settembre 2018
numero 163
L’architettura è (ancora) un’arte? - Sull’unbelievable: Hirst, il fantasy, la postverità - La Biennale d’architettura 2018 Crossing the border : la storia dell’arte nell’epoca della globalità - La teoria in scena: Adolphe Appia - Libri, riviste e mostre
Selezione della critica d’arte contemporanea
rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco
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R. Masiero V. Trione L. Sacchi M.G. Mancini C. Fiorillo
L’architettura è (ancora) un’arte? 5 Sull’unbelievable: Hirst, il fantasy, la post-verità 14 La Biennale d’architettura 2018 43 Crossing the border: la storia dell’arte nell’epoca della globalità 55 La teoria in scena: Adolphe Appia 64 Libri, riviste e mostre 74
Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Cettina Lenza, Irene Pasina, Massimo Perriccioli, Luigi Stendardo.
L’architettura è (ancora) un’arte? ROBERTO MASIERO
In un testo del 2009, dal titolo La natura della tecnologia Che cosa è e come si evolve, W. Brian Arthur, ingegnere, economista e teorico della complessità pone alcune questioni che segnalo in estrema sintesi: – il mondo è plasmato dalla tecnologia molto più che dalle guerre o dai trattati; – la tecnologia procede diventando biologia, così come la biologia progressivamente riconosce se stessa come tecnologia; – la digitalizzazione, cioè la dimensione attualmente dominante di ciò che definiamo tecnologia, combina funzionalità provenienti da ragioni sia logico-formali che tecnicocostruttive differenti, perché tutto è diventato ontologicamente equivalente: stringhe di dati manipolabili tutti allo stesso modo. Anche se Brian Arthur ha una visione cumulativa delle tecnologie che ricorda l’evoluzione biologica delle specie viventi secondo il dettato di Darwin, quando arriva alla digitalizzazione invasiva che caratterizza il nostro tempo, sembra segnalare un radicale cambiamento là dove la tecnologia diventa biologia e la biologia diventa tecnologia, cioè là dove la natura è artificio e l’artificio è natura. Si pensi ai computer cellulari, all’utilizzo delle reti neurali, all’ingegneria genetica, alle nanotecnologie e altro ancora.
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Forse anche Brian Arthur si ritrova costretto ad accettare un dettato che dobbiamo alla logica di Hegel (non dissimile peraltro da quella di Darwin): quando cambia la quantità, cambia la qualità. Forse potrebbe anche sottoscrivere la proposizione che segue, che sta sullo sfondo di questo mio breve scritto: quando cambia il modo di produzione cambia tutto, decisamente tutto: ontologia, gnoseologia, epistemologia, etica, estetica, politica, l’idea stessa di soggetto e le pratiche del sociale e, ovviamente, cambiano anche i modi e le funzioni di ciò che chiamiamo arte. Questo anche se continuiamo tutti a pensare come abbiamo sempre pensato, e questo è ciò che resiste. Ciò che resiste è più pericoloso di ciò che si è già imposto. Non siamo più nel modo di produzione industriale ma in quello digitale che assorbe, metabolizza, trasforma, digerisce, quello industriale. La tecnologia, è per Brian Arthur, il rapporto contraddittorio, complesso e creativo dell’uomo con la realtà. Questo rapporto ha in sé la questione, del tutto marginale nelle sue argomentazioni, ma ovviamente non nelle mie, di che cosa sia allora ciò che chiamiamo opera d’arte: è la tecnica (e quindi la mimesi) che la rende “giusta” e giustificata? o qualcosa d’altro, come ci ha proposto la cultura otto e novecentesca di matrice sia positivista che idealista, imponendo valori come autenticità, singolarità, novità, creatività? E che significato assume la parola arte, o che valori si impongono con gli oggetti che definiamo artistici, là dove domina il modo di produzione digitale? Comunque, come intercetta e si misura con le arti uno studioso che poco ha a che vedere con l’arte ed è così attento alla natura della tecnologia? Si interroga proprio sull’architettura. Ci sarà un qualche motivo? Vediamo! Brian Arthur evoca l’architettura per esemplificare una questione: il passaggio da una visione meccanica del mondo e il conseguente sogno di un puro ordine delle cose (nel mondo degli stili: funzionalismo, razionalismo, modernismo, sino, per alcuni aspetti, al minimalismo), ad una nella quale cresce la consapevolezza che il mondo sia qualcosa di più della somma dei suoi meccanismi (Avanguardismo – solo per alcuni aspetti – espressionismo, surrealismo sino alle formulazioni Pop, kitsch e
via chiacchierando). Meccanismi “che occupano (secondo Brian Arthur) sicuramente un posto centrale, ma più si fanno complicati e interconnessi, più rivelano mondi complessi, aperti, in evoluzione e capaci di generare proprietà emergenti, non prevedibili dall’analisi delle singole parti”. E così continua: “La visione a cui stiamo giungendo non è più di un ordine puro quanto piuttosto di integrità organica e imperfezione”. A questo punto Brian Arthur riprende – guarda caso – Robert Venturi, cioè uno dei padri del Postmoderno in architettura, con questa citazione: “Io amo gli elementi che sono ibridi piuttosto che ‘puri’, quelli di compromesso piuttosto che quelli ‘puliti’, contorti piuttosto che ‘dritti’, ambigui piuttosto che ‘articolati’, corrotti quanto anonimi, noiosi quanto ‘interessanti’, convenzionali piuttosto che ‘progettati’, accomodanti piuttosto che esclusivi, ridondanti piuttosto che semplici, tradizionali piuttosto che innovatori, incoerenti ed equivoci piuttosto che chiari e diretti. Io sono per il disordine pieno di vitalità più che per l’unità ovvia: accetto il non sequitur e proclamo la dualità. Sono per la ricchezza piuttosto che per la chiarezza di significato, per la funzione implicita come per la funzione esplicita”. Notazione non marginale, questo testo è del 1966. La stessa cosa accade ad un autore, Fredric Jameson, studioso di letteratura, che nel suo Il Postmoderno e la logica culturale del tardo capitalismo elaborato sin dal 1984, cita a sua volta Bob Venturi e afferma che gli è capitato di capire il passaggio dalla Modernità alla Postmodernità a Chicago guardando una architettura di Portman. Cosa vede? Un enorme tronco di cono, ricoperto di specchi per cui il cielo sopra Chicago è inglobato, riprodotto, rielaborato, un cielo altro dentro un cielo vero. Vede un’architettura senza porte e finestre all’interno della quale vieni catturato da un tapis roulant che ti porta in ogni dove, meglio dove vuole lui. Il Postmoderno secondo Jameson: è “la cancellazione del confine (essenzialmente moderno-avanzato) tra cultura alta e la cosiddetta cultura di massa o cultura commerciale”. Il postmoderno come “una dominante culturale”, che si afferma quando la creazione estetica viene pienamente integrata nel mercato produttivo, quindi non una questione di stile. E tutto
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questo è, per Jameson, incarnato dall’architettura. L’architettura non rappresenta allora il Post è essa stessa il Post, cioè il mondo è una totalità in continua costruzione, e l’architettura non è mera rappresentazione di qualcosa, ma è il mondo così com’è, con gli interessi, le interpretazioni, le possibilità ed è uno “stato di fatto”, un sistema di relazioni, … inevitabilmente politica: è arte del costruire logotecnico. Ciò che ritengo significativo è che nei due autori, culturalmente, ideologicamente e accademicamente così diversi, ci sia il riconoscimento di una sorta di frattura epocale, di collasso, di catastrofe, non intesa come l’emergere di qualcosa di disastroso, ma – nelle modalità delle teorie della complessità – come qualsia si transizione discontinua che si verifica in un sistema. In questo caso si tratta del passaggio dall’industriale al digitale, dal lineare al circolare, dal burocratico collusivo all’anarchismo libertario, dalla statualità alla globalità, dal primato del meccanico a quello dell’organico, e così di seguito. Questo non significa che ciò che socialmente si configura sia il miglior mondo possibile, di certo è quello “dato”. Ambedue evocano l’architettura, proprio l’architettura? Perché appassionati di architettura? Per ragioni estetiche? Credo proprio di no. Credo invece che riconoscano che l’architettura, in tutte le sue modalità, sia il deposito socialmente significativo di tecniche, di pratiche costruttive e non, e di valori collettivi, e che quindi vada compresa non tanto con l’estetica, ma con una riflessione tra ontologia e antropologia, peraltro ambedue rimesse in discussione proprio dal digitale che fa dell’ontologia sostanzialmente una antropologia. Questo perché nel digitale l’orizzonte ontologico è immanente e non trascendente, a differenza di ciò che si è sempre pensato nell’usare la parola ontologia, per il semplice fatto che, nel digitale, ogni ente, ma anche tutto ciò che è pensabile dell’ente, è un “dato”, una in-formazione. L’orizzonte di senso dell’ontologia riguarda allora l’uomo o l’uso che l’uomo fa dell’in-formazione, e non certo un presunto Essere in quanto tale. Va considerato anche che il dominio del tecnologico, o se vogliamo, la totale artificializzazione e, soprattutto, la definitiva coincidenza di artificiale e naturale e di culturale e vivente (si pensi agli automi cellulari, alle reti neurali, ad uno degli esiti più
spettacolari dell’intelligenza artificiale, il robot Sophia e alle attuali visioni dell’universo come un immane algoritmo vivente), fa sì che l’architettura, come costruzione immediata e potenziale di mondi, assuma un ruolo post-estetico e post-anestetico. Credo che sia proprio questo il problema: dovremmo ripensare non solo le arti, ma anche la dimensione stessa dell’estetica e dell’estetico. Cosa peraltro in atto nelle stesse pratiche artistiche di questo nostro tempo: dalla negazione dell’arte per l’arte e della stessa artisticità, all’incrocio continuo tra arte e vita, sino alle attuali pratiche di public art. Insomma credo che il fatto che Brian Arthur e Jameson siano costretti in qualche modo ad evocare l’architettura come sintomo potente del cambiamento epocale sia il segnale che l’architettura non possa più essere considerata un’arte tra le arti e che, per essere più espliciti le pratiche architettoniche, la loro diffusività, il loro essere mondo nel mondo, attualità come costruzione e costruzione come attualità, debbano essere oggi valutate in un nuovo orizzonte sia etico che estetico. In altri termini quello che è accaduto è che viene meno non solo la tradizionale suddivisione delle arti, ma anche il rapporto, caro ad Heidegger, tra arte e ontologia. È come se il paradigma elaborato da Kant sull’arte come ciò che non ha scopo, che sta alla base dell’estetica nel Contemporaneo, non sia più utilizzabile nel modo di produzione digitale, visto che la stessa suddivisione tra necessario e superfluo non ha più alcuna ragione cogente, visto che tutti gli enti sono omologati nella unità logica e nella pluralità computazionale degli algoritmi e che l’ontologia, cioè la domanda su che cosa è una cosa, si risolve nella cibernetica secondo il dettato di Wiener: non ha più senso chiedersi che cosa è una cosa, ma come funziona, meglio in che rete di relazioni si situa e come agisce nelle logiche di feedback. Pongo quindi la questione di fondo. Se quando cambia un modo di produzione cambia tutto, anche l’idea e le pratiche che definiamo artistiche, possiamo ancora considerare le arti nelle modalità del mondo antico, cioè come abilità tecniche articolate nelle famose quattro cause aristoteliche: materiale, formale, finale, efficiente? Questa metafisica (visto che a tenere assieme le
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cause non può che essere una metafisica) peraltro, non portava di certo ad una sopravvalutazione della causa efficiente che invece sarà alla base della idolatria contemporanea dell’arte, meglio dell’artista. Una buona architettura (sì! una buona opera, anche allora esisteva un giudizio di valore) nasceva dalla giusta relazione tra le quattro cause (si usava, allora, il termine metis. Oggi potremmo dire resilienza), e non certo per una presunta genialità dell’artista. Diciamo che per gli antichi Greci l’opera innanzitutto aveva un valore principalmente collettivo e solo in parte dipendeva dalla abilità della causa efficiente, da quello che noi indichiamo con l’appellativo artista. In altri termini non si dava una idolatria dell’arte e dell’artista, ma, eventualmente, di ciò che chiamavano nomos, la legge comune. Possiamo usare ancora la visione umanistica dell’arte come espressione e rappresentazione di un soggetto capace di costruire se stesso e il proprio mondo immaginando mondi altri? Questo in nome del vir faber fortunae suae, non a caso ripreso dalla cultura latina per affermare un dominio sulla stessa temporalità nella forma della ragione storica e per l’instaurarsi di una nuova soggettività, quella della modernità? E qui il tema della rappresentazione (il passato riprodotto) e della espressione (il soggetto che elabora il “sé”) si fa cogente, da allora, per l’essere arte dell’arte. Possiamo usare ancora il fondamento dell’estetica contemporanea elaborato da Kant, cioè la superfluità, nel senza scopo, come ciò che caratterizza l’opera d’arte? Si badi bene, passaggio di straordinaria intensità visto che cambia il paradigma antropologico: l’uomo così si connota come quell’animale che elabora se stesso come superfluità e non perché indissolubilmente dipendente dalla necessità e quindi dalla natura. L’uomo impone se stesso come produttore di cultura e questa è a sua volta superiore ad ogni principio di necessità. Da questo l’arte come non più legata al bello naturale, ma alla capacità di elaborare artifici; come valore aggiunto e assoluto dell’essere uomo dell’uomo; da qui l’arte come autoidolatria o come religione laica (quindi indifferente alla divinità o sostituta del divino). Inoltre l’arte essendo la superfluità del superfluo incarna ciò che caratterizza da allora il mercato, nel passaggio dal valore
d’uso al valore di scambio (passaggio avvenuto nei prodromi della stessa Modernità). Il modo di produzione industriale e il suo mercato è animato dalla stessa superfluità, così come i valori che produce sono sostanzialmente aleatori. Non a caso è il mercato stesso (il valore di scambio) a determinare il valore delle merci. Comunque il primato della superfluità crea un grande disagio all’analitica kantiana proprio quando deve affrontare la questione dell’architettura: se l’opera d’arte è ciò che è superfluo, l’architettura che è massimamente necessaria, può essere considerata opera d’arte? Sapete come Kant è uscito dall’imbarazzo? C’è una parte dell’architettura utile, quindi scientifica, che va affidata agli ingegneri e una inutile, quindi artistica, che va affidata agli architetti, la decorazione. È così che nasceranno le due professioni con due percorsi istituzionali e formativi diversi: gli ingegneri nei Politecnici, gli architetti nelle Accademie. I primi dediti alla scienza e i secondi all’arte: le due – da allora – sorelle nemiche. Possiamo ancora utilizzare lo schema hegeliano che informa tutte le visioni idealiste (ma in realtà anche quelle positiviste) dall’inizio dell’Ottocento ad oggi? L’estetica in Hegel non è la scienza del sensibile (Baumgarten), né la disciplina che considera i sentimenti prodotti dalle opere d’arte (Kant), ma filosofia dell’arte che ha come proprio oggetto il bello artistico. L’opera d’arte è un prodotto dello spirito e tutto ciò che è spirituale è superiore ad ogni prodotto naturale. Compito dell’arte è “rivelare la verità sotto forma di configurazione artistica sensibile”. L’arte è uno dei percorsi della realizzazione nel mondo dello spirito (del Geist) ed è destinata a compiersi, a morire, nella realizzazione (nell’Aufhebung) dello spirituale. Lo schema di Hegel è semplice e carico di suggestioni. Le arti sono in successione: architettura, scultura, pittura, musica e poesia. Perché questa successione epocale? Perché nella dialettica hegeliana lo spirito del mondo, cioè la storia stessa va dalla materialità-tecnicità più cogente, impellente, necessaria (l’architettura appunto) verso le altre arti, compiendosi nella immaterialità della poesia che, in fondo, è fatta di parole e pensieri. Detto in altri termini alla fine della storia vince lo spirito (Il Geist per Hegel), vince l’idea contro la brutalità della materia. Problematico è il fatto che ciò che racconta e giustifica le
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ragioni dei cambiamenti epocali, il trascorrere del tempo, meglio dei tempi, cioè la storia e la sua filosofia, lo faccia in nome di ciò che alla fine la nega: la conclusione (l’Aufhebung). In effetti si afferma, ad esempio, che il fluire inesorabile, continuo e sempre diverso dei fiumi o delle onde del mare è giustificato da una qualche legge universale, da qualcosa che ha come carattere fondamentale quello di essere perpetuo, D’altra parte l’imperscrutabile della storia non è proprio la sua fine, ammesso che il tempo possa avere una fine e soprattutto un fine? È così che ogni filosofia (e persino ogni pensiero) si imbatte inevitabilmente nelle teologie di varia natura, magari una teologia del dio nascosto o assente. E se non fosse così? Se le leggi che tanto cerchiamo, e che tanto ci aiutano nel sopravvivere, fossero sì analitiche, descrittive e previsionali, ma solo per una parte del tutto, mentre il tutto fosse nella sua stessa ragione totalmente irragionevole o, in metafora, fatto della stessa materia dei sogni? Così, per alcuni fisici del nostro tempo, tra questi Carlo Rovelli, la sensazione dello scorrere del tempo è, in un certo senso, un’illusione derivata dall’incompletezza della conoscenza. Quindi il tempo (come lo spazio) sono inconsistenti e non più, kantianamente, categorie a priori. Se così fosse la dichiarazione usuale dell’architettura come arte dello spazio mostrerebbe a sua volta una certa qual inconsistenza o una valenza relativa. Possiamo ancora usare la visione dell’arte proposta da Heidegger? Possiamo cioè pensare che compito dell’arte sia quello di spingerci fuori dal nostro esserci inautentico verso una verità considerata come ciò che è presente in quanto assente (sic!). Dal che il suo Abitare, costruire, pensare che poi coerentemente per Heidegger significa rintanarsi in una Hütte nella Selva Nera per ritrovare nostalgicamente il ricongiungimento con la natura? E questo mentre il dominio del digitale ci impone non solo la globalizzazione dei dati (internet, Big data, Cloud) ma anche delle economie e delle politiche e la superiorità epistemica del processo sul dati? Risulta persino patetico ritornare alla natura, al regno della autenticità, quando non si dà alcuna differenza tra natura e artificio. Credo proprio che la civiltà digitale debba essere sottoposta a critica, ma non rintanandosi in mondi nostalgici o nell’autenticità.
Eccoci al punto! Nel modo di produzione digitale, nel mondo o nella civiltà del digitale, l’architettura è l’esistente costruttivo e costruito, è modo e forma della stessa relazione sociale, è pensiero che si fa mondo. È sì arte, ma di un’artificialità che tende a farsi nel contempo conoscenza e fattualità, teoria e prassi, parte sostanziale di un’altra dimensione del politico. Un’arte che non è più espressione e rappresentazione di qualcosa o di qualcuno, ma, appunto, arte-mondo, dove le arti sono costrette ad una continua ibridazione, in un gioco di relazioni tra continuità e differenza, identità e meticciato, autoreferenza in nome della stessa esplosione del senso (e dei sensi) e della continua apertura alle interpretazioni possibili (il digitale è nel bene e nel male sociali). Dove l’architettura si misura con le altre arti (non sulle forme, ma sui processi) in nome della universalità relativa della percezione sensibile, essendo orgogliosa e responsabile del proprio essere soggetto e oggetto della totalità stessa, cioè della nostra umanità. Un mondo che non si pensa più come “da giustificare” metafisicamente, ma come un mondo-processo, vitale e libero, un mondo come stato di relazione, in costante feedback. Un mondo dove l’estetica ritrova la propria condizione originaria: essere campo della percezione sensibile (aisthesis appunto.), proprio per liberarsi di ogni mitologia delle origini. Per questo credo urgente fare la critica dell’economia politica del modo di produzione digitale alla ricerca delle sue contraddizioni logiche quanto sociali e, contemporaneamente, ripensare la funzione sia delle arti, dell’estetica e della stessa idea di cultura, quindi di ciò che un tempo si definiva come sovrastrutturale. Nel digitale non si dà struttura e sovrastruttura. Per me questo è solo l’inizio.
