che, con termine squisitamente brechtiano, può essere definita opera “culinaria”, ossia rivolta agli appetiti medi del pubblico. Le opere, insomma, restano quelle che erano, ma indossano l’abito della modernità solo tecnologizzandosi, ovvero entrando nella logica delle semplici “varianti”, care a un sistema culturale che non intende essere scosso ma si presta volentieri ai piccoli ritocchi, agli aggiustamenti, agli innocui travestimenti. In un frammento del 1930, questa strategia della cultura borghese era stata già lucidamente individuata dallo stesso Brecht: conformemente al proprio sistema economico basato sulle varianti, – egli fece notare – essa accoglie volentieri nelle proprie sovrastrutture unicamente delle varianti. Di conseguenza, il concetto di “nuovo” ha assunto una caratteristica particolarissima e senza dubbio assai preoccupante. Per “novità” si intendono pure e semplici varianti5. Ed era ancora Brecht a far notare quanto questo atteggiamento potesse essere persistente, essendo costantemente nutrito dal


parere di una critica, appunto, “culinaria”: I critici dell’epoca nostra – esordiva in un suo scritto – rassomigliano a commensali con lo stomaco rovinato: si limitano a spilluzzicare dettagli, attenendosi a un metodo rigorosamente descrittivo6. E, più avanti, descriveva gli ingredienti necessari al formarsi di uno “stile culinario”: Ma il compito principale della nostra critica, quello di pompare pubblico dentro la macchina ricreativa e formativa del teatro, ne ha determinato lo stile. Stile culinario: non sapremmo definirlo meglio. Lo stile della nostra critica è culinario. Essa assume decisamente il punto di vista del consumatore […]. Qui dunque, da molto tempo, non si produce più nulla – qui si consuma soltanto, si gode e si difende quello che c’è. Conformemente a questa consuetudine, in materia artistica decide, in ultima istanza, il gusto – un gusto tinto di individualismo – e il gusto esige varianti. Questo tipo di critica lo si può dunque anche chiamare “critica delle varianti”7. È difficile sostenere che questo stile sia passato di moda. E se le cose stanno, più o meno, al punto (anni ’30!) in cui Brecht aveva così ben argomentato il preoccupante fenomeno di uno stile teatrale “culinario” o delle “varianti”, che cosa si può dire, oggi, per far progredire finalmente la cultura del palcoscenico? A costo di apparire, questa volta, davvero fuori moda, direi: la soluzione è ritornare a Brecht, perché, come sosteneva Paolo Grassi, lui è lì, resiste al tempo e alle mode, lui c’è8. Siano benvenute, intendiamoci, le nuove tecnologie, ma è ora di passare anche ai contenuti e al modo di portarli sulla scena. La domanda, insomma, è quella di sempre: come attualizzare le opere del passato? Una risposta assai convincente sta nelle pagine in cui Brecht parla della sua Mahagonny e, per estensione, di opera lirica. L’esordio del suo scritto, come sempre, punta al cuore del problema: Da un po’ di tempo si tenta di rinnovare l’opera. Senza alterare il suo carattere culinario, si vuole attualizzarla nel contenuto e tecnicizzarla quanto alla forma9. Brecht, per il quale il teatro moderno è il teatro epico10, vuole che anche l’opera sia portata al livello tecnico del teatro moderno11; per far questo, il passo indispensabile è quello di una “separazione degli elementi”: L’irruzione dei metodi del teatro 35


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epico nell’opera ha per conseguenza maggiore una radicale separazione degli elementi. La grande lotta per il primato fra parola, musica e recitazione […] può essere risolta semplicemente grazie alla netta separazione degli elementi. Finché «opera d’insieme›› significa che l’insieme è una slavatura, finché cioè si tratta di «fondere» (stemperare) le diverse arti, tutti i singoli elementi vengono necessariamente degradati in ugual misura, giacché ognuno può costituire solo l’imbeccata per l’altro. Nel processo di fusione viene incluso anche lo spettatore […]. Una simile magia è naturalmente da combattersi. Bisogna rinunciare a tutto ciò che rappresenta un tentativo di ipnosi, che è atto a produrre indegne ubriacature, che diffonde nebbia12. Dal punto di vista della messa in scena, lo “straniamento”, ovvero il cuore della teorizzazione brechtiana, può essere condensato in questa sola espressione: separazione degli elementi. Il concetto, del resto, è esplicitamente dichiarato da Brecht anche nelle sue note sulla scenografia: Quando lo scenografo si trova d’accordo col regista, l’autore, il musicista e l’attore per quanto riguarda la finalità sociale dello spettacolo, e procede assecondando ciascuno di loro e valendosi dell’appoggio di tutti, non per questo deve permettere che il suo lavoro si fonda totalmente con gli altri elementi per venire a formare un’«opera d’arte cumulativa». Pur nel lavoro associato, ciascuno deve conservare in un certo senso l’individualità della propria arte mediante una separazione degli elementi13. Lo spirito di questa posizione drammaturgica, che ironicamente allude all’“opera d’arte totale” come “opera d’arte cumulativa”, è decisamente antiwagneriano. Lo ha fatto notare, con il consueto disincanto analitico, Edoardo Sanguineti nelle sue Note alle note a Mahagonny: Brecht oppone “separazione” a “fusione”, e risolve “la grande lotta per il primato fra parola, musica e recitazione”, optando, in modo antitetico a Wagner, per la “netta separazione degli elementi”. Lo “straniamento” ha origine da una destrutturazione preliminare della struttura operistica14. Il ricorrente incitamento brechtiano a separare, nel lavoro teatrale e nella resa scenica, gli elementi, è, dunque, molto più che


un’istruzione per l’uso del palcoscenico: in esso è racchiusa la natura stessa dello straniamento, che è separazione in opposto alla fusione, termine-chiave della teorica wagneriana. La tecnica epica, come fa notare ancora Sanguineti, è destrutturazione e separatezza15. Brecht, come si evince dal suo specifico scritto sulla scenografia, estende a tutto il fare teatrale il principio della separazione degli elementi, ma, come si è visto, è dalla riflessione sulla struttura dell’opera lirica che trae un profondo convincimento per la sua operazione di “destrutturazione”. Separando gli elementi, traendoli fuori dall’ipnotico amalgama di una spettacolarità di (consapevole o inconsapevole) impronta wagneriana, ogni componente della messa in scena è posta di fronte alle proprie responsabilità e persino al compito di ridefinire la propria identità. Il rinnovamento non è più affidato alla sola opera del regista-demiurgo, dell’artista totale, unico padrone dei corpi, delle immagini e dei volumi della scena, ma alla lucida collaborazione tra tutti coloro che lavorano alla messa in scena, dal regista all’attore, dallo scenografo al musicista. Tutti, nella strategia brechtiana, utilizzando i propri specifici strumenti artistici, hanno davanti a sé il fondamentale compito di far assumere allo spettatore un atteggiamento d’indagine e di critica nei confronti della vicenda esposta16 e, a tale scopo, una condizione essenziale è che la scena e la sala siano ripulite da ogni aura “magica” e che non sorgano “campi ipnotici”17. Anche lo scenografo, dunque, è chiamato con forza al suo ruolo, oltre che di costruttore di scene, di costruttore di coscienze. Egli ha il compito di realizzare le scene, ma anche di rimodellare lo stesso palcoscenico, avendo quale scopo la restituzione dell’immagine del mondo in cui si vive: il “costruttore di scene” deve dunque, secondo i casi, sostituire il pavimento con bande scorrevoli, il fondale con uno schermo per proiezioni, le quinte laterali con un’orchestra; deve trasformare il soffitto in una travatura portante per montacarichi e prendere in considerazione perfino un eventuale spostamento del palcoscenico al centro della platea, in mezzo al pubblico. Il suo compito è quello di mostrare il mondo18. Brecht rimette tutto in discussione: soprattutto anima le forme inanimate della scena (attrezzerie, oggetti, arredi, piani e vo- 37


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lumi costruiti). Per lui, ogni cosa ha diritto a un suo dignitoso ruolo scenico, persino lo stipite di una porta: lo stipite d’una porta deve poter provare esattamente come l’attore che ne fa uso, potersi mostrare da tutti i lati, avere un certo suo valore intrinseco, una vita propria, in modo da riuscire efficace nel maggior numero possibile di combinazioni con altri elementi. Esso recita una parte o anche più parti, come qualsiasi altro attore − ha lo stesso diritto e lo stesso dovere di farsi notare. Può essere una comparsa o un protagonista19. Ogni oggetto scenico è concepito come un intero autonomo, dotato di una sua specifica identità, di una conformazione artistica a tuttotondo, che non ammette lati oscuri, facce secondarie, minori o inessenziali: lo scenografo – afferma Brecht – non perda di vista le suggestioni che le sue scene devono esercitare anche sugli attori. Gli oggetti possono avere due facce, una rivolta al pubblico, l’altra verso l’attore, ma anche questa deve essere artisticamente soddisfacente a vedersi. […] Proporzioni armoniose, bel materiale, arredamenti sensati e accessori ben lavorati impegnano l’attore; egli non è indifferente al lato interno di una maschera, al fatto che essa sia o no un prodotto artistico20. Lo stesso attore, una volta entrato nel quadro scenico, diventa anch’egli un “oggetto” della composizione scenografica. Un buon scenario – sosteneva Brecht – deve essere completato soltanto con il contributo dei personaggi che vi si muovono21. Con la teoria dei raggruppamenti, Brecht mostra la fondamentale dialettica tra scena e attore: In un certo senso gli attori costituiranno per lui gli accessori scenici più importanti. Non basta che per gli attori sia riservato un tanto di spazio. Se lo scenario consiste in un albero e tre uomini, oppure in un uomo, un albero e poi ancora due uomini, l’albero da solo non deve – o meglio, non può – costituire una scenografia. Lo spiegamento dei raggruppamenti fa parte dello spiegamento scenografico ed è quindi compito precipuo dello scenografo22. In virtù di questo indissolubile legame tra attore e oggetto scenico, il lavoro dello scenografo acquista potenza drammaturgica: emerge con chiarezza l’uso registico degli elementi scenografici. Per Brecht, lo scenografo dovrà saggiare continuamen-


te i risultati delle prove; i desideri e le intenzioni degli attori stimoleranno la sua inventiva […]. L’andatura zoppicante di un personaggio può richiedere spazio per venire in risalto, certi episodi visti da lontano sembrano comici, da vicino tragici, e via dicendo. E gli attori gli saranno d’aiuto. […] Quando entra in gioco l’attore molte cose inutili si possono eliminare − e agli attori lo scenografo può risparmiare molte cose. Lo scenografo può trasformare completamente il senso delle battute e rendere possibili nuovi gesti23. Un maestro nel dialettizzare arte attorica e arte scenica fu Caspar Neher, che Brecht giudicava il massimo scenografo24 del suo tempo: nei suoi progetti, – egli scriveva – il nostro amico prende sempre le mosse dalle “persone”, da quello “che succede a loro e per loro causa”. Non fa uno “scenario”, non si limita a sfondi e cornici, bensì costruisce il “terreno” sul quale certe “persone” vivono una certa storia25. Per Neher, Brecht testimoniò sempre una profonda ammirazione: quanto accuratamente sceglie una sedia, quanto accortamente la colloca! E tutto è di aiuto alla recitazione26. Rammentando le passate esperienze e la grande lezione impartita da Neher sul progetto scenico, Brecht non solo ribadiva la necessità di una costante interazione tra attore e scenografia, ma mostrava come l’interazione fosse basata, paradossalmente, proprio sul principio della separazione degli elementi: il “principio di Neher”, relativo all’allestimento d’una scenografia […] consentiva allo scenografo di trarre vantaggio dalla recitazione e al tempo stesso di influenzarla. L’autore del copione poteva intraprendere i propri tentativi in costante collaborazione con attori e scenografi, influenzandoli e venendone influenzato. Intanto, pittori e musicisti riacquistavano la propria indipendenza e potevano esprimersi sul tema avvalendosi dei rispettivi mezzi artistici: l’opera d’arte globale veniva proposta agli spettatori nei suoi elementi separati27. Ancora oggi, con questa tecnica, che è insieme tecnica di palcoscenico e tecnica drammaturgica, teoria e prassi della scena, anche il processo di attualizzazione di un’opera può avanzare. Con la dialettica brechtiana, che soppianta la “fusione” dell’ensemble scenico con la sua interna “separazione”, ogni “parte” di 39


un’opera del passato può venire sottoposta a nuova analisi e, in questa salutare frammentazione del dramma, si può scorgere uno spiraglio, un varco per la contemporaneità. L’essere brechtiani oggi non è una posizione antiquariale, perché si può essere brechtiani nella libera espressione della propria poetica. Lo dimostra, ad esempio, Robert Wilson, che separa ed enumera le componenti della moderna messa in scena, evocando il “tutto” wagneriano bilanciato dall’epicità brechtiana, che in quel tutto fa risaltare ogni singola parte: Secondo me nel teatro tutti gli elementi rivestono la stessa importanza: movimento, danza, gesti, costumi, trucco, architettura, scultura, design, luce, testo, musica. Tutte le arti si congiungono nel teatro. Lo si può definire Gesamtkunstwerk, come disse Richard Wagner, o “Teatro Epico”, come lo chiamò Bertolt Brecht. La parola “opera” deriva dalla parola latina che significa lavoro: “opus”, tutto insieme28. Una visione, questa di Wilson, che rispecchia pienamente l’idea che aveva Brecht di un’opera d’arte totale in cui, però, le diverse componenti avessero tra loro un rapporto “straniato”, come ha puntualmente sottolineato Paolo Chiarini: a proposito della collaborazione delle “arti” in un unico spettacolo, Brecht ha scritto una volta: «Invitiamo… tutte le arti sorelle dell’arte drammatica non a creare un’opera d’arte totale, in cui esse si risolvano perdendosi, ma a contribuire, ciascuna a suo modo e in collaborazione con quella, all’impresa comune: il loro vicendevole rapporto sarà – allora – di mutua “alienazione”»29. In questa prospettiva, la brechtiana separazione degli elementi idealmente assume, nella poetica di Wilson, la geometria del “prisma”, che è un corpo unico, ma sfaccettato, fatto apposta per far risaltare, di volta in volta, una differente faccia del volume. Ecco, allora, la strada per attualizzare davvero: rinunciare al maquillage scenico e mettere in tensione dialettica – attraverso il contributo di tutte le componenti del teatro – il passato con la propria contemporaneità. Proprio come ha saputo mostrare Wilson con il Macbeth verdiano, opera buia riportata nel nostro tempo attraverso la luce: Odio “aggiornare” un’opera: rappresentare Macbeth in un supermercato per farla sembrare più “mo40 derna” secondo me non ha senso. Rispetto ciò che il composi-


tore ha scritto nella partitura […]. La difficoltà sta nel trovare la propria strada: rispettare il maestro, ma evitando di esserne schiavo. Macbeth è come un prisma: ha molte sfaccettature. È ciò che lo rende interessante. È una trama molto oscura, piena di violenza. Ed è una tragedia. Dunque deve essere piena di luce30.

1 B. Brecht, Il teatro sperimentale, in Id., Scritti teatrali, vol. I (Teoria e tecnica dello spettacolo, 1918-1942), trad. it. Einaudi, Torino 1975, p. 156. 2 Mi si consenta di rinviare ad alcune mie note critiche sul tema del Kitsch in relazione all’attuale scena teatrale: «Lukács, dovendo definire la natura del Kitsch, faceva notare che “dal punto di vista del rispecchiamento estetico della realtà, fra un casamento camuffato da palazzo rinascimentale o barocco […] o il film dove il figlio del milionario sposa la dattilografa, non esiste nessuna differenza di principio”. In entrambi i casi non si ha a che fare con un’illusione, ma con una menzogna. Si tratta di un travestimento della realtà. Mentre l’illusione è un attributo della realtà stessa, la menzogna è una sua negazione. La scenografia, che dovrebbe essere il luogo fisico dell’illusione, oggi più che mai è piuttosto il luogo fisico della menzogna. Oggi più che mai incarna l’idea stessa del Kitsch. Essa è Kitsch negli addobbi lussuosi, fantasmagorici, magniloquenti, sfavillanti, enfatici e ipertecnologici dei set televisivi, ma lo è altrettanto sulle tavole del palcoscenico teatrale, nei camuffamenti stilistici d’ogni genere e grado o nelle arbitrarie licenze poetiche dei tanti artisti alla moda che affollano le scene con creazioni create a prescindere dall’oggetto della rappresentazione» (cfr. C. Fiorillo, Il Kitsch scenico, in Id., Travestimenti scenici di arredi e oggetti d’uso quotidiano, Giannini, Napoli 2015, p. 109). 3 B. Brecht, Il teatro sperimentale, cit., pp. 158-159. 4 Ivi, p. 159. 5 B. Brecht, La via del grande teatro contemporaneo, in Id., Scritti teatrali, vol. I (Teoria e tecnica dello spettacolo, 1918-1942), cit., p. 95. 6 B. Brecht, La critica culinaria, in Id., Scritti teatrali, vol. I (Teoria e tecnica dello spettacolo, 1918-1942), cit., p. 109. 7 Ivi, pp. 109-110. 8 P. Grassi, Prefazione, in F. Ewen, Bertolt Brecht, trad. it. Feltrinelli, Milano 1970, p. 10. 9 B. Brecht, Note all’opera Ascesa e rovina della città di Mahagonny, in Id., Scritti teatrali, vol. III (Note ai drammi e alle regie), trad. it. Einaudi, Torino 1975, p. 53. 10 Ivi, p. 56. 11 Ibidem . 12 Ivi, p. 57. 13 B. Brecht, Scenografia della drammaturgia non aristotelica, in Id., Scritti teatrali, vol. I (Teoria e tecnica dello spettacolo, 1918-1942), cit., p. 234.

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14 E. Sanguineti, Note alle note a Mahagonny, in Id., Cultura e realtà, a cura di E. Risso, Feltrinelli, Milano 2010, p. 324. 15 Ibidem . 16 B. Brecht, Breve descrizione di una nuova tecnica della recitazione che produce l’effetto di straniamento, in Id., Scritti teatrali, vol. I (Teoria e tecnica dello spettacolo, 1918-1942), cit., p. 177. 17 Ibidem . 18 B. Brecht, Scenografia della drammaturgia non aristotelica, cit., p. 234. 19 Ivi, p. 238. 20 Ibidem . 21 Ivi, pp. 235-236. 22 Ivi, pp. 234-235. 23 Ivi, p. 236. 24 B. Brecht, Discorso dello scrittore di drammi sul teatro dello scenografo Caspar Neher, in Id., Scritti teatrali, vol. II (“L’acquisto dell’ottone”. “Breviario di estetica teatrale” e altre riflessioni, 1937-1956), trad. it. Einaudi, Torino 1975, p. 115. 25 Ivi, p. 114. 26 Ibidem . 27 B. Brecht, Il teatro sperimentale, cit., p. 168. 28 R. Wilson, Il mio Macbeth, in L. Parmiggiani, M. Vighi (a cura di), Macbeth (“libro programma” di sala), Edizioni del Teatro Municipale Valli, Reggio Emilia 2013, p. 51. 29 P. Chiarini, Bertolt Brecht, Laterza, Bari 1959, pp. 123-124. 30 R. Wilson, Il mio Macbeth, cit., p. 52.