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Sull’unbelievable: Hirst, il fantasy, la post-verità VINCENZO TRIONE
Jed Martin, pittore immaginario
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Jed Martin è un immaginario artista d’avanguardia. Disincantato, a volte passivo, somiglia all’Arthur Meursault de Lo straniero di Camus. È uno dei protagonisti de La carta e il territorio di Michel Houellebecq, tra le più originali riletture in chiave narrativa dei paesaggi dell’arte del nostro tempo. Dapprima, Jed Martin avverte il desiderio di sperimentare, di osare, di spingersi oltre. Erede di Duchamp, vuole trasgredire la specificità dei generi tradizionali; portarsi al di là di ogni manualità; esercitare la tecnica del ready made. Nel tempo, però, in lui, cresce l’urgenza di compiere un radicale ripensamento. Decide di mettere in discussione alcune ritualità: sente il bisogno di recuperare la fatica del fare, del dipingere. Distante dalle trovate a effetto, ha bisogno di sentire di nuovo l’odore della tela, dei colori. In apertura di questo romanzo, incontriamo Jed Martin mentre sta realizzando un omaggio a due tra le maggiori celebrities dell’arte contemporanea: Jeff Koons e Damien Hirst. Ispirandosi a Lucian Freud, egli ritrae con cura iperrealista un interno. Forse, la stanza di un lussuoso hotel del Qatar o di Dubai. Una vetrata aperta su un paesaggio notturno di grattacieli, che compongono un luminoso “intrico babelico di poligoni giganteschi, fino ai confini dell’orizzonte”. I due artisti in primo piano indossano abiti neri, camicie bianche, cravatte nere. Koons incarna una
“contraddizione insormontabile tra la scaltrezza ordinaria dell’agente di commercio e l’esaltazione dell’asceta”. E Hirst? Jed ne coglie le sottili contraddizioni. Hirst ha un aspetto meno ambiguo. Eccolo mentre sta bevendo una Budweiser. L’aria, cupa. Il rubicondo volto ha qualcosa “di sanguigno e di pesante, tipicamente inglese”. Appare cinico. È come se, rivolgendosi a chi lo osserva, dicesse: “Vi disprezzo dall’alto della mia ricchezza”. Ricorda da vicino certi tifosi dell’Arsenal. Insomma, è l’icona dell’artista ricco e ribelle. Impegnato, tuttavia, a elaborare “un lavoro angosciato sulla morte”1. Napoli, 2004 Dunque, un po’ Jekyll e un po’ Hyde. Così mi è apparso Hirst quando l’ho incontrato. Ottobre 2004. Napoli, Museo Archeologico. La prima antologica italiana. The Agony and the Ectasy, il titolo2. Un itinerario ilare, ma nascostamente tragico. Le opere di Hirst erano poste in risonanza con i reperti archeologici. Una specie di caccia al tesoro, fondata sull’artificio critico del crossover, inteso come incrocio, attraversamento. Monocromi neri ottenuti accostando migliaia di mosche sulla superficie. Esercizi neopuntinisti: quadri con tasselli di colori disposti simmetricamente. Mandala con ali di farfalle variopinte e cangianti, simili a pattern psichedelici e allucinati. Farmacie con strumenti medici, medicinali, carrelli da sala operatoria. Una bacheca con pillole. Due barelle con lenzuola azzurre che nascondono invisibili morti. Una sala operatoria con scheletri e attrezzi chirurgici. Un contenitore in vetro e acciaio, con una testa di bovino a terra circondata da macchie di sangue e da uno sciame di insetti attirati da una graticola elettrica. Un monumentale busto anatomico alto sei metri, riflessione sulla fragilità dell’esistenza. Una mucca divisa in parti riposte in dodici teche. E lo squalo imbalsamato, suddiviso in tre pezzi e messo in vasche sotto formaldeide. Hirst era arrivato a Napoli qualche giorno prima, circondato dall’aura del bad boy, adulato dal sistema dell’arte ma anche aspramente attaccato da molti critici. Nel suo viaggio, lo avevano accompagnato star e giovani artisti: in quel gruppo c’era anche Banksy, che nell’occasione disegnò un graffito – una Madonna
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raffaellesca sovrastata da una pistola – sulla facciata di un palazzo del centro storico in cui aveva vissuto Giambattista Vico. Il giorno dell’inaugurazione Hirst ostentò un look anti-artistico. Sembrava venuto fuori da un film di Ken Loach o da un romanzo di Nick Hornby e di Irvine Welsh. Un ex bullo di provincia. Incolto. Arrogante. Si sottrasse a ogni intervista. Si limitò ad accompagnare il pubblico della preview, senza aggiungere nessun commento. “Non è un intellettuale, preferisce parlare con le sue opere”, dissero i curatori, sottolineando la sua indisponibilità nel fornire spiegazioni o chiarimenti. Pronunciò solo poche frasi, affidandosi a un tono ironico e irridente. Ad esempio, descrisse Napoli come una città “eccitante, piena di vita, piena di debolezze”. A chi gli chiedeva che cosa lo avesse colpito maggiormente di quella contraddittoria città, rispose: la spazzatura. “Il mondo è folle. Siamo tutti colpevoli. E siamo tutti su una strada che porta verso l’oscurità. La spazzatura di Napoli è una delle tante storie buffe scoperte durante il mio soggiorno”3. Un barbaro? Non proprio. Quella mostra ha un valore particolare, per Hirst. Che, come tanti artisti di oggi (da Koons a Fabre), giunto all’apice del successo, avverte la necessità di venire consacrato in una cornice “istituzionale”. Insofferente nei confronti di certe regole imposte dal mercato dell’arte, vuole reagire a quanti lo accusano di superficialità e di inconsistenza. Sorretto dal narcisistico desiderio di confrontarsi con i classici, ambisce a essere ammesso dove sono conservati significativi momenti della nostra civiltà visiva. Per lui, un museo d’arte antica è un luogo dotato di un potere taumaturgico. Magnifica scenografia dove celebrare i fasti di una contemporaneità eccessiva. Come una “mensola” capace di elevare creazioni-choc. Un potente amplificatore del presente. Una vetrina pubblicitaria. Un’arena all’interno della quale si determinano dialoghi – spesso arbitrari – tra cultura alta e cultura pop. Hirst entra nel Museo Archeologico di Napoli con il medesimo stato d’animo di quelle rockstar che si sentono nobilitate quando si esibiscono negli scavi di Pompei o al Colosseo. Egli, potremmo dire con Jean Clair, sembra avere “la faccia contrita e radiosa di un plebeo ammesso in una società di aristocratici”4. È alla ricerca di una (illusoria) gloria. Con un’ambizione:
sentirsi un Grande Artista, in grado di “parlare da pari a pari, democraticamente, con l’arte dei secoli religiosi, trasferita nel frattempo nelle sale neutrali del museo”5. Eppure, dietro la scelta di rapportarsi con i reperti pompeiani o ercolanesi, non c’è solo furbizia. Contro “the hooligan genius” Siamo dinanzi a un Giano bifronte. Una tra le più controverse personalità dell’arte del XXI secolo. Che – come intuisce bene il Jed Martin raccontato da Houellebecq – ha un volto pubblico e uno più segreto. A un primo sguardo, Hirst è la concretizzazione dell’idea warholiana dell’arte come business (“La Business Art è il gradino subito dopo l’arte”6). Per comprendere la strategia sottesa al suo lavoro, potremmo richiamarci a quel che aveva confessato Dalí a Oriana Fallaci in una memorabile intervista: “Quando entrai all’accademia, studiai le biografie dei grandi pittori e compresi che il loro successo non era dovuto soltanto a ingegno ma alla stravaganza del vivere, a un’accorta pubblicità. […] Sono uno studioso delle leggi che governano la pubblicità la quale è direttamente proporzionata al successo. Mi dimostri che si può diventare celebri con l’umiltà e io sarò umile”7. In queste parole forse è il destino di molti artisti che, nel XX e nel XXI secolo, hanno cercato di portarsi al di là del ristretto cerchio dell’artworld, per diventare famosi come popstar. Si pensi agli stessi Dalí e Warhol. E ai loro tanti eredi. Da Haring a Basquiat, da Koons a Murakami. Fino a Hirst, appunto. Una personalità ipervisibile e contraddittoria. Amata e detestata. Blasfemo, dissacratore, spregiudicato, scandaloso, autore di installazioni provocatorie, sin dai primi anni novanta Hirst entra a far parte dell’immaginario collettivo, come Steve Jobs o Lady Gaga. Insofferente nei confronti di ogni perbenismo, assume posizioni spesso eccessive. Ex punk proveniente dalla periferia proletaria di Leeds, occupa il salotto buono dell’arte quasi da usurpatore. Per tanti, è solo un artista sopravvalutato, celebre soprattutto per le quotazioni stellari raggiunte dalle sue opere. Un bluff, senza talento. Un impertinente esibizionista. Un imbroglio
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alimentato da galleristi cinici. Un pubblicitario. Un profanatore che conosce bene le regole dei media. Un abile impresario di se stesso, sapiente nell’arte del marketing, privo di ogni formazione, incapace di disegnare, di dipingere, di scolpire, pronto a delegare a un team di collaboratori la realizzazione di quadri, di sculture, di installazioni. Dotato di talento comunicativo, come pochi altri, Hirst sa far discutere di sé; riesce ad alimentare calcolate polemiche. Lo choc, la sua cifra distintiva. Insomma, un finto ribelle, troppo disponibile a “svendersi” al mercato (come ha detto il suo amico Banksy), sensibile alle richieste di un’oligarchia finanziaria mondializzata – formata da potenti galleristi e da facoltosi collezionisti – intenta a orchestrare manipolazioni simili alle speculazioni del mercato immobiliare e a finanziare progetti il cui valore si misura non sulla lunga durata ma sul successo immediato. Inoltre, Hirst non ha il physique du rôle dell’artista: indossa giubbotti da biker, t-shirt eccentriche, cappellini di lana. È un anti-intellettuale. Che tende a non teorizzare, esibendo una (presunta) ignoranza, come emerge dal suo libro-intervista Manuale per giovani artisti8. “The hooligan genius”9, lo ha definito Arthur C. Danto. Secondo molti critici, è il simbolo della degenerazione del gusto contemporaneo. Tra le personalità che meglio incarnano il declino dell’idea novecentesca di avanguardia. Che oramai non si dà più come spettacolo abbacinante dell’inatteso, come apertura grandiosa di orizzonti di libertà, come rischio sconfinato, come invito a prefigurare il futuro né come sconcertante scorribanda nei deserti dell’immaginario. Rischia, invece, di smarrirsi in un fragile manierismo, diventando caricatura di se stessa, animata da trasgressori fast-food, che scuotono con la violenza effimera delle pubblicità. L’avanguardia debole non infrange più consuetudini, non incrina attese, né sa decostruire. Sembra aver esaurito la sua carica di radicalità. In molti casi, tende a diventare una maschera sotto cui non c’è niente. Rischia di diventare, ha osservato Alessandro Baricco, un’avventura che corre sempre più lontano dal “cuore del mondo”; un’“acrobazia dell’intelligenza”, che si è fatta ripetizione di se stessa; un’esperienza che riconosce nell’allontanamento dalla sensibilità comune un certificato del proprio valore. Come un rito, che viene ripetuto stancamente. I
corifei di questa religione continuano a organizzare tristi tour guidati in un “parco artificiale che dovrebbe essere il moderno e che non arriva neanche ad esserne la caricatura”10. “Non è immaginabile che l’idea di avanguardia sia stata uccisa dall’uso eccessivo che se n’è fatto?”11, si è chiesto in una lecture milanese Robert Hughes, alludendo anche a Hirst. Che gli è apparso come un cialtrone, abile nell’ingannare tante persone, “facendo loro credere d’essere un artista originale e con idee importanti”. Un costruttore di prodotti commerciali ben confezionati, che inducono a riflettere sulla “totale sproporzione tra i prezzi toccati e il reale talento”12. Dello stesso tono sono i rilievi di Julian Spalding, di Robert Storr e di Jean Clair. “Non è meritevole di essere considerato un artista”, ha scritto Spalding su “The Indipendent”13. È solo una personalità furba, la cui ambizione consiste non nel “lasciare il segno nella storia dell’arte”, né nel “criticare con la satira i valori e le istituzioni dell’arte”, ma “più semplicemente [nel] lasciare il segno nella storia della finanza”, ha affermato Storr14. Jean Clair, infine, ha annoverato Hirst tra gli ultimi epigoni di Duchamp. Il suo, ha osservato, è uno stile non supportato da alcuna conoscenza tecnica. Privo di mestiere, egli studia solo le strategie della comunicazione e del marketing. È come quei nuotatori disperati che, per non affogare, compiono esclusivamente atti disperati. Dal dopoguerra, secondo Clair, è iniziato un drammatico declino, segnato da scandali a oltranza, da rivoluzioni permanenti, dalla tirannia di un nuovo senza origine. Siamo nella geografia del negativo. In una drammaturgia di pantomime burlesche. In un teatro “festivo e funebre, venale e mortificante”, contagiato da blasfemie. L’artista del nostro tempo non è più un profeta. Somiglia all’assassino di cui aveva scritto Thomas de Quincey: pratica la dissacrazione, il “furore omicida”. I suoi atti ricordano quelli di un uomo che si dimena nell’acqua con gesti sempre più disordinati per cecare di non annegare15. Specchio di questo naufragio è l’opera di Hirst. Che vuole portarsi al di là di certi giochi concettuali. Sapiente nel rielaborare motivi della Pop Art, ricorre a un sistema comunicativo diretto, esplicito, di matrice televisivo-pubblicitaria, realizzando lavori che si impongono con la loro immediata ed efficace monumentalità.
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Uscite dal mondo 1: vie di fuga Ma, questo, è solo il lato più evidente e superficiale di questo ex ragazzo di Leeds. L’altro lato – quello meno manifesto – è rappresentato da una naturale inclinazione surreale, quasi “metafisica”. Da una (sempre dissimulata) volontà di portarsi fuori da “questo” mondo. Ove si ricordi che, come ha scritto Elémire Zolla, “uscire dallo spazio che su di noi hanno incurvato secoli e secoli è l’atto più bello che si possa compiere”. Una scelta che ci sottrae alle “nostre tacite obbedienze e automatiche sottomissioni”; ed esige che non si abbiano “interessi da difendere, paure da sedare, bisogni da soddisfare”. La sfida (forse, il sogno): spingersi al di là dei recinti che ci proteggono, per inoltrarsi verso “l’immensa distesa del possibile”16. Uscite dal mondo 2: Murderme Collection
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Per uscire dal mondo, Hirst segue sentieri diversi. Innanzitutto, si affida a uno sguardo retrospettivo. Consapevole che anche la più profonda insofferenza nei confronti della tradizione presuppone sempre conoscenza, studio e soprattutto ammirazione, ama guardare dietro di sé. Attraversare la storia dell’arte. Interrogare continuamente la lezione dei padri. Avviare dialoghi diretti o laterali con capolavori dell’antichità, del Rinascimento, del Barocco. Nascondendo poi, negli interstizi delle proprie opere, una ricca trama di richiami culturali e visivi. Questa attitudine conservativa emerge con forza nella Murderme Collection, la collezione privata messa insieme sin dalla fine degli anni ottanta da Hirst e poi esposta a Londra in maniera permanente nella sua Newport Street Gallery (nel quartiere di Lambeth, a sud del Tamigi). Ha detto: “Perché l’arte deve essere per tutti e tutti devono poterla ammirare: quando hai una collezione non puoi e soprattutto non devi tenerla chiusa in un magazzino o in una cassaforte”17. Una raccolta di circa tremila pezzi. Una sorta di museo immaginario, che ci consegna indizi, assonanze, rimandi. Ne affiora un Hirst inatteso – cultore di un sapere antico e desiderante come quello del collezionismo. Come ogni collezionista, l’artista inglese raccoglie episodi
eterogenei, che collega tra loro in virtù di relazioni spesso invisibili. Sostenuto da passioni, curiosità e nevrosi, carica ogni “cosa” di uno spessore simbolico. E, guidato da un impulso feticistico, servendosi delle creazioni di altri autori, compone una personale opera aperta. “Per me, afferma, collezionare è come raccogliere oggetti portati a riva in un posto sulla spiaggia e quel posto sei tu. Quando morirai, tutto sarà portato di nuovo via”18. In filigrana, Murderme lascia intravedere amicizie, affinità, ossessioni. Le amicizie: alla fine degli anni ottanta, Hirst inizia a scambiare le sue opere con quelle dei suoi compagni di strada, gli altri protagonisti della Young British Art (Tracey Emin, i fratelli Chapman, Sarah Lucas, Marc Quinn, Chris Ofili). Le affinità: il corpus più consistente è costituito da sculture, disegni e quadri degli artisti da lui maggiormente amati (da Picasso a Giacometti, da Bacon a Warhol, da Blake a Hamilton, da Nauman a Merz, da Koons a Emin, da Lucas a Banksy, a tanti giovani emergenti). Infine, le ossessioni: manufatti di indigeni della costa nord-ovest del Pacifico, un archivio di feticci come maschere funebri, reperti archeologici, fotografie vintage, esemplari tassidermici, modelli di anatomia, calchi di teste, animali. Naturalia ed artificialia: reliquie di una wunderkammer degli orrori. In particolare, Hirst predilige quegli artisti e quei creatori anonimi che sono tormentati da inquietudini analoghe alle proprie: il senso della fine, l’inevitabilità del destino, l’incombere della morte. Sono, questi, i motivi che ritornano in molte opere della Murderme: i teschi di Picasso, Warhol e Blake, le consunzioni di Giacometti e Bacon, le cronache di Hamilton, le devastazioni di Emin, di Lucas e di Banksy, i calchi, le imbalsamazioni. Uscite dal mondo 3: nature morte Il bisogno di uscire dal mondo sembra essere all’origine anche di alcuni tra i più scandalosi lavori di Hirst19. Che si fondano su due gesti decisivi. Innanzitutto, egli si ispira alla lezione del suo maestro Francis Bacon, interprete di un realismo inteso come “modo veramente nuovo di intrappolare la realtà in qualcosa di assolutamente arbitrario”, fino a “toccare nuove aree di sensazioni che condu-
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cano ad un senso più profondo della realtà dell’immagine”20. Tra gli ultimi umanisti dell’arte del XX secolo, Bacon, ha osservato Milan Kundera, si affida a un gesto “brutale” e scandaloso, per portare alla luce l’“io sepolto” degli uomini. Nei suoi quadri, le forme subiscono una distorsione ma non perdono il loro carattere di organismi viventi. Prodigioso nello svelare l’io del personaggio che “rabbrividisce” dentro il corpo e testimone della trasformazione dell’individuo in “carnaccia”, in un groviglio che genera piacere o orrore, egli dipinge drammatiche interrogazioni sui limiti della soggettività. “Fino a quale grado di distorsione un individuo resta ancora se stesso? Fino a quale grado di distorsione un essere amato resta ancora un essere amato? Per quanto tempo un volto caro che sprofonda nella malattia, nella follia, nell’odio, nella morte, resta riconoscibile? Dov’è la frontiera al di là della quale un ‘io’ cessa di essere ‘io’?”21. In consonanza con Bacon, Hirst pensa l’arte come un evento estremo che, senza ricorrere a metafore o a evocazioni, deve scuotere, fare male, colpire, suscitare rifiuto. Esibisce il dolore, l’angoscia, la morte. Taglia a pezzi animali. Mostra e cataloga strumenti chirurgici, carcasse animali, scheletri umani, mosche, farfalle. In questo, egli appare in sintonia con le poetiche di molti artisti legati a esperienze come il Post-Human e come la Sensation Generation che, negli anni novanta, hanno elaborato un’inedita forma di realismo radicale, per interrogarsi sull’identità – malata, devastata – dell’uomo contemporaneo. Nascono così lavori che sono apprezzati proprio dal severo Bacon che, in una lettera inviata il 20 marzo 1992 al pittore le Brocquy, scrive: “Caro Louis, alla Saatchi c’è un’installazione molto interessante di un giovane chiamato Damien Hirst, l’installazione si chiama A Thousand Years ed è fatta di due sezioni, in una c’è una testa di mucca tagliata, nell’altra c’è uno sciame di mosche che volano intorno a quella testa”22. Nelle opere di Hirst, però, non c’è traccia del dolore che attraversa i dipinti di Bacon. Non c’è sangue, non ci sono ferite. Si respira un’atroce serenità. Recuperando l’artificio duchiampiano del ready made, egli estrae dal presente alcune reliquie. Che isola e poi immobilizza, congela e dispone in spazi senza aria. Spesso, le rende leggere – sospendendole nel vuoto. Si pensi agli animali
dissezionati in più parti e messi dentro vasche di vetro. E alle teche, all’interno delle quali oggetti analoghi o eterogenei – resti di un’invisibile esplosione, relitti di un misterioso the day after – vengono accostati, composti. È quel che accade nelle installazioni dove vengono catalogati strumenti chirurgici e pillole; e in The Pharmacy, un ambiente occupato da arredi medicali, da aspirinesgabelli e da vetrine con pasticche colorate allineate in maniera maniacale. Hirst si affida all’osservazione calma. Interviene con la precisione di uno scienziato. Evita imprevisti e approssimazioni. Coniuga caos e ordine. Fa incontrare voci distanti in una polifonia esatta. Con uno stile apparentemente impersonale, dispone diverse tessere in mosaici dotati di una compattezza austera. Immette i singoli elementi in strutture modulari, arrivando a cristallizzare la quotidianità. Mira a raggiungere una visione oggettiva. Con metodo, calcola rapporti, proporzioni, simmetrie. Insegue l’esattezza, la perfezione: le sue catastrofi sono restituite con freddezza analitica. È quel che possiamo cogliere osservando anche i monocromi dentro cui sono sigillate mosche e farfalle; e gli spot paintings, distese bianche, interamente invase da una pioggia di coriandoli colorati sistemati in maniera geometrica, con distanze ben calcolate, in modo da delineare pattern astratti. Dunque, animali tagliati e messi sotto formaldeide, archivi di medicinali allineati in bacheche, farfalle uccise e poi appiccicate su tele. Nelle opere di Hirst, tutto è organizzato, disciplinato, reso addirittura asettico – avvolto dentro una patina intemporale. “Con le mie pecore, le mie mucche, i miei agnelli in formaldeide ho voluto mettere in scena qualcosa dell’animo umano, la sua necessità di imporre il controllo e la volontà di farlo prima di tutto con la natura e gli animali, qualcosa che sembrava impossibile rappresentare. Non è un caso che il titolo del mio lavoro con lo squalo sia proprio The Physycal Impossibility of Death in the Mind of Someone Living: perché il tentativo di dare forma e immagine a qualcosa che non ne ha, in questo caso […] l’impossibilità dell’uomo di comprendere fino in fondo la morte”23. Molti cicli di lavori di questo originale imbalsamatore, perciò, potrebbero essere interpretati anche come involontarie ri-
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scritture del genere classico della natura morta. Fedele ai modi dell’iperrealismo, Hirst sublima brandelli di reale, conducendoli verso una monumentale e spettacolare solennità, ricca di riferimenti anche al gigantismo di Oldenburg. Si proietta verso una nuova classicità. Verso le vette di una metafisica dietro cui si nasconde l’animo segretamente mistico di questo artista, le cui costruzioni hanno il valore di autentici memento mori. Meditazioni plastiche sul trascorrere del tempo e sulla caducità della bellezza. Interrogazioni intorno ad alcune tematiche eterne: la vita, la malattia, la decadenza, il dolore. E la morte, che viene mostrata come esperienza familiare e concreta: concepibile per chi è in vita. Non si respira mai quel senso di oppressione e di paura che accompagna i vari Trionfi della Morte cui una lunga tradizione pittorica, architettonica e cinematografica ci ha abituato: dalle cattedrali gotiche all’affresco di Palazzo Abatellis a Palermo, ai film di Ingmar Bergman. “Certo, le mie opere spesso navigano intorno alla questione della nostra mortalità: le installazioni con gli squali non sono altro che la rappresentazione della nostra paura della morte, di quanto questa paura sia presente nella nostra quotidianità. La stessa parola, ‘paura’, ha il potere di terrorizzarci. Per questo ho utilizzato carcasse di veri pescicani che fossero abbastanza grandi per mangiarci, se solo fossero stati vivi”24, ha detto Hirst, la cui religiosità laica ha molti punti di contatto con quella di tanti altri artisti-blasfemi del XX secolo: da Mapplethorpe ad Haring, da Basquiat a Warhol. Che, in un’intervista del 1963, dichiarò: “Mi resi conto che qualsiasi cosa stavo facendo doveva essere morte”25. Questa vocazione drammatica trova il suo approdo in For the Love of God. Un calco in platino di un cranio di un uomo del Settecento, tempestato di brillanti, con i denti ricavati da un vero cranio del Settecento e un diamante rosa a goccia sulla fronte. Un monumento al cattivo gusto. Un tentativo per coniugare memento mori e preziosità. “Mi sono sempre piaciuti i teschi, da quando la mia ragazza mi disse: ‘Non puoi fare teschi, sono troppo affascinanti’ ”26, ha affermato Hirst. Il quale sceglie di appropriarsi qui di un motivo classico – il cranio, appunto – che indica l’essenza della vita. E lo rende sublime. Un modo per de-sacralizzare la trascendenza, contrapponendo il potere dell’arte alla vanitas.
In filigrana, riferimenti ad alcuni riti ampiamente diffusi in Messico: l’idea di consegnarci la morte nella sua concreta e immanente presenza – senza nasconderla. Hirst: “Nel Vecchio Continente, la morte viene vista in modo assai differente rispetto, che so, al Messico, dove al contrario (lo so perché ho trascorso molto tempo laggiù) è più ‘celebrata’ che ‘negata’, come invece facciamo noi. Il mio teschio ricoperto di diamanti esprime proprio questa ‘decoratività’ della morte, come la morte possa diventare qualcosa di bello da vedere. A molti il mio modo di mettere in scena la morte sembra morboso e desolato: in realtà è l’unico modo che ho per celebrare la vita. […] Al mio teschio di diamanti che tra i suoi tanti possibili significati ha anche quello di un’esplorazione dell’idea di valore e in qualche modo di ricchezza”27. Metaphysic Now Non credete ai trucchi e alle menzogne. Dietro la maschera da hooligan, Hirst cela una sensibilità inquieta, un animo quasi filosofico. Da un lato, vuole sempre salvaguardare l’immediatezza comunicativa. Dall’altro lato, si misura con cruciali questioni esistenziali che da secoli tormentano gli artisti. Nascono così riflessioni poetiche sull’assoluto, sull’altrove. Iper-pop ma intimamente spirituali. Hirst, ha rilevato Danto, “usa la morte come una maniera per esprimere pensieri sulla morte”28. Questa tensione mistica è stata sottolineata dallo stesso artista, il quale, forse anche per riscattarsi da quanti lo hanno considerato solo un barbaro e per legittimarsi sul piano intellettuale, in alcune interviste, ha svelato i nomi degli artisti e dei pensatori che compongono il suo Pantheon ideale; e ha affrontato esplicitamente tematiche religiose. Ha detto: “Io voglio creare oggetti che abbiano un significato eterno. È un obiettivo ambizioso, ma qualcuno deve pur provarci”29. E ancora: “Certo, ci sono tendenze e mode, ma sempre più spesso l’arte sembra riuscire a guardare oltre: cercando la ragione del nostro esistere e quello che significa il mondo intorno a noi”. E, infine: “Tutto quello che ho fatto, anche quello che può sembrare all’apparenza una semplice trasgressione, non lo è: serve piuttosto a riportare l’attenzione su qualcosa che è impossibile ignorare”30.