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Il dono e l’arte, la festa e la dépense ai tempi di internet OLGA SCOTTO DI VETTIMO

Con l’espressione «negatività senza impiego» Georges Bataille individuava quella condizione che scaturisce dal desiderio svincolato dall’utile, quindi dal prestigio e dal riconoscimento sociale, e che nell’arte, nel gioco, nella festa, nel rito, nella trasgressione trova la sua dimensione più completa. Il desiderio, che per Bataille è sempre desiderio erotico, liberato da ogni finalità riconducibile ai valori di vantaggio, riconoscimento e utilità, ha, dunque, una funzione emancipatrice: È lo stato di trasgressione che il desiderio vuole, è l’esigenza di un mondo più ricco e prodigioso, l’esigenza, in una parola, di un mondo sacro. La trasgressione si traduce sempre in forme prodigiose: ovvero nella musica, nella poesia, nella danza, nella tragedia e nella pittura. L’arte non ha altra origine che la festa, in ogni tempo, e la festa, che è religiosa, si lega al dispiegarsi di tutte le risorse dell’arte. Non possiamo immaginare un’arte indipendente dal movimento che generò la festa1. Dunque per lo studioso l’arte, non necessariamente subordinata al telos, afferisce all’ambito delle attività emancipate e giocose che assicurano agli uomini libertà e sopravvivenza. In tal modo viene sottolineata la forza deflagrante e opposta dell’arte rispetto al lavoro, dal quale si distingue proprio perché non finalizzata all’accumulo (homo oeconomicus)2. Questo concetto è strettamente connesso alla nozione di dépense3, attraverso la quale Bataille interpreta la festa e il rito della dilapidazione dei beni (se non della vita stessa), e che viene

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definita come un movimento economico improduttivo che si libera nell’erotismo, nel banchetto, nel sacrificio e nel gioco e che vìola e capovolge l’idea di accumulazione, affermando, piuttosto, quella della dissipazione, della dispersione, quindi della donazione (materiale e immateriale): la dépense è l’inutile e il gratuito (che non si dà a livello individuale, bensì collettivo), è il dispendio improduttivo, lo spreco; è il gioco dell’energia non limitato da alcun fine. In questa critica radicale al principio dell’utilità, Bataille teorizza l’economia generale del dispendio, quindi l’economia di festa, che, diversamente dalla funzionalità produttiva non è proiettata verso il futuro e si lega agli esiti più belli dell’arte, dalla poesia, al pieno rigoglio della vita umana4. Bataille intravede il principio della dépense (dispendio improduttivo) in tutte quelle attività che hanno il loro fine in se stesse, come il lusso, i lutti, le guerre, i culti, le costruzioni di monumenti suntuari, i giochi, gli spettacoli, le arti, l’attività sessuale perversa5. In particolare l’arte viene suddidivisa in due categorie: quelle in cui il dispendio è reale (musica, danza e architettura, ma anche pittura e scultura) e quelle del dispendio simbolico (la letteratura e il teatro). Tali riflessioni batailliane sono debitrici del pensiero di Marcel Mauss attorno al potlatch6, contenuto nel Saggio sul dono del 1923-24 e di cui Bataille accoglie l’idea che lo scambio non derivi dal baratto ma dall’offerta suntuaria degli oggetti e che la loro stessa distruzione (se prevista) sia finalizzata a riedificare la realtà oggettuale, restituendo alla comunità la sacralità dell’oggetto che viene preservato dalla deperibilità del valore materiale e dell’utile. Mauss, studiando i documenti etnografici relativi ad alcune società primitive, scopre l’esistenza di relazioni complesse legate al dono – donare, accettare il dono, contraccambiare, gareggiare nello scambio, azioni dalla complessa valenza materiale e simbolica – e alla sua natura. Il dono, che Mauss intende quale socialità obbligatoria, non è mai, quindi, pratica disinteressata e la sua finalità trova fondamento nel rafforzamento dei legami sociali e comunitari. Il dono, come obbligo della reciprocità («triplice obbligo del donare, del ricevere e del ricambiare»)7, investe tutti gli aspetti della vita della comunità, sia quelli econo-


mici che quelli sociali ed è, dunque, fatto sociale totale, ma è anche luogo dell’omaggio e dell’insidia8, in cui donatore e donatario si confrontano e si sfidano attraverso un crescendo di doni e contro-doni. Il dono, pertanto, è descritto come gesto mai neutrale, che travalica le logiche della mera transazione economica, con ricadute che investono sia il donatore sia il destinatario, determinando aspettative, desideri, attese che incidono sull’economia materiale e simbolica della comunità tutta. Dunque il dono nelle società arcaiche (o non occidentali) non è una pratica libera, ma un vincolo di tipo comunitario, non disinteressato ma obbligatorio, diversamente da come lo interpreta Bataille. Anche Derrida si discosta da Mauss, affermando che il dono deve essere invisibile, inconsapevole, inatteso e non ricambiabile. Sottraendosi al vincolo economico dello scambio, il dono per lo studioso è l’esperienza dell’impossibile, quindi l’inneffabile, ciò di cui non si dispone e che è al di là della ragione: il tempo (che sempre ci sfugge) e la morte9 (che mai potrà essere posseduta in vita). Derrida afferma, contrariamente a Mauss, che affinché ci sia dono, non deve esserci reciprocità, ritorno, scambio, contro-dono né debito. (…) Al limite, il dono come dono dovrebbe non apparire come dono, né al donatario, né al donatore, affermando, inoltre, che, quindi, il dono non debba essere neppure riconosciuto come tale dal donatario in quanto se lo riconosce come dono, se il dono gli appare come tale, se il presente gli è presente come presente, questo semplice riconoscimento è sufficiente per annullare il dono10. I doni sono come gli eventi, quindi sono imprevedibili, fortuiti, immotivati, invisibili, disinteressati, non prevedono la reciprocità, la riconoscenza e la gratitudine, mentre devono «lacerare la trama, interrompere il continuum di un racconto che essi tuttavia richiedono, devono perturbare l’ordine delle causalità: in un istante. (…) Il dono e l’evento non obbediscono a niente, se non a principi di disordine, cioè a principi senza principio»11. Per Derrida, espressione dell’etica del dono, intesa come esperienza, dunque, paradossale, inattesa, incalcolabile, è l’arte che, al pari della morte, è irripetibile e imprevedibile perché irrompe nel presente e destabilizza la regola e l’ordine, ana- 45


logamente a quanto avviene nella dimensione del rituale o della festa che operano come dispositivi di destorificazione del negativo, trasponendo l’immanenza talora ingestibile del presente su un piano meta-storico.

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Il tema del dono si rivela un’utile lente per sviluppare una riflessione sulla natura relazionale della pratica artistica contemporanea, benché la stessa definizione di arte relazionale oggi si presti ad assumere significati plurali. D’altra parte è lo stesso tema del dono a essere investito da sviluppi teorici più ariticolati, che si ridefiniscono sintonicamente con le nuove dinamiche sociali complesse. Argomenti come il dono e la relazione si prestano, dunque, a nuove riflessioni che suggeriscono la sostituzione dell’idea di circolarità (maussiana) con quella della Rete. Nel volume Il dono al tempo di internet Marco Aime e Anna Cosetta12 riprendono la questione del dono interrogandosi sul sistema del download e dell’upload e sulle ragioni sociali che sostengono la condivisione gratuita in Rete di informazioni e materiali, finalizzata a destinatari sconosciuti. Invero, internet produce un’anomalia rispetto al dispositivo del dono teorizzato da Mauss, benché di esso confermi il bisogno di costruzione identitaria dell’individuo all’interno di una comunità. Difatti la condivisione in Rete non solo è diretta spesso a una comunità indistinta, ma non prevede neppure la perdita (quindi il sacrificio), poiché l’uploader, offrendo i propri materiali digitali, in realtà non giunge mai a privarsene. Inoltre lo stesso contro-dono (che non è mai obbligatorio) non sarà necessariamente destinato a contraccambiare uno specifico donatore, ma, proprio come per il dono, verrà messo a disposizione della collettività virtuale, probabilmente anonima e indistinta. Da questa nuova prospettiva può essere indagato il tema del dono nell’arte, assumendo come presupposto che sia il dono sia l’arte hanno in comune una natura plurale basata sullo scambio e sulla determinazione di nuovi vincoli relazionali, quindi sul significato rituale, sulla dimensione partecipativa, etica e sociale. Se l’arte produce dispositivi attivatori innanzitutto di relazioni tra artista e pubblico, essa assume naturalmente in sé le categorie antropologiche del rito e della festa, fondate sul dono (e sul sacrificio), offrendo una nuova dimensione comunitaria che sposta


l’aura, ritenuta da Benjamin ormai perduta, dall’opera all’evento. Infatti, Il dono è sempre espressione di una relazione affettiva: presuppone sentimenti imprevedibili (stupore, gravoso fastidio o gioioso contraccambio) e reciprocità poiché, pur non determinando un obbligo coercitivo, assoggetta all’imperativo della gratitudine. Quando l’arte s’iscrive nella logica del dono al valore espositivo subentra un altro, al contempo auratico e atmosferico: il valore “di legame”, connesso al “terzo paradigma” individuato da Alain Caillé13. Quest’ultimo – il “terzo pradigma” o “paradigma del dono” –, definisce il dono come ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone14, insistendo, dunque, in sintonia con la teoria maussiana, sul concetto di dono come motore di relazioni, ma al tempo stesso distinguendosi da essa perché evidenzia l’assenza della certezza della restituzione, un differimento temporaneo della restituzione stessa e l’orizzontalità delle interazioni sociali. Alcune ricerche dell’arte contemporanea si propongono come processi attivati dall’artista plurale […] che concepisce l’operazione artistica come una don’azione, come pratica del dono, perché da un lato sottrae la tecnologia alla pura logica funzionale del sistema produttivo, dall’altro sottrae l’arte al sistema di scambio – evitando i contesti e le modalita tradizionali di esposizione, compravendita e collezionismo –, restituendo alla comunità l’una e l’altra come bene pubblico, da fruire liberamente e collettivamente15. D’altra parte già Jean Baudrillard, descrivendo la società dei simulacri iperreali, aveva individuato proprio nello scambio simbolico del dono maussiano, distante dal valore della produzione – così come negli anagrammi di Saussure e nel concetto di pulsione di morte elaborato da Freud –, la possibile alternativa all’anti-realtà postmoderna, al «deserto del reale», all’estasi dell’iperrealtà (determinata dall’esperienza tecnologica legata ai media e al computer), quindi lo strumento di critica e di opposizione al capitalismo e alla razionalità16. I labili confini che separano l’esperienza estetica da quella artistica consentono oggi di sperimentare nuove forme d’arte che

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si fondano sullo scambio e sulla partecipazione del fruitore nel processo creativo, violando così nell’arte il concetto di sacro e di autore, a favore invece della co-creazione e della condivisione gioiosa e ludica. L’arte, dunque, recuperando l’idea del gioco come forma primaria di interazione, si associa all’intrattenimento e alla festa, intesa come luogo di costruzione di nuovi legami sociali all’interno dello spazio pubblico, in cui normalmente viene esercitata la partecipazione collettiva e ora anche il processo creativo, quindi l’opera. Il valore estetico, dunque, non è più nell’oggetto ma nell’esperienza della festa e nella pratica del dono. Tale consapevolezza determinerebbe, secondo Nicolas Bourriaud, quindi, anche la necessità di utilizzare una teoria estetica in grado di valutare le opere d’arte sulla base della loro capacità di creare relazioni interumane, autentiche e disinteressate17. In questo flusso ininterrotto di interconnessioni relazionali, l’arte non produce opere ma processi che si sviluppano intorno a dinamiche collettive e non più a partire da singoli individui. Pertanto l’artista, inteso nella dimensione di soggetto collettivo materiale e virtuale, attraverso lo sforzo comunitario di modificazione materiale e simbolica del contesto, sperimenta un metodo di scambio e di condivisione avente come presupposto la percezione e la praticabilità effettiva di un territorio comune. Tale atteggiamento obbliga l’estetica a osservare e a includere pratiche artistiche di norma considerate estranee ai suoi interessi, ma obbliga anche a individuare il soggetto autoriale come un’identità complessa, che costruisce un flusso processuale plurale e relazionale18 (passaggio dall’io e dal sé al noi poetico). L’opera, inoltre, perde la connotazione del site specific per proporsi come relation specific, quindi come “scultura antropologica relazionale”19, complessa proposta artistica open source che mutua dalla Rete il modello per costruire l’esperienza estetico-relazionale e che si sviluppa attraverso una pratica creativa condivisa, pubblica, collettiva, contaminata e trasversale, in cui lo “spett-attore” diventa parte del processo di ricerca e di sperimentazione, offrendo (quindi donando) il proprio contributo gratuito e generativo per la modifica del “codice sorgente” e la ricodifica di nuovi messaggi. Questa pratica, quindi, che fa coincide-


re l’arte con il dono, attraverso la festa, il gioco e l’errore (dovuto all’elemento dell’imponderabilità consustanziale alla scelta dell’improvvisazione), produce aggregazione, «dinamiche del sentimento»20, a cui tutti hanno accesso in modo uguale e paritario (secondo il principio di un’“orizzontalità imperfetta”), e sviluppa un processo artistico relazionale costantemente amplificato dal flusso interattivo dei “dispositivi estetici acceleranti” (installazioni relazionali e aggreganti) con i quali si alimenta e si costruisce l’opera-processo-esperienza (individuale e collettiva al tempo stesso) che, paradossalmente, si propone come un nuovo unicum irripetibile e non replicabile, e che può essere attraversata e mai contemplata, vissuta e mai raccontata, esperita e solo succevamente teorizzata21. L’arte, in tal modo, diventa «fatto sociale totale», quindi fenomeno strettamente legato a tutti gli altri aspetti della vita di una determinata comunità, in questo caso un fatto-evento-festa che, nel suo accadere, coinvolge tutti i livelli e le istituzioni della società. L’arte, così intesa, è un agire collettivo, rituale ma desacralizzato, ludico ma al tempo stesso orientato alla costruzione di un èthos, dove ogni atto, prodotto, dispositivo, saper-fare materializzato, tradotto, interpretato o reinterpretato, contaminato o essenzializzato, acquisisce natura costituente del processo espressivo/creativo/artistico/relazionale che innesca una trasformazione sociale attraverso l’azione artistica condivisa e imponderabili connessioni partecipate che utilizzano il network antropologico/sociale/tecnologico sia come modello di pensiero («intelligenza collettiva»22) sia come strumento (la Rete). L’opera, pertanto, come il dono per Mauss, è un dispositivo attraverso il quale non si realizza una mera pratica utilitaristica di scambio, ma si attiva quel complesso sistema di relazioni che giunge a pervadere tutti gli aspetti del vivere (solidarietà, economia, estetica, etica, politica, religione)23, rendendoli tra loro embedded24, fino a generare un sentimento percepito come obbligo sociale per l’intera comunità.

1 G. Bataille, Lascaux ou la naissance de l’art, in Id., Œuvres complètes, t. IX, Gallimard, Paris 1979, p. 41 [trad. it. a cura di S. Mati, E. Busetto, Lascaux. La nascita dell’arte, Mimesis, Milano 2007, p. 45].

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2 Cfr. M. Sahlins, Culture and Practical Reason, The University of Chicago Press, Chicago 1976. 3 La notion de dépense viene pubblicato per la prima volta nel 1933 ne «La Critique sociale». Il tema viene poi sviluppato successivamente nei testi La limite de l’utile (fragments) (scritto tra il 1939 e il 1945, pubblicato postumo) e La part maudite (1949). 4 G. Bataille, Choix de lettres 1917-1962, pp. 377-379, passo citato nel saggio di F.C. Papparo, Una traccia lasciata su un vetro rigato, postfazione a G. Bataille, Il limite dell’utile, a cura di F.C. Papparo, Adelphi, Milano 2000, p. 247. 5 G. Bataille, La notion de dépense, in «La Critique sociale», n. 7, gennaio 1933 [tr. it. La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense, tr. it. a cura si F. Serna, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 1-22]. 6 Mutuato dallo studioso francese dalle ricerche di Franz Boas e considerato da Marcel Mauss come «prodotto mostruoso del sistema dei regali», il potlatch è un rituale che prevede la donazione come offerta finalizzata alla sfida e all’obbligazione di un rivale il quale, per cancellare l’umiliazione e l’obbligo contratto con l’accettazione del dono, corrisponde con un dono più importante. Il concetto di «fatto sociale totale» elaborato da Mauss si riferisce, dunque, allo scambio simbolico e materiale che regola la circolazione dei beni e che determina le relazioni, investendo le dinamiche della comunità tutta. 7 «La prestazione totale, infatti, non implica soltanto l’obbligo di ricambiare i regali ricevuti, ma ne presuppone altri due, non meno importanti: l’obbligo di fare dei regali, da una parte, l’obbligo di riceverli, dall’altra». M. Mauss, Saggio sul dono, Einaudi, Torino 1991, p. 172. Il testo, Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïques venne pubblicato per la prima volta un Francia nel 1923-1924 su “L’Année sociologique”. 8 L’insidia è già contenuta nell’ambiguità della parola gift, che in inglese significa dono e in tedesco veleno. Ma ancora: è stata in seguito sottoline- ata l’ambiguità della stessa etimologia della parola dono: δόσις, infatti, si- gnifica dono ma anche dose (di farmaco o di veleno). Si veda A. Caillé, Note sul Paradigma del dono, in P. Grassatelli, C. Montesi, L’interpretazione dello spirito del dono, Franco Angeli, Milano 2008, pp. 32-33. Per approfondimenti cfr. anche A. Somaini, Il dono/the gift, Offerta, Ospitalita, Insidia, Edizioni Charta, Milano 2001. D’altra parte l’arte, che ha ampiamente indagato il tema del dono come gesto di gratuità e di scambio, ha anche guardato all’ingannevole, all’insidioso, allo scivoloso, all’ambiguo in esso contenuto già con il celebre ferro da stiro chiodato Le cadeau (1921) di Man Ray. Più in generale per il rapporto tra arte e dono si rinvia a U.M. Olivieri, M. Castagna (a cura di), Il dono nell’arte, Diogene Edizioni, Campobasso 2017. 9 Si veda J. Derrida, Donner le temps (1991) e Donner la mort (1999). 10 J. Derrida (1991), Donare il tempo. La moneta falsa, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, pp. 14-15. 11 Ivi, pp. 122-123. Tra i molteplici contributi alla pluralità di approcci sull’argomento, va