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Altre uscite dal mondo: Venezia, 2017
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Ma esistono ancora altre strade possibili per uscire dal mondo. Come quelle suggerite da Aulus Calidus Amotan, conosciuto come Cif Amotan II, un liberto originario di Antiochia, vissuto tra la meta del I e l’inizio del II secolo d.C. Dopo aver acquistata la libertà, egli diventa un ricco collezionista: inizia a raccogliere opere d’arte e manufatti provenienti da varie parti del mondo. I cronisti dell’epoca narrano che gran parte di questo straordinario tesoro verrà caricata sull’Apistos, una nave di straordinarie dimensioni. Involontario museo galleggiante, teatro di memorie, l’Apistos, come ha ricordato Simon Schama, è “una grande arena per ospitare la fantasmagoria scaturita dalla mente umana”31. Collezionista enciclopedico sui generis, posseduto dalla mania di accumulare, animato da un frenetico impeto all’acquisto e da un compulsivo (e utopistico) desiderio di possedere il mondo intero, Amotan raduna su quel grande vascello creazioni di diverso tipo e di diversi stili. Prodotti esotici ed eclettici. Oggetti giganteschi, miniature, gioielli, monete, sculture con iconografie solo in parte riconoscibili, opere provenienti da culture e da luoghi vari (Egitto, India, Africa occidentale, Grecia, Roma). Vi appaiono dèi, eroi, animali. Riaffiora qui lo stravagante gusto dell’ideatore di questa raccolta – distante da una visione idealistica dell’arte, sedotto da un’idea sfaccettata del Bello. La tappa finale della traversata dell’Apistos è Asit Mayor. Lì Amotan ha fatto costruire un tempio dedicato al Dio Sole. Per cause sconosciute – il peso eccessivo del carico, le avverse condizioni del mare, la volontà degli dèi o il destino – la nave naufragherà, inabissandosi insieme con il suo carico. Amotan – si dirà – incarna in maniera perfetta l’eroe per caso che, sprezzante della sorte, insegue la brama di successo. Ma egli è anche icona della fragilità umana, dei falsi idoli, della mutevolezza della fortuna. Con il trascorrere dei secoli, diventata leggenda, la storia di questo naufragio si è arricchita di tanti particolari. Racconti di cronaca e racconti orali si sono mescolati, rendendo difficile distinguere gli eventi reali dalle illazioni. Qualcuno ha sostenuto
che, nel Rinascimento, alcune sculture della collezione di Amotan ispirarono disegni e studi preparatori di opere di importanti artisti. Nel corso del 2008, questo tesoro, rimasto sommerso nell’oceano Indiano per quasi duemila anni, viene rinvenuto al largo della costa orientale dell’Africa. Lentamente, è riportato alla luce. Dopo una lunga campagna di recupero, emergono dal fondo marino sculture e manufatti di materiali diversi. Il mare restituisce brandelli di ricchezze perdute, su cui si è depositato un caleidoscopio di coralli, di gorgonie, di spugne. In seguito, sapienti interventi di pulitura rimuoveranno i segni del mondo sottomarino da un piccolo gruppo di oggetti recuperati. Per la maggior parte delle opere salvate, invece, si deciderà di mantenere inalterate le incrostazioni. In qualche caso, infine, si realizzeranno copie fedeli degli originali. Per misteriose ragioni, Hirst è venuto in possesso di questo corpus. Che, nel 2017, ha deciso di presentare in una spettacolare mostra a Venezia: Treasures from the Wreck of the Unbelievable32. Frammenti archeologici salvati, catalogati e ordinati. Busti mostruosi ricoperti di concrezioni e di licheni. Un gigante decapitato in bronzo, quasi un remake del Colosso di Rodi. Statue, monete, effigi, calendari mesoamericani e aztechi, porte e feticci sistemati come nei musei d’arte antica. Figurine femminili con volto d’uccello, che ricordano quelle rinvenute nella valle dell’Indo (in Afghanistan); la mesopotamica Ishtar; la divinità solare egiziana Aton; la principessa Tadukheba con occhi di smeraldo. Sculture di Bacco, di Mitriade, di Cronos, di Ermafrodite, di Aracne, di Proteo, di Apollo, di Budda. Hydra e Kali che rievocano l’Idra greca. E, poi: torsi greci, elefanti cinesi, cornucopie, scorpioni, unicorni, serpenti, dischi. A Punta della Dogana – protesa come la prua di una nave all’ingresso del Canal Grande – Hirst ha ordinato sculture in materiali vari, che spesso sono state spogliate dalla coltre marina. Mentre a Palazzo Grassi – l’ultimo palazzo patrizio costruito sul Canal Grande prima della caduta della Serenissima – ha esposto un consistente nucleo del tesoro rinvenuto. Inoltre, in una sala di Palazzo Grassi, ha ricostruito un modello dettagliato dell’Apistos, con disegni raffiguranti i resti di ciò che trasportava. Infine,
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in altre stanze, ha presentato fotografie e video per documentare la spedizione subacquea. Alla chiusura della mostra, quel patrimonio è stato disseminato in varie sedi. Hirst: “Tutto quello che è stato esposto a Venezia è arrivato qui da un altro luogo e in un altro luogo è destinato a tornare, qui è stato messo insieme per la prima e forse ultima volta, poi tutto verrà ancora disperso. Niente di nuovo o di scandaloso: è quanto dovrebbe sempre accadere alle collezioni d’arte, create per essere raccolte, disperse e poi ancora ricostruite in un’altra parte del mondo, in un altro modo”33. Tutto vero? Chi tra di noi ha mai trovato in qualche libro di storia riferimenti al liberto Amotan? Per rispondere a questa domanda, potremmo muovere da una frase che appare all’ingresso di Punta della Dogana: “Da qualche parte tra le menzogne e la verità sta la verità”. Un importante indizio, da cui occorre partire per accostarsi a Treasures from the Wreck of the Unbelievable. Che è stato analizzato da tanti solo come un evento citazionista e neo-barocco, eccessivo e kitsch, specchio di un monumentalismo enfatico e retorico. Invece, siamo dinanzi a un’opera che salda territori, mondi, linguaggi: rinvii a questioni comunicative contemporanee, fascinazioni mitologiche, seduzioni letterarie e filmiche. Post-verità
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Per comprendere il senso profondo di questo progetto visionario, potremmo muovere da una questione di bruciante attualità, su cui si stanno interrogando filosofi, sociologi e scrittori. Un problema intorno al quale, senza dichiararlo apertamente, pur se in maniera implicita, Hirst si richiama. Le fake news. Nel nostro tempo, come ha osservato Baricco, è stata radicalmente messa in discussione la nostra idea di Verità – e il nostro rapporto con la Verità stessa. Che non si mostra più come un luogo segreto, né come un ambito esoterico, cui possono accedere pochi iniziati. Svuotata di ogni dogmatismo, essa, invece, appare come un “prodotto pop”. Non può più essere ridotta a un’icona sintetica, facilmente trasmissibile: si consegna come una figura mobile, complessa. Non somiglia a un’istantanea né a un
fermo-immagine: è come una sequenza di fotogrammi verosimili. E ci costringe ad andare fuori da ogni comfort zone: adesso “ci tocca pattinare su un terreno molto scivoloso, fragile e soprattutto sconosciuto”. La verità, dunque, ha acquisito un nuovo statuto. Indica spazi alternativi. Non si fa più controllare. E non esige neanche verifiche. Ma procede per illazioni. Può essere rifatta da ciascuno di noi. È condannata a una “sovrapproduzione”, a un’“impennata dell’offerta”, che ha determinato un “crollo di valore”. Perché, nell’epoca della mobilitazione totale e dell’interconnessione, non esiste più una netta separazione tra chi dà le carte e chi le prende: per la prima volta i documenti circolano da tutti e verso tutti, nel contesto globale, a grande velocità. Siamo nella stagione della post-verità. Che si fonda sull’intreccio e sulla sovrapposizione tra fatti e narrazioni. “È più vera una cosa inesatta ma capace di circolare velocemente nel sistema sanguigno del mondo, di una cosa esatta che però si muove con lentezza. È più vera una definizione imprecisa ma comprensibile che una precisa ma difficile da capire”34. Benvenuti nel regno di quello che Hirst chiama l’unbelie vable. Ritorno al mito Treasures from the Wreck of the Unbelievable è questo: un monumento innalzato alla post-verità. All’unbelievable, appunto. Si pensi al disinvolto utilizzo che Hirst propone della mitologia. Il suo fine: dar voce a un tempo che, come ha osservato Roberto Calasso, “non ha alcuna intenzione di disincantarsi sino in fondo, se non altro perché, se ci riuscisse, si annoierebbe troppo”35. Nella modernità declinante, assistiamo a un prodigio. Antiche divinità riaffiorano. Certo, non compongono più una famiglia di simulacri residente sulle cime di monti tessalici. Né hanno le sembianze di statue neoclassiche. Ma continuano a vivere, a sedurre. Attraversano la nostra quotidianità da ospiti fuggevoli, con la scia dei loro nomi e delle loro presenze iconografiche. Idoli dispersi abbandonati in un accampamento oramai deserto, si avvicinano e si allontanano da noi, tra parodie, tradimenti, intermit-
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tenze. Ma oramai loro storie sono state strappate dal suolo su cui erano nate. Sulle orme di un’antica tradizione storico-artistica (da Botticelli a Tiziano, da El Greco a Bruegel, da Tintoretto a Guido Reni, da Velázquez a Poussin, da Rembrandt a Caravaggio, da Goya a Delacroix, da Ingres a Millet, da Klimt a Böcklin, da de Chirico a Dalí)36, Hirst sceglie di ripercorrere i sentieri della mitologia, che è come un vestito fatto di favole, di leggende, di oralità. Tratta le divinità pagane come un immenso arsenale cui attingere con libertà. Si abbandona, perciò, alla gaia scienza del politeismo, violando filosofie e dottrine monoteistiche. Per lui, dèi e ninfe non sono materiali inerti, estratti da misteriosi paradisi, dal magazzino della retorica o dalle nicchie dell’archeologia, simili a fregi arcaici. Ma fantasmi. Nobili latitanti. Allegorie. Da far rivivere, tra mascherate, camuffamenti, imbrogli. Hirst istituisce con i miti un rapporto alterato, deviato. Non li usa come sostanze difese da un’identità sovrastorica. Li concepisce, invece, come motivi da reinventare attraverso una sottile attività mitopoietica. Li mettono in crisi. Ne infrangono la coerenza, provocando cortocircuiti di senso. È quel che accade in Treasures from the Wreck of the Unbelievable, dove è presentata una disomogenea carrellata di divinità venerate da diversi culti religiosi. Da un lato, ne tutela la riconoscibilità. Dall’altro lato, le ritocca, le modifica, le altera e le remixa. Decisivo il ricorso al filtro dell’immaginazione, che consente di assumere e, insieme, di esasperare e di riarticolare materiali già esistenti, disponendoli in contesti poco frequentati. Nella mostra-installazione veneziana, Hirst trae spunti eterogenei dalla costellazione del mito. Che, poi, tradisce, rende precari e trasfigura, immettendoli in un gioco di sovrapposizioni divergenti e di metamorfosi ininterrotte. In tal mondo, si disegnano i contorni di un racconto finzionale, nel quale nulla è reale – e nulla è impossibile. Il vero incontra la finzione – la abita dall’interno. La filologia è contaminata dall’inverosimile. Accade così che accanto a reperti “possibili” si incontrino reperti disneyani – anch’essi ricoperti di stratificazioni calcaree. Com’è possibile che alcune sculture mesopotamiche, egizie, greche, romane o cinesi si trovino a convivere con icone fumettisti-
che? È il trionfo dell’assurdo. Siamo condotti in un illusorio gioco orchestrato da una figura minore che scopriamo in un passaggio della mostra veneziana. Insieme con il patrimonio salvato dell’Apistos, Hirst presenta un busto in cui ritrae se stesso nelle vesti del Collezionista, che tiene per mano Topolino. Un modo per suggerire un’implicita identificazione con Amotan. Ma anche un modo per invitarci a non credere alla parabola della nave affondata e dei tesori salvati dal naufragio. Per un’arte “letteraria” Per rendere credibile la post-verità dell’Apistos, Hirst recupera la dimensione romanzesca e affabulativa dell’arte. per lui, fare arte è (anche) un modo per raccontare servendosi di immagini fisse e di immagini in movimento. Si tratta di una scelta originale. Che ci induce a riflettere, in una prospettiva diversa, sulle relazioni tra arte e letteratura. Siamo di fronte a due linguaggi che, nel XX secolo, si sono lambiti, sfiorati, contaminati, infine respinti. Spesso – soprattutto agli inizi del Novecento – scrittori e pittori si sono frequentati; si sono scambiati idee e suggestion; hanno condiviso intenzioni, progetti. È accaduto così che, con coraggio visionario, poeti come Apollinaire, Tzara e, poi, come Villa e Bonnefoy – meglio di tanti critici “di mestiere” – siano riusciti a decifrare il senso misterioso di tanti esercizi d’avanguardia, dando voce a iconografie talvolta criptiche. Questi fecondi scambi rappresentano l’altra faccia dell’antiletterarietà propria di ampie regioni dell’arte del XX secolo, abitata da personalità – tra gli altri, Picasso, Magritte, Kosuth, Andre e LeWitt – che hanno avvertito la necessità di portarsi al di là dell’idea dell’arte come scienza dell’analogia e della metafora, per pensarla come disciplina semiotica. Intenti a trasgredire ogni corrispondenza tra linguaggio e mondo e a rinunciare alle poetiche del fedele rispecchiamento e della somiglianza, questi artisti concepiscono il proprio lavoro innanzitutto come grammatica autoreferenziale: costruzione di immagini che si rivelano nella loro radicale autonomia e alterità rispetto al reale, svelando territori interdetti ai nostri sensi37.
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Eppure, queste opzioni analitiche costituiscono solo il lato più manifesto dell’inclinazione narrativa sottesa a molte esperienze recenti portate avanti da artisti che, senza tradire la specificità dei media utilizzati, sembrano voler rilanciare i modi propri di alcuni classici generi e sottogeneri letterari. Ecco, allora, le assonanze romanzesche che ritroviamo in molti film e in tanti video (Gordon, Parreno, Marclay, McQueen, Rist, Aitken, Huyghe, Kentridge). Gli abbandoni lirici che incontriamo nei dipinti, nelle sculture e nelle installazioni di Parmiggiani, Paladino, Saraceno, Hatoum, Eno, Salcedo. E ancora: le riscritture della storia dell’arte, d’impronta saggistica, compiute da Viola, Greenaway, Fisher, Mũniz. Le confessioni autobiografiche di Calle, Richter, Emin, Anderson, Goldin e Lucas. Per giungere ai riattraversamenti dell’horror (Durham, Fabre, Serrano, Murakami, i fratelli Chapman), del terrore (Orlan), del comico e del grottesco (Cattelan, González-Torres), del gotico (Barney, Sherman, McCarthy, Quinn, Villar Rojas), del romanzo rosa (Koons, Abramovic], Vezzoli), della letteratura d’impianto politico-civile (Pistoletto, Banksy, Ai Weiwei, Abdessemed, Hirschoorn, Guo-Qiang, Zhen, Orozco, Ataman), del romanzo storico contemporaneo (Neshat, Boltanski, Kabakov), del giornalismo di reportage (Ruscha, Wall), del romanzo di matrice filosofica (Kapoor, Paolini, Spalletti, Demand, Sugimoto), della fiction-nonfiction (Trockel, Höller, Withread), dell’epica (Kiefer, Kounellis, Minuijn). Pur con accenti diversi, molti artisti di oggi, senza mai enunciarlo in maniera esplicita, percorrendo sentieri spesso segreti, sembrano condividere l’esigenza di riannodare i fili dell’arte con quelli della letteratura, concependo le proprie opere come sistemi linguistici complessi e mobili. La sfida sta nell’appropriarsi di certe atmosfere e di certe evocazioni trasmesse da romanzieri e da poeti. In maniera laterale, indiretta, difficile da svelare. In questo plurale orizzonte occorre iscrivere il progetto veneziano di Hirst. Che si richiama, in particolare, a un genere letterario trasversale, nel quale il vero e il falso, il possibile e l’impossibile, il familiare e l’assurdo, si combinano, si sovrappongono e si confondono: i racconti fantastici. Si tratta di narrazioni fondate, come ha sottolineato Tzvetan Todorov, su una sorta di prolun-
gata “esitazione ontologica”. Il lettore si imbatte in personaggi inquietanti e fantasmatici e in avvenimenti inspiegabili, che determinano incertezza, stupore. Si sente dimidiato da un’ambiguità: non riesce subito a capire se quei personaggi e quegli avvenimenti appartengano al reale o siano prodotti dell’immaginazione. Quelle figure e quegli episodi sono davvero accaduti o sono l’esito di un’illusione dei sensi? Todorov: “Il fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza; non appena si è scelta l’una o l’altra risposta, si abbandona la sfera del fantastico per entrare in quella di un genere simile, lo strano o il meraviglioso. Il fantastico è l’esitazione provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale”38. Assistiamo alla rottura dell’ordine conosciuto delle cose e dei fenomeni, all’irruzione dell’inammissibile nella cornice della quotidianità. Al lettore, come sottolineava Italo Calvino, si chiede solo di credere a quel che legge; di farsi cogliere da “un’emozione quasi fisiologica (solitamente di terrore o d’angoscia) e cercarne una spiegazione, come per un’esperienza vissuta”. Egli è invitato a muoversi in mondi governati da leggi per lui ignote: è obbligato ad attenersi a una “logica le cui regole, i cui punti di partenza o le cui soluzioni riservano delle sorprese”39. Si pensi a J.R.R. Tolkien, tra i maggiori studiosi di letteratura anglosassone e medioevale del secondo Novecento. A un certo punto della sua vita, Tolkien decide di misurarsi con un’impresa ardita: la scrittura di un’autentica epopea. Diventa così, come ha ricordato Zolla, “il servitore appassionato delle stesse forze che aveva sentito pulsare nei versi di uomini morti da più d’un millennio”. Favola che parla di “cose permanenti: non di lampadine elettriche, ma di fulmini”, Il Signore degli Anelli ci consegna archetipi e creature situate “tra il mondo sublunare e il terzo cielo”. Una drammaturgia costellata dai simboli di un universo perenne e arcaico. Che riesce a sedurre subito i bambini. E, insieme, chiede di essere decifrata dagli adulti e dagli eruditi. Stringe in “una maglia ben tessuta, fatta dei nostri stessi tremiti, inconfessati sospetti, sospiri più intimi a noi di noi stessi”. E ci parla “d’una verità repressa, ma ben nota nel profondo dei cuori”40. Architetto di questo epos è un romanziere colto e raffinato
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che, in un saggio, aveva descritto le favole come “eterocosmi” capaci di definire connessioni tra “l’Immaginazione e il suo risultato finale, la Subcreazione”, fino a ottenere la “volontaria sospensione dell’incredulità”. La sfida più ambiziosa: staccarsi dalla realtà quotidiana, per entrare nei confini di mondi ulteriori attraverso la fantasia. Una fiaba, per Tolkien, è come un’evasione dal carcere: non ricorda la fuga dei disertori. E consente di “riconquistare una vista chiara”. Per “vedere le cose come siamo destinati a vederle”41. Senza confessarlo apertamente, Hirst, in Treasures from the Wreck of the Unbelievable, costruisce un’epopea avventurosa ispirata (anche) ai racconti di Tolkien. Un’epica che segue i “momenti” sui quali da sempre si basano le favole. Equilibrio iniziale: la storia del liberto-parvenu Amotan, che acquisisce ricchezze impreviste. Rottura di quell’equilibrio: il viaggio dell’Apistos verso un’isola lontana. Peripezie dell’eroe: il naufragio della nave-museo. Infine, ristabilimento dell’equilibrio iniziale: ritrovamento dell’Apistos e presentazione dei reperti a Venezia. Per un’arte “cinematografica”
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Per Hirst, la favola di Cif Amotan II e dell’Apistos è il soggetto di una sorta di film implicito. Ecco: Treasures from the Wreck of the Unbelievable potrebbe essere letto anche (forse soprattutto) come lo storyboard di un kolossal cinematografico ancora da girare. Palazzo Grassi e Punta della Dogana sono trasformati nei set di una finzione, che si articola in un prologo; segue una trama; è ricca di attori e di comparse; si dipana di sala in sala; prevede colpi di scena; ha un epilogo. Siamo invitati a diventare spettatori di un progetto filmico iper-pop. Un plot che spinge all’immedesimazione. Ed è attraversato da tanti echi tratti dalla storia del cinema popolare. In linea con cineasti come Guy Ritchie – che recuperano in maniera trash alcuni miti del passato – Hirst si serve del cinema “per rendere la sua ricerca credibile”. Puppeteer, erede di Disney, sceglie di citare, insieme con alcuni padri del fumetto moderno (Hergé, Pratt, Mignola), eterogenee fonti filmiche (parzialmente svelate in una rassegna cinematografica che egli stesso ha curato presso la Fon-
dazione Prada di Milano nel 2018, intitolata Soggettiva42). Film radicali e respingenti come L’esorcista di William Friedkin, Il tamburo di latta di Volker Schlöndorff e Eraserhead di David Lynch. Opere mainstream come Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato di Mel Stuart. Classici contemporanei come Matrix di Larry e Andy Wachowski. Ma soprattutto: The Lost Continent di Michael Carreras e 20.000 leghe sotto i mari di Richard Fleischer, tra i primi grandi film di avventure sotto i mari, caratterizzato dalla presenza di polipi giganti. E, poi: Il colosso di Rodi di Sergio Leone, Titanic di James Cameron, Jason and the Argonauts di Don Chaffey (con le indimenticabili animazioni di Ray Harryhausen) e i capolavori di Walt Disney con i suoi eroi ingenui (Pippo, Topolino). E ancora: Pirati di Gore Verbinski, i cui protagonisti sono corsari ricoperti di licheni. Infine, la serie degli 007: influenzato dalla sublimazione di Ursula Andress proposta in Agente 007 - Licenza di uccidere di Terence Young, Hirst presenta una statua egizia con il volto di Kate Moss43. Sostenitore dell’idea dell’arte come rituale magico, Hirst si ispira a un genere cinematografico specifico: il fantasy. Che, a differenza della fantascienza, non immagina paesaggi lontani e improbabili, ma guarda verso mondi diversi, altri. Si tratta di mondi che rispettano leggi interne e regole non sempre decifrabili. Cartografia fiabesca e allegorica, a tratti imaginifica e surreale, il fantasy è dominato da personaggi incantati e da creature magiche, con poteri soprannaturali. Vi si succedono trasformazioni, incantesimi, magie. Si respira la presenza del mistero, del soprannaturale. Si sentono gli echi dell’orrore à la Lovecraft. Si attraversano atmosfere sinistre ed esotiche. Spettri, tiranni, elfi, gnomi, nani e folletti, che provengono dalle leggende inglesi e celtiche. Incarnazioni mostruose del male. Personaggi malvagi e perversi, irrequiete eroine e indomiti eroi dotati di poteri eccezionali, soggetti al potere della hybris e condannati ad affrontare continue deviazioni dalle loro originarie missioni. Figure spesso senza profondità, monodimensionali, talvolta ripugnanti e terrorizzanti, che viaggiano, superano ostacoli, peripezie, prove spaventose, senza mai soccombere alle lusinghe di forze oscure44. Si pensi a Le cronache di Narnia di Andrew Adamson (dai romanzi di Lewis), a Il meraviglioso mago di Oz di Victor Fle-
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ming (dal libro di Baum), a Harry Potter diretto da Chris Columbus e poi da Alfonso Cuarón, da Mike Newell e da David Yates (dalla fortunata saga di J.K. Rowling) e soprattutto alla trilogia de Il signore degli anelli diretta da Peter Jackson (dal romanzo di Tolkien). In consonanza con quel che ha fatto un regista come Tarantino con le sue riappropriazioni differite dei macaroni war movies e degli spaghetti western, Hirst riprende questa fortunata tradizione cinematografica. Ne recupera atmosfere, visioni, artifici. E li personalizza, ambientando il suo quasi-film non nel Medioevo ma in un’antichità da cartoon. Nasce così il primo tentativo per importare nei confini dell’arte contemporanea una rilettura originale del fantasy. Film, disegni, relitti
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“Cosa mi piace dell’antichità? Come i miti greci e romani facciano parte della cultura ma anche come la nostra cultura si sia, a suo modo, voluta mitizzare”45, ha detto Hirst, del cui kolossal fantasy, nelle sale di Palazzo Grassi e di Punta della Dogana, vediamo qualche sequenza, alcuni schizzi, relitti abbandonati. Ecco alcune fotografie e video, dove appaiono subacquei con maschere e tute di gomma intenti a perlustrare, con gesti frenetici, il corpo dell’imbarcazione nascosto sul fondo del mare, per recuperare beni “persi da lungo tempo”. E, poi: disegni, che rivelano la passione di Hirst per una tra le più antiche pratiche artistiche (“Ogni mia opera nasce da un disegno o da una serie di schizzi, poi passo nello studio, o in fonderia se si tratta di un bronzo, e quegli abbozzi prendono corpo. Mi piace lavorare con ogni tipo di materia e in ogni genere di dimensione e mi piace risolvere i problemi tecnici direttamente sulla carta”46). Infine, i reperti di una sorta di post-archeologia, eseguiti nel corso di circa dieci anni da alcuni tra i migliori artigiani e manifatturieri del Regno Unito. Reliquie fatte con materiali come bronzo, marmo, granito, cristallo di rocca, metalli preziosi, oro, argento, pietre varie (malachite, lapislazzuli, agate, opali). Frammenti pseudo-greco-romani, busti egizi quasi-tolemaici, candela-
bri aztechi, effigi dell’Africa subsahariana, porte nordafricane, gioielli esotici, nudi maschili e femminili ammiccanti coinvolti in scene sadiche con serpenti e mostri. Tra monumentalismo e kitsch Soffermiamoci sui relitti. Si tratta di esercizi plastici fintamente consunti e incrostati, che oscillano tra monumentalismo e kitsch. Da un lato, è evidente il bisogno di Hirst di reagire a un minimalismo a lungo imperante nell’arte contemporanea, abbandonandosi al gusto per il fare in grande: per quella bigness che, è stato osservato, non allude ad altro da sé perché parla solo di se stessa, come uno slogan pubblicitario, “opposto a ogni intenzionalità critica ma […] capace di comunicazione vasta”47. Un esempio: Demon with Bowl. Il gigante di diciotto metri di altezza (basato sul montaggio di nove pezzi diversi) posto al centro della corte di Palazzo Grassi, raffigurazione in resina dipinta del terribile dio Pazuzu, che nella mitologia babilonese è il re degli spiriti malvagi dell’aria. Dall’altro lato, una profonda attrazione per le geografie del kitsch, inteso come luogo del senz’anima e dell’inautentico. Il compito dell’artista – sembra dire Hirst – consiste nel rifiutare ogni spinta progressista, pensando il proprio gesto non come invenzione dal niente, né come perlustrazione dell’ignoto, ma come citazione disinibita: repêchage e riutilizzo del già-fatto. Egli, perciò, sceglie di compiere scorribande dentro le stanze della Storia. Manierista postmoderno che predilige i territori del gioco e della provocazione, attinge con libertà a diversi momenti del passato. Disinvolto nel mescolare motivi alti e bassi, saccheggia figure, fonti e miti, che decontestualizza: privandole di ogni spessore culturale, ma accrescendone le capacità comunicative, fino a lambire le insidiose vette del grottesco. Trionfo del Midcult, il kitsch, ha sottolineato Kundera, pronuncia soprattutto “il bisogno di guardarsi allo specchio della menzogna che abbellisce”. È come un paravento che tende a eliminare l’inaccettabile. Si dà come mondo dove il tragico viene negato48.
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Echi Ispirandosi ai concept album delle popstar – dischi nei quali tutte le canzoni discendono da un progetto unico, ruotano intorno a uno specifico tema o sviluppano complessivamente una singola trama lirica, strumentale o compositiva – Hirst intende ciascun episodio visivo e plastico della sua mega mostra-installazione come un momento dotato di autonomia e, insieme, collegato a tanti altri momenti. Fotogrammi di una lunga sequenza. Che lasciano affiorare eterogenee suggestioni storico-artistiche, di cui l’artista non sembra essere sempre del tutto consapevole.
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In primo luogo, il Sacro Bosco di Bomarzo: paesaggio presurrealista, nascosto su una delle colline tufacee della Tuscia. Come in seguito a un primordiale sommovimento tellurico, dalle rocce sembrano venir fuori draghi, orchi, sirene, leoni, testuggini, elefanti. Lungo percorsi scoscesi, tra alberi e vegetazione selvaggia, sono disseminate sculture antropomorfe. Diversamente dai giardini rinascimentali, il Sacro Bosco non è scandito da viali ortogonali e simmetrici: si presenta come una carrellata di apparizioni stregate. Ricavate dentro blocchi di peperino, le figure hanno proporzioni ingigantite, in evidente contrasto con gli edifici che si trovano nei labirintici sentieri di pietra. Un repertorio che perviene a esiti pre-espressionistici. I canoni classici subiscono alterazioni sconvolgenti. Il gusto per gli incanti cavallereschi convive con l’orrido, il grottesco e lo spaventoso. Una teatralità esaltata da gigantesche apparizioni. Falsi ruderi, frammenti simulati, citazioni dotte. Si infrange ogni ordine umanistico. Si respira un’incombente inquietudine. Bizzarrie, capricci. Si dà sfogo al fantastico, a una follia ariostesca. Ecco bocche urlanti, dai lineamenti induriti e minacciosi. Volti come maschere, con tratti incerti. Siamo nel regno del grottesco, dell’enfatico, del paradossale. Il soprannaturale, lo smisurato. Trionfano l’abnorme, il meraviglioso. Tra i più appassionati estimatori novecenteschi di Bomarzo, Dalí – sostenitore del valore di una bellezza convulsa, aperta anche al kitsch più esibito, concepita non come esattezza o proporzione, ma come tensione, dolore, ferita, inquietudine, disarmo-
nia, impurità, fallimento49. Hirst sembra richiamarsi proprio alle opere debordanti ed eccessive di questo surrealista eccentrico e arrabbiato, che aveva trasgredito il senso comune, appropriandosi di statue classiche, attraversate con cassetti e oggetti vari. Un altro artista cui guarda Hirst è Bosch, creatore di un’iconografia metamorfotica, autore di autentici enigmi figurati, carichi di allusioni, precisi e sarcastici – frammenti di un esoterismo che sembra sbeffeggiare e irridere, fino a condurre allo smarrimento, alla meraviglia, allo stordimento50. Infine, un posto di rilievo nel museo immaginario sotteso a Treasures from the Wreck of the Unbelievable è occupato dalle ricerche erudite di Baltrušaitis, il quale aveva indagato le forme più significative di un Medioevo ulteriore, che si sviluppa nel cuore di un “Medioevo evangelico e umanista”: un Medioevo fantastico, surreale, tormentato, “popolato di mostri, di prodigi”, di “improvvisi sussulti”, di “inquietudini nello spirito e nelle forme”, di “ossessioni e fantasmagorie elaborate dall’immaginazione”51. Un’opera sincretica Intrecciando eterogenei rinvii comunicativi, mitologici, letterari e cinematografici, Hirst pensa Treasures from the Wreck of the Unbelievable come recipiente dentro cui fa entrare di tutto. Egli muove dalla convinzione secondo cui, se guardate da vicino, epoche, fedi e linguaggi appaiono separati; mentre, se si osservano a una certa distanza, si mostrano convergenti. Disegna, perciò, la sua mostra-installazione come luogo dilatato all’interno del quale i punti di vista parziali e limitati vengono superati, fino a coincidere: come le linee dei quadri confluiscono prospetticamente nel punto di fuga di un quadro, che diviene chiave di volta della rappresentazione spaziale. Dinanzi ai nostri occhi increduli, Hirst si comporta come un baro che mescola le carte prendendosi gioco di noi, abile nel costruire una sciarada dentro cui sovrappone menzogne e verità, storie e religioni, mitologie e leggende, fascinazioni colte e seduzioni pop, erudizione e kitsch. Un’opera totale nella quale si trovano a convivere pratiche e media diversi, che si combinano e si
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rimodulano grazie al gesto di un artista sfrontato e coraggioso, incline ad aderire – quasi per istinto – ai principi su cui si fonda la logica e l’ideologia del sincretismo. Zolla ha scritto: “Il sincretista, tutt’intorno a sé ravvisa lo spettacolo comico e tragico di significanti differenti che designano un unico significato o di un solo significante che comprende significati opposti: […] un’identica esperienza interiore si può trovare espressa in dogma opposti”52. A Venezia, Damien Hirst – artista sincretico impegnato nel suggerire o nell’immaginare possibili uscite dal mondo – ci ha raccontato la perturbante favola del liberto Aulus Calidus Amotan, conosciuto come Cif Amotan II.
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1 M. Houellebecq, La carta e il territorio (2010), Bompiani, Milano 2010, pp. 7-8. 2 E. Cicelyn, M. Codognato, M. D’Argenzio (a cura di), Damien Hirst, Electa, Napoli 2004. 3 Cfr. P. Treccagnoli, L’immondizia? Solo una storia buffa, in “Il Mattino”, 9 febbraio 2008. 4 J. Clair, L’inverno della cultura (2011), Skira, Milano 2011, p. 96. 5 M. Fumaroli, Parigi-New York e ritorno (2009), Adelphi, Milano 2011, p. 547. 6 A. Warhol, La filosofia di Andy Warhol (1975), Costa&Nolan, Genova 1990, p. 78. 7 O. Fallaci, Salvador Dalí, un tesoro nei baffi, in “L’Europeo”, 9, 1962. 8 G. Burn, D. Hirst, Manuale per giovani artisti (2001), Postmedia Books, Milano 2005. 9 A.C. Danto, Unnatural Wonders, Farrar, Straus and Giroux, New York 2005, p. 53. 10 A. Baricco, L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin, Garzanti, Milano 1992, pp. 49-73. 11 R. Hughes, In difesa dell’inestimabile, lezione magistrale tenuta a Milano il 22 giugno 2009 (un estratto di questa lecture è stato riportato sul “Corriere della Sera” del 21 giugno 2009). 12 R. Hughes, Day of the Death, in “The Guardian”, 13 settembre 2008. 13 J. Spalding, Damien Hirsts are the Sub-prime of the Art World, in “The Indipendent”, 26 marzo 2012. 14 R. Storr, Un po’ Tintin un po’ 007, in “La Lettura - Corriere della Sera”, 21 maggio 2017. 15 J. Clair, L’inverno della cultura, cit., pp. 53-83. 16 E. Zolla, Uscite dal mondo, Adelphi, Milano 1992, p. 15.
17 L’affermazione di Hirst è in S. Bucci, Damien Hirst: sono un agnello, non sono uno squalo, in “La Lettura - Corriere della Sera”, 22 gennaio 2017. 18 E. Geuna, In conversazione con Damien Hirst, in E. Geuna (a cura di), Freedom not Genius, Altri Criteri e Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli, Torino 2012, pp. XIII e sgg. 19 A. Gallagher, Damien Hirst, Tate, London 2012. 20 F. Bacon, La brutalità delle cose (1975-1987), conversazioni con D. Sylvester, Garzanti-Quaderni della Fondazione Pier Paolo Pasolini, MilanoRoma 1991, pp. 159, 51. 21 M. Kundera, Un incontro (2008), Adelphi, Milano 2009, pp. 17-28. 22 Il passaggio della lettera del 20 marzo 1992 di F. Bacon a L. le Brocquy è riportato in S. Bucci, Damien Hirst: sono un agnello, non sono uno squalo, cit. 23 L’affermazione di Hirst è ivi. 24 Ibidem. 25 G. Swenson, Intervista a Andy Warhol (1963), in A. Warhol, Sarò il tuo specchio (2004), a cura di A. Cueff, Hopefulmonster, Torino 2007, p. 40. 26 L’affermazione di Hirst è in S. Bucci, Damien Hirst: sono un agnello, non sono uno squalo, cit. 27 Ibidem. 28 A.C. Danto, Unnatural Wonders, cit., pp. 53-60. 29 L’affermazione di Hirst è in S. O’Hagan, Damien of the Dead, in “The Guardian”, 19 febbraio 2006. 30 L’affermazione di Hirst è in S. Bucci, Damien Hirst: sono un agnello, non sono uno squalo, cit. 31 S. Schama, Inventario, in E. Geuna (a cura di), Damien Hirst: Treasures from the Wreck of the Unbelievable, Pinault Collection-Marsilio, Venezia 2017, pp. 18-23. 32 E. Geuna (a cura di), Damien Hirst: Treasures from the Wreck of the Unbelievable, cit. 33 L’affermazione di Hirst è in S. Bucci, Damien Hirst: sono un agnello, non sono uno squalo, cit. 34 A. Baricco, Non chiamatela post-verità, in “La Repubblica”, 30 aprile 2017. Sul concetto di post-verità, si rimanda anche a M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, Bologna 2017. 35 R. Calasso, La letteratura e gli dèi, Adelphi, Milano 2001, p. 30. 36 M. Fumaroli, F. Lebrette, La mitologia nei capolavori della pittura (2004), Piemme, Casale Monferrato 2005. 37 F. Menna, La linea analitica dell’arte moderna, Einaudi, Torino 1975. 38 T. Todorov, La letteratura fantastica (1970), Garzanti, Milano 1981 (2ª ed.), p. 28. 39 I. Calvino, Una pietra sopra (1980), in Saggi, I vol., a cura di M. Barenghi, Mondadori, Milano 1995, pp. 266-268. 40 E. Zolla, Uscite dal mondo, cit., pp. 291-299. 41 J.R.R. Tolkien, Albero e foglia (1964), Rusconi, Milano 1976. 42 Nella rassegna Soggettiva, promossa dalla Fondazione Prada di Mila-
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no nel 2018, Hirst ha scelto alcuni lungometraggi fondamentali per la sua formazione biografica e artistica: Eraserhead (1977), Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato (Willy Wonka and the Chocolate Factory, 1971), L’Esorcista (The Exorcist, Director’s Cut, 1973), Gli Argonauti (Jason and the Argonauts, 1963), Matrix (The Matrix, 1999) e Inseparabili (Dead Ringers, 1988). 43 M. Giusti, Resuscitare il cinema con l’arte, in “Artribune”, 18 maggio 2017. 44 A. Dal Lago, Eroi e mostri, Il Mulino, Bologna 2017. 45 L’affermazione di Hirst è in S. Bucci, Damien Hirst: sono un agnello, non sono uno squalo, cit. 46 Ibidem. 47 V. Gregotti, Tre forme di architettura mancata, Einaudi, Torino 2010, p. 55. 48 M. Kundera, L’arte del romanzo (1986), Adelphi, Milano 1988, pp. 188-189. 49 S. Dalí, Sì (1971), pref. di R. Descharnes, introd. di P. Schmitt, Rizzoli, Milano 1980. 50 E. Zolla, Uscite dal mondo, cit., pp. 265-269. 51 J. Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico (1972), introd. di M. Oldoni, Adelphi, Milano 1993. 52 E. Zolla, Verità segrete esposte in evidenza, Marsilio, Venezia 1990, p. 10.
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La Biennale d’architettura 2018 LIVIO SACCHI
La 16. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia è stata inaugurata il 26 maggio scorso e resterà aperta fino al prossimo 25 novembre. Si tratta, com’è noto, della principale rassegna di architettura a scala globale, un appuntamento imperdibile per gli architetti di ogni parte del mondo. Mostre simili, con cadenza biennale o triennale, si sono negli ultimi anni moltiplicate – da Chicago a Sofia, da Rabat a Seoul – e alcune di esse hanno assunto un ruolo importante nelle diverse aree geografiche; nessuna tuttavia può competere con la rassegna veneziana. A tale indiscusso successo non è estraneo il fascino architettonico di Venezia, ma esso è anche frutto della rigorosa gestione scientifica di Paolo Baratta, che della Biennale è presidente da ormai vent’anni, in particolare dal 1998 (una scelta di Walter Veltroni, all’epoca ministro per i Beni culturali del governo Prodi). Quest’ultima edizione, intitolata “Freespace”, è affidata alle titolari dello studio irlandese Grafton Architects: Yvonne Farrell e Shelley MacNamara. La mostra internazionale Le direttrici sono partite dalla redazione di un sintetico manifesto intitolato appunto “Freespace”. Reso pubblico già nel giugno 2017, esso detta le linee guida della mostra. Al di là di un certo grado di genericità, proprio di ogni manifesto, e della sua inclusività, forse indispensabile in una rassegna di questo tipo, vi
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si trovano alcuni spunti interessanti: Con il tema Freespace la Biennale Architettura 2018 presenterà al pubblico esempi, proposte, elementi – costruiti o non costruiti – di opere che esemplificano le qualità essenziali dell’architettura; la modulazione, la ricchezza e la materialità delle superfici, l’orchestrazione e la sequenza del movimento, rivelandone il potere intrinseco e la bellezza. La Mostra avrà una presenza fisica di una dimensione e qualità tali da lasciare un impatto sul visitatore, comunicando la complessa natura spaziale dell’architettura. La Mostra invita a un coinvolgimento emotivo e intellettuale per comprendere più a fondo l’architettura, per stimolare la discussione sui valori architettonici fondamentali e per celebrare il contributo reale e duraturo che l’architettura offre all’umanità1. Vi sono inoltre citati architetti come Jørn Utzon (se ne ricorda quest’anno il centenario della nascita), Angelo Mangiarotti e Lina Bo Bardi, ed edifici come il palazzo Medici Riccardi. La conclusione del testo è infine affidata a un proverbio greco: Una società cresce e progredisce quando gli anziani piantano alberi alla cui ombra sanno che non siederanno mai2. Un monito che ci rammenta che i tempi dell’architettura non sono quelli della vita umana (tanto meno quelli delle pubbliche amministrazioni), che ci invita a guardare lontano, a volare alto, a pensare non soltanto a noi stessi ma anche ai diritti delle generazioni future. Gli studi invitati a partecipare alla grande mostra che si sviluppa fra il Padiglione centrale ai Giardini e l’Arsenale sono 71. Al suo interno vi sono due sezioni speciali: “Close Encounter, meetings with remarkable projects”, che presenta sedici significative riletture critiche fatte da architetti contemporanei di altrettanti progetti del nostro passato recente, e “The Practice of Teaching”, che raccoglie dodici esperienze didattiche. La prima propone una sequenza di opere di architetti della nostra storia recente che, in qualche misura, delineano una modernità alternativa. Fra questi: Luis Barragán, Gordon Bunshaft, Kay Otto Fisker, il citato Angelo Mangiarotti e Bruno Morassutti, Giovanni Michelucci, Auguste Perret, Jean Prouvé, Jean Renaudie, Kaija e Heikki Siren, Rogelio Salmona, Alejandro de la Sota. Sono i riferimenti che, meglio di ogni altra cosa, consentono di comprendere le radici del lavoro delle curatrici. In tale sezione appaiono anche
le riletture dell’opera di Luigi Caccia Dominioni (fatta da Cino Zucchi) e di alcuni edifici sacri di Sigurd Lewerentz. “The Practice of Teaching” si apre invece con un interessante pensiero di Farrell e MacNamara: L’insegnamento è una forma di perenne “non sapere”, abbinato all’esperienza e all’intenzione di guidare, in cui i più esperti condividono con altri meno esperti e curiosi di conoscere. Nella nostra lingua madre, il gaelico, c’è un detto che recita: Mol an óige agus tiochfaidh sí!, “se elogi i giovani avranno successo; se li sostieni ne avranno giovamento”. L’essenza dell’insegnamento è nel sostegno, è passare il testimone della cultura architettonica. Mark Wigley della Columbia University scrive che “le scuole di architettura coltivano una forma di ottimismo riguardo al futuro della società”3. A proposito delle esperienze didattiche selezionate, le curatrici aggiungono infine che tra i partecipanti a questa Biennale Architettura, molti sono architetti e docenti al tempo stesso. Nell’ambito della Mostra è rappresentato anche il lavoro di architetti che intrecciano il loro operato con quello degli studenti. È nostra convinzione che lo scambio di idee, scoperte ed esperienze pratiche tra il professionista e lo studente sia una componente fondamentale per promuovere la continuità della tradizione architettonica. Volevamo presentare l’atelier come “laboratorio dell’immaginazione”4. Fra gli architetti invitati, numerosi maestri: Álvaro Siza, Peter Zumthor, David Chipperfield, Aurelio Galfetti, Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa (con uno spazio trasparente che avrebbe funzionato molto bene fra le cappelle del padiglione della Santa Sede di cui parleremo), Paulo Mendes da Rocha, Rafael Moneo, Carme Pinós (con una riuscita torre dall’inconsueto impianto tripartito a Guadalajara), Eduardo Souto de Moura, Toyo Ito (con una “liquida installazione” intitolata Virtual nature). Fra gli italiani, oltre a Benedetta Tagliabue che lavora in Spagna – altre tre donne: Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, che ha studio a Vittoria, in provincia di Ragusa; Laura Peretti, vincitrice del concorso per la riqualificazione di Corviale a Roma; Francesca Torzo, che lavora infine a Genova. Fra gli statunitensi: Diller Scofidio + Renfro e Weiss/Manfredi, entrambi a New York; Michael Maltzan a Los Angeles, di cui, con un gigantesco modello e un grande murale
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assonometrico a colori, viene presentato Star Apartments, complesso residenziale realizzato nel 2014 nella stessa Los Angeles, per 102 ex-senzatetto, e lo Studio Gang che ha la sede principale a Chicago ma anche filiali a San Francisco e New York. La titolare, Jeanne Gang, è attualmente fra le progettiste più richieste d’America, e ha al suo attivo molte altissime torri; ma qui si presenta con il piccolo, artigianale Arcus Center a Kalamazoo. Inevitabile per certi aspetti, inaspettata per altri ci appare la presenza di BIG - Bjarke Ingels Group, uno dei gruppi transnazionali di maggior successo mediatico: fondato nel 2006 a Copenaghen, con studi anche a New York e Londra (quello di New York, in particolare, è subito diventato molto più grande della originaria sede danese), conta oggi 17 partner, 27 associati e 12 direttori per i diversi settori operativi. Il giovane Ingels è uno dei pochissimi architetti nella lista “The 100 most influential people” stilata nella primavera del 2018, come ogni anno, dalla rivista americana Time (vi compare anche Elizabeth Diller, per la seconda volta) e il suo personale successo è un chiaro segno dei tempi: nel Padiglione centrale è stato allestito un colossale plastico di Manhattan che illustra il progetto Big U: Humanhattan 2050, una dettagliata – e peraltro già finanziata – proposta, frutto di un concorso per la risistemazione e naturalizzazione dell’intera fascia costiera meridionale dell’isola – 10 miglia, da West 57th a East 42nd Street – in risposta ai cambiamenti climatici in corso. Notevole, infine, la presenza di tre gruppi cinesi – Amateur Architecture Studio di Hangzhou, DnA Design and Architecture di Pechino e Vector Architects di Gong Dong –; di un gruppo indiano, Case Design, che ha base a Mumbai; di Kéré Architecture, che ha sede in Germania ma il cui ormai noto titolare Francis Kéré opera prevalentemente in Burkina Faso, insegnando agli studenti a progettare e costruire. In Biennale l’Atelier Kéré ha ricostruito un freespace inizialmente ubicato presso l’aeroporto berlinese di Tempelhof e destinato alla prima accoglienza dei richiedenti asilo. Il Padiglione italiano
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Promosso dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo all’interno del consueto spazio espositivo presso le
Tese delle Vergini all’Arsenale e curato quest’anno da Mario Cucinella, il nostro padiglione nazionale ha un titolo promettente: Arcipelago Italia. Progetti per il futuro dei territori interni del Paese. Dopo il focus sulle periferie dell’edizione di due anni fa, la mostra in corso presenta in maniera spettacolare e comunicativa cinque progetti sperimentali accompagnati da altrettanti itinerari architettonici pensati per quel 60% di territorio italiano soggetto a spopolamento e a fragilità sismica e idrogeologica: la Barbagia con la piana di Ottana in Sardegna; la valle del Belice con Gibellina in Sicilia; gli scali ferroviari di Ferrandina e Grassano a Matera; Camerino, nelle Marche, colpita dal terremoto del 2016; l’Appennino tosco-emiliano con il Parco delle Foreste casentinesi. Sullo sfondo campeggia una scritta al neon: The future is the product of present actions. Si tratta di un tema che è, letteralmente, questione di vita o di morte: l’Italia sta subendo un calo demografico senza precedenti (solo in piccola parte compensato dai tanto temuti flussi migratori in arrivo da Africa e Medio Oriente) dovuto al calo delle nascite e ingigantito dall’emigrazione dei giovani dalle aree interne, dai centri minori e dal sud verso le fasce costiere, le grandi città e il nord, segnatamente verso Milano, ma anche verso l’estero. Se la tendenza in atto non subirà una netta inversione, cosa al momento poco probabile, gli abitanti di molte regioni del centro e soprattutto del sud sono destinati a decrescere in maniera drammatica. I piccoli centri, per esempio nelle regioni appenniniche già oggi abitate per lo più da anziani, saranno definitivamente abbandonati nel giro di pochi anni. In tali aree, i valori immobiliari, anche quelli di edifici storici di pregio, sono già crollati. Un vero e proprio naufragio, una desertificazione demografica – un free space? – che si sta consumando nella generale indifferenza, colpendo un pezzo importante della storia urbana del nostro Paese. Cosa può fare l’architettura? Certamente qualcosa, conferendo qualità e valori aggiunti a luoghi indeboliti in questi ultimi decenni. È ciò che avviene con una serie di realizzazioni eccellenti diffuse all’interno di tali regioni, di puntuali processi di riqualificazione partecipati e condivisi. Cucinella chiede poi, giustamente, una legge ad hoc – una legge per l’architettura, alla quale peraltro il Consiglio Nazionale degli Architetti sta attiva-
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mente lavorando – e un rinnovato ascolto dei territori. Ma si chiede anche cosa abbia determinato tali inquietanti fenomeni che sembrano aver spezzato un equilibrio che ha funzionato per secoli, e prova a riprogettare alcuni punti nevralgici di tali delicate, bellissime aree geografiche. Arcipelago Italia (…) sposta l’attenzione dell’architettura dalle grandi metropoli a quello spazio fisico del nostro Paese dove, anche nelle epoche più remote, le comunità si sono storicamente espresse in un diverso rapporto tra dimensione urbana e territorio. Si tratta di territori spazialmente e temporalmente lontani dalle grandi aree urbane, ma detentori di un patrimonio culturale inestimabile, con peculiarità che pongono l’Italia in discontinuità rispetto all’armatura urbana europea, permettendo di identificarla come “uno spazio urbano nel Mediterraneo”, per usare le parole di Fernand Braudel. (…) Come il tempo ha dimostrato, dissociare l’architettura dalle persone e dai bisogni si è rivelata un’operazione dannosa, che da una parte ha creato un’idea di modernità sempre più estranea alle diverse culture e comunità e dall’altra ha determinato una mancanza di qualità e bellezza5. Il problema c’è ed è giusto che se ne sottolinei la rilevanza con una mostra, senza pretendere che quest’ultima possa giungere a credibili soluzioni. Fra l’altro, richiederebbe spazi di riflessione che non ci sono consentiti dalle dimensioni di questo contributo. Ci limitiamo a osservare che il nodo, a nostro giudizio, sta nel valutare se la reversibilità di tali fenomeni di abbandono sia ancora possibile (caso in cui bisognerebbe fare rapidamente di tutto per incentivare una inversione di tendenza) o se essa sia invece, purtroppo, impossibile. I padiglioni stranieri
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La Biennale di quest’anno vede la partecipazione di 63 Paesi negli storici Padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e diffusi nel centro storico di Venezia: troppi per parlare di tutti. Per la prima volta partecipano Antigua e Barbuda, Arabia Saudita, Guatemala, Libano, Pakistan e Santa Sede. Quest’ultima ha affidato la sua prima mostra a Francesco Dal Co, che della Biennale è stato commissario del settore Arti visive dal 1974 al 1976 e direttore della sezione
di Architettura dal 1988 al 1991. L’ispiratore dell’operazione è stato il cardinale Gianfranco Ravasi, da 11 anni a capo del Pontificio Consiglio per la Cultura – lo stesso che ha prestato 40 abiti talari per la mostra “Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imagination” inaugurata in primavera al Metropolitan Museum di New York, al cui discusso gala di apertura la pop star Rihanna è apparsa vestita da papa e dove lo stesso cardinale è stato fotografato con Donatella Versace e Anna Wintour. Tornando alla mostra, non si tratta di un padiglione, quanto piuttosto di una esposizione diffusa sull’isola di San Giorgio Maggiore. Dal Co è partito dalla “cappella nel bosco” di Gunnar Asplund al cimitero di Stoccolma e ha chiesto a dieci architetti – Andrew Berman, Francesco Cellini, Javier Corvalán, Ricardo Flores ed Eva Prats, Norman Foster, Terunobu Fujimori, Sean Godsell, Carla Juaçaba, Smiljan Radic, Eduardo Souto de Moura, oltre che a Francesco Magnani e Traudy Pelzel (il cui spazio ospita appunto i lavori introduttivi di Asplund) – di progettare e realizzare, con l’aiuto di altrettante aziende, una cappella. La più legata al tradizionale archetipo ecclesiale sembra, curiosamente, quella del giapponese Fujimori. La più riuscita è tuttavia quella di Foster: aerea, trasparente, interamente in legno, già in parte ricoperta da rampicanti. Che il Vaticano si occupi di architettura contemporanea è cosa certamente di grande interesse, se non altro in considerazione del fatto che parliamo del principale committente di gran parte dell’architettura occidentale. Ma è anche interessante il fatto che – all’interno di un pontificato con priorità così diverse – Ravasi stia più o meno consapevolmente contribuendo alla riscoperta dei legami della Chiesa con il mondo, legami peraltro evidenti in alcuni secoli della sua millenaria storia. Il padiglione degli Stati Uniti, nell’anno in cui la presidenza Trump costruisce un costoso e, a molti, odioso muro lungo il confine con il Messico, prova a esplorare il concetto di cittadinanza declinato in sette diverse scale spaziali: cittadino, civitas, regione, nazione, globo, rete e cosmo. Fra coloro i quali hanno lavorato alla mostra si segnalano i già citati Diller Scofidio + Renfro e lo Studio Gang. Il padiglione canadese espone i principi architettonici delle popolazioni autoctone. Quello giapponese, curato da Momoyo Kaijima, una delle fondatrici di Atelier Bow
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Wow, è dedicato a una possibile “Architectural Ethnography from Tokyo: Guidebooks and Projects on Livelihood”. Kaijima utilizza 42 disegni prodotti da studenti, professionisti e artisti negli ultimi vent’anni da una parte all’altra del mondo per raccontare come, proprio attraverso i disegni, sia possibile valutare, giudicare, penetrare la qualità del costruito: un vera e propria etnografia dell’architettura. Il padiglione francese, curato dallo studio Encore Heureux (Julien Choppin, Nicola Delon e Sébastien Heymard), porta il significativo titolo-tema “Lieux infinis. Construire des bâtiments ou des lieux?” ed espone dieci esempi di spazi di libertà: luoghi architettonici che – non senza una dose d’ingenui tà – non hanno paura di rischiare, propongono nuovi processi e inedite strategie, fanno ricorso a modelli economici alternativi coinvolgendo attivamente i cittadini nel processo creativo, offrono la possibilità di esprimersi liberamente e, al tempo stesso, sono pensati all’interno di modelli di produzione e consumo responsabili. “Unbuilding Walls”, la mostra ospitata dal padiglione tedesco e curata da Graft Architects (Thomas Willemeit, Wolfram Putz e Lars Krückerberg) e da Marianne Birthler, parte invece dalla riunificazione della Germania per avviare una riflessione critica contemporanea su nazionalismo, protezionismo e divisioni, sui flussi migratori e sul riemergere delle frontiere: dal citato muro di Donald Trump alla Brexit, dal confine fra le due Coree a quello che separa la Cipro greca da quella turca, dalle barriere di filo spinato che isolano Israele dal West Bank palestinese fino ai più permeabili confini – ma pur sempre confini – orientali e meridionali dell’Unione Europea. Una condivisibile riflessione ideologica, anche se non sempre è chiaro come l’architettura possa dare risposte in proposito. Interessanti i padiglioni di due città-stato viste da molti come veri e propri laboratori urbani, incubatori di un futuro prossimo: Singapore e Hong Kong. Lo spettacolare allestimento della prima s’interroga, non a caso, sull’esistenza degli spazi liberi. In un Paese piccolo e ricchissimo, dove tutto sembra e forse è perfetto, le libertà individuali – concetto già poco sentito in Asia – appaiono tuttavia dimenticate. Di qui la presentazione di dodici progetti che – nonostante tutto, compresa la scarsità di spazio fisico propria di una piccola isola – lavorano sulle libertà interstiziali