segnalata anche la diversa interpretazione di Jean-Luc Marion in Étant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation (1997), il quale affronta il tema del dono dal punto di vista fenomenologico e propone la riduzione del dono (inteso come oggetto) alla donazione (intesa come processo) che per lo studioso, in quanto origine, è indefinibile. 12 M. Aime, A. Cosetta, Il dono al tempo di internet, Einaudi Editore, Torino 2010. 13 E. Di Stefano, Iperestetica. Arte, natura, vita quotidiana e nuove tecnologie, in «Aestetica Preprint», n. 95, agosto 2012, p. 32. 14 J.T. Godbout, Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 30. Così è definito il dono dagli studiosi del M.A.U.S.S. (Mouvement Anti-Utilitariste dans les Sciences Sociales) fondato a Parigi nel 1981 da economisti, giuristi, sociologi e antropologi (tra cui Serge Latouche, Jacques Godbout, Gérald Berthoud, Jean-Luc Boilleau), a seguito di un dibattito organizzato dal Centre Thomas More sul tema del dono l’anno precedente. Animatore del movimento antiutilarista, direttore del periodico «Bullettin du M.A.U.S.S.», nonché autore del manifesto Critica della ragione utilitaria è il sociologo francese Alain Caillé. 15 A. Balzola, P. Rosa, L’arte fuori di sé, Feltrinelli, Milano 2011, p. 153. Sul tema dello “spettatore-attore” si veda, tra gli altri, anche R. Diodato, Estetica del virtuale, Mondadori, Milano 2005 (in particolare pp. 169184). 16 J. Baudrillard, L’échange symbolique et la mort, Gallimard, Paris 1976. 17 N. Bourriaud (1998), Estetica relazionale, postmediabooks, Mila- no 2010, p. 47: «Questi procedimenti ‘relazionali’ (inviti, casting, incontri, spazi conviviali, appuntamenti…) non sono altro che un repertorio di forme comuni, di veicoli mediante i quali si sviluppano pensieri singolari e personali rapporti col mondo». E ancora: ciò che le opere producono «sono spazitempo relazionali, esperienze interpersonali che tentano di liberarsi dalle costrizioni dell’ideologia della comunicazione di massa; in qualche modo producono luoghi in cui si elaborano modelli di partecipazione sociale alternativi, modelli critici, momenti di convivialità costruita». Ivi, p. 46. Sul tema si veda anche G. Fronzi, Etica e Estetica della relazione, Mimesi Edizioni, Milano-Udine 2009. Questa riflessione prende le distanze anche dalla più tradizionale proposta di artista come «The Giving Person», portatore e donatore di idee. Si veda a questo proposito la definizione suggerita dagli artisti inglesi Gilbert&George («Civilization has always depended for advancement on the “giving person”. We want to spill our blood, brains, and seed in our life-search for new meanings and purpose to give life», Gilbert&George, What our art means, in Gilbert&George, cat. Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, Parigi 1997, p. 262; ora in L. Hegyi, The Giving Person, l’atto di donare senza un destinatario, in The Giving Person. Il dono dell’artista, Electa Napoli, Napoli 2005, p. 15). 18 Sul tema si veda M. Costa, Il sublime tecnologico, Edisud, Salerno 1990. Con il sublime tecnologico (che sostituisce la categoria estetica del Bello) scompare il soggetto a favore dell’ipersoggetto o soggetto collettivo e si assiste alla nascita dell’estetica degli eventi. Lo stesso autore in Arte con-

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temporanea ed estetica del flusso (Edizioni Mercurio, Vercelli 2010) suggerisce l’espressione «ricercatori estetici» in luogo di «artisti» ed elabora il concetto di «flusso estetico tecnologico», campo di sperimentazione per l’arte che si confronta con il digitale e la Rete. 19 Per “scultura antropologica relazionale” si intende una proposta artistica fondata sui rapporti connettivi e relazionali che sviluppano una nuova esperienza estetica e artistica, in cui l’individuo è parte integrante del processo, ma solo perché in relazione con gli altri. Il coinvolgimento di tutta la comunità dei soggetti coinvolti è la condizione necessaria per la costruzione di una dimensione identitaria, basata sulla valorizzazione del senso di appartenenza al territorio, inteso come spazio comune di relazione sociale, umana, estetica, culturale, luogo di accelerazione di un flusso rigenerativo, capace di intercettare le pluralità culturali e di trasformarle in proposte estetiche e creative. Lavora in questo ambito il Corso di Nuove Tecnologie dell’Accademia di Belle Arti di Napoli con progetti come Festival del Bacio (Sant’Agata dei Goti, 2012; {Meglio Insieme}, Sant’Agata dei Goti, 2013; Napoli, 2014; Senza di te non sarebbe la stessa cosa, San Potito Sannitico, 2018;); #CUOREDINAPOLI (Napoli 2015, 2017, 2018); Festa dell’Incanto (Monte di Procida 2017). Cfr: www.nuovetecnologiedellarte.it; www.facebook.com/ nuovetecnologiearte; www.facebook.com/hashtagcuoredinapoli. 20 R. Barbanti, Lo stato delle cose, in «Epipháneia», n. 1, ottobre 1995, p. 28. 21 “La festa è la fusione della vita umana”, G. Bataille (1978), Teoria della religione, SE, Milano 2002, p. 50. 22 P. Lévi, L’intelligence collective. Pour une anthropologie du cyberspace, La Découverte, Paris 1994. 23 Sull’argomento si veda S. Moebius, F. Nungesser, Total Art - The Influence of the Durkheim School on Claude Lévi-Strauss’s reflections on art and classification, in A.T. Riley, W.S.F. Pickering, W.W. Miller, Durkheim, the Durkheimians, and the Arts, Durkheim Press, Oxford 2013, pp. 178-201. 24 Si veda K. Polanyi, The Great Transformation, Farrar & Rinehart, New York 1944.

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Il “nuovo” nel modello Design-Oriented MARIA ANTONIETTA SBORDONE

Premessa Gli attuali processi di creazione delle merci nascono in ambienti in cui si stabilisce la dinamica relazionale in termini di network tra i diversi stakeholders del sistema produttivo, formativo e distributivo. L’impatto sociale e culturale del prodottomerce, al centro di un sistema di relazioni promosso dalle ICT, introduce nuovi modelli organizzativi in tutte le fasi di creazione del valore. Il sistema del Design, con tutte le sue implicazioni, agisce sui nuovi processi design oriented mirando alla realizzazione di esperienze continuamente aggiornabili in riferimento a merci che si fondano sulla conoscenza. Il modello da seguire parte dal bisogno di condividere aspettative e desideri e corrisponde ad un sistema di relazioni che si traduce in un ‘modello decentrato di produzione, distribuzione e consumo’. La merce è espressione dell’impegno del singolo, necessita per svilupparsi di condizioni produttive locali ‘profittevoli’; si individuano le capabilities, rese opportunità per trasformarsi in nuove forme di commitment e grazie alla creazione e disponibili- tà di nuovi metodi e sistemi di produzione, dispiegano il loro valore attraverso la “filiera cognitiva” (Rullani 2004) in network multifunzionali. La struttura manifatturiera, formativa e della ricerca nel Design nei territori produttivi, si configura come tante ‘aree-

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sistema’ dove si instaura una logica aggregativa che favorisce il dialogo e la cooperazione tra gli attori. Il modello organizzativo avanzato locale punta sulla disponibilità di risorse specifiche e distinguibili, consapevole del fatto che si facilita la realizzazione di attività innovative che, se integrate nei sistemi produttivi, eviterebbero la competizione sui costi con tutte le implicazioni del caso. La centralità dell’interazione tra sistema produttivo, formativo e della ricerca sono indispensabili per introdurre l’innovazione knowledge-based che si traduce in un chiaro processo di identificazione delle capabilities; attraverso l’indagine, l’analisi e l’ascolto l’obiettivo è rilanciare le produzioni locali o immaginarne nuove sempre più performanti.

Persistenza dei Tacit knowledge e delle capabilities

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Nuove forme societarie e solidali sono favorite e diffuse da e attraverso la rete; la metafora del ‘corpo sociale’, in voga presso i sociologi, si espande attraverso il tessuto del networking che costituisce il vero motore per l’innovazione sociale. L’economia sociale o del benessere è il risultato del ‘cambiamento sociale’, il ‘social change’, che punta alla valorizzazione del capitale umano, attraverso il soddisfacimento degli ‘human beings’. Nella logica dell’economia del benessere, scaturita dalla costruzione sociale del cambiamento, lo sviluppo che viene dal basso produce risorse che non sono precostituite e predeterminate, ma derivano da dinamiche che si producono localmente. Le comunità locali riprendono vigore recuperando i valori propri per guidare la trasformazione, si consolidano in comunità di “senso” favorendo l’ascesa delle “capabilities”. Queste ultime sono il risultato dell’impegno individuale rafforzato dalla conoscenza a sua volta supportata dalla formazione, dalla continua sperimentazione in seno all’apprendimento collettivo nei laboratori territoriali e nelle reti digitali. Le capabilities introdotte nel tessuto produttivo garantiscono la realizzazione dei cosiddetti vantaggi “competitivi dinamici”; infatti, sono il nucleo intorno al quale gli attori locali sperimentano formule innovative per la trasformazione continua dei contesti. Attraverso la disponibilità di conoscenze e competenze, accompagnate da una visione prospettica,


si apprende e si sviluppa progettualità; lo scopo è produrre soluzioni ai problemi comuni rilevanti con risultati realizzabili, perché riconosciuti come tali e adeguati al livello delle capacità di azione locale e rafforzabili nel processo di sviluppo. Si evidenzia la necessità di organizzare una filiera integrata pubblico-privata in una prospettiva di complementarietà e sussidiarietà, in cui i livelli di governo superiore accompagnano (integrando le competenze e le “capabilities” locali) i progetti di sviluppo locale. Lo sviluppo di filiere integrate locali segna lo spartiacque con il modello economico precedente e si innesta nel modello attuale della “iper-complessità” (Rullani 2003): i bisogni umani rappresentano “gli agenti, beneficiari e aggiudicatari del progresso, ma succede anche che sono direttamente o indirettamente il mezzo principale di ogni produzione”. L’evoluzione del concetto di risorsa in ‘capability’ sostanzia lo sviluppo del pensiero economico sociale centrato sulla visione della vita umana di termini di “funzionamenti” e si riferisce al livello di qualità della vita ai fini della valutazione della capacità del singolo di esprimere il proprio insight. I “funzionamenti” sono definiti come il coacervo di stati d’animo determinati dal soddisfacimento di bisogni primari, ai quali si affianca il desiderio di raggiungere livelli di bisogni latenti (latent needs) che sconfinano nei desideri (wants). Accrescere, creare profitto dalla disponibilità di beni, servizi ed esperienze, richiede un processo di graduale soddisfacimento dei bisogni, di riconoscimento delle attese e dei desideri. Viceversa, la consapevolezza dei limiti e delle possibilità, l’assunzione dell’imprevisto, l’adattamento continuo, l’accesso facilitato alla creazione del valore, si fonda su processi orientati al principio di reciprocità che si instaura tra reti locali produttive e nella parallela espansione in reti immateriali.

Processi di innovazione I processi di innovazione nel Design hanno un forte accento di immaterialità. Difatti, i nuovi sviluppi non sono solo di natura tecnologica: ma a giocare un ruolo fondamentale sono quelli che riguardano i contenuti intangibili: l’arricchimento della narrazione, il significato e il valore che si attua attraverso la progettazio-

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ne, la riorganizzazione dei processi e dell’impegno lavorativo, il marketing e il branding. La configurazione di un sistema di relazioni prevede la presenza di attori della produzione, della formazione, della ricerca riuniti secondo una logica aggregativa che segue le regole del networking. L’Università italiana, da tempo, investe nella ricerca e nella formazione nei settori di eccellenza tipici del Made in Italy: i corsi di laurea ai vari livelli dedicati al design e alla moda, in sinergia con i centri di ricerca e le imprese, contribuiscono a creare le condizioni per quello che Richard Florida definisce l’“ecosistema creativo”. Florida conferma il ruolo di centralità che l’Università di Stanford e il MIT hanno esercitato nello sviluppo della Silicon Valley e nella più vasta area produttiva di Boston: università, imprese e creatività giovanile sono fondamentali per qualsiasi tipo di innovazione di rilievo. La chiave dello sviluppo economico dei nuovi sistemi industriali risiede, infatti, nella progettazione di sempre più efficaci meccanismi per trasferire la produzione dell’Università in termini di ricerca applicata e di capitale umano ai territori in cui essa si insedia. Richard Florida ha da sempre rilevato l’importanza, per i territori produttivi, della presenza dell’Università e degli stretti legami tra sviluppo e capitale intellettuale, fino a misurare, attraverso il rapporto brain, gain/brain, la capacità da parte di un dato territorio di trattenere i ricercatori e i talenti che forma. Il rapporto tra questa capacità e la competitività di tali contesti è diretta; è evidente, infatti, che uno dei capitali più importanti da implementare è proprio il capitale umano, alla base dell’economia knowledge based contemporanea. L’obiettivo è aggregare università, imprese, istituzioni, in una sorta di “ecosistema produttivo guidato dalla ricerca e dall’innovazione”. La logica aggregativa mette in campo specifiche competenze per la realizzazione di interazioni e confronti multidisciplinari in termini di strategie di sviluppo operative che dialogano con cluster specifici. Nell’ottica dell’“ecosistema produttivo guidato dalla ricerca e dall’innovazione”, si presuppone un tipo di aggregazione che funzioni secondo le regole del Network, in cui confluiscono le competenze formative e scientifiche, e la rete delle relazioni nazionali ed internazionali.


Modello organizzativo avanzato territoriale Il ‘modello organizzativo avanzato’, riflesso dell’“ecosistema produttivo guidato dalla ricerca e dall’innovazione”, prevede una Task di soggetti pubblico-privati che in maniera congiunta assumono il ruolo di drivers dell’innovazione nei propri settori di appartenenza, sia a livello di formazione e di ricerca, sia sul piano produttivo e tecnologico. L’obiettivo generale rispecchia l’esigenza di dare forma e struttura ad un ecosistema di risorse umane qualificate, di centri di ricerca, di università, di imprese, per dar vita ad un ‘Modello cooperativo’. Tale Modello, pensato come una fabbrica immateriale dedicata all’alta formazione, alla ricerca interdisciplinare ed al trasferimento di know how nel cuore del tessuto produttivo, rappresenta un network dell’area di specializzazione del Design System. L’intelligenza economica del sistema si manifesta attraverso la capacità di rendere profittevoli le informazioni utili agli attori sociali, culturali ed economici, attraverso l’insieme delle azioni messe in campo per coordinare la ricerca, l’elaborazione e la distribuzione. Inoltre, lo strumento del processo di Trasferimento Tecnologico (TT) assume un ruolo chiave all’interno di reti locali: la sua realizzazione permette infatti di concentrare e utilizzare le risorse in modo efficace supportando l’incontro tra i generatori di idee innovative e i possibili beneficiari.

Caso Studio. La prospettiva sistemica della produzione della Moda in Campania La struttura produttiva, formativa e della ricerca per la Moda in Campania si configura come una ipotetica ‘area-sistema’, all’interno della quale si potrebbe realizzare una rete integrata territoriale tra imprese, formazione e ricerca. La rete garantirebbe le condizioni per realizzare forme avanzate di collaborazione per produzioni ad elevato contenuto di conoscenza, con caratteristiche di diversificazione multisettoriale. Le caratteristiche principali di tale rete sono determinate dalla presenza combinata di aziende fornitrici specializzate e di aziende o imprese committenti; in Campania esistono e si sviluppano in maniera predominante aziende fornitrici, in pochi casi le

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aziende brandowner integrano forniture specializzate e committenza (Cesare Attolini, Kiton, Barba, ecc.). L’accompagnamento verso la formula organizzativa dell’’area-sistema’ territoriale consentirebbe di strutturare forme estese di partenariato tra imprese, istituzioni, università, formazione; in questo caso si incentiverebbe il processo evolutivo dell’economia e della società verso un sistema detto “novateur” (Garofoli, 2006) di alleanza strategica territoriale. In maniera schematica la struttura territoriale produttiva della Campania è la seguente: 1. Cluster di PMI specializzate che competono con vantaggi competitivi statici rischiando di stanziare nella cosiddetta “via bassa allo sviluppo/low road to development” (Pyke, Sengerberger, 1992), a causa della scarsa propensione a instaurare dinamiche inclusive. Bisogna instaurare misure di accompagnamento per far transitare il sistema verso la sua naturale evoluzione; 2. Configurazione dell’Area-sistema/System-Area e poli formativi e tecnologici: la sfida consiste nell’accompagnamento al sistema affinché vi siano vantaggi competitivi dinamici. Grazie alla continua introduzione di risorse specifiche e di nuove competenze che deriverebbero dall’alta formazione e dalla ricerca, si persegue la cosiddetta “via alta allo sviluppo/high road to development” (Pyke, Sengerberger, 1992), trattandosi di orientare le aree verso l’innovazione tecnologica, sociale e culturale. Il modello organizzativo avanzato locale punta sulla disponibilità di risorse specifiche e distinguibili, consapevole del fatto che si facilita la realizzazione di attività innovative e di qualità che, se integrate nei sistemi produttivi, eviterebbero la competizione sui costi con tutte le implicazioni del caso. La centralità dell’interazione tra sistema produttivo, formativo e della ricerca sono indispensabili per introdurre l’innovazione knowledge-based.

Il Design per la Moda

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Uno dei settori tipici che trae valore dalla generazione di “conoscenze innovative” trasformandole in “nuove utilità”, è il sistema della Moda che configura una vera e propria filiera cognitiva,


fondata su modalità eterodosse di creazione del valore. Difatti, nella produzione di beni legati alla persona, la componente simbolico-relazionale è in cima alla scala dei valori; il valore della merce è inglobato in un sistema ibrido di relazioni tra sistemi quasi completamente ‘de-differenziati’, produttivo-economico, simbolico-estetico, creativo-comunicativo. La Moda propone beni relazionali, in anticipo sulle altre realtà produttive avendo, da tempo, abbandonato l’approccio tradizionale posto alla base del paradigma della modernità che fonda i rapporti esterni alle aziende esclusivamente su scambi di beni materiali. Ampliando la propria ottica, per aver inglobato nelle attività produttive valori simbolici, la Moda si pone al centro della configurazione di complessi reticoli cognitivi e produttivi. L’auto-organizzazione ecosistemica, rovescia la logica interpretativa dei processi-guida secondo la dinamica consultiva del dialogo e dell’ascolto tra i diversi stakeholders. Si tratta di decriptare le ‘nuove utilità’ che emergono dal riesame dei contenuti e dei valori assunti dalla produzione di massa. Se, ogni oggetto tangibile o intangibile che sia, ha il proprio processo di creazione del valore, il rischio di molte aziende è di non valorizzare alcuni elementi cruciali nel processo di attribuzione dei significati e poiché questi non emergono, non li definiscono (Verganti, 2009). I nuovi significati sono possibili combinando prassi operative, idee e cutting-edge technologies, in un tessuto relazionale; specchio dell’ecosistema dei processi auto-organizzati che non sono integrati negli strumenti, bensì, gestiti e sviluppati dalle persone presenti nei vari sistemi, grazie al passaggio da economie ‘resource-based view’ a ‘capability-based approach’. Si tratta di una forma di conoscenza relazionale, non codificata ma progettata e promossa da specialisti, e diffusa e condivisa dall’intero sistema degli stakeholders. La condizione necessaria affinché vi sia innovazione è nel modello relazionale; decentrato in ragione della configurazione di unità produttive, della diffusione dei servizi, della distribuzione su più territori secondo la disposizione operativa dei gruppi di attività. Le prassi operative attivano progetti eterodiretti legati allo scenario in cui figurano previsioni, ‘conoscenze innovative’, ‘saperi periferici’ (sensibilità, affetto, ecc.) che chiudono il cerchio combinandosi e ricombinandosi se- 59


condo gli scopi. Il modello decentrato della moda è caratterizzato dall’acquisizione costante di “conoscenze innovative” (Rullani 2010) che moltiplicano le connessioni creative, accelerando sulle “nuove utilità” che entrano a pieno titolo nei nuovi processi di creazione del valore. Formazione, industria, artigianato, sono al centro di un dibattito che esamina in maniera strategica la configurazione delle attività relazionali; la condivisione, la cooperazione, le interazioni peer-to-peer, il networking, come processo indispensabile per soddisfare la domanda di produzioni dove le ‘conoscenze innovative’ (Rullani 2010) sono i requisiti che si riflettono su tutto il processo creativo, produttivo e distributivo e del riciclo.