che gli architetti possono costruire e sviluppare. Quanto poi ciò possa essere efficacemente espresso da un gruppo di curatori che fa capo al Design Singapore Council del Ministero delle comunicazioni e dell’informazione e alla Urban Redevelopment Authority, cioè a due agenzie governative, resta questione aperta. Ma ciò non inficia la bellezza di una installazione tridimensionale immersiva, composta da infiniti, trasparenti e scintillanti nodi acrilici montati a mano e sospesi al centro del padiglione, e dotata di un sistema di proiezione multisensoriale di luci, suoni e immagini che raccontano gli inaspettati spazi residuali di libertà che ancora è dato ritrovare all’interno della futuribile metropoli equatoriale. Il padiglione di Hong Kong propone invece il tema “Vertical Fabric: Density in Landscape”. Una delle più aperte e interconnesse dell’Asia nonché fra le più influenti sull’economia globale, la città rappresenta una bolla di libertà più o meno in conflitto con il gigantesco Paese da cui dipende; al tempo stesso quest’ultimo guarda a Hong Kong come a uno sperimentale laboratorio da cui le megalopoli cinesi hanno molto da imparare. Altissime le densità: la scarsità di territorio unita alla volontà di tutelare le aree naturali lungo le coste meridionali dell’isola, ha contribuito a conservarne la compattezza e a determinare il suo vertiginoso quanto spettacolare sviluppo verticale. Il risultato, oltre a un mercato immobiliare fra i più sostenuti, è che i tempi di percorrenza sono contenuti e buona parte della città continua a essere relativamente pedestrian friendly. Fra i Paesi per la prima volta presenti all’interno della rassegna veneziana è infine, come s’è anticipato, la discussa e ricchissima Arabia Saudita. Il suo spazio ha posto all’attenzione il problema delle aree metropolitane in rapidissima espansione, che continuano a crescere nel deserto con nuovi, alienanti quartieri monofunzionali, collegati ai centri urbani da giganteschi nastri autostradali e ancora oggi in tutto dipendenti dalle auto private e dalle energie non rinnovabili. I vincitori Il Leone d’oro è andato al portoghese Eduardo Souto de Moura, Pritzker Prize nel 2011, Piranesi Prix de Rome nel 2017
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e autore, come s’è detto, di una delle cappelle esposte sull’isola di San Giorgio. Il Leone alla carriera è stato invece assegnato allo storico Kenneth Frampton, ricordato per la teorizzazione del regionalismo critico. Il Leone d’argento allo studio di Jan de Vylder, che ha sede a Ghent. Fra i padiglioni stranieri, quello svizzero si è aggiudicato il Leone d’Oro, con un allestimento curato da Alessandro Bosshard, Li Tavor, Matthew van der Ploeg e Ani Vihervaara e intitolato “Svizzera 240: House Tour”: un interno, alto appunto 240 cm; un semplice free space completamente vuoto, imbiancato come una galleria d’arte o una chiesa protestante, che rimette elegantemente e ludicamente in discussione il tema dell’abitare domestico. Un indiretto riconoscimento alla scuola di Mendrisio, dove peraltro le direttrici della Biennale insegnano? Una citazione dei salti di scala esperiti da Alice nel romanzo di Lewis Carroll o delle follies realizzate da Philip Johnson nella tenuta di New Canaan? Una menzione speciale è andata infine al padiglione del Regno Unito, curato da Caruso St John Architects con l’artista Marcus Taylor: l’edificio è stato lasciato completamente vuoto, così com’era dopo la Biennale del 2016, racchiuso da ponteggi che consentono l’accesso a un terrazzo panoramico ricavato in copertura. Un omaggio al free space? O un gesto polemico contro la Brexit, che rischia nel Regno Unito di provocare il vuoto, almeno rispetto agli apporti culturali, creativi e professionali europei? Il messaggio di questa Biennale
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Cosa emerge da quest’ultima Biennale? Non molto a giudicare dai relativi cataloghi, come al solito preparati in anticipo per esser pronti al momento dell’inaugurazione. Non poco, invece, dalla mostra vera e propria. Per cominciare da ciò che non c’è, ricordiamo che non si fa cenno alla sfera digitale, con tutte le implicazioni rispetto al parametrico, all’intelligenza artificiale ecc.; né si parla di città, periferie, catene di valore, flussi, connessioni, emigrazioni. Con le loro scelte, le due curatrici irlandesi – che progettano, costruiscono e insegnano seriamente – confermano una tendenza ormai sedimentata: il disinteresse per la recente stagione dell’architettu-
ra-spettacolo messa in scena, dovunque nel mondo, dalle grandi star internazionali. Non che manchino i nomi noti; ma, se ci sono, sembrano interessati ad apparire sobri se non sottotono: ap paiono insomma “in forma assennata”, come ha osservato Jacques Lucan6. Centrale appare invece la didattica, vista come componente imprescindibile nel percorso creativo di un architetto che progetta e costruisce. Non a caso la sezione “The practice of teaching” ci offre alcuni indimenticabili allestimenti: basti pensare a quello di Mario Botta. Ma è la piccola sezione “Close Encounter” a darci i segnali più importanti. Se, da una parte, nasce dalla comprensibile esigenza critica di illuminare gli ambiti meno frequentati della modernità, dall’altra, con la riscoperta di alcuni fra i più ambigui rappresentanti del Novecento e al tempo stesso fra i meno allineati all’ortodossia modernista, costituisce una chiara indicazione sui possibili fondamenti di una contemporaneità alternativa. Abbiamo detto che tale sezione consente di comprendere i temi compositivi in cui è radicato il lavoro di Farrell e MacNamara, e ciò vale sia per la loro attività progettuale sia, in particolare, per la selezione operata in occasione di questa Biennale. Ed è proprio ciò che si delinea con chiarezza quando, tassello dopo tassello, i visitatori vengono portati per mano, con lunghe didascalie espresse in forma di dialogo fra le stesse curatrici e gli architetti esposti, in un percorso, in particolare quello così ben allestito all’interno delle Corderie, costruito da una sequenza di architetture apparentemente disomogenee fra le loro, ma a ben guardare accomunate dall’esser disegnate e realizzate con magistrale professionalità, nel senso più alto del termine, all’interno di genealogie diverse quanto abbastanza facilmente riconducibili proprio al lavoro di quegli architetti linguisticamente più difficili e residuali del Novecento di cui si fa sommessamente cenno in “Close Encounter”. Su tutto spicca infine la mostra della Santa Sede, allestita, lontano dai Giardini e dall’Arsenale, in quel luogo magico, sospeso nel tempo fra acqua e cielo, all’ombra del più grande tempio di Andrea Palladio, che è il bosco all’estremità meridionale dell’isola di San Giorgio: qui le architetture si toccano con mano, ci si può entrare, ci si può sedere a meditare. Alcune di esse sono bellissime. Ci piacerebbe che non venissero demolite.
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1 Y. Farrell, S. MacNamara, Freespace - Manifesto, in Y. Farrell, S. MacNamara, Freespace, Biennale di Architettura 2018, Venezia 2018, pp. 51-52. 2 Ivi, p. 53. 3 Y. Farrell, S. MacNamara, Practice of Teaching - Il laboratorio dell’immaginazione, in Y. Farrell, S. MacNamara, Freespace, op. cit., p. 153. 4 Ibidem. 5 M. Cucinella, Editoriale, in “Domus, Padiglione Italia alla Biennale di Architettura di Venezia 2018”, suppl. a “Domus”, n. 1025, giugno 2018. 6 J. Lucan, Biennale di Venezia 2018, in “l’architetto. Speciale VIII Congresso nazionale CNAPPC”, luglio 2018.
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Crossing the border: la storia dell’arte nell’epoca della globalità MARIA GIOVANNA MANCINI
La disciplina della storia dell’arte non è rimasta estranea alle trasformazioni socio-politiche che hanno riscritto negli ultimi decenni la mappa globale. All’interno del dibattito più ampio degli studi culturali, gli storici dell’arte hanno risposto al problema di fare storia dell’arte all’epoca di una globale messa in discussione dei confini identitari con una costellazione di proposte teoriche: la storia dell’arte come storia materiale, come storia di simboli, il ripensamento dell’oggetto di studio e la centralità del l’immagine a discapito del suo residuo fisico, infine, l’emergere dell’interesse per il display, sono tutte risposte parziali a tale problema. Negli ultimi anni, dal momento in cui sembrano essersi normalizzate le trasformazioni radicali avviate dagli studi culturali e, più in generale, dall’affermarsi del paradigma postmoderno, nelle discipline umanistiche sta emergendo con forza la necessità di fare i conti con i sistemi di produzione di memoria. Gli storici per primi si sono interrogati sui metodi e le ragioni del boom recente della Global History e sulle radici dei concetti universalistici della storia dell’età moderna ancora, per certi versi, operativi. In ambito statunitense, lo storico Franz Fillafer avverte che nonostante il tentativo di tenere insieme, in una tavola sinottica, gli eventi globali, le nuove proposte si esauriscono in “pseudosinthetic global histories” e che la cosiddetta Global History nasconde una serie di “meta-narrative” ideologiche. Non è possibile, qui, per ragioni di sintesi, ricostruire esaustivamente le propo-
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ste teoriche su cui gli storici hanno lavorato negli ultimi anni, ma è utile ricordare il lavoro di Susan Buck-Morss [Hegel, Haiti and Universal History, 2015], studiosa di filosofia politica e teoria sociale, da sempre attenta anche alla teoria dell’arte, in cui afferma che i valori guida dell’Illuminismo, costruiti intorno alla centralità della controparte, costituiscono ancora la matrice della coscienza politica europea. Il volume si conclude con un accorato invito a liberarsi dalla forma dialettica che propone una cicli ca relazione tra vittime e aggressori in cui Hegel e Haiti, metafore di altri concetti quali razionalità e schiavitù, sono interdipendenti. Per la studiosa l’interpretazione storica si identifica con un lavoro di scavo che non va condotto superando i confini identitari bensì abolendoli. La questione identitaria non può essere più spiegata esclusivamente facendo riferimento al concetto rigido e conservatore di Nazione, poiché la trasformazione dell’idea di popolo, tradizionalmente inteso, risente più dell’espansione del mercato globale e dei costumi culturali che dei confini geografici e politici. Le questioni poste dagli storici, in particolare, quelle riferite al rapporto tra globale e locale e alla differenza tra il potere di produzione della storia tra le diverse parti del mondo interconnesso, possono tornare utili all’indagine metodologica nel campo della storia dell’arte. Allo storico dell’arte Hans Belting si deve l’approfondimento di queste tematiche fin dagli anni Ottanta, mentre va segnalata l’attività teorica pioneristica della rivista trentennale «Third Text», fondata a Londra nel 1987 da Rasheed Araeen. Tali lavori hanno alimentato la necessità, per la storia dell’arte e dell’immagine, di un discorso plurale che fosse consapevolmente critico rispetto alla narrativa occidentale-centrica. Sebbene molti studiosi abbiano contribuito alla pluralità dei punti di vista lavorando su argomenti del mondo contemporaneo e del passato con una metodologia aggiornata agli studi post-coloniali, manca una riflessione sul paradigma e sulla forma che dovrebbe assumere il racconto generale di una storia globale dell’arte. Non mancano, invece, risposte particolareggiate e metodologicamente ineccepibili in cui sono rintracciabili gli effetti della perdita di centralità dell’Occidente nell’assetto geopolitico e del crollo del monopolio culturale coloniale amplificati nel contesto ormai globalizzato
delle economie mondiali. La disciplina della storia dell’arte, nient’affatto estranea a tali trasformazioni, si è interrogata sui suoi strumenti e metodi, sulla loro obsolescenza e sulla necessità di rinnovarli. La riflessione metodologica, indirizzata alla necessità di una “messa in storia”, alla luce degli aggiornamenti disciplinari che gli studi culturali hanno prodotto nelle discipline umanistiche, emerge in ambiti differenti. Recentemente, l’indagine condotta da Lorenzo Mango a partire dalla necessità di costruire una Storia del Teatro del Novecento suggerisce agli storici dell’arte, al di là dei topoi disciplinari, alcune questioni fondamentali. Prima di tutto egli avverte che nonostante il secolo si sia chiuso da più di un decennio e, quindi, sia opportuno avviare un discorso generale sul Novecento attraverso l’individuazione di “direttrici dominanti”, la prossimità degli eventi non ha ancora permesso che si realizzasse stabilmente quella «“selezione naturale” che per altre stagioni della storia ha stabilito delle priorità tra gli eventi» [Mango, Appunti preliminari per una «messa in storia» del teatro del Novecento, in «Acting Archives Review», maggio 2017]. Lo studioso rivendica la necessità di fare scelte storiografiche precise e suggerisce di lavorare talvolta privilegiando l’idea della continuità, talvolta evidenziando il carattere discontinuo e frammentario delle esperienze che hanno prodotto uno scarto dal “canone”, in modo da inquadrare la questione dell’identità nella relazione tra le differenti direttive. La questione della cronologia e quella dello starting point della narrazione storica sono problemi nient’affatto formali, bensì fondativi, preliminari alla scelta di lavorare sullo scarto o sulla continuità. Nella sua disamina, costruita attraverso l’osservazione e l’individuazione di casi limite che contribuiscono a evidenziare gli aspetti metodologicamente rilevanti e critici di un modello ampio, inclusivo ed ecumenico, l’ipotesi a cui Mango approda deve misurarsi con una “forma aperta” che descrive lo statuto dell’oggetto d’indagine (nel suo caso la “forma teatro”, nel nostro caso la “forma arte”) a partire da una tradizione consolidata e che assume come valore, e non come un detrimento, la sua natura permeabile, dilatabile, ma che, allo stesso tempo, non rinnega del tutto la cornice istituzionale in cui s’inscrive.
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Mango, così, mette al riparo la sua opera dal rischio di impelagarsi in una infruttuosa operazione di definizione dell’oggetto di studio che nella migliore delle ipotesi offrirebbe solo un nuovo canone rigido. Nella storia dell’arte, a differenza di quanto lamenti Mango rispetto alla storia del teatro, nell’ultimo decennio sono state avanzate alcune ipotesi volte a strutturare una “messa in storia”. L’opera che ha risposto a un quesito analogo a quello che Lorenzo Mango pone rispetto alla storia del teatro del Novecento è senza dubbio Art since 1900 di Hal Foster, Rosalind Krauss, YveAlain Bois, Benjamin H.D. Buchloh pubblicata nel 2004 e nel 2010 aggiornata da David Joselit. A prova della risonanza globale sugli studi di storia dell’arte avuta dalla pubblicazione dell’opera monumentale degli autori che hanno animato l’importante rivista di teoria e critica newyorkese «October», va segnalata la traduzione nel giro di pochi anni in tutte le lingue europee: nel 2006 la prima edizione viene tradotta in Italia a cura di Elio Grazioli, nel 2015 appare anche una traduzione in russo. Al di là della possibilità di utilizzare il volume come manuale, l’interesse dimostrato per tale pubblicazione è scaturito dalla sempre più diffusa richiesta di una lettura capace di tessere la complessità degli avvenimenti in un racconto ampio e organico. La scansione temporale del volume per singoli anni è sembrata inizialmente un untile escamotage per sottolineare, anche visivamente, la sovrapposizione delle esperienze eterogenee. L’eterogeneità viene ulteriormente ribadita dalla presenza, in apertura del volume, di quattro premesse metodologiche che avvertono il lettore della pluralità di metodi d’indagine, di voci e, quindi, di punti di vista, adottati nella ricostruzione storica dai diversi autori del volume. Eppure, nonostante sia dichiarata fin dall’inizio la volontà di non adottare un punto di vista unico, il racconto è fortemente orientato da uno sguardo statunitense-centrico. In ambito europeo, invece, vanno segnalati i programmi del l’organizzazione berlinese Forum Transregionale Studien, fondata nel 2009 sotto gli auspici del Consiglio nazionale delle Scienze tedesco nell’ambito delle strategie di internazionalizzazione dettate dal Ministero federale per l’Educazione e la Ricerca con lo scopo di promuovere la ricerca scientifica e umanistica. Il Fo-
rum ha implementato una serie di attività di ricerca interdisciplinari relative all’arte, in particolare, il programma Art Histories and Aesthetic Practices. Kunstgeschichte und Ästhetische Praktiken, che vede la collaborazione anche del Kunsthistorisches Institute di Firenze. Il programma si costituisce come un luogo dialogico con lo scopo di sostenere la pratica plurale della storia dell’arte promuovendo approcci comparativi e sperimentando nuovi metodi e collaborazioni, e si articola in una serie di conferenze, pubblicazioni e fellowship che privilegiano gli studi postcoloniali e visuali in svariati contesti culturali e cronologie. Con una costante attenzione alle traduzioni e alla circolazione dei modelli artistici, dei materiali e delle tecniche, alle esposizioni e alle narrative a esse sottese, il programma si prefigge lo scopo di superare il dualismo tra un metodo formalistico e uno contestuale nell’interpretazione delle opere, promuovendo, piuttosto, pratiche che attraversano i confini disciplinari oltre che quelli geografici. Il Forum tedesco non si è fatto promotore di una pubblicazione collettiva e unitaria sul tema della Global Art History, ma la pluralità dei progetti, delle collaborazioni e delle linee di ricerca, costituite da riflessioni singolari, rappresenta nella sua totalità un’interessante risposta ai problemi metodologici che la questione della globalità pone agli storici dell’arte. Serva da esempio della pluralità di argomenti studiati citare le pubblicazioni più recenti Germany and the Ottoman Railways. Art, Empire, and Infrastructure di Peter Christensen e Praying for Myriad Virtues. On Ding Guanpeng’s The Buddha Preaching in the Berlin Collection di Ching-Ling Wang. Il dibattito internazionale sul tema della Global Art History è stato segnato da alcune importanti occasioni di confronto tra cui va indicato come momento pionieristico The Art Seminar del 2007 (promosso da University College Cork, Burren College of Art e School of Art Institute of Chicago) a cura di James Elkins dedicato al tema specifico della “Storia dell’arte come disciplina globale”. Elkins, sostenendo l’idea che la storia dell’arte è, o dovrebbe essere, «a single coherent enterprise throughout the world» [Elkins, Is Art History Global?, 2007], ha messo in evidenza la radice occidentale della storia dell’arte, il carattere della disciplina e la mappatura delle istituzioni, e il
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legame con le identità nazionali. Il suo studio sottolinea quanto la disciplina sia strettamente focalizzata su un “canone” a cui risponde un determinato gusto artistico e un numero selezionato di artisti. Elkins individua in modo sintetico l’aspetto più scivoloso e problematico della riflessione sulla storia dell’arte come pratica globale, affermando che la storia dell’arte è costruita su conceptual schemata occidentali: non solo in ogni parte del mondo si studia l’arte prodotta dall’Occidente come modello, ma le produzioni artistiche locali vengono interpretate alla luce di repertori, linguaggi e addirittura testi di riferimento occidentali. La cornice istituzionale in cui si studiano l’arte asiatica, cinese, africana o dell’America latina è la medesima che ha prodotto il “canone” occidentale. Il problema individuato prontamente da Elkins trova una sponda nella riflessione più ampia del sociologo portoghese Boaventura de Souta Santos che si chiede se è possibile un “non-Occidentalist West” e con esso smantellare le retoriche che sono dietro ai concetti speculari di orientalismo e occidentalismo. La storia dell’arte è orientata su un repertorio di concetti e strutture di pensiero che la caratterizzano come una disciplina occidentale. Per questo motivo più di recente, in occasione della Global Art Challenges Conference tenuta presso il MACBA di Barcellona nel 2016, si è proposto si sostituire al concetto di identità quello di Ecologies of Knowledges [de Souta Santos, Beyond Abyssal Thinking. From Global Lines to Ecologies of Knowledges in «Review», XXX-1, 2007], che tiene conto della coesistenza di differenti temporalità e durate nelle pratiche della conoscenza e che distingue tra idee e credenze tenendo nel giusto valore sia la dimensione singolare che quella collettiva. Nel 2011 la Clark Conference e il volume successivamente pubblicato dal titolo Art History in the wake of the Global Turn rivelano la condizione degli studi sull’argomento: a una parte preliminare di indagine teorica e riflessione metodologica seguono le specifiche ricerche volte a mappare il campo della storia dell’arte e riorientarla verso un consapevole multiculturalismo. Il punto di vista molteplice è indirizzato a scardinare le narrative coloniali. Arouna D’Souza, che cura il volume, mette in evidenza alcuni aspetti che imprescindibilmente devono orientare la rifles-
sione sulla Global Art History. Attraverso il ricorso a concetti diffusi dalle teorie poststrutturaliste di Derrida, e di cui probabilmente la forma dell’archivio è il modello più efficace, la curatrice punta la sua attenzione sulle relazioni di potere che i linguaggi, i discorsi e le discipline, hanno prodotto e continuano a produrre. In questo senso va raccolto l’avvertimento della persistenza delle retoriche occidentali anche nella pratica della Global Art History che reitererebbe i concetti autosufficienti di “west” e “non West”. La curatrice D’Souza, che recentemente si è occupata dei movimenti radicali afroamericani degli anni Sessanta, acutamente avverte gli studiosi interessati al confronto e allo scambio culturale su scala globale che il neoliberismo economico, che è il presupposto per l’allargamento dei confini disciplinari, va inteso oggi come una nuova forma di colonialismo. Remapping terrains, retelling time, il titolo di una sezione del volume, è un utile slogan che sottolinea il processo di trasformazione dei discorsi di cui la storia dell’arte deve farsi carico. Tra il 2011 e il 2012, la mostra The Global Contemporary. Art World after 1989, presso lo ZKM di Karlsruhe e il catalogo pubblicato nel corso dell’anno successivo, vanno considerati i momenti più importanti della produzione teorica sull’argomento. Nell’introduzione al corposo volume, a cura di Hans Belting e Andrea Buddensieg, che raccoglie le posizioni più avanzate, Peter Weibel, teorico e direttore del ZKM di Karlsruhe, discute del processo culturale dominante di occidentalizzazione e della possibilità di superarlo. Nello stesso volume, il celebre saggio di Hans Belting propone un’utile distinzione tra World Art e Global Art. Il teorico tedesco tra i primi ad interessarsi di Global Art History, avverte dei rischi, che emergono nella riflessione sul l’arte mondializzata o globale. L’etichetta dell’arte globale, infatti, potrebbe nascondere un processo di brandizzazione della produzione artistica che scaturisce dal predominio del mercato economico. La distinzione suggerita da Belting tra World Art e Global Art non è solo terminologica: World Art indicherebbe la produzione artistica di culture non occidentali e, allo stesso tempo, anche le forme escluse dalla categoria più ampia di Modern Art (che per sua natura è occidentale e garantita dal mercato ufficiale dell’arte), e il secondo termine, Global Art, indicherebbe
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quelle forme di produzione legate esclusivamente alle tendenze del mercato, ufficiale e occidentale, che, emerse alla fine degli anni Ottanta, replicano su scala globale una matrice artistica eurocentrica. La proposta di Belting è indirizzata a sostenere una forma di Global Art History rifondata alla luce degli studi postcoloniali, che non reiteri forme ideologiche di esclusione e censura. L’idea di una storia dell’arte globale è debitrice nei confronti di alcune esperienze storico-critiche, in particolare del progetto incompleto dell’atlante figurativo Mnemosyne di Aby Warburg (nel 1929, anno della sua morte, Warburg lasciò un menabò, alcuni appunti e le numerose tavole del Bilderatlas) e della proposta di una “Storia delle cose” di George Kubler [Kubler, The Shape of Time, 1962]. Decisamente differenti per metodo ed esiti, le teorie di entrambi gli studiosi hanno contribuito a una radicale apertura dei confini geografici e dei limiti cronologici dell’indagine storico-critica, e per la loro eccezionalità ancora oggi appaiono dei modelli fruttuosi. Negli ultimi anni la riflessione sulla pervasività del visuale, attraverso il ripensamento della tradizione della Bildwissenschaft, sembra orientare la storia dell’arte verso lo studio dell’immagine piuttosto che delle opere e degli artisti. L’universalità del visuale e dell’immagine sembrerebbe mettere al riparo la storia dell’arte, che si misura con la globalità del suo oggetto di ricerca e della circolazione delle sue idee, dal rischio di rimanere improduttivamente indirizzata allo studio di casi locali senza la possibilità di tessere i dati in una griglia teorica ampia. Allo stesso tempo, il rischio di schiacciare sul visuale – l’unico elemento universalmente compreso – i linguaggi compositi e le esperienze plurime dell’arte è concreto. Se a dover essere compreso non è un sapere di superficie, pur senza riproporre la ormai esausta contrapposizione tra un paradigma della visualità e uno della testualità, la storia dell’arte deve farsi “antropologia” cioè recuperare un pensiero della differenza. In accordo con quanto Belting ha sostenuto nella sua indagine, la sfida della storia dell’arte in una condizione globale deve riconsiderare le narrative occidentali con nuovi strumenti. Inoltre, sulla scorta della riflessione di Hans Belting, che rinuncia alla possibilità di fare storia dell’arte e opta
per un’antropologia dell’immagine, e cioè per una disciplina rinnovata che tiene in posizione centrale il nesso immagine-medium-corpo e rigenera radicalmente il discorso sui prodotti estetici ancorandoli all’uomo, si è individuato nel lavoro di Néstor Garcìa Canclini un punto interessante di contatto. L’indagine sociologica – e culturalista – è lo strumento privilegiato secondo Canclini per costruire un’antropologia che riposizioni, in termini critici, l’arte al centro dell’indagine sull’uomo e sulla sua socialità e delle mappe interculturali del sapere [Canclini, Art beyond Itself: Anthropology for a Society without a Story Line, 2004].