Bibliografia

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Handmade in Italy CLAUDIO GAMBARDELLA

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La fama dell’Italia è oggi grande nel mondo per la seduzione del suo sistema di vita, che non è codificato in nessun libro ed aspetta uno scrittore che lo raccolga dagli esempi di molte vite, antiche e contemporanee. Chi ha formato questa fama? Non i retori, non i letterati, non gli uomini politici, non certo i generali e gli ammiragli, non gli amministratori e nemmeno i preti cattolici […]. Se mai la fama si deve ai narratori, ai poeti, ai pittori e scultori ed architetti, ai commedianti, ai cuochi ed ai sarti, agli sportivi, ai sommozzatori ed agli aviatori, alle donne innamorate ed agli amanti italiani, alle belle donne del cinematografo ed ai guaglioni della strada […]. Così si esprimeva Giuseppe Prezzolini nella prefazione a The Legacy of Italy, la prima edizione italiana delle sue lezioni tenute alla Columbia University, pubblicata a New York nel 19481. Lo ricor- da l’economista Marco Vitale nell’epigrafe di un suo articolo del 2009 scritto per Altagamma, per spiegare che esistono due modi di considerare il Made in Italy, fenomeno recente degli ultimi cinquant’anni o scaturito invece da una prospettiva lunga della tradizione e della cultura italiane, cioè frutto di una […] “cross fertilisation” tra cultura, arte, artigianato, abilità manifattu- riera, territorio, memorie storiche2. Il Made in Italy, a differenza degli altri made in, ha un valore che va ben oltre la produzione stessa perché significa stile di vita, qualità, eccellenza, alta specializzazione delle tecniche di produzione, contesto di sviluppo e realizzazione dei prodotti spesso di


carattere distrettuale, radicamento nel territorio, caratteri che in qualche modo hanno contribuito alla costruzione stessa della cultura italiana e quindi dell’identità di un popolo. Dietro a un prodotto Made in Italy – che assurge così a simbolo rivelatore di un solido background plasmato e riplasmato nel tempo – non ci sono solo le “mani” e le macchine del presente che lo hanno creato, ma anche i paesaggi di Piero della Francesca, la musica di Antonio Vivaldi, la filosofia di Giambattista Vico, la poesia di Leopardi, la storia dell’homo faber che ha abitato e operato in tutta la penisola, anche quando ancora non esisteva un’unica entità politica, le storie e vicende di imprenditori, di mercanti, scrittori, di cuochi e di sarti. È una lotta ed un’epopea dell’operare ed insieme del pensiero, dell’homo faber integrale, di profondità ed interesse straordinari, scrive ancora Marco Vitale3. È il lavoro di questi imprenditori che dal 1200 al 1500 fa dell’Italia il paese più avanzato, più moderno, più ricco del mondo, che permette l’esplosione delle arti e della grande architettura delle nostre città4. Per parlare di quel sentimento che ha costituito il motore “energetico ed energizzante” dell’espansione del prodotto italiano, Laura Biagiotti, “ambasciatrice della Moda italiana nel mondo” e prima stilista ad aver redatto un capitolo sull’Enciclopedia Treccani, dedicato al Made in Italy, cita le profetiche parole di Luigi Einaudi: Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, umiliarli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a una clientela sempre più vasta, ampliare gli impianti, organizzare le sedi, costituiscono una molla altrettanto potente del guadagno5. Eppure il Made in Italy, brand dei brand italiani, il «marchio più forte del mondo»6 come lo definiva Carlo Azeglio Ciampi, ha come perso la sua forza costruttiva, da quando si è posta la questione della tutela nei confronti di quei Paesi divenuti abili nelle contraffazioni su larga scala avendo raggiunto un discreto livello tecnologico. L’ansia di affermare l’italianità di un prodotto sembra essere una battaglia persa, anche se necessaria. Non basta la semplice dicitura Made in Italy, mille volte contraffatta, manipo- 63


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lata, violata. Si è dovuto ricorrere alla Certificazione 100% Made in Italy, rilasciata dall’Istituto per la Tutela dei Produttori Italiani (ITPI), per prodotti in linea con i parametri previsti dalla normativa italiana vigente7. La progressiva regressione del significato iniziale di Made in Italy, da valore positivo e culturale da irradiare nel mondo a merce da blindare nei propri magazzini, ha seriamente compromesso la sua efficacia immaginifica; né ci si deve compiacere del facile ricorso all’espressione “Made in Italy” appartenente ad un linguaggio mediatico gergale intriso di luoghi comuni. L’uso e l’abuso di questa espressione non fa che diluirne il significato. La tutela risponde ad una legittima istanza del legislatore e dei produttori italiani, eppure – nonostante successi veri o sovrastimati, come la retorica dei numeri fiorita attorno ad Expo 2015 dimostra – proprio quel gusto e orgoglio di vedere la propria azienda prosperare e acquistare credito, quel superare con intelligenza e sacrificio le enormi difficoltà e carenze in cui era sprofondata l’Italia del dopoguerra, tipico di aziende partite dal nulla e che ora vantano fatturati significativi, sembra sfiorito. Già sedici anni fa, nel rapporto annuale del CENSIS si parlava di prolungata bassa congiuntura del sistema Italia e della sua incapacità di imboccare la strada giusta per rialzarsi. De Rita allora parlando di Paese con le pile scariche, di galleggiante stazionarietà, di generale mancanza di aspettative e di mobilitazione di interessi e impegni individuali, ammoniva tutte le forze politiche mettendole in guardia da quello che avrebbe potuto rappresentare il rischio più grosso per il Paese il declino e la deriva della sua struttura industriale e produttiva8. Probabilmente questa visione, a distanza di tanti anni, suona come eccessivamente pessimistica se si vede la capacità degli Italiani di resistere alla crisi, non economica ma di sistema, scoppiata nel 2008 con il fallimento della Lehman Brothers Holdings Inc. Sta di fatto che, oltre a problematiche ancora attuali di natura economico-sociale come la disoccupazione e/o sottoccupazione dei giovani costretti a costruirsi un futuro fuori Italia e a soffrire di una «generale mancanza di aspettative», si assiste da qualche tempo al passaggio in mani straniere di importanti aziende italiane come Lamborghini e Ducati (motori), Bianchi e Atala (bici-


clette), Gruppo Ferretti, Cantiere del Pardo e Avio (Nautica e aeronautica), Zanussi e Indesit (Elettrodomestici), Richard-Ginori e Marazzi (Ceramica), Poltrona Frau e Kavo Promedi (Arredamento). A questo si aggiunga il processo di lenta delocalizzazione di quelli che sono stati i “gioielli” della nostra industria come Fiat, Dainese, Geox, Bialetti, Omsa, Rossignol, Ducati energia, Benetton, Calzedonia, Stefanel. Il manifatturiero – cioè Abbigliamento (e beni per la persona), Arredamento (e articoli per la casa), Automotive (inclusa la meccanica) e Agroalimentare, le cosiddette 4 A – in misura maggiore rispetto ad altri settori economici sta migrando all’estero con gli stessi stabilimenti produttivi. Secondo uno studio di Confartigianato relativo al 2013, le imprese italiane delocalizzate all’estero sono oltre 6.500, con un fatturato complessivo di 217 miliardi di euro e l’impiego di quasi 835 mila operai e addetti lontano dai confini italiani. Ultima vicenda, che è di per sé paradigmatica e per certi aspetti ancora più dolorosa, è la crisi dell’Algida con la chiusura del centro ricerche e sviluppo di Caivano alle porte di Napoli, dove è stato creato il gelato Magnum, perché la proprietà, la multinazionale anglo-olandese Unilever, ha deciso di concentrare la ricerca in UK e a Londra. In ogni caso, il tessuto imprenditoriale Italiano ha avuto successo e continua ad averlo, nonostante la crisi. Quale ne è il segreto, allora? Questa era la domanda alla base di un’inchiesta condotta a metà degli anni ’80 da una delle principali riviste giapponesi sulle imprese minori del Made in Italy operanti in Lombardia, Veneto, Emilia. La risposta fu […], racconta Marco Vitale, […] che il fattore principale era che queste imprese poggiavano su una cultura di prodotto molto forte che veniva da lontano, su una storia artistica ed artigianale antica che aveva le sue radici nelle botteghe rinascimentali, sui mille musei e chiese diffuse su tutto il territorio, che tramandano una diffusa cultura estetica, accompagnata dall’orgoglio tipico dell’artigiano che cerca di realizzare un prodotto perfetto per propria intima soddisfazione, l’orgoglio del saper fare, di essere artefice, creatore, più ancora che per denaro9. Ecco, l’artigiano! Già prima di Stefano Micelli10, altri studiosi come Andrea Granelli e Luca De Biase sostengono che Il successo del ‘made 65


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in Italy’ nasce da un’esperienza artigiana, antica e radicata in alcuni territori e che per immaginare l’Italia del futuro non si può che ripartire da queste sue radici. Anche l’Italia impegnata nella creatività digitale, nel design dell’interfaccia dei nuovi strumenti di comunicazione, […] nella realizzazione delle case e delle soluzioni urbanistiche del futuro sarà sempre un’Italia artigiana, orientata alla qualità e alla personalizzazione, radicata sul territorio, dotata di una credibilità straordinaria dal punto di vista estetico, riconosciuta per il gusto, capace di soluzioni da architetto, da integratore di soluzioni provenienti da qualunque parte del mondo11. Se molta imprenditoria italiana continua a stare a galla, con sforzi straordinari ma senza lo slancio e le intuizioni di un tempo – come per il settore dell’arredamento e più in generale del design –, molti problemi esistono anche nell’artigianato. La perdita delle maestrie ed eccellenze dell’artigianato […], scrive ancora Marco Vitale, […] rappresenta un impoverimento generale per il Paese, per tanti suoi territori, per il concetto stesso del Made in italy, impoverimento sia di sostanza che di identità che di comunicazione. Infatti le eccellenze e maestrie artigiane creano valore ai territori in cui sono presenti e rappresentano una indispensabile testimonianza di qualità e di eccellenza del saper fare italiano che influenza positivamente l’intero vissuto del Made in Italy12. Dovrebbe essere perciò interesse dei due mondi, quello dell’imprenditoria, che nei settori manifatturieri cosiddetti tradizionali ha creato il Made in Italy, e quello dell’artigianato, che costituisce uno dei suoi pilastri, collaborare consapevolmente nella costruzione di un destino comune affidando alla cultura del design e a quella universitaria non solo un ruolo di ‘mediatori culturali’, ma anche di elaboratori di nuovi linguaggi specifici. Si può allora parlare di Handmade in Italy che può rappresentare l’altro futuro della produzione italiana, strettamente legata ai territori, ad una geografia produttiva italiana non delocalizzabile perché indissolubilmente legata ai luoghi in cui vive, quella del tessuto artigianale del nostro Paese, purché scaturisca dal rapporto con la Cultura del Progetto che è pronta a questa sfida, perché molto è avvenuto in questi anni al suo interno.


Il clima che si respira oggi è infatti diverso rispetto al passato. Il design è meno monolitico di quello degli anni ’60. Ezio Manzini, nel suo Artefatti, verso una nuova ecologia dell’ambiente artificiale (1990), ammette che Se è vero che il mondo sta diventando il “grande villaggio planetario” è vero anche che in questo villaggio si parlano molte lingue, si coltivano diverse tradizioni […]13. La conquista di una “qualità polifonica” del design dipende anche da un suo benefico deragliamento, negli anni del Radical, dall’ortodossia imposta dal Movimento Moderno verso ambiti disciplinari tradizionalmente estranei al Progetto, in cui si andavano scoprendo aspetti della vita importanti per tutta la cultura. Si pensi, innanzitutto, ad un diverso sentimento della memoria messo in circolo dal Postmodernismo, ma conosciuto già molto prima in diversi segmenti della cultura, delle scienze e delle arti grazie all’autobiografico affresco felliniano di 8 ½ (1963), per esempio, o, prima ancora, ai saggi di etnologia di Ernesto De Martino14. Un nuovo sentimento della memoria, alle volte vissuto con religiosità e nostalgia come in L’albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi, avvicina i ricercatori e gli artisti al mondo agricolo che ne esplorano ed ingrandiscono ogni angolo più recondito, puntando l’obiettivo su suppellettili, arredi e attrezzi artigianali della vita nelle campagne. Sarà la musica, però, a mostrare l’intimo legame tra memoria e artigianato con Experimentum Mundi (1981), l’opera di teatro musicale composta e diretta da Giorgio Battistelli per sedici artigiani del suo paese di origine, Albano Laziale. Il pasticciere, i calzolai, gli arrotini, i falegnami, i bottai, i fabbri ferrai, i selciaoli, lo scalpellino, i muratori, ciascuno seguendo una propria partitura, suonano sul palcoscenico gli attrezzi dei loro mestieri. Una drammaturgia del lavoro, un rito che propizia l’arrestarsi del tempo, omaggio a un teatro privato della memoria, scrive Battistelli a proposito della sua opera di musica immaginistica che, oltre ad incantare il pubblico per la sua avanguardistica bellezza, il suo carattere dolcemente rivoluzionario e irriverente, riapre un affettivo dialogo con le ancestrali porosità di un’Italia arcaica mortificata da uno “sviluppismo” a tutti i costi, ma celebrata, anni addietro, dalla poetica pasoliniana nelle sue prodromiche narrazioni letterarie e filmiche. Questo nuovo sentimento della memoria non è

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soltanto merito dell’arte o della scienza, in quanto esprime un bisogno diffuso nella società di ancoraggio a fondamenta solide, costruite in profondità, che possa contrapporsi allo scorrere di una vita liquida. Giampaolo Fabris, in quello che può essere considerato il suo testamento, La società post-crescita. Consumi e stili di vita, in un’affascinante lettura del nostro mondo al tempo della crisi, parla di ricerca delle proprie radici che […] non è soltanto, forse nemmeno prevalentemente, un comportamento regressivo a fronte delle tante incertezze, insicurezze, e dei rischi che ci circondano nella società in cui viviamo. Non è nemmeno riconducibile a quel recupero selettivo del passato […], perché qua il recupero, almeno tendenzialmente, non è selettivo, ma coinvolge cose, relazioni, ambiente, memorie, un’antropologia della quotidianità che, anche se non si recupera in toto, si osserva adesso con attenzione e rispetto. Radici dove ritrovare brani importanti della propria identità, della propria heritage culturale15. In ambito disciplinare, la nuova attenzione all’artigianato, recentemente sostenuta da Sennett16, scaturisce da due diversi elementi. Il complesso di idee e sentimenti – memoria, nostalgia, radicazione – che ancora si agita nelle profondità del nostro tempo, e l’impegno militante del Radical che, con la breve esperienza di Global Tools17, mirava a destabilizzare dall’interno la cultura del progetto degli anni ’70 e a rifondarla su basi nuove. Lo strumento della memoria, però, dev’essere solo un veicolo che ci porta a recuperare quanto prima scartavamo, altrimenti si rischia di rimanere impantanati nel sentimentalismo. Remo Bodei spiega bene il passaggio da una certa nostalgia introversa e intimista ad una lucida riflessione sul mondo degli oggetti quando nel suo saggio, La vita delle cose, scrive La trasformazione degli oggetti in cose […] presuppone anche una sviluppata abilità nel risvegliare memorie, nel ricreare ambienti, nel farsi raccontare storie e nel praticare sia la nostalgia “chiusa”, che si ripiega in se stessa nel rimpianto di ciò che si è perduto, sia la “nostalgia aperta” […]. Nella nostalgia aperta le cose non sono più sottoposte al desiderio inappagabile di ritorno a un irrecuperabile passato, non aderiscono al sogno di modificare l’irreversibilità del tempo, di rovesciare o perpetuare la sequenza


di quegli eventi che si presentano una sola volta per tutta l’eternità, ma sono diventate i veicoli di un viaggio di scoperta di un passato carico anche di possibile futuro18. L’Handmade in Italy – un’idea/progetto con cui si vuole tener conto di tutti gli aspetti fin qui esaminati, in ambito produttivo e in quello disciplinare del design, e con cui si intende saldare cultura del saper fare e cultura del saper progettare, per traghettare l’artigiano solipsista nell’alveo della cultura d’impresa italiana – è stata la cornice teorica di riferimento e l’orizzonte strategico al cui interno studenti delle università di Enna e Palermo hanno disegnato nuovi progetti di Public Design, pensati per imprese artigiane Siciliane, nel workshop “Gli spazi per la vita reale”, organizzato a Enna nel dicembre 2016 dall’associazione Design al Centro. Questo neodesign dalle radici profonde non offre risposte salvifiche o appaganti alternative, ma è dolce terapia che instilla sottilmente nella cultura d’oggi atteggiamenti antichi e nuovi nello stesso tempo, l’aspirazione al rallentamento dei ritmi di vita, l’accettazione del passato non come fardello ma come alleato e compagno per affrontare il futuro, il bisogno di contenimento dello spreco, la possibilità di riparare e non di eliminare indiscriminatamente l’oggetto usato, tutte idee di una cultura umanistica della sostenibilità tradotte nella scienza del marketing da Giampaolo Fabris. In epoca non sospetta, Filippo Alison e Renato De Fusco, nel 1991, profeticamente parlano di un “genere terzo” tra artigianato e design, che chiamano con un neologismo artidesign. Non una teoria, ma un fenomeno che appartiene a quella dignitosissima storia d’Italia costruita da un paziente dialogo tra artigiani e progettisti. Quel […] genere di produzione, proprio di alcuni settori merceologici e segnatamente dei mobili e degli oggetti di arredo, che si colloca fra l’artigianato e l’industrial design […] un genere terzo rispetto a due fenomeni colti in una loro profonda metamorfosi […]19 che ora, a distanza di ventisette anni dalla sua definizione concettuale, si può rileggere in una visione più attuale e strategica saldandosi al Made in Italy e diventando, perciò, Handmade in Italy, il design dei territori italiani che mai potrà essere delocalizzato perché strettamente legato ai luoghi in cui esso si può sviluppare.