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La teoria in scena: Adolphe Appia CLARA FIORILLO
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Adolphe Appia era un bell’uomo vigoroso, dritto, svelto, ardito e timido, elegante e frusto, tutta la sua persona empita di un’animazione straordinaria, fluida per così dire, non come l’acqua ma come il fuoco, una fiamma diritta. Sempre animata e sempre diritta1. Fu questa l’immagine che il 28 ottobre del 1915 si scolpì nella mente di Jacques Copeau, ammiratore devoto del grande innovatore della scena teatrale del Novecento. Una immagine, questa, che riassume efficacemente non solo il sembiante di quello straordinario teorico che fu Appia, ma anche lo spirito, ardente e puro, che mosse la sua ricerca, come del resto lo stesso Copeau precisò, un attimo dopo, nella sua memoria: un essere perfettamente intatto e completamente devoto. Devoto alla propria ricerca, per se stessa, alla propria ispirazione; intatto da ogni lavoro servile2. I termini che adotta Copeau sono illuminanti: l’integrità e la devozione sono effettivamente i principi attorno a cui ruotarono la vita e l’arte di Appia, in un amalgama difficilmente districabile. Il dato biografico illumina sempre l’operato di un teorico, ma, nel caso di Appia, si può notare una fluidità tra dimensione quotidiana e dimensione artistica che rendono addirittura inevitabile questo confronto. L’ambiente in cui il giovane Adolphe si formò non può essere ignorato: un nonno pastore protestante, un padre calvinista convinto, una madre tutta dedita alla chiesa, una sorella missionaria, oltre a ben quattro pastori calvinisti rintracciabili tra i suoi parenti3. Era stato, dunque, questo l’ambiente
che Adolphe si trovò ad affrontare: un ambiente rigido, chiuso, assai lontano dalla sua naturale sensibilità, anche se non intenzionalmente freddo nei suoi riguardi. La balbuzie fu l’istintiva reazione nervosa a un mondo che l’opprimeva, ma che al tempo stesso era consustanziato in lui4. Il primato della spiritualità gli era, dunque, estremamente familiare: era di casa. Così come facevano parte del suo imprinting il rigore e il metodo, due attributi che hanno fatto affermare ad uno dei suoi massimi esegeti, Ferruccio Marotti, che quel che sembra più moderno nell’opera di Appia è il rigore della sua teoria, o meglio la teoria del suo rigore5. Questo rigore assume, nella sua opera, un volto inconfondibile: quello dei suoi celebri scenari astratti, sospesi, metafisici, fatti di stereometrici piccoli e grandi volumi che si intersecano, di pilastri che tagliano ritmicamente lo spazio, di rampe e di scale che si sollevano dal piano di palcoscenico, di mura imponenti, di tagli nella pietra, ma soprattutto di buio e di luce, di ombre che si allungano su ogni volume, di luci abbaglianti o di morbidi chiaroscuri che avvolgono, come nella nebbia, ogni forma. Queste sue rigorose, perfette architetture sceniche non avevano bisogno della realtà del palcoscenico: erano l’espressione immediata della sua concezione di arte teatrale. La fama di Appia, del resto, non è legata alle sue realizzazioni, ma alla sua elaborazione teorica: una posizione, questa, perfettamente coerente con il suo temperamento e con quella sua formazione votata più allo spirito che al corpo, più alla vita dell’arte che alla vita consumata nella quotidianità. La prova è fornita dalle stesse parole di Appia quando scriveva a Copeau: Non sono fatto, ahimè!, per l’azione diretta […] e mi devo rifugiare nella mina della mia matita6. Quel suo rifugiarsi lontano dai clamori delle ribalte avvenne in modo discreto e silenzioso: il distacco di Appia dal pratico lavoro del palcoscenico, infatti, come già notò Giulio Pacuvio, non ha niente da vedere con il distacco sdegnoso e ribelle di un Gordon Craig, sempre un po’ affetto da qualche linea di febbre titanica; Appia in fondo, anche nella sua opera di novatore, non fu ribelle7. Ma ciò che lascia attoniti è che quella volontaria reclusione nel mondo dell’arte e dello spirito avvenisse mentre attorno a lui rumorosamente ribollivano o già infuria-
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vano i venti delle avanguardie primonovecentesche. Del perché di quella scelta è ancora Pacuvio a offrire la ragione: Appia, giunto nel colmo di un periodo di tumultuose esperienze teatrali, quando ancora i vagheggiamenti romantici si mischiavano alle violenze naturalistiche, il verismo al decorativismo barocco, in una confusione di linguaggi che ancora dura, si è tirato in disparte per vederci chiaro, per riscoprirsi pacatamente la legge e l’essenza vera del teatro8. In una sua nota critica, Vito Pandolfi, che considerava quella di Appia l’opera teorica ideologicamente più considerevole e più compiuta del teatro contemporaneo9, offriva anche, in poche laconiche battute, un quadro pressoché completo del suo limitato impegno nella realtà del teatro: egli preparò le scenografie per molte fra le maggiori opere di Wagner, tuttavia i primi allestimenti che poté curare personalmente furono per il Manfred di Schumann e la Carmen di Bizet a Parigi nel 1903. Per lunghi anni, a partire dal 1911, egli insegnò alla scuola di danza di E. Jaques-Dalcroze a Hellerau, preparando anche la messa in scena di alcuni balletti della scuola. È del 1923 la esperienza scaligera con il Tristano e Isotta. L’ostilità in quel l’occasione fu tanta che la sua opera venne sfigurata e sminui ta al punto da renderla irriconoscibile10. E questo clamoroso insuccesso milanese dovette riecheggiare a lungo se ancora nel febbraio del 1924 la graffiante penna di Raffaele Calzini, sulle pagine di “Comœdia”, ironicamente rievocava la cocente delusione del grande artista: Quando venne a Milano, in ottobre, per i primi lavori di messa in scena era pur felice come un ragazzo: l’autunno lombardo raddolciva le sue vene e circondava di una aureola rosea le difficoltà che si opponevano alla realizzazione delle sue teorie. Quando, un mese fa, critica e pubblico sommersero nella derisione del ridicolo il tentativo geniale, nessuno apparve più triste, più umiliato di questo poe ta della scena. Consolazioni di amici, prudenti parole per mitigare l’insuccesso, non valsero a salvarlo da un’ondata di sconforto. In un attimo vedeva sfasciarsi il sogno della sua vita, la stessa sua vita ideale; disperso il frutto di pazienti ricerche, cancellate ideazioni e illusioni. […] L’autore de “L’oeu vre d’art vivant” camminava passo passo chiuso nel suo mo-
desto abito di turista (calzoni corti e calzettoni) lacrimando silenziosamente come un bambino11. Ma l’episodio scaligero merita di essere letto solo come un trascurabile incidente di percorso, una specie di equivoco, una ennesima prova di come la prassi faccia fatica a star dietro alla teoria, ma anche di come la genialità venga talvolta fraintesa e misconosciuta. In Italia, però, qualche decennio più tardi, il 27 gennaio del 1951, la cultura teatrale celebrava la grandezza di Appia con l’esposizione di 58 scenografie al Teatro Eliseo di Roma. L’evento veniva così commentato su “Teatro Scenario”: Adolphe Appia è giunto attraverso la sua opera a creare una classicità che è tutta fondata sulle leggi di un costruttivismo sostanziale. Veduta a distanza di oltre venti anni dalla sua conclusione, quest’opera appare oggi come uno degli apporti essenziali alla storia della moderna regia12. Quella sua singolare visione della messa in scena teatrale, per lungo tempo apprezzata essenzialmente dagli specialisti, veniva finalmente presentata per la prima volta in Italia13 e spiegata al grande pubblico, con una conferenza di Edmund Stadler e un allestimento dei disegni di scena curato da Ugo Blätter. Di quei celebri disegni in bianco e nero occorre ribadire che essi non erano che il corollario di una teoria che rimane unica nella storia del teatro, perché è riuscita a strutturare l’estetica della rappresentazione teatrale sia interpretando spazialmente i principi drammaturgici di Wagner, sia rielaborando in modo originale e dando una dimensione scenica alle teorie di Schopenhauer sulla musica e sull’architettura, nonché facendo confluire nella messa in scena le moderne innovazioni dell’euritmica di JacquesDalcroze. Per quanto riguarda l’incontro ideale con l’opera di Wagner, va riconosciuto che effettivamente esso, come notò Pacuvio, finì per gettare un equivoco su di lui, per farlo considerare soltanto come un illustratore ed un decoratore delle opere wagneriane14 e va ribadito che la visione del teatro di Appia […] sorpassa la visione wagneriana, per vagheggiare piuttosto una forma “totale” di teatro, che assommasse e distruggesse in sé ogni distinzione di genere15. Appia, per rinnovare il teatro, aveva fondamentalmente lavorato su due categorie elementari e terribilmente complesse: il
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tempo e lo spazio. Le due categorie della vita – e le arti che ne sono la massima espressione, musica ed architettura – vennero trattate da Appia assumendo il punto di vista di Schopenhauer, il quale aveva chiarito che la musica […] conosce solo il tempo, essendo questo la sua condizione immediata, ma niente di ciò che nel tempo accade16 e aveva messo in evidenza che essa è d’una precisione, d’una chiarezza insuperabili. Somiglia, in ciò, ai numeri e alle figure geometriche17. Essa esprime l’elemento metafisico del mondo fisico18. È questa l’idea di musica che, con Appia, approda sulle tavole del palcoscenico e che diventa motore dell’intera messa in scena: ogni elemento, animato come l’attore o inanimato come la scenografia, viene guidato dalla musica. Nella sua opera, Appia spiega come non il tempo della musica, ma la musica in quanto Tempo, sovrintenda alla dimensione estetica di ogni componente della messa in scena: la musica non si limita a dare al dramma l’elemento espressivo, – egli scrive – ma ne fissa anche perentoriamente la durata; si può dunque affermare che dal punto di vista della rappresentazione la musica è il Tempo. E non intendo con questo una “durata nel tempo”, bensì il Tempo stesso19. La riflessione sulla musica, nella teorizzazione di Appia, conduce a un definitivo chiarimento sulla contrapposizione tra mondo della quotidianità e mondo dell’arte e sull’incidenza che la dimensione quotidiana ha sui generi teatrali: nel dramma parlato – egli precisa – è la vita che procura agli interpreti gli esempi di durata (Tempo); l’autore non può fissare la durata della parola, […] Nel dramma del poeta musicista, al contrario, la durata è fissata rigorosamente […] per mezzo della musica, la quale altera le proporzioni che sarebbero state fornite dalla vita. […] La musica, alterando la durata della parola, altera le proporzioni dei gesti, delle evoluzioni, della scena: l’intero spettacolo risulta così trasposto20. Da questa singolare dialettica tra le componenti della scena, coordinate dalla musica, emerge un valore del dramma che si rivela unico: la sua capacità di esprimere una durata nuova: quella del dramma interiore21. Ma come può mai rivelarsi, sul piano della concretezza scenica, questo “miracolo” dell’espressione del dramma interiore? Su questo punto, Appia mette in campo un sofisticato ragiona-
mento filosofico sul rapporto tra l’attore e lo spazio, questa volta mutuato dalla teorizzazione di Schopenhauer sull’architettura. L’incipit della dimostrazione di Appia è che “l’idea di spazio” sia data dai movimenti del corpo, proporzionati alle durate musicali22, poiché il corpo è l’interprete della musica presso le forme inanimate e sorde23. Lo scopo di Appia è quello di arrivare a una definizione di scena teatrale come spazio costruito, fatto di pure forme stereometriche, eppure vibranti di vita, perché animate dal corpo del l’attore. Egli tende, cioè, a una scena davvero vivente, perché generata da un conflitto “necessario”, quello tra un corpo mobile, cangiante, che disegna curve e linee nello spazio, e una materia che, con la sua rigidità, contrasta e, allo stesso tempo, esalta la mobilità del corpo. L’arte scenica, per Appia – così come l’arte architettonica, per Schopenhauer – si genera, insomma, attraverso il “conflitto”. Occorre ricordare che Schopenhauer sosteneva che il compito dell’architettura, quando vuol farsi arte, è quello di far risaltare nel modo più vario e più evidente24 il conflitto che si consuma nella materia della costruzione, ossia l’acerrima lotta tra il peso e la rigidità. Per il filosofo, la bellezza dell’Architettura stava nel rendere evidente il suo opporsi alle forze della Natura25. Con ragionamento analogo, nella teoria di Appia, la vita dello spazio scenico si genera mediante il contrasto tra forme costruite e corpo dell’attore: per ricevere dal corpo vivente la sua parte di vita, – scrive Appia – lo spazio deve fare opposizione a questo corpo. […] D’altra parte, è l’opposizione del corpo che anima le forme dello spazio26. Più avanti Appia sembra trascinare ideal mente il lettore in una sala teatrale e mettergli sotto gli occhi un quadro scenico in cui campeggia un semplice elemento di architettura – un pilastro –, di quelli che egli stesso aveva tante volte disegnato, al quale si accosta un corpo umano, col compito di portare alla vita la materia inerte: supponiamo di avere un pilastro verticale quadrato dagli spigoli nettamente marcati. […] Esso dà un’impressione di stabilità e di resistenza. Un corpo vi si avvicina. Dal contrasto fra il movimento di quest’ultimo e l’immobilità tranquilla del pilastro scaturisce già una sensazione di vita espressiva, che il corpo senza pilastro, e il pila-
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stro senza quel corpo che viene avanti, non avrebbero mai ottenuto. […] Ma ecco che il corpo tocca il pilastro; l’opposizione si accentua ulteriormente. Infine il corpo si appoggia al pilastro, la cui immobilità offre a quello un solido punto d’appoggio: il pilastro resiste. Esso agisce! L’opposizione ha creato la vita della forma inanimata: lo spazio è divenuto vivente!27. Ma Appia, per provare la verità e la bellezza di questo conflitto, ricorre ad una dimostrazione ad absurdum, proprio come aveva fatto Schopenahuer per rendere evidente il vero compito dell’architettura. Anche qui va ricordato che Schopenhauer, nella sua trattazione, era ricorso all’immagine paradossale di un edificio che, abbandonato alla sua tendenza naturale, sarebbe apparso come una massa compatta, premente al massimo sul suolo, su cui lo spinge inesorabilmente il peso, per poi dimostrare come l’architettura impedisca la manifestazione immediata della naturale legge della gravità28. Schopenhauer aveva ragionato, inoltre, sugli effetti illusorii della materia e sulla conseguente caduta del godimento estetico al cospetto di un edificio che esibisse una apparente solidità, come nel caso di una costruzione che sembra di pietra, ma è fatta, invece, di leggera pietra pomice. Analogamente Appia aveva voluto offrire al lettore le immagini assurde di un pilastro “molle” e di un terreno elastico, che non opponevano resistenza al gesto umano: supponiamo ora che il pilastro sia solido solo in apparenza, e che il materiale che lo compone al minimo contatto estraneo possa adattarsi alla forma del corpo che lo tocca. Il corpo vivente penetrerebbe, in tal caso, nella materia molle del pilastro, e vi seppellirebbe la sua vita. Nello stesso tempo ucciderebbe il pilastro. […] La stessa esperienza potrebbe essere fatta con […] un terreno elastico che lasciasse affondare il piede ad ogni passo, ma che si risollevasse subito dopo per ricomporre la sua superficie uniforme. […] Se questo terreno […] si trasforma invece in lastre solide che, al contrario, aspettano il piede per resistergli, per fornirgli nuovo slancio ad ogni passo, e prepararlo ad un’altra resistenza, questo terreno, allora, con la sua rigidità finisce per coinvolgere tutto l’organismo nella volontà di camminare. È opponendosi alla Vita che il terreno può riceverla dal corpo, come il pilastro29. Ed ecco che Appia abbrac-
cia definitivamente il principio introdotto da Schopenhauer affermando: il principio della pesantezza e quello della rigidità sono dunque le condizioni prime per l’esistenza di uno spazio vivente30. Questo breve attraversamento del pensiero filosofico di Appia non deve ingannare: le sue idee astratte e i suoi disegni metafisici, infatti, non sono rimasti nel limbo della pura teoria e della immaginazione visionaria, ma sono riusciti a irrompere nello spazio fisico del teatro, se già dalle pagine di “Sipario” del 1951 veniva messo in evidenza che certi moduli di Appia sono facilmente riconoscibili nel sintetismo plastico di Bragaglia e dei primi futuristi, nella spoliazione mistica di Copeau, persino nello scheletrico e drammatico espressionismo dei tedeschi e dei russi31. E ancora oggi, nelle più avanzate espressioni di una scenografia contemporanea fatta di volumi plastici e di luci in movimento è forse possibile leggere, in filigrana, l’indelebile impronta di quella rivoluzione estetica della scena inaugurata da Appia. Ma non bisogna dimenticare che le idee di architettura della scena e di arte drammatica, concepite da Appia, andavano molto al di là delle tavole di un palcoscenico. A tal proposito, Marotti ha scritto che per Appia il teatro del futuro non è il futuro del teatro32. Il fine ultimo dell’elaborazione teorica di Appia è stato, infatti, l’avvento di un mondo nuovo, in cui l’arte del teatro, come nell’edenica età dell’oro, potesse tornare a far parte della più ampia arte della vita, nella pacificante indistinzione di spettatore e attore, poiché, come egli scrisse, l’arte drammatica di domani sarà un atto sociale33. E, nella sua utopica prefigurazione, un luogo specifico, la sala, appariva come il simbolo della società futura: la struttura dei nostri teatri – dichiarò Appia – deve evolversi verso una concezione più libera e agile dell’arte drammatica. Prima o poi arriveremo a quel che si chiamerà la sala, cattedrale dell’avvenire, che accoglierà le manifestazioni più diverse della nostra vita sociale e artistica in uno spazio libero, vasto, trasformabile, e sarà il luogo per eccellenza in cui l’arte drammatica fiorirà – con o senza spettatori34. Giustamente, nelle parole di Appia, Luca Basso Peressut ha ravvisato un presagio miesiano di spazio architettonico real-
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mente moderno: certo il teatro, ma allo stesso tempo il museo, la biblioteca, ecc., inverati nella forma dell’aula, hall, halle, performabile e adattabile, grande tema di architettura d’interni vista come scena di vita comunitaria35. Da questo punto di vista, l’utopia di Appia non solo non va intesa come una fuga dalla realtà, ma va accolta come il concreto miraggio di un teatro e di un’architettura del futuro da riempire incessantemente con i valori della contemporaneità, come, ancora una volta, ha lucidamente fatto notare Basso Peressut quando ha scritto: un discorso utopico e un disegno visionario e s-misurato (cioè privo di scala umana immediatamente percepibile), con un livello di inconoscibilità che ne accresce il mistero ma anche le potenzialità interpretative, i gradi di libertà reinventiva che ne fanno un “magazzino” di idee mai finito, entro cui pescare per possibili continue rielaborazioni sempre attuali e utili alla pratica teorica del fare architettura36. Credo, allora, che ancora oggi valga il giudizio che espresse Giulio Pacuvio su quello straordinario “calvinista”, rigido e rinunciatario37 che fu Appia: compì la sua opera silenziosamente appartato, indifferente alla scarsa popolarità che circondava il suo nome […]. La sua opera è andata per rivoli nascosti ad alimentare tante sorgenti; ma non si è dispersa, non si è corrotta nel tempo tutta animata com’è di una profonda, pacata serenità38.
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1 J. Copeau, Il luogo del teatro, a cura di M.I. Aliverti, La casa Usher, Firenze 1988, p. 173. 2 Ibidem. 3 Cfr. F. Marotti, L’itinerario di Adolphe Appia, in A. Appia, Attore musica e scena. La messa in scena del dramma wagneriano, pref. e cura di F. Marotti, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 21-22. 4 Ivi, p. 22. 5 F. Marotti, Prefazione, in A. Appia, Attore musica e scena, cit., p. 8. 6 La frase di Adolphe Appia è riportata in J. Copeau, Il luogo del teatro, cit., p. 190. 7 G. Pacuvio, La lezione di Appia, in “Sipario”, a. VI, n. 59, marzo 1951, p. 25. 8 Ibidem. 9 V. Pandolfi, Regia e registi nel teatro moderno, Cappelli, Rocca San Casciano 1961, p. 33.
Ivi, p. 32. R. Calzini, Via Appia, in “Comœdia”, a. VI, n. 8, 10 febbraio 1924,
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p. 28. Don Marzio, Una mostra di scene di Appia, in “Teatro Scenario”, a. XV, n. 3, 1-15 febbraio 1951, p. 38. 13 Ibidem. 14 G. Pacuvio, La lezione di Appia, cit., p. 25. 15 Ibidem. 16 A. Schopenhauer, L’arte della musica, trad. it. e cura di F. Crocetti, Clinamen, Firenze 2003, p. 29. 17 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di G. Riconda, trad. it. di N. Palanga, Mursia, Milano, 1982, p. 304. 18 Ivi, p. 305. 19 A. Appia, La messa in scena del dramma wagneriano, in Attore, musica e scena, cit., pp. 63-64. 20 Ivi, p. 64. 21 Ivi, p. 65. 22 A. Appia, L’opera d’arte vivente, in Id., Attore musica e scena, cit., p. 184. 23 Ibidem. 24 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., p. 253. 25 Sul pensiero di Schopenhauer in rapporto all’architettura, mi si consenta di rinviare a C. Fiorillo, György Lukács e la doppia mimesi dell’architettura, in A. Alison (a cura di), Per una Filosofia dell’Interno Architettonico, Diogene Edizioni, Campobasso 2017. 26 A. Appia, L’opera d’arte vivente, cit., p. 186. 27 Ibidem. 28 Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., p. 254. 29 Cfr. A. Appia, L’opera d’arte vivente, cit., pp. 186-187. 30 Ivi, p. 187. 31 G. Pacuvio, La lezione di Appia, cit., p. 26. 32 F. Marotti, Prefazione, cit., p. 17. 33 A. Appia, Seconda prefazione a “La musica e la messa in scena”, in Id., Attore musica e scena, cit., pp. 161-162. 34 Ivi, p. 161. 35 L. Basso Peressut, Prefazione, in P. Salvadeo, Adolphe Appia, 1906 / Spazi ritmici, Alinea, Firenze 2006, p. 5. 36 Ibidem. 37 G. Pacuvio, La lezione di Appia, cit., p. 26. 38 Ibidem. 12
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Libri, riviste e mostre
Cesare de Seta, La civiltà architettonica in Italia dal 1945 a oggi, Longanesi, Milano 2017.