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G. Prezzolini, The Legacy of Italy, S.F. Vanni, New York 1948. M. Vitali, La cultura e la tradizione del lavoro, 2009, p. 14. L’articolo di Marco Vitali non risulta pubblicato in versione cartacea. È possibile leggerne il testo completo sul sito web dell’economista: http://www.marcovitale.it/articoli/2009/la%20cultura%20e%20la%20tradizione%20del%20 lavoro%2029.04.09.pdf. 3 Ivi, p. 2. 4 Ivi, p. 3. 5 L. Biagiotti, Made in Italy. Qualità Italia. Un’esperienza professionale e umana, Treccani.it, Enciclopedia online, 2003. 6 Ibidem . 7 Vedi la legge n. 166 art. 16 del 20 novembre 2009. 8 La Repubblica, 6 dicembre 2002. 9 Vitali, op. cit., p. 14. 10 S. Micelli, Futuro artigiano. L’innovazione nelle mani degli italiani, Marsilio, Venezia 2011. 11 A. Granelli, L. De Biase, Inventori d’Italia. Dall’eredità del passato la chiave per l’innovazione, Guerini e Associati, Milano 2004, pp. 117118. 12 Vitali, op. cit., p. 17. 13 E. Manzini, Artefatti, verso una nuova ecologia dell’ambiente artificiale, Domus Academy, Milano 1990. 14 Cfr. E. De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia di magismo, Einaudi, Torino 1948; E. De Martino, Sud e Magia, Feltrinelli, Milano 1959, 2000. 15 G. Fabris, La società post-crescita. Consumi e stili di vita, Egea, Milano 2010, pp. 346-347. 16 R. Sennett, The Craftsman, Yale University Press, New HavenLondon, 2008 [trad. it. L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano 2008]. 17 Global Tools (1973-’75) fu il sistema diffuso di laboratori (a Firenze, Milano e Napoli) per la “propagazione dell’uso di materie, tecniche naturali e relativi comportamenti”, basato su un programma sperimentale e multidisciplinare di didattica del design, fondato nel 1973 in Italia dai membri dell’Architettura Radicale e dell’Arte Povera. 18 R. Bodei, La vita delle cose, Editori Laterza, Roma-Bari 2010, p. 55. 19 F. Alison, R. De Fusco, L’artidesign, Electa Napoli, Napoli 1991. 2

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Libri, riviste e mostre

A. Castagnaro, August Schmarsow, dalla critica d’arte contemporanea alla Raumgestaltung, Progedit, Bari 2017. Con questo saggio, August Schmarsow ritorna all’attenzione della cultura architettonica italiana. Atto dovuto, per uno dei protagonisti della storia delle idee d’arte e d’architettura cui la storiografia sembra aver concesso spazio e credito inferiori ai meriti. Non è, intenzionalmente, il testo in italiano riassuntivo su Schmarsow che aspettiamo con attesa quasi messianica. Più utilmente, è un contributo di ricerca fornito su due piani: l’uno, storicocritico, con una sintetica ma articolata riflessione sui capisaldi della teoria artistica elaborata dal pensatore tedesco, indugiando opportunamente sulle sue numerose interpretazioni controverse e, punto qualificante dello studio, conferendo credito ai nuovi scenari che mettono in relazione le sue idee sulla percezione dello spazio con le ricerche delle neuroscienze; l’altro, di conoscenza, con la traduzione di alcuni importanti capitoli del noto Grundbegriffe. Saggio introduttivo di Re-

nato De Fusco con funzione di Prefazione, breve saggio finale di Augusto Roca de Amicis con funzione di Postfazione; meritano lettura attenta l’uno e l’altro e un commento in questa nota. Nucleo del libro costituito da quattro capitoli dedicati alla fondazione del Kunsthistoriches Institut, a Einfühlung e pura visibilità, alla concezione spaziale dell’architettura, alla Raumgestaltung nella storiografia contemporanea. Chiusura di prammatica, con l’attualità e la fortuna critica del pensiero di Schmarsow. A seguire, la citata antologia dal Grundbegriffe. Le foto degli edifici, degli ambienti, dei maggiori protagonisti e di documenti d’archivio della vicenda narrata, contribuiscono ad una immersione anche visiva nelle atmosfere viennesi a cavallo tra Otto e Novecento. Con tutta evidenza, è la Scuola di Vienna il milieu da cui originano idee e riferimenti presenti nel libro e costantemente traslati in idee e riferimenti d’architettura. Vediamone alcuni tra i più interessanti, così come si presentano alla riflessione di Castagnaro, storico dell’architettura, appunto. All’idea di spazio, ovvero alla teo-

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ria dello “spazialismo” di Schmarsow, spetta naturalmente la priorità assoluta. Un tema, come vedremo, che s’incrocia con quello della fortuna critica di un autore ancora poco studiato in ambiente italiano, come ribadisce anche il risvolto di copertina del libro. È Adrian Forty ad osservare nel suo (editorialmente) fortunato libro Parole e edifici. Un vocabolario per l’architettura moderna, che qualsiasi considerazione informata alla centralità della categoria spaziale fosse stata fatta prima del 1890, sarebbe stata del tutto priva di significato tranne che per una ristretta cerchia di filosofi, poiché prima di quella data, il termine spazio non esisteva nel vocabolario architettonico. La sua adozione […] appartiene alle specifiche circostanze storiche del modernismo». E sempre Forty a concludere, raffreddando gli entusiasmi che la prima osservazione avrebbe potuto suscitare in ambiente architettonico, che tra le varie nuove concezioni di spazio sviluppatesi negli anni Ottanta del XIX secolo, la più sofisticata – ossia il “costrutto spaziale” di Schmarsow – fu la meno interessante per la pratica architettonica. Se questo è vero, commenta l’A., va sottolineato che il contributo della teoria schmarsoviana è quello che ha maggiormente influito sulla storia delle idee e sulle successive argomentazioni riguardanti lo spazialismo architettonico. Tutta l’attenzione va spostata dunque sulle «successive argomentazioni» che hanno nomi e saggi d’eccellenza nella storia architettonica del Novecento internazionale, chiamandosi Pevsner e il suo Pioneers, Giedion e il suo Space, Zevi e la sua Storia. Dove s’inceppa la catena associativa teorica che dovrebbe condurre senza dif-

ficoltà dallo spazialismo di Schmarsow alla spazialità architettonica della modernità quale risulta dagli autori e dai testi citati, con Zevi riconosciuto capofila di questo orientamento critico per accentuazione del tema, non per gerarchia o priorità cronologica? Si inceppa, sostiene Castagnaro riprendendo e ben riassumendo precedenti tesi di De Fusco, Leoncilli Massi e ancora di Forty, nel considerare lo spazio espressione dell’individualità progettuale, entità all’interno degli edifici e non come «concetto categoriale» o «prodotto della mente» quale risulta dalla teorizzazione di Schmarsow. Siamo nel cuore del problema interpretativo dello spazialismo schmarsoviano che, scrive Castagnaro, ha il merito d’aver metabolizzato, sulla prospettiva aperta da Alois Riegl, l’idea che l’arte vada liberata dalla metafisica e considerata come struttura di un autentico linguaggio e di aver delineato un contesto in cui sono le teorie dell’empatia a rappresentare il campo d’elezione delle nuove ricerche, superando in tal senso, la percezione visiva come elemento privilegiato della fruizione architettonica. Se questa teorizzazione – e veniamo all’incrocio con la fortuna critica – è stata la «meno interessante per la pratica architettonica», lo si deve al travisamento di senso con il quale la cultura architettonica ha accolto e soprattutto utilizzato lo spazialismo schmarsoviano. Esso non è stato ripreso e valorizzato per quel che meritava perché surrogato, per così dire, nella storiografia architettonica da una interpretazione più funzionale che, pur partendo dai postulati teorici di Schmarsow, gli ha conferito i caratteri individualizzanti della storia e non quelli generalizzanti della teoria. Da singolare co-


me categoria, è diventato plurale nei contenuti e s’è identificato di volta in volta nella storiografia con quelli di Wright, Aalto, Le Corbusier, Mies, Gropius e nelle infinite altre, differenti e minori declinazioni del movimento moderno. Con un apparente paradosso si chiude questo aspetto del problema: se non ci fosse stato quel travisamento di senso dell’originario dettato dello spazialismo, la storiografia architettonica del Novecento avrebbe avuto contenuti decisamente diversi e, probabilmente, lo stesso Schmarsow sarebbe del tutto scomparso dall’orizzonte della cultura architettonica, conservando invece un suo ruolo nell’ambito della pittura. La conclusione trova coerente riscontro nella tesi generale del saggio che assegna alla costruzione teorica di Schmarsow, complessa quanto innovativa e non scevra di contraddizioni, un ruolo esponente nella storia delle idee nate in Europa a cavallo tra XIX e XX secolo. E veniamo alle annunciate pre e post fazioni meritevoli d’essere riprese con attenzione, partendo da quella più ampia e impegnativa di De Fusco. È stato tra i primi in Italia, dopo Zevi e la Nicco Fasola, a trattare Schmarsow nel suo fondamentale L’idea di Architettura. Storia della critica da Viollet-le-Duc a Persico (1964), poi ripreso in numerose pubblicazioni successive. Qui, propone nuove riflessioni sulla cultura dell’empatia e, contributo del tutto inedito, sul modo in cui essa fu recepita dalla critica crociana. Com’era prevedibile, la distanza che separava le due scuole era data dal diverso valore assegnato al rapporto tra teoria e storia e alle conseguenti implicazioni. Con esemplare chiarezza, il tema viene così sintetizzato. Che a suo tempo, storia e teoria

non potessero trattarsi separatamente perché filosofia e storia s’identificavano; che in arte non esistessero norme, né scuole e tendenze, salvo gli aspetti pratici; che lo stile fosse concetto individuante e non generalizzante, che, come s’è visto, il piacere artistico/estetico fosse senz’altro da classificare nell’edonistica; che l’arte fosse una e non praticabile e godibile secondo le sue diverse fenomenologie, ecc. erano tutti precetti che irrigidivano la visione crociana, impedendo quelle deroghe rivelatesi poi di grande efficacia nel campo dei nostri studi. Croce e i suoi sodali non riuscirono ad intendere la portata innovativa della concezione teorica di Schmarsow che invece fu riconosciuta da Lionello Venturi. Molto opportunamente in questa Prefazione, De Fusco ribadisce più volte il carattere teorico dell’impianto schmarsoviano incentrato essenzialmente sull’Einfühlung, perché lo predispone ad interpretare, proprio «in quanto teoria», tutte le espressioni dell’arte e dell’architettura, del passato come del presente. Una conclusione per nulla scontata, considerando i limiti applicativi che alcuni crociani ponevano ai Grundbegriffe, mostrando così «una sensibile nota di provincialismo». Roca de Amicis titola il suo intervento In cammino con Schmarsow: scienza, antropologia, storia. Questa triade che pone la scienza al primo posto, seguita dall’antropologia e chiusa dalla storia (disciplina principe nei tradizionali contesti culturali viennesi), indica nel modo più esplicito che è il “vecchio” scientismo positivista la visione da cui ripartire con (in cammino con) Schmarsow per innovare i termini dell’esperienza estetica, legata cioè alla sensorialità, all’intuizione cor-

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porea. Varie ricerche, come quelle di Antonio Damasio, evidenziano l’estensione all’intera struttura corporea di fenomeni complessi come le emozioni, non più interni alla mente, in una dicotomia oggi superata; e le ricerche visive di David Freedberg analizzano l’impatto emozionale delle immagini su basi antropologiche. E così il vecchio scientismo, già presente nel corpus teorico di Schmarsow, si salda alle ricerche più innovative. Allora, senza riscontri significativi, oggi con un dimostrabile contenuto di realtà che conferisce al pensatore tedesco una «rinnovata centralità» di cui questo libro offre una prima, preziosa sintesi dopo anni di oblio. Se ci dovessimo interrogare sulle ragioni ultime di questa rinnovata centralità di Schmarsow, la risposta non può che ritrovarsi nel titolo e, ovviamente, nei contenuti del suo Grundbegriffe, i concetti fondamentali, i principi-base. Sono quelli da tempo assenti nella storiografia architettonica del moderno che ha scelto di privilegiare gli ambiti della storia e della critica trascurando quello della teoria su cui essi si inverano. I Fundamentals di Rem Koolhaas della Biennale del 2014 a Venezia segnalavano questa necessità ma tradivano al tempo stesso una loro interpretazione riduttiva perché tettonica, identificandoli negli Elements of architecture, dalle pareti ai tetti, facciate, scale, corridoi, balconi e finestre. Le parole dell’architettura, si disse. Occasione perduta, commentarono i molti che speravano in più alte declinazione dei Fundamentals d’architettura. Schmarsow e questo saggio che lo ripropone in un contesto d’attesa favorevole, possono risultare utili per una loro ineludibile ripresa. P. B.

L. Branchesi, V. Curzi, N. Mandarano, (a cura di), Comunicare il museo oggi. Dalle scelte museologiche al digitale, Skira, 2016. Il 18 e 19 febbraio 2016 si è tenuto presso la Sapienza Università di Roma il convegno “Comunicare il museo oggi. Dalle scelte museologiche al digitale” i cui atti sono stati recentemente pubblicati da Skira a cura degli organizzatori della mostra. Il corposo testo presenta la medesima struttura che ha seguito il convegno ed è articolato in quattro sezioni. La prima ha come titolo Comunicare coinvolgendo: scelte museologiche a confronto e presenta un’interessante selezione di musei recentemente riallestiti, con l’obiettivo di creare nello spettatore un coinvolgimento fortemente emotivo e immersivo. Gli allestimenti vengono efficacemente raccontati e sembrano mostrare in maniera incontrovertibile la necessità di andare verso una nuova concezione museale. Al racconto delle esposizioni segue il testo conclusivo di Michela di Sacco, che evidenzia come il museo oggi sia arrivato a negare la propria storia e la storia disciplinare delle proprie collezioni, per presentarsi come esperienza effimera, imperdibile perché irripetibile e non come unico originale testimone di una forma singolare nel complesso farsi della storia. Se il testo assume come caratteristica inevitabile della nostra contemporaneità la presa di distanza dalla storia, si rende necessaria l’attenzione a una costruzione degli apparati espositivi che non sia puramente emozionale, ma che diventi portatrice di emozione a seguito di scelte culturali consapevoli e intelligenti. La seconda sessione presenta i risultati del progetto MUSART, che


ha come argomento la fitta rete che mette in comunicazione i musei regionali del territorio laziale e le comunità locali. È il racconto di queste realtà ciò che risulta essere più avvincente: queste “piccole isole della memoria” come vengono definite da Sveva di Martino, non sono solo spazi ragionati e allestiti attraverso un’ottica comunicativa accattivante ed inglobante, ma possono consentire un ritorno al museo inteso come incubatore civico, portatore di una conoscenza etica, di una consapevolezza civile, ricostruttore di una memoria personale e collettiva. I saggi in questione mostrano come il nostro orizzonte sia cambiato e determinate culture, che costituiscono la memoria di un passato organico e vivo, si siano frammentate in un tessuto di piccole isole, che, pur essendo fatte della stessa sostanza di quegli antichi continenti, sono oggi più sfilacciate; le nostre tradizioni culturali infatti oggi ci appaiono, a torto o a ragione, disgregate; da ciò deriva l’impressione che i musei, custodi di queste tante piccole isole della memoria, si trovino caricati dal gravoso compito di compensare l’angoscia per l’avvenuta separazione da quella geografia culturale, che vogliamo tutelare e trasmettere. Ma d’altra parte, sempre più spesso, non riusciamo più a interpretare quella stessa cultura come forza viva del nostro presente. È per questo credo che riusciamo sempre meno a darci una ragione della ricchezza delle nostre tradizioni in quanto espressioni di un’umanità piena, circolante in ogni cosa, piccola o grande. Questa nostalgica ricchezza, che potrebbe essere una chiave per il presente, si sta trasformando ai nostri occhi in mito, cioè in qualcosa di lontano e irripetibile. Le ricerche presentate in questa sezione sono

quindi tutte significative. La volontà di rivedere le culture non più come giacimenti sotterranei ai quali attingere solo in qualche rara occasione, ma come un humus vivo su cui far radicare il nostro presente e il nostro futuro. Ma se è evidentemente necessario a questo scopo rendere un museo accattivante non si deve limitarne o danneggiarne la missione (nel testo più volte viene richiamata la definizione di museo proposta da ICOM). La sua struttura culturale ed educativa, deve essere solo una parte del ricco programma di ricerca, studio ed educazione, in coerenza “con la missione educativa del museo e mantenersi su un registro culturalmente alto” (p. 131). Se non comprendiamo che il patrimonio culturale non serve a divertirci o a produrre profitto, ma a farci essere più civili, più umani e forse anche più felici, non capiremo mai le ragioni per cui dobbiamo salvarlo, frequentarlo e comunicarlo. Solo se ci convinciamo che il museo è un luogo che contribuisce al nostro benessere, se diventiamo consapevoli che il patrimonio culturale è un elemento fondamentale nella costruzione del nostro sé e della nostra ricchezza interiore, saremo in grado di confezionare eventi e mostre che non siano dissociati da una significativa valenza etica e sociale. Solo in questo modo i musei possono diventare spazi attivi nella costruzione di coesione e integrazione, agendo in un’arena attraversata dal cambiamento politico e dallo sviluppo di nuove forme di accesso alle collezioni in senso interculturale. Nella terza parte Lida Branchesi, consapevole della necessità di comunicare il museo, si pone una domanda semplice ma fondamentale: comunicare il museo, a chi? I dati statistici sulla frequenza delle visite

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ai musei non sono molto confortanti: solo il trenta per cento della popolazione italiana effettua almeno una visita museale all’anno. La mancanza di un’abitudine alla fruizione si somma poi al problema dei tanti che, pur accedendo in qualche occasione ai musei, assumono uno spirito, per così dire da “visitatori da crociera”: sono coloro che vanno a vedere ciò che viene proposto senza avere però né un vero interesse né alcuna intenzione di cogliere gli stimoli che vengono loro offerti. In questo scenario il problema della valorizzazione dello spazio museale, del suo catturare al meglio l’attenzione viene spesso variamente giudicato: si va dalla valorizzazione estrema delle capacità attrattive fino alla loro totale demonizzazione. Il problema perciò è il ruolo che deve avere la comunicazione, che sta alla base della ricerca, per trovare nuove soluzioni. A chi ci si deve rivolgere è quindi una domanda pertinente e stimolante, in quanto pone il fondamentale problema del pubblico, del rapporto che l’istituzione culturale intende tenere e anche di come debba fare per catturare anche chi pubblico non è, chi dal museo resta lontano. Alla base di queste questioni si colloca l’idea di un museo inclusivo e partecipato, che sappia cogliere e sviluppare il diritto di ogni cittadino ad avere accesso al museo stesso e di trarre da quell’esperienza al tempo stesso piacere e dignità. Sappiamo che l’opera d’arte esiste solo per chi la può decifrare, tanto che non c’è patrimonio artistico e culturale senza sensibilizzazione ed educazione. Un nuovo modo di allestire e comunicare la presenza dell’educatore è quindi indispensabile perché solo chi educa si assume la responsabilità di mettere al centro del progetto chi ne dovrà fruire. In questo

contesto diventa importante saper creare significati molteplici e diverse narrazioni, in grado di comunicare anche con chi di solito non entra al museo. La sfida è acchiappare chi non ci va. Una modalità interessante a questo fine può essere quella che risulta dall’esperienza (tra quelle presentate nel libro) del Maxxi che ha avviato una collaborazione con alcune scuole della periferia di Roma. Ciò avviene nella consapevolezza che l’educazione è indispensabile per creare le premesse affinché il cittadino diventi un fruitore consapevole. Il Museo ha una finalità educativa fin dalle sue lontane origini, per rimanere fedele a questa sua caratteristica, si deve attrezzare in modo che l’esperienza che esso offre sia di qualità, non una facile attrattiva, ma una scoperta della complessità che ci è giunta dalle generazioni passate. Il convegno pone la sfida della necessità di un’interazione, di un confronto con le agenzie della formazione. I musei hanno quindi la responsabilità e l’opportunità di diventare quelle strutture dove si sperimentano nuove strade, per ristabilire nelle persone il fondamentale e antico istinto collettivo alla partecipazione. La quarta parte pone una domanda di carattere pratico. Comunicare il museo, come? Oggi la narrazione si presenta come la forma più efficace, in grado di addensare significati in un racconto che sia facile da memorizzare e in cui sia possibile identificarsi in molti campi, ad esempio perfino nella pubblicità. Lo spot non si addice al bene culturale, che va invece narrato. I tecnologi tendono a considerare lo storytelling come la contestualizzazione semplice di un oggetto, ma in realtà il problema è più complesso. La narrazione non è solo una tecnica; narrare è sempre


condividere, è esperienza dialogica e ibridante, gli immaginari vengono rifusi in una storia, prima di poter essere condivisi. L’obiettivo è la costruzione di una metafora funzionale complessa e per poter attuare questo progetto occorre avere dimestichezza con gli elementi fondamentali e significativi, al fine di impostare correttamente ogni intervento concreto. Solo avendo alle spalle una chiara esperienza teorica, si può sperare di produrre luoghi trasversali capaci di accrescere le conoscenze di chi vi accede. A questo proposito viene introdotto il concetto di transluogo, cioè uno spazio in cui si incrociano le esperienze di persone afferenti a piani culturali diversi, da quelli più ampi e di massa, che ogni spettatore, anche il più avvezzo al mordi e fuggi porta con sé, a quelli più di nicchia di qualità elevata. La quarta parte si conclude con l’intervento di Valentino Nizzo, che mette in luce come il cuore del lavoro sia la collocazione del museo al centro tra il mondo fisico analogico e quello digitale virtuale. Alla prima realtà fanno riferimento soprattutto i mediatori culturali, alla seconda i mediatori tecnologici, mentre il pubblico si colloca nell’intersezione, nella zona tratteggiata, in quanto può sia visitare il museo di persona, sia interagire via web. Le parole di Antonella Sbrilli sintetizzano efficacemente la situazione dei musei: da un lato si collocano i puristi, dall’altra coloro che invece propongono il tempio delle muse trasformato in un parco di divertimento. In questa dicotomia si vede come il collante sia dato dalla parola chiave “partecipazione” intesa come libertà. Per il museo si pone anzitutto la necessità di ritornare ad avere valenza civica. L’economia liquida contemporanea, orientata essenzial-

mente al consumo, si basa su un surplus di offerta e sul rapido appassire della seduzione che gli oggetti esercitano; nella nuova realtà straripante di offerte si aggirano persone trasformate essenzialmente in consumatori. Gli scaffali traboccano di oggetti che attraggono vistosamente e deperiscono in fretta. Il museo deve tener presente le seduzioni, ma al tempo stesso deve guardarsene. Sembra legittimo asserire che se il vecchio museo era incentrato sugli oggetti quello nuovo è incentrato sulle persone. La narrazione, strumento efficace, non può prescindere dalla conoscenza dei connotati sociologici del pubblico e del non pubblico. A questa deve associarsi il diletto, ma non tutto deve ridursi a questo. Il piacere è un possibile veicolo di cultura anche quando questa non è stata la molla, ma è stata la seduzione del piacere ad attrarre. Accelerare e mediare i processi partecipativi è quindi un passaggio necessario alla trasformazione del non pubblico in pubblico. L’importante lavoro presentato in questo testo non può e non deve rimanere un caso isolato, ma cercare di inserirsi e di espandersi all’interno della rete degli operatori museali detentori di una grande responsabilità: riportare i musei a luoghi in cui si sperimentano nuove strade per riabilitare quell’istinto collettivo alla partecipazione, di cui si sente sempre più bisogno. M. C.

R. Capozzi, L’esattezza di Jacobsen, LetteraVentidue Edizioni, Siracusa 2017. L’esattezza, parola chiave dell’intero testo, rappresenta per l’autore del saggio la più significativa via di accesso per la comprensione

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dei procedimenti compositivi e delle opere dell’architetto danese. L’indagine sulla figura di Arne Jacobsen (Copenaghen 1902-1971) da parte di Renato Capozzi si svolge a più riprese: infatti, a distanza di cinque anni dall’edizione di Arne Jacobsen. La ricerca dell’astrazione (Clean, Napoli 2012), egli giunge alla pubblicazione di questo libro – libro che è già alla prima ristampa – per approfondire i processi compositivi che sono alla base delle opere del maestro danese, ampliando nel numero quelle perlustrate. L’A., dopo aver conosciuto, misurato ed analizzato a fondo le opere di Jacobsen, ritiene che la sua lezione rappresenti un insegnamento intramontabile di coerenza compositiva e precisione formale, concetti che costituiscono per lo stesso autore del saggio i capisaldi della sua ricerca progettuale: da allora, nei miei progetti, ho sempre provato a tendere, senza mai riuscire a raggiungerla, a quella sua elementare purezza, a quel rapporto topologico tra edifici, a quelle raffinate proporzioni tra le forme e gli elementi che rappresentano il tratto distintivo di un’idea di architettura e di un’idea di città che riesce ad aprirsi alla natura e allo spazio vuoto tra oggetti assunti come elementi e materiali specifici della forma urbana. Egli ci conduce, attraverso il suo viaggio nei paesi nordici che ripercorre negli anni, verso una conoscenza non solo delle opere che scruta, descrive ed analizza sintatticamente, ma anche di un architetto che si distingue nel panorama internazionale per una progettazione senza tempo, pura ed essenziale, che fonda le sue radici, come già anticipato, in un dichiarato rigore progettuale perseguito attraverso la chia-

rezza delle forme, la ricerca armonica delle proporzioni ed un procedimento compositivo che non lascia spazio ad ambiguità interpretative. La profondità con cui l’A. perlustra l’opera di Jacobsen – opera che ammette ampie declinazioni che spaziano dal pubblico al privato, dall’edilizia residenziale a quella sociale fino a quella industriale – mira non solo a mettere in luce gli aspetti specifici del suo operato, ma è volto ad intrecciare corrispondenze tra architetti e artisti lontani nello spazio e nel tempo per narrare “affinità di spirito in relazione alle forme”, affermando quanto esposto nelle dense formulazioni teoriche di Henri Focillon. Il saggio, caratterizzato da un taglio narrativo, tale da rendere la lettura agevole e alla portata di un vasto pubblico, non è volto ad inscrivere, attraverso la descrizione dei progetti, l’opera dell’architetto danese nei margini di una classificazione storiografica per denunciare un filone di appartenenza; esso aspira, piuttosto, a dare una chiave di lettura dei suoi progetti riconoscendone alcuni che Renato Capozzi definisce «architetture esatte» attraverso un’analitica indagine che si incentra principalmente sui processi compositivi adottati e sul disvelamento delle peculiarità che di volta in volta si scorgono negli esiti realizzativi. Tali architetture si caratterizzano, inoltre, per una più elevata ambizione sociale attraverso un linguaggio che deve rendersi comprensibile, pur essendo legato all’immaginazione dell’artista, aspirando a caratteri di generalità per essere […] compreso da tutti. Un idioma formale che deve essere in grado di conferire decoro alle forme per rappresentare il tema, il valore e il significato civile dei ma-


nufatti con immediatezza e rispondenza ai bisogni, alle domande che la collettività ogni volta pone. Il libretto, agile e sapientemente strutturato, è suddiviso in cinque capitoli: Perché Jacobsen; In Danimarca; Le “architetture esatte”; La consacrazione internazionale; L’esattezza come obbiettivo. Essi sono arricchiti da fotografie e ridisegni delle architetture selezionate che sottolineano la volontà di riconoscere nel disegno di architettura i ragionamenti che sono alla base della ricerca compositivo-formale che Capozzi compie nella sua indagine sull’autore. È proprio il disegno che, negli studi ed in ragione della formazione dell’A., riveste un ruolo di primaria importanza quale strumento di conoscenza del reale e quale punto di partenza per avviarsi ad uno studio specifico su concetti, metodi e strategie progettuali adottati dall’architetto danese. Cogliamo qui l’occasione per ribadire un aspetto accennato in precedenza sull’impostazione del saggio. Questo fornisce un doppio registro comunicativo: da un lato, come già detto, si evince la volontà di non rinunciare alla trama narrativa che consente una scorrevole lettura da parte di un pubblico dei non addetti ai lavori; dall’altro, è costantemente presente il rimando al disegno, a quell’approccio metodologico di stampo compositivo rivolto prevalentemente ad una platea più specifica di studenti di architettura. Ritornando al concetto di esattezza, secondo l’interpretazione dell’A., questo emerge proprio attraverso l’analisi degli aspetti compositivi, costruttivi e linguistici delle architetture prese in esame, da quelle danesi alle realizzazioni che consacrano Jacobsen nel panorama in-

ternazionale, fino a giungere all’individuazione delle già citate «architetture esatte», in cui Capozzi esplicita l’idea di esattezza definita, a partire da considerazioni che fanno capo ad Italo Calvino, come evocazione di nitide figure stagliate sui paesaggi urbani o naturali. Non sorprendenti, non accattivanti, ma icastiche, ovvero degne di essere ricordate con fissità […]. Esattezza come rifiuto di ogni sentimentalismo provvisorio: un’aspirazione al classico, una tensione alla stabilità delle forme che non dipende dal tempo o dalle mode. Renato Capozzi si serve del viaggio per raccontare le opere del maestro danese nell’ordine in cui le ha incontrate. Un viaggio compiuto da giovane architetto affascinato dalla lezione di Jacobsen e mosso dalla grande passione per l’architettura moderna, come egli stesso racconta nell’esordio del suo saggio, ma principalmente dalla volontà di interiorizzare gli insegnamenti contenuti nelle opere visitate. Nelle prime due che egli incontra, ossia la Stelling Hus (Copenaghen 1934) e la sede della Jesperen (Copenaghen 1953), si riconosce un «linguaggio scarno ed una rara perfezione esecutiva» che rappresentano alcune delle caratteristiche ricorrenti delle opere che solo un maestro di singolare abilità compositiva può concepire, lavorando sulla capacità di controllo e sul sapiente proporzionamento delle misure. Le architetture di Arne Jacobsen sono figlie della sua epoca, concepite secondo un punto di vista razionale dell’architettura che si riscontra chiaramente anche nelle opere dei suoi colleghi tedeschi, Mies van der Rohe, Sep Ruf, Edward Ludwig, Egon Eiermann, i quali si sono di-

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stinti nel palcoscenico internazionale di quegli anni. La ricerca progettuale che ha interessato l’A., già nel suo primo contributo sul pensiero e l’opera dell’architetto danese, e che rappresenta, in maniera più generale, il centro di interesse delle sue ricerche e degli studi svolti negli anni, si fonda sul riconoscimento del ruolo degli archetipi assunti come elementi vitali e potenti, validi oltre il momento storico, oltre la contingenza. Infatti, il metodo di lettura compositivo che egli utilizza per analizzare i progetti si basa sulla riconoscibilità di forme, misure e proporzioni che risiedono in modelli razionali nei quali si può riscontrare una certa idea di classico, modelli ai quali Renato Capozzi fa riferimento continuamente nei suoi progetti di architettura. In conclusione, la lettura del saggio risulta utile per diversi aspetti che vanno dalla possibilità di confrontarsi con un punto di vista chiaro e ben definito sull’architettura, che in certi punti del testo assume i toni di un manifesto sulla contemporaneità, fino all’importanza della riscoperta di una figura ancora poco perlustrata nell’ambito della pubblicistica italiana. O. I.

R. Falcinelli, Cromorama. Come il colore ha cambiato il nostro sguardo, Einaudi, Torino 2017.

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Cromorama di Riccardo Falcinelli – un testo di ben 470 pagine tra Sguardi, Storie, Artefatti e Percezioni, con un’appendice sui Concetti scientifici e un’altra sui Principali modelli cromatici – è uno sguardo “multiverso” sulle immagini che hanno forgiato la nostra capacità di

dare significato alla realtà. Del volume di Falcinelli si può dire che apra gli occhi, in senso tecnico, perché ha la capacità di farti vedere consapevolmente il colore delle cose. In questa prospettiva, Falcinelli scompone l’ambito generale del colore in temi specifici: il colore è una nuova tecnica di produzione che cambia lo stato dell’arte, il colore è un fatto scientifico che spiega come vediamo quel che vediamo, il colore è il modo in cui si progetta la merce per far breccia sul mercato. Volendo fare una recensione, divorati i primi capitoli, ho pensato: questo libro è troppo denso, ci sono troppe cose rilevanti, interessanti, sorprendenti. Così, da buon storico del design, ho deciso di segnalare le parti utili a ricostruire una storia del design puntellata dall’uso progettato del colore. Ma anche questo proposito si è rivelato problematico: tutto il libro di Falcinelli è una affascinante storia del design – a colori – che consiglio decisamente ai miei allievi. Come impostare dunque la recensione? Occorreva fare una scelta precisa. Ebbene, ecco la mia. Utilizzerò le annotazioni falcinelliane per sfatare un luogo comune, uno dei topoi più consolidati nella letteratura del colore: la primarietà di rosso, giallo e blu. Secondo Falcinelli, i colori «primari» non esistono. Un colore primario è tale solo perché viene usato per mescolarlo e farne dei secondari. Niente di più. Cerchiamo di capirci di più. Tutti gli studenti di Design sanno che i colori primari sono il rosso, il giallo e il blu. Lo attestano le composizioni di Mondrian e la sedia di Rietveld Rossa e Blu. Sommando due colori primari, si fanno i secondari (rosso + giallo = arancione, rosso + blu = viola, giallo + blu = verde). I colori complementari danno


luogo a tre coppie: un primario e il secondario corrispondente alla somma degli altri due (rosso-verde, giallo-viola, blu-arancione). Sommando poi un primario e un secondario, si ottengono i terziari, che sono sei; e così via tutti gli altri colori. Questo è certo (!), o almeno lo era prima che Falcinelli pubblicasse Cromorama. Questo libro c’insegna che, per quanto la primarietà di rosso, giallo e blu sia un convincimento diffuso e radicato, non si tratta di una verità assoluta ma semplicemente di un fatto culturale. Tanto per cominciare, considerando la fenomenologia della percezione, si potrebbe con certezza affermare che i colori primari sono rosso, blu e verde. La percezione umana, infatti, ha luogo quando la luce arriva sul fondo dell’occhio depositandosi sulla retina, una membrana le cui cellule traducono il segnale luminoso in colore. Queste cellule, chiamate “coni”, sono di tre tipi, ciascuno in grado d’intercettare una certa porzione di lunghezze d’onda equiparabili ai colori rosso, blu e verde: Secondo il modello classico di Thomas Young – sviluppato poi da Hermann von Helmholtz (1821-1894) – la visione dei colori sarebbe il frutto della mescolanza dei tre recettori primari, che – è il caso di ribadirlo – sono rossi, blu e verdi. Perché allora tutti sempre si riferiscono alla triade primaria di rosso, giallo e blu? Allora chiediamoci: in che modo noi, uomini del Terzo Millennio, pensiamo il colore? Qualunque sia il colore che abbiamo in mente, è inevitabilmente una tinta piatta. Quest’affermazione, apparentemente ovvia, segna una differenza fondamentale tra il nostro modo di pensare il colore e quello dell’uomo del passato. La nostra idea di colore come

tinta piatta – indipendente dalle cose – non è infatti una condizione naturale ma culturale. Più precisamente, è un portato della Rivoluzione Industriale che prende campo circa 200 anni fa. In natura, infatti, eccetto il cielo e alcuni fiori, la tinta unita non esiste; pietre e piante, ad esempio, presentano colori variegati. Non a caso, anche la pittura del passato è sempre contrassegnata da sfumature cromatiche e minuscole variazioni tonali: Nel mondo antico, in verità, la tinta unita è impossibile o difficilissimo riprodurla. Riuscirci è più l’eccezione che la regola. Immaginarla è solo un orizzonte teorico. Con la Rivoluzione Industriale, invece, le cose si ribaltano perché la produzione seriale implica procedure tali da riprodurre prodotti sempre uguali: le forme sono standardizzate in tipi replicabili all’infinito e i colori ridotti a quadratini di tinta unita (Pantone). Certo, l’industria potrebbe riprodurre milioni di prodotti diversamente variopinti, ma la riduzione del colore in tinte unite, matematicamente definite, si è dimostrata assai più redditizia. Le cose quindi sono andate così. E il nostro sguardo si è tanto assuefatto alla tinta unita che fatichiamo a renderci conto di come il rosso numero 032 possa ben descrivere un mattoncino Lego, ma sia inadeguato a restituire l’esperienza d’un affresco di una villa pompeiana. Inoltre, prima della Rivoluzione Industriale, poiché tutti colori erano tratti direttamente dai tre regni della natura (minerale, animale e vegetale), dovevano necessariamente essere legati alle cose e alle materie. Oggi i colori […] sono prodotti sintetici, molecole create in laboratorio tramite reazioni chimiche. Per la prima volta nella storia umana si può accedere a tutte le

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tinte possibili senza cercare in giro per il mondo. Basta comprarle online con una carta di credito. Ma c’è di più: una volta gli oggetti potevano essere soltanto di alcuni colori, che finivano per identificarli molto concretamente. Perciò, quando Omero descrive il colore del mare nell’Iliade, non parla mai di blu ma utilizza perifrasi del tipo è-come-il-vino: perché è incapace di astrarre l’idea di blu dalla liquidità del mare. In passato, non esisteva il colore come attributo delle cose con una specifica provenienza. E siccome ogni colore aveva un prezzo preciso e caratterizzante, esisteva una gerarchia per la quale, ad esempio, il blu di lapislazzulo valeva molto di più del nerofumo (che si ottiene dal carbone). Dire quindi che il color porpora – costosissimo – è secondario rispetto al giallo suonerebbe per gli uomini del Medioevo come una specie di eresia. La parità di status dei colori può avvenire solo nel Seicento grazie alla Rivoluzione Scientifica operata da Isaac Newton. Lo scienziato inglese, tramite un prisma, scompone la luce in una successione di sfumature cromatiche e sette punti cardinali: rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco, violetto. Stacca per sempre il colore dai materiali concreti che lo esibiscono. Da allora in poi per l’uomo moderno «porpora» diventa il momento di una sequenza percettiva simile all’arcobaleno: un punto della stessa importanza degli altri, senza gerarchie né simbolismi, descrivibile in astratto tramite coordinate matematiche. Perché allora alcuni colori dovrebbero essere più importanti di altri, primari? E anche in questo caso, perché tre e non quattro o tutti e sette? E perché proprio rosso, giallo e blu? Nel Settecento Jacob-Christof Le