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Sul Novecento Cesare de Seta si era già soffermato, precocemente, con il volume sull’architettura, apparso nel 1981 per i tipi dell’UTET nella collana di “Storia dell’arte in Italia” diretta da Ferdinando Bologna, e con quello sugli architetti, con i ritratti critici dei principali protagonisti, edito da Laterza nel 1982. Da quella data si è registrata una crescente produzione storiografica specificamente dedicata alla seconda metà del secolo, con i contributi di Tafuri nel 1982 e 1986, di Belluzzi e Conforti nel 1985 e 1994, di Dal Co (a cura di) nel 1997, di Benevolo nel 1998 o con i capitoli finali di Fontana nel 1999, per limitarci ai più noti. Piuttosto che con tali precedenti, il nuovo libro del l’autore si pone tuttavia in ideale continuità con La cultura architettonica in Italia tra le due guerre, pionieristico e fondamentale saggio pubblicato nel 1972 e più volte riedito: continuità in primo luogo cronologica, in quanto l’esposizione parte dal 1945, all’indomani della
fine del conflitto mondiale, per arrivare all’attualità, completando così l’arco temporale del “secolo breve” e valicando anche la soglia del terzo millennio. Soprattutto, il fil rouge che lega le due opere, a quarantacinque anni di distanza, è metodologico, con forti analogie, accanto a poche, ma significative, differenze. Le prime risiedono nell’approccio adottato da de Seta, che si rapporta costantemente allo scenario storico, dove economia, società e politica costituiscono lo sfondo ineludibile dei fenomeni propriamente architettonici. Inoltre, la trattazione non si limita a una rassegna di edifici e progetti, ma si estende a riviste, libri, mostre, intrecciando letteratura, arti figurative, cinema, inchieste giornalistiche, iniziative editoriali. E se già nel 1972 de Seta aveva volutamente sconfinato dai ristretti limiti disciplinari per avvicinarsi a un’autentica Kulturgeschichte, come d’altronde lo stesso titolo enunciava con franchezza, qui, sostituendo la parola “civiltà” a “cultura”, il richiamo burckhardtiano appare ancora più evidente. Ciò non vuol dire che la ricostruzione del contesto prevalga sull’esame delle opere o
che si perda il contatto con le architetture, descritte anzi da de Seta con l’occhio attento di un “viaggiatore colto” – di un Cicerone si sarebbe tentati di dire, proseguendo l’analogia – che esplora l’accidentato territorio dell’architettura attraverso la penisola. Fin qui quello che accomuna i due testi. In questo caso, però, de Seta si trova ad affrontare vicende a lui più vicine, direttamente note, se non addirittura personalmente vissute, per cui l’accorciarsi della distanza storica interviene nell’equilibrio tra storiografia e critica a tutto vantaggio di quest’ultima, come dimostrano le selezioni nette operate e i giudizi espliciti che l’autorevolezza raggiunta gli consente di formulare senza reticenze. Inoltre, il periodo si rivela innegabilmente più complesso, nel senso di più frantumato e confuso: una situazione che si accentua quanto più ci avviciniamo al presente, sicché persino il quadro storico, ancora ben leggibile a scala nazionale nel periodo della ricostruzione postbellica e del boom economico, con le tensioni, gli ideali e gli interessi che lo innervavano, si appanna all’approssimarsi dell’era della globalizzazione. Procedendo a un’anatomia più dettagliata, il volume si articola in cinque capitoli, dedicati ad altrettante fasi della vicenda architettonica in Italia: Il secondo dopoguerra, La tradizione e il rinnovamento, Dal miracolo economico alla crisi del sessantotto, Dal tramonto dei maestri alle nuove generazioni, La koinè linguistica nell’era della globalizzazione. Nell’intitolazione dei paragrafi prevalgono i nomi dei principali interpreti della vicenda architettonica italiana, ma accanto ad essi figurano nel testo numerosi altri autori, estendendo il repertorio dei ri-
ferimenti. Chiude il volume una corposa Bibliografia a cura di Marco de Napoli, sia generale, sia riferita a regioni e città o a singoli autori, limitatamente a volumi e a numeri monografici di riviste. Non essendo possibile riassumere i contenuti del libro, ci limiteremo a porre in evidenza alcune delle posizioni critiche che lo caratterizzano. Per quel momento, assai difficile, ma pieno di entusiasmi e di speranze, rappresentato dalla ricostruzione del dopoguerra, il resoconto di de Seta appare privo di qualunque tentazione retorica, segnalando, piuttosto, una continuità con l’architettura del ventennio fascista determinata dalla stessa continuità biografica di alcuni dei suoi protagonisti, dello schieramento modernista come di quello accademico. Naturalmente, l’attenzione prevalente di de Seta è rivolta alla continuità razionalista, sulla scorta della grande eredità di Persico e di Pagano, nei confronti dei rigurgiti del versante accademico che, comunque, dopo una breve fase di oscuramento o di farsesca epurazione, riconquistò tutto il suo potere nella scuola e nella professione. In maniera analogamente lucida e disincantata viene illustrata la “scoperta” dell’architettura organica, la cui esplosione, effimera e contraddittoria, è sospinta dalla sua presunta equivalenza con gli ideali della democrazia, e altrettanto cauto è il giudizio sul neorealismo, in grado di rivelare un’anima regionalistica, bene espressa nel Manuale dell’Architetto di Calcaprina e Ridolfi, con il suo intento di rielaborare le tipologie consacrate da secoli di anonima sperimentazione, ritornare all’interesse per un artigianato che è di per sé un atto di fede e d’amore per il lavoro ben fatto, ma
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anche esposta al rischio di oltrepassare il sottile confine tra realismo e populismo, autentica trappola scattata negli ambienti della capitale. Le coordinate cronologiche sono scandite da eventi storici di natura eteronoma – dal Piano Fanfani del ’49 alla morte di Croce nel ’52 all’invasione dell’Ungheria nel ’56 – mentre quelle geografiche superano la quasi esclusiva polarizzazione, an ch’essa ereditata dall’anteguerra, tra Roma (adesso la Roma di “Metron” e poi de “L’architettura cronache e storia”) e la Milano di “Domus” e “Casabella”, tra l’APAO e il MSA, integrandovi altri poli, come la Torino del Gruppo Pagano e di Gabetti e Isola, la Firenze di Michelucci e de “La Nuova Città” e poi, a mano a mano, la Sicilia, ma anche la Venezia, di Samonà e la Napoli di Cosenza. E proprio questa più articolata geografia, confermata pure nei capitoli successivi, rappresenta la cifra distintiva del volume e uno dei suoi non pochi meriti. Nella sintesi di de Seta, il 1957 conclude non solo il settennio del programma per l’edilizia economica e popolare, ma un ciclo culturale, contestualmente aprendo alla rivelazione del miracolo economico. Nell’ambito della cultura architettonica, si tratta, per l’autore, di una nuova fase: È usurata la tematica urbanistica del quartiere come cellula comunitaria alternativa al disordine urbano; si va disfacendo il manierismo neorealista e organicista: un linguaggio che era un’ammucchiata di Wright, empirismo scandinavo, neorealismo populista con un pizzico di scienze sociali di marca neopositivista. Giganteggia quella cultura milanese riunita intorno a Rogers e a “Casabella” rimasta indenne dal contagio, la quale, assumendo quale tema por-
tante la continuità intesa come coscienza storica, termine inserito a mo’ di programmatica bandiera nel sottotitolo della rivista, si rivela l’unica in grado di portare un autentico contributo, originale, alla rinsecchita pianta del Movimento Moderno europeo. L’idea di continuità sottende un atteggiamento di dialogo con la storia e con le preesistenze, ma anche con i maestri del Movimento Moderno e con la tradizione recente (il Liberty anzitutto), dove individuare valenze inespresse da recuperare. Come tale, essa travalica lo stesso Rogers e i BBPR improntando, sebbene con formule diverse, un’intera stagione dell’architettura italiana, con personalità come Albini, Gabetti e Isola, Gardella, Scarpa. Il lungo viaggio attraverso gli anni del miracolo economico non è meno edificante di quello, divenuto classico, all’interno delle istituzioni fasciste. Certo, non mancano esempi virtuosi del capitalismo italiano negli anni della sua massima espansione, come per la committenza illuminata di Adriano Olivetti (le fabbriche di Figini e Pollini e del già citato Cosenza, le mense di Gardella) o dell’ENI di Enrico Mattei (con il complesso a San Donato Milanese di Nizzoli e Oliveri e il Villaggio di Corte di Cadore di Gellner), come anche per le prove della grande ingegneria, con Nervi e Morandi. Ma il bilancio di questa fase, nel volume di de Seta, presenta un saldo negativo: anzitutto per lo scadere nel più becero professionismo da parte di molti architetti, disposti ad accettare il ruolo marginale, esornativo, riservatogli dal capitalismo italiano, pur di accedere alla grande committenza pubblica o privata; poi per il “sacco urbanistico” del Belpaese, tra fenomeni di specu-
lazione edilizia, consumo selvaggio di suolo, turisticizzazione delle coste, disfacimento del paesaggio, abbandono e spopolamento dei borghi. L’Italia democratica, nata dalla Resistenza, offre nella gestione della città e del territorio un’immagine di scandalosa sopraffazione dell’interesse collettivo. Il vero fatto nuovo di questo periodo è la questione urbanistica, tradottasi in una sfida in gran parte perduta. Già dalla fine degli anni Cinquanta, con i quartieri a scala urbana e paesistica, come il Forte Quezzi di Daneri a Genova, dall’“architettura nella città” si passa all’“architettura della città”. Sarà questa la tematica dominante negli anni a venire, dimostrazione che nel gran frastuono di voci teorizzanti, i tecnigrafi si arrugginiscono e gli architetti cominciano ad avvertire la precarietà della loro complessiva strumentazione professionale. Si profila una nuova figura di tecnico, l’urbanista, distinto e separato dall’architetto, e l’interesse per l’architettura declina, o almeno cede il passo, nell’attenzione generale del pubblico, ai metodi e alle strumentazioni per la gestione del territorio. Non manca la dovuta considerazione per alcuni fermenti che vengono a manifestarsi: uno sperimentalismo impaziente e non del tutto risolto è una condizione particolare dell’architettura negli anni Sessanta e ha una simmetrica rispondenza nel tentativo di sprovincializzazione che in questa fase vive la cultura italiana. Ma, arrivati alla seconda metà degli anni Sessanta, si assiste all’affermazione di interessi extradisciplinari che prendono un autentico sopravvento nel dibattito, fino a monopolizzarlo: il primato della politica sarà vincente su tutta la linea nel Sessantotto,
sebbene con scarsi esiti palingenetici nel Paese, anzi spesso con uno smarrimento di rotta da parte della classe professionale; e qui l’analisi si interseca con la crisi delle Facoltà di Architettura e con il magro risultato conseguito dai movimenti di contestazione giovanile. Con originale lettura, al trauma del Sessantotto e al clima delle utopie urbane tipico di quegli anni, solitamente identificato con i gruppi radicali fiorentini, viene ricondotta da de Seta anche la linea calvinista e rigorista di Aldo Rossi, assimilata a un’utopia metastorica nel corpo della città italiana. Sottraendolo a un ruolo di outsider assoluto, a Rossi viene assegnata la giusta collocazione come ultimo erede della lezione rogersiana, rileggendone l’apporto in difesa di un’autonomia dell’architettura, che dall’analisi tipologica muratoriana approda all’illuminismo metafisico dei suoi progetti e disegni di architettura, realizzato al meglio nel Cimitero di San Cataldo a Modena o nel poetico e spaesante Teatro del mondo. Diversamente, si sollevano riserve nei confronti di alcuni esiti della lezione rossiana presso i suoi “compagni di strada”, come per la scientificità tipologica esasperata di Giorgio Grassi e per il suo discutibile “restauro” del Teatro romano di Sagunto. Peraltro, le posizioni di de Seta, che fanno di questo libro un saggio di critica militante, oltre che nei giudizi espressi senza infingimenti – come sull’intervento di Gae Aulenti per la stazione della metropolitana di piazza Dante a Napoli – si evincono dai pesi e dagli spazi riservati ai singoli architetti: dieci righe dedicate a Saverio Muratori (del cui metodo di ricerca tipologica si cita la meno riuscita sede della Democrazia Cristiana all’EUR a preferenza
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del “merlato” edificio ENPAS a Bologna o della “romanica” chiesa di San Giovanni al Gatano a Pisa), rispetto alle quasi cinque pagine riservate a Guido Canali. Analogamente, tra i temi, si prediligono il teatro e soprattutto il museo, autentico banco di prova della cultura architettonica degli ultimi decenni, non solo in Italia. Come anticipato, nella parte finale lo sfondo storico-politico sfuma per concentrare l’attenzione sulle singole personalità, di cui si ripercorre la parabola trasformativa secondo itinerari individuali che si dipartono da posizioni diverse: dal neorealismo (Fiorentino e Aymonino) o dall’organicismo (Sartogo), dalla storia, come ambito disciplinare (Benevolo e Portoghesi) o come memoria e reperto (Anselmi), dal disegno (Purini e Thermes), dalla tecnologia (Valle), per citare solo alcuni esempi. In una più inclusiva “geografia” dell’architettura italiana, ampio spazio è riservato ai napoletani, come Cosenza, Cocchia, De Luca, presenza che cresce nell’ultimo capitolo (cinque sui dieci considerati), annoverando Capobianco, Pica Ciamarra, Pagliara, Loris Rossi, Venezia, la cui diversità di poetica conferma la completa dissoluzione di scuole e tradizioni locali. A profilarsi è l’emergere di figure isolate in un contesto globalizzato, ma anche l’assoluta assenza di una politica nazionale a sostegno dell’architettura italiana. Un debole motivo di ottimismo sembrerebbe offerto dalla nomina di Renzo Piano a senatore della Repubblica, se interpretato come sintomo di una rinascente considerazione dello Stato nei confronti dell’architettura. Ma lo stesso de Seta ci avverte che “una rondine non fa primavera”. C. L.
Osvaldo Borsani, a cura di Norman Foster e Tommaso Fantoni. In collaborazione con Norman Foster Foundation e Archivio Osvaldo Borsani. Triennale di Milano, 16 maggio - 16 settembre 2018. Quando noi usavamo il vocabolo “design” lo facevamo con rispetto profondo perché si nominava un nuovo modo di pensare e di costruire: era una parola che usavamo solo noi, gli addetti ai lavori mentre tentavamo, muovendoci in un contesto sordo e difficile, di spiegare, introdurre, divulgare i metodi della progettazione applicata all’industria. Oggi non usiamo più questo vocabolo, talmente è volgarizzato, talmente è usato a proposito e sproposito, che a volte siamo in sospetto. Noi non siamo fatti per lavorare nel capito e nel l’acquisito, cerchiamo nuovi modi e perciò per nominare nuove cose occorrono nuovi vocaboli. Si conclude con queste parole, tratte da un’intervista rilasciata ad Ottagono (1973), il percorso della mostra dedicata ad Osvaldo Borsani. Una riflessione sulla parola “design” che diventa manifesto e sintesi perfetta di quello che il visitatore ha appena avuto modo di osservare: il design inteso come pensiero, ricerca, disegno, progetto, dettaglio e pura espressione di una cultura industriale capace di integrare alla perfezione tecnica, estetica e produzione in serie. Una bianca struttura composta di moduli cubici alla Sol LeWitt, su cui campeggia un neon che riproduce la firma di Borsani, si propone come una quinta che introduce alla retrospettiva prima con lo sguardo e poi fisicamente. Un sistema leggero che si dispiega lungo il lato destro
della curva del pian terreno della Triennale alzandosi, abbassandosi, facendosi ampio o restringendosi per ospitare i 300 oggetti (tra cui poltrone, tavoli, sedie, luci, ma anche opere d’arte) che rappresentano la parte “fisica” di questo ricchissimo allestimento. Sulla parte interna, appese alla parete curva, 500 cornici fanno da contrappunto grafico alla narrazione degli oggetti e ospitano bozzetti, schizzi, disegni tecnici e fotografie. Tutti i materiali grafici in mostra sono stati selezionati da Tommaso Fantoni, nipote di Osvaldo, tra il materiale che appartiene all’archivio dell’azienda di famiglia, mentre il sistema di allestimento modulare è stato progettato da Norman Foster. In un primo momento l’architetto inglese era stato contattato dall’Archivio Borsani per la ricerca di materiale sulla serie NOMOS, arredi per ufficio disegnati da Foster e prodotti da Tecno negli anni ’80, e successivamente è stato coinvolto nell’organizzazione della mostra e incaricato di realizzare l’allestimento. La mostra è organizzata seguendo l’ordine cronologico della storia dell’azienda della famiglia Borsani. Si parte con gli anni ’20, quando Osvaldo, ancora sedicenne e studente all’Accademia di Belle Arti, inizia a collaborare all’azienda del padre, la “Atelier di Varedo di Gaetano Borsani” fondata nel 1923. L’arredamento realizzato dall’Atelier di Varedo in questi anni si inserisce nella tradizione artigiana brianzola, ma con un’apertura ad un gusto essenziale e geometrico, in linea con le tendenze più Art Deco di influenza europea. Dopo la maturità artistica, Osvaldo si iscrive alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, dove si laurea nel ’37. In questi anni diventa subito evidente la sua
vocazione verso tutto ciò che è avanguardia, tecnologia e innovazione. È ancora studente universitario quando nel 1933 progetta, insieme all’architetto Cairoli e all’ingegner Varisco, la “Casa Minima”, presentata come progetto totale della Atelier di Varedo alla V Triennale di Milano. Il progetto riflette a pieno l’interesse di Osvaldo per l’architettura moderna e i mobili presentati esprimono i caratteri del razionalismo: linee pulite ed essenziali, decorazioni sempre più astratte, e un’attenzione particolare anche alla questione economica derivante dai cicli di lavorazione e dall’utilizzo di materiali innovativi. La partecipazione alla V Triennale segna un punto di svolta nella concezione dell’attività artigianale dell’azienda, e arriva quasi contemporaneamente all’evoluzione del marchio aziendale e all’apertura di un negozio-studio di progettazione in Via Montenapoleone 6 a Milano, che diventerà ben presto un punto di incontro per artisti e rappresentanti della borghesia cittadina ai quali la ABV (Arredamenti Borsani Varedo) si rivolge. La produzione degli anni ’30 e ’40 si concentra principalmente sugli interni residenziali, che vedono anche la collaborazione con alcuni importanti artisti come Agenore Fabbri, Fausto Melotti, Arnaldo Pomodoro e, in particolar modo, Lucio Fontana. Gli arredi proposti integrano sapienza artigiana e creatività artistica, dove l’arte interviene direttamente sul progetto di arredo e il mobile è parte di un sistema che propone una visione nuova dello spazio. In questa sezione della mostra vengono proposti molti disegni, realizzati anche in scala al vero, che bene illustrano l’attenzione e la cura per il dettaglio tecnico e per la scelta del materiale più adatto alla realiz-
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zazione dell’elemento di arredo. Negli schizzi di Borsani prendono vita spazi arredati con mobili sottili, leggeri, essenziali, illuminati dalle grandi forme sinuose di gesso e stucco di Lucio Fontana. Gli interni della ABV si propongono come uno stile di vita, sono accoglienti, semplici, ma allo stesso tempo raffinati: tutto questo è evidente nelle fotografie degli interni realizzati in quel periodo, che richiamano l’immaginario profuso dal mondo delle riviste di moda e ancor più da quello del cinema. Nel 1943 Osvaldo Borsani progetta e realizza a Varedo la casa di famiglia, accanto all’azienda. L’abitazione, che in occasione della mostra è aperta al pubblico e visitabile, ha un impianto razionalista e rappresenta a pieno l’idea di spazio quotidiano immaginata da Osvaldo Borsani: un interno rigoroso, ma estremamente curato e ricercato in ogni dettaglio, che mette silenziosamente in mostra l’abilità tecnica e, allo stesso tempo, accoglie l’estro del gesto artistico che sottolinea la ricchezza di questi spazi pacati. Percorrendo con lo sguardo lo svolgersi degli elementi di arredo in mostra diventa evidente che, a mano a mano che il tempo passa, le forme si fanno sempre più essenziali e leggere, ma si percepisce che la semplicità dell’oggetto è il frutto di un lento e paziente lavoro che trova le sue radici nell’abilità artigiana, ma anche nella capacità di guardare sempre avanti, d saper cogliere le tendenze del gusto e nel coraggio di investire sul futuro. L’oggetto che chiude simbolicamente questa prima parte della mostra è il divano P/ D71, mentre una grande T rossa sospesa nell’aria introduce alla seconda parte. Nel 1953 Osvaldo, insieme al fratello gemello Fulgenzio, tra-
sforma l’azienda artigiana di famiglia in quella che diventerà un’industria riconosciuta in tutto il mondo: nasce la Tecno, un’idea d’azienda che prende il nome dalla “techne” dei greci che significa tanto arte quanto tecnica. Nasce il pensiero Tecno: la sintesi perfetta tra l’esperienza artigianale dell’atelier e la sua declinazione su una scala più grande, che si concede nuovi orizzonti di mercato e maggiore capacità di innovazione progettuale. Questo momento di cambiamento è sottolineato ancora una volta da una partecipazione alla Triennale di Milano, la X edizione del 1954, dove Borsani, come per la “Casa Minima” del ’33, progetta il “Padiglione per Esposizione di Mobili in Serie”, un piccolo edificio rialzato da terra, largamente finestrato e con un unico grande ambiente che si articola in tre rami. I vari ambienti sono separati da partizioni leggere e sono completamente arredati con i modelli della nuova produzione Tecno, tra i quali il famoso divano D70, che è la sintesi della sua visione progettuale in cui l’eleganza della forma incontra la tecnologia industriale e che verrà premiato con la Medaglia d’Oro. Nel 1956 la Tecno riceve una commessa per arredare gli interni del nuovo Palazzo SNAM. Inizia qui il passaggio verso la produzione di arredi per lo spazio ufficio, che però è la logica continuazione del progetto di spazi interni fino ad ora realizzati: interni semplici, rigorosi, ma dinamici e all’avanguardia per materiali e tecnologia. Questa idea è alla base anche del progetto Graphis, un sistema per uffici modulare pensato “per il grande numero” e che Borsani descrive come “una tipologia che fosse in sé poco caratterizzante e quindi adatta secondo i
più attuali criteri ad un impiego indifferenziato: dal direttore d’ufficio, all’impiegato, all’usciere”. Una visione di design democratico, come verrebbe definita oggi, che si riflette anche sulla scelta del ’70 di costituire il Centro Progetti Tecno, che vede la figura di Borsani come punto di riferimento, ma che privilegia l’idea di collaborazione tra persone diverse in favore della promozione del marchio Tecno, affinché divenga e costituisca esso stesso sinonimo di qualità globale. La mostra si chiude con il sistema di arredo Nomos, progettato da Norman Foster nel 1985 e premiato due anni dopo con il Compasso d’Oro. L’impressione che si ha alla fine di questa mostra è quella di aver imparato che la lentezza, la pazienza e la costanza producono sempre risultati eccellenti, in grado di durare nel tempo e di adattarsi ad ogni situazione. Guardando la carrellata di disegni, schizzi, ma soprattutto degli oggetti selezionati, si riconosce sempre un minimo comun denominatore: la qualità altissima di ogni gesto e di ogni prodotto. Una menzione particolare va al catalogo curato da Giampiero Bosoni ed edito da Skira. Esaustivo in ogni dettaglio, con più di 1500 immagini e con molti interessanti testi di approfondimento, il catalogo racconta la complessità e la ricchezza della figura di “Osvaldo Borsani - Architetto, designer, imprenditore”, ben sintetizzata della definizione di Norman Foster durante la presentazione della mostra: se riflettiamo sui 60 anni di carriera di Osvaldo Borsani ci rendiamo conto che lui ha fatto tutto: ha progettato, ha realizzato pezzi unici come sculture, ha creato sistemi per applicazioni di massa; ha creato fabbriche e le ha gestite, ha fatto l’imprenditore
e ha creato un marchio, prima ancora che la parola brand venisse usata. I. P. Eduardo Vittoria. Studi Ricerche Pro getti, Napoli, Palazzo Gravina, 12-31 luglio 2018. Ricercare in Eduardo Vittoria una chiave interpretativa della personalità è una tentazione a cui subito conviene rinunciare per la inafferrabilità del baricentro. Nel l’impossibilità di isolare in lui un nucleo centrale di interessi, dato il loro estendersi secondo un giuoco di interconnessioni che genera una sostanziale continuità nel territorio investito dal suo pensiero, è intuibile un retroterra intellettuale indubbiamente complesso, congeniale alla sua persona; dove però questa complessità interiorizzata e sfuggente trova modo di esternarsi attraverso una sorprendente semplicità e chiarezza di linguaggio comunicativo, parlato e scritto che sia. Un accostamento di componenti contraddittorie nella struttura della sua personalità che si ritrova in un’altra convivenza di opposti: la atmosfera rarefatta di certo vagabondare contemplativo, speculativo e letterario al livello di pensiero, e la concretezza pratica nell’agire organizzativo e nelle capacità “manageriali”. Con queste parole Enzo Frateili nel 1995, nel tracciare un Profilo per congetture di Eduardo Vittoria nella monografia a lui dedicata curata da Giovanni Guazzo, avvia un’attenta riflessione sulla sua poetica e sul significato complessivo della sua opera, in cui non è possibile riscontrare alcuna differenza tra il lavoro teorico e la prassi progettuale, fon-