Blon, un pittore oggi pressoché sconosciuto, realizza delle stampe a colori con tre matrici di rame incise, ciascuna per ogni colore primitivo, rosso, giallo e blu […] Le Blon descrive la sua invenzione nel 1725 in un libricino intitolato Coloritto, termine con cui si riferisce al colore dell’incarnato. Ma se il titolo è bizzarro, il sottotitolo è profetico: «L’armonia del colore in pittura ridotta a pratica meccanica». È qui che compare per la prima volta la possibilità, meccanica, di ottenere i tre colori secondari (arancione, viola e verde) sommando i primari. Ed è emblematico che la prima attestazione di questa idea non compaia in un manuale di pittura ma in un trattato tipografico: è la riprova che a sdoganare le mescolanze in via definitiva sia appunto una necessità tecnica e protoindustriale che diverrà a breve la pietra angolare del sistema dei nascenti mass media. Nel 1801 Thomas Young, ispirato dalla procedura grafica di Le Blon, ipotizza che la visione umana funzioni per mescolanza cromatica, sospettando che nel fondo dell’occhio esistano particelle che vibrano all’unisono con tre colori: rosso, giallo e blu. Nell’Ottocento, con l’avallo della scienza, la strada della primarietà di rosso, giallo e blu è spianata. Oliver Byrbe, nell’edizione illustrata degli Elementi di Euclide del 1847, usa il rosso, il giallo e il blu per rendere espliciti assiomi e ragionamenti; mentre Owen Jones, chiamato a progettare la decorazione del Crystal Palace, sede della Great Exhibition di Londra del 1851, basa il suo lavoro sulla stessa triade cromatica. Perfino Turner adopera i tre colori sostenendo che il giallo è la luce, il rosso la materia e il blu la distanza. Nel Novecento, il primato della


tricromia rosso-giallo-blu è ormai un fatto assodato. La consacrazione si deve a Piet Mondrian, a Theo van Doesburg e al gruppo De Stijl, il cui ascendente sul Bauhaus, la più influente scuola di design del Novecento, determina le sorti della didattica moderna. Mondrian traccia linee orizzontali e verticali come uniche direzioni possibili, e campisce quadrati e rettangoli di rosso, giallo e blu, considerando il verde secondario e quindi non essenziale. Si tratta di una posizione ideologica, priva di qualsiasi riscontro scientifico o sociale: il verde è statisticamente un colore molto amato, il più diffuso sul pianeta e quello di cui vediamo il maggior numero di sfumature. Ma […] Mondrian parla di colore in termini di bene e male, di giusto e sbagliato e, come tanti moralisti, ottiene credito e consenso. Con lui si schierano Paul Klee e Vassilij Kandinskij, che ricercano la corrispondenza tra forme geometriche elementari e colori primari (quadrato-rosso, triangologiallo, cerchio-blu), e Johannes Itten, che innalza la terna a oggetto di venerazione, quasi fosse una faccenda ontologica, se non proprio metafisica (tutti docenti di punta del Bauhaus). In verità, è possibile riprodurre decine di tinte anche con due colori, ad esempio nero e arancione, che sono dunque “primari” se dalla loro combinazione si ottengono tutti i colori di un’immagine, inclusi, in questo caso, alcuni grigi azzurrati visibili per contrasto simultaneo. Qualunque insieme di almeno due inchiostri permette di produrre immagini a colori, la scelta di usarne tre è solo un’ottima idea per allargare le possibilità. Se le immagini digitali si basano sul sistema RGB, ritenuto più affine al funzionamento

dell’occhio umano per il fatto che la retina ha tre tipi di ricettori, come si è detto, la tricromia non è legge e se si costruissero schermi a cinque colori la gramma visibile sarebbe ancora più ampia di quella a cui siamo abituati. Tuttavia, una tecnologia del genere non sarebbe significativamente apprezzata, perché la gran parte degli utenti usa il computer per attività che non richiedono prestazioni elevate (contabilità, chat, videogiochi…). Anche l’epoca dell’elettronica a tre colori è […] un momento della tecnologia, non una verità della percezione. Del resto, il sistema oggi più diffuso per la stampa è la quadricromia, basato sulla mescolanza di ciano, giallo, magenta e nero (CMYK), grazie all’inchiostro ciano che garantisce un ventaglio cromatico amplissimo, mai visto prima degli anni Trenta del secolo scorso in una mescolanza, e alla sostituzione del rosso col magenta (che insieme al giallo dà il rosso), una specie di rosa carico che avrebbe fatto rabbrividire i membri del De Stijl. In fondo Mondrian e compagni hanno giocato col fuoco, hanno scambiato per verità naturale una necessità tecnica, e il sistema produttivo non li ha perdonati. D. R.

L. Fontana, Ambienti / Environments, a cura di Marina Pugliese, Barbara Ferriani e Vicente Todolí, in collaborazione con Fondazione Lucio Fontana, Pirelli Hangar Bicocca, Milano 21 settembre 2017 - 25 febbraio 2018. Si è da poco conclusa al Pirelli Hangar Bicocca di Milano l’incredibile e accurata mostra su Lucio Fontana. Ambienti / Environments. Cu-

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rata da Marina Pugliese e Barbara Ferriani, con il supporto di Vicente Todolí e la collaborazione della Fondazione Lucio Fontana, la mostra riunisce per la prima volta due interventi ambientali e nove Ambienti Spaziali, ricostruiti con grande cura e dopo un’attenta ricerca filologica. Lo spunto per la mostra parte dalla tesi di dottorato di Marina Pugliese sulla questione della relazione tra opera, fruitore e spazio, analizzando in particolare il lavoro artistico di Fontana, il rapporto e confronto tra le sue sperimentazioni spaziali e le prime sperimentazioni americane sul tema degli Environment, che spinsero Fontana a dichiarare e rivendicare apertamente la propria primazia nel campo dell’arte ambientale. Lucio Fontana è stato uno degli artisti fondamentali della scena italiana e internazionale nel secondo dopoguerra. Precursore e protagonista dell’arte Informale, dopo un primo periodo di attività a Milano, durante gli anni del conflitto mondiale si stabilisce in Argentina, luogo in cui è nato. Qui, nel 1946, scrive il Manifesto Blanco insieme a un gruppo di suoi allievi, dove cerca di chiarire per la prima volta i fondamenti della sua sperimentazione artistica, e dove dichiara l’importanza della materia, del colore e del suono in movimento come strumenti che permettono lo sviluppo di un’arte tridimensionale, un’arte che contiene le quattro dimensioni dell’esistenza (B. Arias, H. Cazeneuve, M. Fridman, L. Fontana, P. Benito, C. Bernal, L. Coll, A. Hansen, J. Rocamonte, Manifesto Blanco, 1946, in E. Crispolti, a cura di, Lucio Fontana. Catalogo generale, vol. 1, Electa, Milano 1986, pp. 34-35). Al suo rientro in Italia nel 1947, Fontana riallaccia i rapporti con artisti e ar-

chitetti con cui aveva collaborato prima della partenza. Nello stesso anno firma il Primo Manifesto dello Spazialismo, riprendendo i caratteri del suo pensiero artistico che verranno poi precisati nel 1951 con la pubblicazione del Manifesto Tecnico dello Spazialismo, dove vengono stabiliti definitivamente gli intenti della sua ricerca formale, non figurativa. Il temine Spazialismo per Fontana indica una affermazione lucida e ferma che qualsiasi cosa coscientemente si faccia è un fare lo spazio (Cfr. G.C. Argan, L’arte Moderna 1770/1970, Sansoni, Firenze p. 725). Si lavora quindi sullo spazio architettonico, si cerca un’interazione con esso per creare nello spettatore sensazioni inconsuete e capaci di mettere in dubbio le più radicate consuetudini percettive. Questi lavori vengono chiamati da Fontana Ambiente spaziale o Concetto spaziale, proprio per sottolineare che l’opera si estende oltre i confini definiti dal quadro o dal volume scultoreo e invade il campo dell’esperienza reale del frequentatore. Diceva Fontana che non ci può essere pittura o scultura spaziale, ma solo concetto spaziale dell’arte (Fontana, cit. in G. Celant, L’inferno dell’arte italiana. Materiali 19461964, Edizioni Costa & Nolan, Genova 1990, p. 160). Il lavoro artistico si concretizza in stanze e corridoi, in volumi e ambienti che devono essere percorsi, attraversati, guardati e misurati dal visitatore. Lavori, peró, troppo avanti per i tempi di Fontana, che faticava ad essere compreso: non è un caso infatti che il primo ad aver capito e riconosciuto il valore di queste opere sia un architetto, Gio Ponti, che nel 1949 mette sulla copertina di Domus l’Ambiente spaziale a luce nera realizzato alla Galleria del Naviglio.


Queste opere di Fontana sono sempre state poco conosciute rispetto ai famosi tagli o buchi, oppure alle ceramiche, e la curatrice Marina Pugliese, in una delle numerose videointerviste realizzate per pubblicizzare e insieme approfondire l’esperienza della mostra, ci offre una spiegazione del perché: data la loro natura effimera e temporanea, gli Ambienti spaziali sono sempre stati smantella- ti al termine delle esposizioni in cui erano inseriti, poiché era piuttosto difficile venderli e ancora piú diffici- le conservarli. Per questo motivo la mostra Ambienti/Environments ha un valore davvero unico. Pugliese e Ferriani hanno lavorato a lungo attraverso un meticoloso lavoro di ricerca in diversi archivi, sia in quello della Fondazione Lucio Fontana che in archivi di musei e gallerie dove gli ambienti erano stati realizzati, ricostruendo scrupolosamente, un pezzettino alla volta, il processo della loro realizzazione. Sono stati revisionati tutti i documenti disponibili, cercando elementi che potessero aiutare a ricostituire fisicamente le opere: la corrispondenza di Fontana con architetti, artisti e curatori delle mostre, ma anche documenti piú prosaici come preventivi, fatture, bolle di consegna. Una collezione di frammenti di dati fisici e misurabili, e allo stesso tempo di definizione del contesto in cui l’opera era stata concepita e realizzata, per arrivare ad un passaggio intermedio di elaborazione digitale degli spazi. Questo passaggio virtuale è servito a valutare e strutturare il lavoro di realizzazione e ad iniziare il percorso verso la certezza della possibilità di ricostruire in maniera assolutamente corretta e puntuale ogni opera. Il rigore applicato nella ricerca e verifica di ogni passaggio ha portato anche a scartare la possibilità di riprodurre ambienti

come quello realizzato nel 1966 alla Biennale di Venezia: l’ambiente originale conteneva cinque “edicole” disegnate da Carlo Scarpa su progetto di Fontana, in cui erano sistemati cinque Concetti spaziali, che attualmente appartengono a tre musei diversi. Nonostante la riproduzione fisica dello spazio fosse possibile, grazie ai numerosi disegni e documenti ritrovati, le curatrici hanno deciso di non procedere alla realizzazione non volendo snaturare l’ambiente e non volendo realizzare qualcosa di “monco”, poiché non sono state ottenute le autorizzazioni a smontare le cornici di alcuni quadri, che originariamente erano esposti senza. Questo a dimostrazione della fedeltà all’originale del lavoro eseguito. Lungo la navata di Hangar Bicocca sono stati dunque disposti i nove Ambienti Spaziali, secondo l’ordine cronologico che va dal 1949 al 1968, mentre in apertura e chiusura troviamo i due interventi ambientali. È Fontana stesso che distingue le due tipologie di intervento: gli Ambienti sono opere a sé stanti, sono stanze che lavorano sulla relazione tra oggetto-personaspazio-luce, mentre gli inteventi ambientali sono opere commissionate generalmente da architetti e che lavorano in maniera quasi site-specific, instaurando cioé una stretta relazione con lo spazio in cui sono inserite e per cui sono progettate, ma che non necessitano di stanze chiuse. La mostra dunque si apre con la ricostruzione della Struttura al neon per la IX Triennale di Milano del 1951, che viene qui ricostruita utilizzando come sfondo l’originale cielino “blu Giotto” indicato nelle prove colore eseguite all’epoca dall’architetto Luciano Baldessari. Unica nota negativa che si po-

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trebbe fare a questa ricostruzione è quella di non avere la stessa forza spaziale che originariamente esprimeva nella sua collocazione: salire lo Scalone d’Onore della Triennale permetteva infatti di guardare l’opera non solo da punti di vista differenti, ma anche da piani e altezze diverse, poiché salendo o scendendo i visitatori si avvicinavano e si allontanavano da questo arabesco luminoso, e lo vedevano mutare nella forma e creare relazioni spaziali sempre diverse con l’architettura. Il percorso poi si dipana attraverso le nove stanze degli Ambienti spaziali. Queste “scatole nere” disposte nel grande spazio aperto della navata, visualizzate e suggerite da Vicente Todolí, ospitano le opere nelle dimensioni originali, e hanno la capacità di essere semplice ma efficace contenitore che non interferisce con l’esperienza della mostra. Ogni “scatola” porta il visitatore in un ambiente diverso, ma che sempre chiede di mettere in gioco i propri sensi nell’essere attraversato o osservato. La luce - bianca, colorata, di Wood – i materiali - morbidi o duri – e le forme - sospese o incise – definiscono ambienti che rivelano una straordinaria forza espressiva e dove si legge a pieno la contemporaneità della ricerca di Fontana. Piccole architetture, piccole stanze che creano illusioni visive di profondità spaziale e fanno riflettere sul nostro modo di abitare lo spazio e di costruire i nostri punti di riferimento all’interno di esso. L’opera di Fontana è profondamente legata all’interno che la ospita, e si propone come una indagine continua e puntuale dello spazio, partendo dal presupposto fondamentale che ogni esperienza visiva, fisica o artistica, è immersa nella realtà che l’uomo vive e percepisce. Il segno di Fontana è

una forza che agisce in un campo ed i cui limiti sono i limiti della propria influenza (Cfr. G. C. Argan, L’arte Moderna 1770/1970, Sansoni, Firenze p. 725). Il percorso della mostra si chiude infine con l’intervento ambientale Fonti di energia, soffitto luminoso al neon per “Italia 61”, realizzato a Torino nel 1961 su commissione degli architetti milanesi GPA Monti (Gianemilio, Piero e Anna Monti), in una ricostruzione che Enrico Crispolti ha definito perfetta – ci manca solo Torino, ha detto – e della quale ha auspicato anche la conservazione permanente all’interno di Hangar Bicocca, un po’ come accaduto per i Sette palazzi celesti di Kiefer. Non meno importante della esperienza diretta di queste opere è stato il ricco programma di incontri organizzati parallelamente alla mostra, e ancora visibili sul canale YouTube di Hangar Bicocca: Enrico Crispolti, Paolo Campiglio, Silvia Bignami e Giorgio Zanchetti hanno raccontato diversi aspetti del lavoro dell’artista, mentre l’incontro pubblico con le curatrici Pugliese e Ferriani ha approfondito e chiarito ancora di più il complesso lavoro che ha portato all’organizzazione di questa mostra. Peccato solo che ancora oggi, a distanza di quasi due mesi dalla chiusura della mostra, il catalogo pubblicato da Mousse Publishing non sia stato ancora terminato. I. P.

Utopie radicali 1966-1976, esposizione e catalogo a cura di Pino Brugellis, Gianni Pettena, Alberto Salvadori, Quodlibet, Macerata 2017. L’opera dei sette ‘cavalieri fiorentini’ che hanno sfidato gli statuti


dell’architettura moderna: Archizoom, Buti, 9999, Pettena, Superstudio, UFO, Zziggurat, con disegni, fotomontaggi, video, modelli, plastici e prodotti, in mostra a Palazzo Strozzi, un’occasione unica per vederli riuniti insieme. L’esposizione documenta ciò che avviene a Firenze nell’arco di pochi anni: studenti di architettura che si incontrano ai corsi di Savioli e Ricci e, neolaureati, si costituiscono in gruppi e si frequentano, anche da antagonisti, come i componenti di Archizoom e Superstudio. Ma se la città è il loro luogo principale di attività, il confronto avviene tramite le riviste “Domus” e “Casabella” che dando ascolto e sostenendo i loro messaggi e scritti diventeranno il ‘teatro’ del dibattito critico sui limiti dell’architettura moderna. Punto di partenza dell’esposizione il “ Manifesto” della Superarchitettura; l’architettura della superproduzione, del superconsumo, della superinduzione al superconsumo, del supermarket, del superman e della benzina super. È il titolo della mostra che si inaugura il 4 dicembre 1966 alla Galleria Jolly 2 di Pistoia e nella quale Adolfo Natalini e Cristiano Toraldo Di Francia (Superstudio) e Archizoom (Andrea Branzi, Gilberto Corretti, Paolo Deganello, Massimo Morozzi) presentano in un ambiente pop colorato e sgargiante fatto di pannelli di legno sagomati e colorati, le recenti tesi di laurea di architettura, qualche mobile e lampada, un sistema di sedute in legno verniciato. È in quell’occasione che avviene l’incontro dei due gruppi con Ettore Sottsass jr. e Sergio Cammilli, titolare della Poltronova, che di lì a poco metterà in produzione il divano Superonda, i sistemi di sedute Safari, Mies e la lampada Sanremo degli Archizoom;

il divano Sofo e le lampade Passiflora e Gherpe del Superstudio, al quale si aggiungono l’anno successivo Gian Piero Frassinelli, Roberto e, più tardi, Alessandro Magris. Nelle grandi sale alla Strozzina, oltre a queste opere, sono esposti i fotomontaggi de “Il Monumento continuo” (1969) e per le “Visioni delle dodici città ideali” del Superstudio, “Le stanze vuote e i gazebi” (1969) e i disegni su lucido provenienti dal CSAC di Parma della “No-Stop City” (1970-’71) degli Archizoom; da “Red Line” (1972) alle “Architetture inconscie” di Gianni Pettena, alle case ANAS (1969) e a “Il giro d’Italia” del collettivo UFO (Carlo Bachi, Lapo Binazzi, Patrizia Cammeo, Riccardo Foresi, Titti Maschietto, per un breve periodo Sandro Gioli). Meno note invece sia la Scatola Simulatrice per Supersuperficie del Superstudio, una scatola che contiene una parte della Supersuperficie, il reticolo degli Istogrammi che nella sua compostezza geometrica astratta dirige, moltiplicata dagli specchi, frammenti di un ambiente esterno, sia il modello pop di Residential Parking degli Archizoom, flipper in verticale con in sommità un paesaggio artificiale domestico con superfici interne a specchio, due vere e proprie “macchine sceniche” dell’utopia critica dei due gruppi. Del Superstudio anche la seduta componibile “Bazaar” di Giovannetti e un’intera sala a mostrare la serie completa degli “Istogrammi di architettura”, mentre degli Archizoom si mostrano finalmente i modellini dei letti della serie Imperiale presentati come “Nuovi mobili” su Domus nel 1967, i fotomontaggi urbani e la serie di ‘abbigliamenti’ di “Vestirsi è facile” nel suo intero svolgimento. È l’occasione per vedere gli ‘originali’

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che per lo più nel corso degli anni si sono visti in rare occasioni e spesso in piccole riproduzioni, come i fotomontaggi in grande formato a colori di “Venezia?” (1971) e per il concorso per la Nuova Università di Firenze “Il Bosco” del collettivo 1999 (Caldini, Coggiola, Fiumi, Galli, Gigli, Preti, Sani), poi 9999 (Giorgio Birelli, Carlo Caldini, Fabrizio Fiumi, Paolo Galli), “La città con le foglie” dello studio Zziggurat (Alberto Breschi, Giuliano Fiorenzuoli, Roberto Pecchioli, nella formazione base), l’“Architettura interplanetaria”, ancora del Superstudio. Pochi i veri e propri disegni di architettura; alcune tesi di laurea fra cui quella per una nuova sede della Facoltà di Architettura a Firenze di Gioli e Segoni, disegni per un piper, le “Grass architecture” di Gianni Pettena e i disegni a colori per “La città come ambiente significante”(1973) di Zziggurat. Puntuale la documentazione fotografica: degli happenings urbani del gruppo UFO e delle loro azioni di prossemica territoriale e di disturbo effettuati con gli Urboeffimeri, tubi in polietilene gonfiabili di varie forme e dimen- sioni, riediti per l’occasione l’esem- plare n. 5 e uno a forma di dollaro esposti rispettivamente all’interno del mercato Centrale e nel cortile di Palazzo Strozzi; della denuncia politica di Gianni Pettena con le sue ‘azioni’, “Carabinieri”, “Milite ignoto”, “Grazia e giustizia” (1968) e le sue performances “Vestirsi di sedie” e “Paper architecture”; delle “azioni” progettuali-spettacoli del collettivo 9999, con le proiezioni su Ponte Vecchio di vari tipi di immagini, dall’astronauta galleggiante nello spazio a vari disegni geometrici, comprese le varie attività che di lì a poco il gruppo inizierà con l’avventura dello Space Electronic e dei

seminari ivi condotti dalla Scuola Separata Per l’Architettura Concettuale Espansa, prodromi della Global Tools, fondata nel 1973 presso la redazione di “Casabella” a Milano, ma con sede a Firenze. Al lavoro di Remo Buti è dedicata una sala intera ed è un’occasione per vedere le sue ceramiche della seconda metà anni Sessanta, “Cattedrale” e “Case”, la lampada “Stars” per Targetti, così sfortunata nella sua vita commerciale, le immagini in grande dimensione di “Free Architecture”, modelli urbani realizzati con materiali di recupero vario e i disegni all’aerografo “Utente nel paese delle meraviglie” e “Città degli edifici”. Importante la presenza dei materiali video, apparsi sporadicamente in qualche particolare rassegna cinematografica, come l’“Architettura interplanetaria riflessa” (1971) di Alessandro Poli, il video “Supersuperficie” del Superstudio per la mostra al MoMA del 1972, e di Gianni Pettena “The Pig Carosello italiano” (1967), feroce denuncia della civiltà dei consumi, all’insegna dell’ironico motto “Fate la spesa non la guerra” e “Intens-Progetto d’architettura” (1971), oltre sei minuti di ripresa fissa con l’autore davanti al tavolo da disegno, a tecnigrafo immobile, intento ad occuparsi delle proprie faccende personali più che a disegnare, manifestando così il suo rifiuto operativo della professione. Una sottrazione al mestiere che lo porta come scelta operativa all’autoproduzione, con il divano “Rumble” e il totem “Babele”, ma anche con la casa all’Enfola all’Isola d’Elba. Con l’identica volontà di rifiuto – pur derivato da altre premesse teoriche – anche Lapo Binazzi/UFO giunge all’autoproduzione con le sue lampade “Dollaro” (1969), “MGM ”, “Paramount”, oltre a perturbare costantemente, con


azioni e arredamenti kitsch, il senso comune del gusto. Sottrarre, cancellare, traslare, rovesciare, spostare il punto di vista, azzerare e ridurre, sono i metodi utilizzati per sradicare dal corpus disciplinare dell’architettura le strutture formali, concettuali e storiche che hanno condizionato il corpus disciplinare dell’Architettura moderna. I confini di queste operazioni sono dati dalla posizione estrema di Gianni Pettena che smette di arrotolare pezzi di carta tracciati a linee rette e fuori invece all’aria aperta prima di disegnare senza disegnare fare le cose niente fotomontaggi niente disegnini niente retini niente nastrini e puntini niente aerografo e da quella dello studio Zziggurat che invece persegue un’architettura integrata capace di mettere in condizione l’utente di abbandonare i codici e gli schemi di relazioni abituali proponendo un’architettura attiva, capace di modificazioni e alterazioni. Pur convinto che l’architettura è uno dei pochi mezzi per rendere visibile in terra l’ordine cosmico l’azzeramento del Superstudio avviene tramite un “«design d’evasione», una attività progettante e operativa nel campo della produzione industriale che assume al metodo la poesia e l’irrazionale” e quello degli Archizoom, agli estremi, per i quali il problema diventa dunque quello di liberare l’uomo dall’architettura, come struttura formale. Buti crede nel recupero poetico dell’oggetto, e il superamento del funzionalismo che porta all’aridità dei processi creativi sottomessi a criteri produttivi, ma a Graz nell’occasione fornita dal concorso Trigon ’71, si oppone alla tirannide del sistema economico competitivo con la richiesta di sospensione di ogni attività per un mi-

nuto (con Letizia Galli, Mario Preti, Franco Raggi e Giovanni Sani). Dall’altro lato, 9999 e UFO agendo sullo spazio fisico, con azioni e “situazioni”, i primi manipolandolo per ottenerne un corpo sensoriale nel quale il fruitore possa essere parte attiva, i secondi tramite vere e proprie incursioni sul territorio producendo derive e spaesamenti che conducono ad una diversa conoscenza e fruizione degli spazi urbani. Tutti insieme hanno contribuito a sgomberare il campo dall’ormai inadeguato circolo vizioso “dal cucchiaio alla città e ritorno” e ponendo un diverso punto di osservazione hanno aperto nuovi orizzonti che l’Architettura non sapeva vedere. Diventando merce, l’architettura non sapeva più occuparsi dell’esistenza umana, dei suoi attimi di esistenza e vitalità; non essendo più il problema della scala di intervento, ma dell’oggetto sul quale intervenire, oramai sull’intero pianeta, riportato all’attenzione nel primo seminario S-Space (1971) nel quale si dichiara il principale intento: studiare quella parte del tuo ambiente che tu non percepisci e che (secondo il Fuller) è il 99,99%, a noi interessa riflettere sul fatto che dei tuoi sistemi automatici il 99,99%, sono al di fuori della tua conoscenza. Dobbiamo loro, ancora, l’estensione della nozione di progetto, che non è uno strumento tecnico, ma un linguaggio e più che alla definizione di un prodotto porta alla messa in luce dell’intero processo progettuale nei suoi aspetti critici e l’allargamento del ruolo e dei compiti dell’architetto non più solo intellettuale tecnico ma interlocutore attivo nella pratica di costruzione di uno spazio ormai sempre più e solamente sociale. P. R.

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V. Gregotti, Quando il moderno non era uno stile, Archinto, Milano 2018.

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Quando il moderno non era uno stile non è il titolo di un saggio unitario, concepito in maniera organica, ma di tre scritti – redatti in occasione di altrettante conferenze svoltesi in un arco temporale di 10 anni (2005, 2007 e 2015) – pubblicati per la prima volta in questo testo di recente edizione (gennaio 2018) e anticipati da una densa introduzione caratterizzata da un deciso taglio critico. La scelta del titolo ha il chiaro intento di inquadrare immediatamente le riflessioni contenute all’interno dei tre scritti entro un comune ambito ideologico, ovvero quello della «modernità», «parola ambigua» secondo l’A. ma di primaria importanza ai fini di un’interpretazione adeguata del pensiero di Vittorio Gregotti. È pertanto opportuno chiarire subito il valore specifico che essa assume negli scritti gregottiani, richiamando un passo dell’architetto e urbanista Anatole Kopp, da cui è tratto il titolo di questo libro, utile per individuare con più precisione il senso di questa definizione: essa si riferisce al tempo in cui l’architettura moderna non era ancora uno stile ma una posizione ideologica. Sulla scorta di una tale interpretazione e delle argomentazioni del filosofo Henri Lefebvre in merito alla differenza tra «modernità» e «modernismo», Gregotti giunge a considerare la «modernità» come una condizione culturale contraddistinta da un approccio nei confronti della realtà basato sul riconoscimento delle contraddizioni che la animano e sul conseguente disvelamento delle possibili prospettive da poter percorrere, volte

alla costruzione di senso attraverso il progetto d’architettura. Questo atteggiamento culturale, entro cui si inscrivono le riflessioni di Gregotti, trova espressione nella definizione di «realismo critico». In linea generale, questo testo costituisce, come afferma l’A., un tentativo di esaminare le influenze del perdurare mutante delle ideologie che guidano il formalismo dell’architettura di successo dei nostri anni, confrontandole con ciò che è autenticamente, per me, l’architettura come pratica artistica nella tradizione del moderno. Tentativo che, più avanti, viene definito come un progressivo consolidamento del mio punto di vista intorno alle difficoltà che, altrettanto progressivamente, assediano le pratiche artistiche dell’architettura. Come si evince da queste brevi definizioni, il testo è basato sulla dialettica tra una sfera di concetti che si è consolidata nel tempo attraverso un’intensa attività intellettuale sfociata in una altrettanto corposa attività pubblicistica, ed una condizione fenomenologica in costante trasformazione entro cui si svolge la pratica dell’architettura. In altre parole, tra quelli che l’autore intende quali fondamenti dell’architettura e le manifestazioni di quest’ultima nel tempo della globalizzazione. O ancora, ricorrendo ad un binomio di anceschiana memoria più volte percorso da Vittorio Gregotti, tra architettura come «pratica artistica» autonoma e la sua deriva «tutta a favore dell’eteronomia». Una deriva che si definisce specificamente a partire dalla metà degli anni Settanta-Ottanta del XX secolo, nel quadro di una crisi nella relazione tra produzione e territorio e dell’affermazione del globalismo finanziario quando si sviluppa l’ideologia postmoderni-


sta che porta a una totale frantumazione teorica dell’architettura con un’abbondante produzione di scritti in equilibrio tra la soggettivizzazione dell’espressione e il suo totale asservimento allo stato postsociale dell’ideologia dei mercati e delle tecnoscienze, come affermato dallo stesso Gregotti nel saggio intitolato Contro la fine dell’architettura (2008). È utile a questo punto sottolineare che, unitamente alle argomentazioni riguardanti temi di varia natura pertinenti alla condizione odierna dell’architettura e della città, le ragioni di questo libro ed il motivo della sua attualità scaturiscono proprio dall’interazione del doppio ordine di condizioni espresso in precedenza e dall’esito di tale confronto, capace di rinnovarsi per la naturale evoluzione delle condizioni esterne entro cui si esperisce il fare architettonico. Le argomentazioni addotte sono, inoltre, supportate da una consolidata capacità analitica e critica, frutto di una vastissima conoscenza elaborata nel corso di una lunga carriera caratterizzata da esperienze di livello internazionale (per comprendere l’entità di tali esperienze, si rimanda al libro Autobiografia del XX secolo edito nel 2005). Se i mutamenti dell’architettura di fronte alle contraddizioni imposte dall’attualità sono stati affrontati a più riprese nel corso delle sue pubblicazioni e, segnatamente, ne L’identità dell’architettura europea e la sua crisi (1999) – in cui Gregotti attribuisce, parafrasando Husserl, la condizione di crisi al successo dell’universalismo dell’architettura moderna esteso alla società planetaria di massa – il tema centrale di questo libro è invece che cosa sia cambiato nella cultura architettonica europea rispetto allo sviluppo

di quella crisi, alle mutazioni rispetto ai processi del fare di fronte alle contraddizioni sempre più complesse e caotiche del globalismo finanziario dei nostri anni, divenute, pro o contro, tema centrale nella rappresentazione del potere nell’architettura contemporanea. E dato che il cambiamento, secondo l’analisi di Gregotti, ha registrato un incremento della condizione di crisi che permea l’architettura, la via d’uscita prefigurata dall’autore, costruita a partire da saggi precedenti unitamente al substrato teorico che ne è alla base, risulta espressa con maggior vigore. Essa è imperniata, in particolare, sul riconoscimento del valore autonomo dell’architettura intesa quale pratica artistica; sull’idea di bellezza espressa nella coerenza tra forma e intenzionalità complessiva del progetto e delle sue diverse parti; su un approccio di tipo interdisciplinare; sulla costituzione di una distanza critica dallo stato delle cose quale condizione per la costruzione di un frammento di verità; sull’attenzione al contesto quale luogo sia fisico che culturale con il quale l’architettura deve dialogare. Il tutto nella convinzione che l’architettura (come le altre arti) ha anche il compito, con la propria volontà di compiutezza, di stabilire punti certi […]. Questo compito […] diventa particolarmente importante, proprio quando costumi e valori mutano con rapidità, divorando incessantemente ogni presente. Oltre agli argomenti discussi fino ad ora, il testo di Gregotti presenta una pluralità di contenuti e di definizioni, attraversando differenti piani narrativi tenuti insieme, tuttavia, da uno stesso taglio ideologico: da un piano fortemente critico si passa, in-

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fatti, ad uno di natura più teorica, fino ad argomentazioni di carattere storico. Tale eterogeneità compositiva si riscontra chiaramente nella struttura del testo. Esso, come già anticipato, risulta articolato in tre parti anticipate da una ricca introduzione tale da allinearsi al livello teorico delle altre parti del testo: Modernità e postmodernismo decostruttivo; Città europea e periferia; Architettura, produzione e società civile in Italia dopo il 1945. Dopo aver affrontato le questioni centrali, facenti capo ai titoli dei capitoli appena menzionati, che riguardano il vasto panorama dell’architettura contemporanea – dal significato dello spazio urbano al tema delle periferie, dalle cause della crisi di tutte le arti alla figura delle «archistar», fino alle riflessioni critiche in merito all’evoluzione del pensiero progettuale negli anni della rivoluzione informatica – Gregotti ritorna, nella parte conclusiva del testo, sulla costruzione di una «soluzione» teorica al problema più generale della «crisi della modernità». Quando parlo della crisi dello stato delle cose non parlo solo della crisi del Movimento Moderno; parlo di una crisi molto più ampia. Mi riferisco a quell’idea di modernità a cui Montaigne pensava fino dal XVI secolo, che ha attraversato tutto l’Illuminismo e che è giunta fino a noi in forme anche molto complesse e diverse […]. Se il tono generale del testo risulta complessivamente negativo a causa della irreparabilità delle condizioni che hanno condotto all’attuale stato di crisi, nelle conclusioni, in cui viene prefigurata la pars construens, questo si attenua; qui le speranze dell’autore

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sono tutte riposte nella necessità di riannodare i fili con una tradizione interrotta, la «tradizione del moderno», o meglio, del «progetto moderno», puntando su quelli che Gregotti considera come una «piccola tribù di eredi del Movimento Moderno». Si tratta di architetti capaci di resistere alle tentazioni dell’arte solo come rispecchiamento positivo e convenzionale dello stato delle cose, capaci invece di costruire, nei confronti della realtà, esempi concreti di una distanza critica in grado di immaginare possibilità che non sono in alcun modo oggi presenti alla coscienza delle maggioranze rumorose. Nonostante il riconoscimento di una indubitabile coerenza teorica e la condivisione delle posizioni a supporto dell’atteggiamento critico nei confronti dello status quo e di uno scopo sociale che ogni progetto d’architettura dovrebbe porsi, è altresì opportuno dar conto di una certa parzialità di giudizio che potrebbe scaturire da riflessioni criticamente orientate sul tema dell’architettura contemporanea affrontato in una prospettiva globale. Confortati da una considerazione dello stesso Gregotti, possiamo comcludere che dalla sua indagine risulteranno escluse tendenze – che certamente esistono, soprattutto guardando alle nuove generazioni –, orientate verso la costruzione di senso attraverso il progetto d’architettura, e capaci di trasformare le istanze attuali in valori progettuali, seppur percorrendo strade alternative o parallele a quelle prefigurate dal Movimento Moderno. A. T.


Sommario dei fascicoli pubblicati

N.123. Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.125. Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.126. L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.127. Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N.128. Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.129. Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.131. Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.132. Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N.133. Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.134. Abitare la razionalità - Per una nuova classificazione delle arti - Il design aeronautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.135. Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.137. Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.138. Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.139. Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.143. . Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte

e la comunicazione dell’arte nell’era


digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.146. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI N.152. Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre N.153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazione Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre N.154. Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione - Ancora sul rapporto tra arte e pubblico - Design: scenari morfologici della contemporaneità - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.155. Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia - Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo - Della omologazione in architettura - Arti visive: da zona franca a fronte comune - È del designer il fin la meraviglia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N.156. Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» - Modern/post: un territorio in-between - «Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradigma espositivo - Moda: sistema e processi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Campania

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N.157. Editoriale - Una “ipostasi” della forma-tatuaggio - Aspetti e intenti del graffitismo d’oggi - Lebenswelt e architettura - Design vs Lebenswelt Libri, riviste e mostre N.158. Architettura e qualità nell’età dei concorsi - La nostalgia nella cultura digitale - Conformazione e trasformazione degli spazi interni - La ricerca di una definizione di design - Libri, riviste e mostre N.159. «Corporea» alla Città della scienza di Napoli - Mono-ha nel contesto globale. Poetiche e culture a confronto - Distruzioni e ricostruzioni a Berlino - Il tempo del tipo nello spazio del design - Libri, riviste e mostre N.160. Il mestiere di architetto: prospettive per il futuro - Téchne e progetto d’architettura - Riflessioni sulla 57ª Biennale di Venezia e Documenta 14 a Kassel - Didattica e design, dal learning by doing al learning by design - La rivista «October»: temi e nuclei teorici - Libri, riviste e mostre N.161. La metodologia circolare della progettazione in architettura - Aldo Rossi. Topografia urbana - Artisti italiani e realtà sociale nel secondo dopoguerra - La rivista «October»: novità metodologiche e crisi di un paradigma - Il design (morale) dell’ordine - Ernesto Basile. Dall’architettura d’interni all’industrial design - Enzo Mari. Opera, multiplo, serie - Libri, riviste e mostre

Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998 «Grafica Elettronica» - Via Bernardo Cavallino, 35/g - 80128 Napoli



ISSN 0030-3305

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