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dandosi la sua attività su un “pensiero progettante”, sempre sospeso tra le ragioni del fare e la tensione speculativa. Nato a Napoli nel 1923, nel 1947 si laurea presso la facoltà di Architettura di Napoli con Luigi Piccinato, discutendo un progetto di tesi per una comunità urbana nei Campi Flegrei. Dopo una breve ma intensa collaborazione con Luigi Cosenza, con il quale firma alcuni importanti progetti nel campo dell’edilizia residenziale pubblica, nel 1951 si trasferisce ad Ivrea come consulente di Adriano Olivetti, iniziando una lunga ed importante collaborazione con l’azienda canavese che si protrarrà fino agli inizi degli anni ’70. Alla metà degli Settanta, chiuso lo studio di Roma, si dedica a tempo pieno all’impegno politico ed universitario, intraprendendo una nuova e non meno esaltante stagione della sua carriera di progettista che lo vedrà attivo fino ai primi anni del Duemila nella organizzazione della Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno che aveva fondato nel 1992 su incarico del ministro Antonio Ruberti e dove lascerà il germe di una piccola ma importante scuola di Disegno Industriale. La mostra Eduardo Vittoria. Studi Ricerche Progetti, allestita nel l’Ambulacro della Biblioteca di Palazzo Gravina, sede storica della facoltà di Architettura di Napoli, costituisce una parziale ma importante occasione per poter riflettere, per la prima volta, su materiali inediti del l’attività progettuale di Eduardo Vittoria, individuando alcuni nuclei di pensiero che ben rappresentano l’originalità del suo contributo come architetto, docente e uomo di cultura impegnato nelle istituzioni politiche ed universitarie. I disegni, le foto, gli scritti e i
progetti esposti provengono da due fonti distinte. Un archivio conservato dal professor Giovanni Guazzo, storico collaboratore di Vittoria, in cui sono stati reperiti i progetti realizzati negli anni della collaborazione con Adriano Olivetti ad Ivrea e quelli realizzati tra gli anni sessanta e settanta, prima nello studio di Milano e poi in quello di Roma. L’altro fondo di riferimento è quello che Vittoria custodiva nello studio privato delle sue residenze di Roma e di Capri. La mostra si propone di dare testimonianza dell’intensa attività intellettuale e civile di Vittoria nella consapevolezza della difficoltà di distinguere in modo netto l’impegno teorico da quello progettuale, l’attività di insegnamento da quella politica e culturale, un’attività improntata ad una costante tensione alla ricerca, intesa come campo delle condizioni e delle soluzioni nuove, dove ambiente, paesaggio, forma elementare, dimensione dell’abitare e dimensione industriale sono ricomposte mediante una sensibilità epistemologica ed un’intenzionalità progettante. La mostra non ha un carattere antologico ma intende proporre, a fronte del grande repertorio di documenti, grafici, scritti, minute, diapositive e fotografie, un approccio nuovo allo studio, alla trasmissione e alla valorizzazione del suo lascito. La scelta curatoriale si è orientata, infatti, verso la selezione di studi, ricerche e progetti esemplari, che lasciano intravedere la ricchezza, la diversità e la consistenza dei materiali su cui si è avviato il lavoro di censimento, archiviazione e digitalizzazione. Al tempo stesso tale selezione costituisce un nucleo di riflessione volto a stimolare una rinnovata attenzione alla Sua vicenda
ed inaugurare percorsi interpretativi della Sua opera, alla luce di quelle tematiche contemporanee che stabiliscono nuove relazioni tra natura, tecnica e trasformazioni dell’ambiente costruito. L’esposizione si articola in due sezioni; la prima, costituita da disegni di studio ed elaborati grafici inediti relativi a dodici progetti sviluppati nell’arco di vent’anni, si focalizza su tre temi peculiari della sua attività di architetto, designer e urbanista: l’architettura industriale degli anni olivettiani, la produzione di modelli e prodotti per l’industria, la sperimentazione sullo spazio abitativo modulare. L’altra sezione, costituita da scritti, schizzi, fotografie, racconta dell’impegno intellettuale di Vittoria in un arco di quasi mezzo secolo su temi che spaziano dalla progettazione del paesaggio all’invenzione della Tecnologia dell’architettura come nuova disciplina del progetto, dalla declinazione dei temi ambientali nel campo dell’architettura e dell’industrial design all’anticipazione di approcci progettuali adattivi in contesti socio-tecnici caratterizzati dall’incertezza e dalla complessità. La sezione espositiva dedicata ai progetti olivettiani presenta alcuni disegni di studio per il Centro Ricerche ed Esperienze (1951), la Copertura del cortile delle officine “Nuova I.C.O.” (1956), la Centrale impianti industriali I.C.O. (1956), gli stabilimenti del nuovo complesso di San Bernardo (1955-62) ed il complesso industriale di Scarmagno (1962-70) realizzato in collaborazione con Marco Zanuso; la parte dedicata al secondo tema raccoglie i disegni di alcuni modelli di televisori portatili per la Triplex, il prototipo di una poltrona basculante realizzato per la Tecno, uno studio di elementi com-
ponibili per arredi basati sull’idea di multiplo per abitare e disegni e fotografie relativi alla cura e all’allestimento della sezione italiana per la XV edizione della Triennale di Milano del 1973 che Vittoria aveva dedicato al tema dello “spazio vuoto dell’habitat”. L’ultima parte della mostra presenta alcuni disegni per la Casa Natura (1964), La Stanza dei Giochi (1965), i prototipi di Unità abitative realizzate per la Soprefin (1967-69) e per le tre unità residenziali realizzate a Capri (1962-65) che esplicitano la sua ricerca ed attenzione sul tema della casa tipo, modulare, ampliabile ed aggregabile nel paesaggio naturale. La carriera di Eduardo Vittoria è sicuramente segnata dalla importante esperienza umana e professionale svolta ad Ivrea sotto la guida di Adriano Olivetti. Qui, insieme ad un gruppo di architetti di una generazione immediatamente precedente (Quaroni, Gardella, Ridolfi, Figini e Pollini) diede vita con il suo lavoro ad uno dei paesaggi industriali più affascinanti e significativi della storia dell’architettura, non solo italiana, del Novecento, riconosciuto lo scorso luglio come sito patrimonio dell’UNESCO. Adriano Olivetti aveva colto nel giovane architetto napoletano le qualità giuste per incarnare la sua visione produttiva e comunitaria ed i suoi ideali urbanistici. Vittoria possedeva quelle qualità tecnico-architettoniche, dialogiche ed umanistiche che gli hanno consentito di integrare una continua e sempre più affinata ricerca tecnologica con una capacità di lettura e di comprensione dell’ambiente e del paesaggio nel quale collocare le sue fabbriche. Gli anni “olivettiani”, durante i quali ebbe modo di collaborare con ingegneri, tecnici e designers di as-
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soluto livello come Natale Capellaro, Ettore Sottsass e Marcello Nizzoli, rappresentano il milieu culturale entro cui matura la sua curiosità per il “paesaggio industriale” e per la “tecnologia” che ha alimentato nel tempo un atteggiamento intellettuale che guardava criticamente al concetto dominante di produttività e che ritrovava nella “fatticità”, intesa come capacità trasformativa propria dell’uomo-artigiano, le tracce di un’inventività industriale e di una nuova cultura materiale. In alcuni scritti della metà degli anni Cinquanta, Vittoria rivendicava la positività del valore della “letteratura”, dello “scrivere correttamente e con intelligenza” per far uscire l’architettura italiana dall’ambigua aspirazione alla “poesia” che ne aveva impedito lo sviluppo per quasi un secolo, e considerava la cultura industriale, quasi assente in Italia, una condizione per lo sviluppo non solo tecnico del paese, ma come la sola possibilità di sostituire ai tradizionali “detentori di sapere” i nuovi “produttori di lavoro”. Una fabbrica, intesa come luogo del lavoro, costituiva per Vittoria in primo luogo una macchina che non poteva consentirsi concessioni di tipo formale, nella quale il “fatto tecnico” aveva un’indiscutibile preminenza sulle altre condizioni di progetto, e tutto, forma, spazi, materiali, strumentazioni, percorsi, servizi, doveva essere risolto in funzione del suo migliore uso. In virtù di tali posizioni, Vittoria è stato spesso definito un “architetto della tecnologia” che ha saputo ricondurre la cultura industriale alle ragioni dell’architettura senza formalizzarla in un nuovo stile o in nuovo linguaggio, guardando alla Tecnologia nella sua dimensione inventiva, metodologica e sperimenta-
le in un momento in cui la produzione industriale stava trasformando i modi, le forme ed i processi del progetto dello spazio abitabile. M. P. Roberta Amirante, Il progetto come prodotto di ricerca. Un’ipotesi, LetteraVentidue, Siracusa 2018. Otto sedicesimi, tascabile (12 × 16.5 cm), sta in una mano. Collana Alleli/TXT di LetteraVentidue dedicata a raccogliere saggi brevi di docenti universitari, si tratta di progetto di architettura, eventi e ricerca universitaria. Il progetto come prodotto di ricerca, ci risiamo?! Il titolo non mi dice niente di nuovo, anzi l’ho già sentito diverse volte, sembra suonare ormai come un mantra tra i ricercatori italiani che si occupano di progetto (di architettura, urbano, di paesaggio, nelle loro diverse accezioni, scale e varianti); finiremo per convincercene senza aver capito granché; siamo appunto nel l’epoca della post-verità, e il fatto stesso che una proposizione sia enunciata, ripetuta, riaffiori frequentemente nei discorsi, riecheggi sui social, sia volente o nolente masticata un po’ da tutti, la rende vera, scontata, diffusamente accettata: il progetto è un prodotto della ricerca, chi si prenderebbe la briga di negarlo? Del resto lo dice anche l’agenzia di valutazione dell’università e della ricerca; ma questo ci basta? Mi viene da osservare che tempo fa si parlava di progetto come strumento della ricerca, da un po’ il prodotto ha preso il posto dello strumento; tempora, mores, i concetti si modificano, come le idee (quando ci sono) e gli slogan, e le parole che galleggiano nella liquidità contemporanea
si arenano o trovano nuovi approdi incastonandosi in proposizioni diverse. Questo è interessante. Meno interessante è quanto abbiamo sentito ultimamente, circa i requisiti che il progetto dovrebbe soddisfare per essere considerato come prodotto della ricerca e per essere valutabile come tale. Ne abbiamo sentite di tutti i colori. Sarà stato necessario scrivere questo libriccino? E ancora di più, sarà necessario, utile, o anche solo piacevole leggerlo? Sono perplesso. A toccare le mie corde, più del titolo che ne aveva smorzato le vibrazioni, è il sottotitolo, un’ipotesi, che timidamente si affaccia sulla copertina in corpo minore. Questo non è un assertivo libro di ricette, qui si ipotizza. D’accordo … Cominciamo! Ecco l’indice: una breve premessa, giusta, due pagine, e tre capitoli. Noto subito che la tripartizione dantesca (conosco l’autrice e infatti troverò riferimenti espliciti a tale struttura in coda alla premessa e in una delle rare note al testo) pecca in simmetria: il secondo capitolo è lungo circa il doppio del primo, mentre il terzo è circa un terzo del secondo; a questo punto mi aspetto di ritrovarvi un primo movimento allegro, seguito da un adagio e da un finale presto. Bene, le corde vibrano, faccio vibrare anche le pagine alla rapida ricerca di una bibliografia in coda al testo, ma niente! Nessuna traccia di alcun apparato; stiamo parlando di ricerca scientifica, di prodotti, di valutazioni, di criteri per la valutare un progetto come prodotto della ricerca? In luogo della bibliografia trovo due pagine e mezzo di ringraziamenti: persone e non lavori (prodotti?) scientifici; mi si affaccia alla mente l’immagine dell’analogia proposta da Etienne-Louis Boullée tra il suo progetto per una biblioteca
e la Scuola d’Atene di Raffaello, tra i libri che documentano e preservano il sapere e la comunità di sapienti che quel sapere ha prodotto. Vuoi vedere che …? Forse la mia immaginazione sta correndo troppo, ma si parva licet componere magnis, vuoi vedere che la comunità dei sapienti, ancorché ristretta, con qualche intruso (se consideriamo soglie rigorosamente disciplinari), e tuttavia potenzialmente e sperabilmente in espansione, ha un peso rilevante? Vuoi vedere che la valutazione dei prodotti si intreccia con la valutazione dei membri della comunità e soprattutto con l’autovalutazione che la comunità scientifica è capace di produrre di se stessa? Vuoi vedere … tante cose? Vuoi vedere che conviene mettere da parte la matita rossa e blu e mettersi finalmente comodi per leggere il testo? Tanto più che in coda ai ringraziamenti, l’autrice ammette di essere in debito per l’omissione di una bibliografia di riferimento e rimanda alla prima nota al secondo capitolo, nella quale, come vedremo, si giustifica l’assenza di tale apparato come pure la totale assenza di note al testo nel primo e nel terzo capitolo. Un testo scientifico senza note; mi viene in mente per contrasto Notes on Conceptual Architecture: Towards a Definition (Peter Eisenman, New York 1970), un articolo fatto solo di note, senza testo; digressione probabilmente interessante, che mi limito a suggerire, ma che non percorrerò qui. Nonostante abbia deciso di rilassarmi, non mi rassegno a questa sfacciata indisciplina e provo ancora a ricondurre a uno specifico genere letterario questo breve saggio che si mostra recalcitrante a ogni tentativo di incasellamento. A un primo sguardo a macchia di leopardo ap-
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pare come uno zibaldone di pensieri e tuttavia si intuisce subito che per dimensioni, ma soprattutto per l’ordine del discorso e per la chiara definizione di uno specifico settore di interesse, oltre che di un preciso target di lettori, e di una dichiarata finalità, anche pratica, non può essere considerato tale. La narrazione, in prima persona e con significativi riferimenti autobiografici, sembra ricordare a tratti un flusso di coscienza, ma è decisamente troppo controllata per lasciarsi andare alla deriva assecondando una corrente. È più un monologo, magari non solo interiore, ma in netta contraddizione con la natura del monologo, non sembra non attendere risposte o osservazioni critiche, anzi invita decisamente a intessere un dialogo a più voci, a quante più voci possibile. Sicuramente non ha lo spirito del cahier de doléances, anche se in qualche modo accoglie il discontento, le lamentele, le perplessità, quando non i timori, di quanti, in occasione di una delle campagne di valutazione alle quali l’intera comunità scientifica periodicamente si sottopone, vorrebbero cedere alla tentazione di presentare finalmente un progetto come prodotto della ricerca, ma che immancabilmente finiscono per rinunciarvi, ammonendo se stessi con un “ma chi me lo fa fare?”. A volte suona come un rappel à l’ordre, ma vuole essere troppo bottom-up per configurarsi come tale e inoltre non sembra invitare a una pausa di riflessione, quanto piuttosto a una azione di riflessione, forse in opposizione a uno stallo che rischia di essere una pausa del pensiero, il perdurare di una condizione di svantaggio che l’autrice mira a ribaltare in una posizione di vantaggio, senza peraltro alcuna ambizio-
ne revanscista nei confronti di altre discipline e comunità scientifiche. Più moderatamente, ma in verità solo a proposito dell’articolo Abduzione e valutazione che l’autrice aveva già pubblicato (in «Op. cit.», 150, maggio 2014) e che costituisce – come vedremo – la fonte primaria che dà origine al Il progetto come prodotto di ricerca, è la stessa Amirante a precisare che «l’articolo si configura come una sorta di appello. Ma niente a che vedere con gli squilli di tromba o con gli I want you di una chiamata alle armi. Può essere piuttosto paragonato a una specie di (allegro?) scampanellio che chiama a raccolta quelli che lo sentono, lo riconoscono, e di buon grado sono disposti ad accostarsi (a chi l’appello lo lancia, ma soprattutto gli uni agli altri)»; ma anche questa definizione non è esaustiva: il libro è qualcosa di più dell’articolo, e anche l’articolo in effetti è qualcosa di più di un appello. È finalmente ancora l’autrice a suggerire (sempre nella cruciale prima nota al testo e poi passim) la definizione di pamphlet. Sembra convincente: il testo è breve, coraggioso, si rivolge a molti (a tutti gli addetti ai lavori), costa poco, pochissimo (un euro a sedicesimo, più cinquanta centesimi per la copertina), più o meno quanto le fotocopie per riprodurlo illegalmente, come ci ricorda l’editore. Sembra convincente, ma contraddice il carattere tipico del pamphlet se consideriamo che è pervaso dall’entusiasmo, è straordinariamente ottimista (forse fin troppo), e non è neanche un po’ incazzato, satirico, non vi è cenno di invettive, nemmeno l’ombra di una vis polemica. Considerato il contesto, come l’Amirante ci riesca ha del miracoloso, ma io non credo ai miracoli, credo piuttosto nelle strategie e
nell’ossimorica calma inquietudine dell’autrice ne riconosco una che mi sembra fondata sull’unico punto di partenza perché oggi possa essere efficace, così come spero. Questo testo quindi non aderisce appieno a nessuno dei generi letterari presi in esame, ma li ibrida un po’ tutti, mescolandone i caratteri. E alla fine è più ordinato di quanto appaia dalla presentazione che finora ne ho fatto. Il primo capitolo, Progetto e ricerca, presenta il tema – sostanzialmente quello di dare possibili risposte al problema di come ammettere il progetto tra i prodotti della ricerca e di come valutarlo, se non proprio oggettivamente, attraverso procedure verificate intersoggettivamente – chiarisce quindi le finalità e l’ambito di validità del discorso che si conduce, individuando i destinatari del ragionamento nei membri di una comunità scientifica, formalmente definita dagli universitari italiani strutturati nel macro-settore 08/D1 della Progettazione Architettonica. Il secondo capitolo, Abduzione e valutazione, ripropone, non solo nel titolo, l’articolo già apparso su «Op. cit.»; ne costituisce di fatto una riscrittura in forma di [auto-]citazioni e chiose, così come è nell’uso di questa rivista, e in prima battuta sembra voler assolvere a due compiti fondamentali. Il primo sarebbe quello di rinnovare quell’appello che, se non era proprio caduto nel vuoto, non aveva probabilmente sollecitato le reazioni attese dall’autrice, forse perché «un po’ criptico» e poi squisitamente speculativo e non così esplicito nel rappresentare le ricadute in termini pratici; secondo il feedback di diversi lettori «non si capiva a sufficienza non solo a chi ma soprattutto a che cosa servisse». Il secondo, strettamente intrecciato
con il primo, sarebbe stato quello di spiegare meglio l’articolo originario e, in verità, il lungo commento a un testo a firma della stessa autrice, sembrerebbe configurarsi addirittura come una interpretazione autentica. Questo capitolo, che riconduce l’agire progettuale a un fare propriamente scientifico attraverso il ricorso all’inferenza dell’abduzione, costituisce il fondamento epistemologico delle argomentazioni con le quali si sostiene che il progetto è prodotto della ricerca e che come tale può essere valutato. Ma c’era davvero bisogno di tale interpretazione autentica? Si tratta di pura autoreferenzialità? O di testardaggine? Magari condita con una punta di vanità? L’autrice prova ad alleggerire il peso di questi sospetti, gioca a carte scoperte, in fondo non pretende che i lettori vadano necessariamente a leggersi l’articolo originario, e addirittura in qualche modo ci propone la possibilità di saltare a piè pari quello che può essere il capitolo più ostico, per andare direttamente alle conclusioni, anche pratiche, del terzo e ultimo capitolo, il paradiso, nell’analogia con la tripartizione dantesca. Ma mi piacerebbe spingermi più a fondo. Non mi cimenterò in una riflessione al cubo, la spiegazione della spiegazione della spiegazione, avventurandomi vanamente su un terreno troppo accidentato per essere percorso nelle poche battute che ancora mi restano da scrivere, ma questo esercizio di mise en abîme del proprio testo, già richiamato dalla Amirante a proposito della sua esperienza del doppio ruolo di valutata e di valutatrice (esperienza che oggi in qualche modo condividiamo tutti), è decisamente qualcosa di diverso da un esercizio di vanità. Intanto a proposito dell’interpretazio-
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ne autentica, ancorché la Amirante faccia esplicito riferimento alla prassi dei giuristi, c’è da essere sicuri che l’intento dell’autrice è quanto di più lontano dal voler inchiodare l’articolo originario ad una spiegazione ultima, retroattiva, di un testo solido che ha valore di sentenza; anzi lo spirito con cui condivide appunti, note, chiose, riflessioni, facendo letteralmente a pezzi il proprio pezzo, sembra proprio quello di voler invitare i lettori a corrompere il testo, a sfilacciarlo e a ricomporlo, contaminandolo. E allora, vuoi vedere che…? Vuoi vedere che questo esercizio è un esercizio di apertura e non di chiusura? Vuoi vedere che questo esercizio di mise en abîme è una prima prova, una sperimentazione hic et nunc, senza indugi, di quello che l’autrice ci proporrà di fare nel capitolo successivo, e cioè di trovare il modo di riproporre i nostri progetti/prodotti sezionandoli e accompagnandoli con commenti che ne costituiscano una spiegazione che ne consenta finalmente una valutazione? Vuoi vedere che l’autrice sta testando su se stessa la propria abduzione, il proprio prodotto, la propria ipotesi (quella del sottotitolo che mi aveva convinto a leggere questo libro)? Proprio come il dottor Jekyll, che sperimenta su se stesso i propri intrugli accettando di sottoporsi in prima persona alla prova della propria ricerca! Sì, e fortunatamente con esiti più felici del gotico personaggio di Robert Louis Stevenson. Questo esercizio di spiegazione e di autovalutazione è quindi pienamente incastonato nel disegno del libro, non ne è solo lo spunto, ma anche in qualche modo la sperimentazione in vivo. Certo, ad essere fatto a pezzi non è un prodotto progetto, che non sarebbe stato immedia-
tamente compatibile con la natura del testo, ma comunque un prodotto che, attraverso un artificio, diventa contemporaneamente prodotto da valutare e strumento della sua valutazione. E allora procediamo verso le conclusioni. Il terzo capitolo mutua il titolo dalla nota opera di Vladimir Il’ic] Ul’janov, che a sua volta riprendeva il Che fare? del romanzo di Nikolaj Gavrilovic] C}ernyševskij (ancora una mise en abîme?). Siamo al finale presto, si ricompongono esposizioni, sviluppi, code e codette, si riannodano fili spezzati, ma soprattutto si riconduce il tutto a possibili ricadute concrete. Facciamo una rivista! Ecco l’esortazione dell’autrice. Superfluo dire che il format della rivista non sarà riconducibile a nessuno dei modelli già in essere; dovrà essere permanentemente rivoluzionario. Ma la rivista, Roberta non potrà farla da sola, anzi non è affatto detto che la faccia lei, e in ogni caso bisognerà che sia fatta a più mani, a quante più mani possibile. Le questioni sollevate sono tante e restano aperte, impossibile percorrerle tutte; se dal coacervo di appunti, note, ragionamenti, dovessi estrarre quelle che mi sembrano in questo momento più significative, e che comunque si intrecciano tra loro trascinandone altre mille, ne sceglierei tre. La prima è quella della relazione progetto abduzione, della quale ho già parlato. La seconda è quella della comunità scientifica: costruire la comunità, alimentare il pensiero collettivo, istituire prassi condivise, costruire opportunità e garanzie, è un obiettivo, ma anche una conditio sine qua non per la rea lizzazione del progetto di Roberta, che potrà svilupparsi solo se diventerà il progetto di tutti, senza appiat-
tire le differenze. La terza questione rilevante è quella di una ragion pratica, che mi sembra irrinunciabile per la concretezza degli esiti. Quella ragione pratica che, per esempio, ci fa osservare che, al di là delle speculazioni e delle costruzioni logiche, in fondo noi del macro-settore 08/ D1 siamo solo 433 (al tempo dell’uscita del libro) e che non dovrebbe essere troppo difficile far diventare 433 studiosi una comunità. Personalmente ho letto con piacere questo libro e l’ho apprezzato più per le domande che mi ha fatto sorgere, che per le risposte che mi ha fornito. Il libro si lascia leggere finché a un certo punto ti chiedi: ma è possibile che io vada tanto d’accordo con questa signora? Ma quando ci confronteremo su un progetto, su come ammetterlo a valutazione e su come valutarlo, andremo ancora così d’accordo? Che tipo di progetto ha in mente lei quando scrive e che tipo di progetto ho in mente io quando leggo? Tante domande si affastellano: il progetto è prodotto di ricerca scientifica in sé o lo diventa quando viene descritto come tale? È il pro-
getto a essere prodotto di ricerca o la sua descrizione? Il progetto è fenomeno osservato o è procedimento scientifico? La descrizione, il commento critico devono essere fatti dall’autore o possono essere fatti da altri? È possibile, necessario, utile, o ha senso trascrivere un testo artistico in un testo scientifico? E cosa valuterà il valutatore: il progetto o la sua descrizione, il suo commento, la sua spiegazione logica, la sua interpretazione autentica? … Potrei andare avanti a lungo, per alcune domande ho risposte, per altre non ancora. Però adesso so rispondere a certe mie domande iniziali: era proprio necessario scrivere questo libro? Decisamente sì! È utile leggerlo? Sì, ed è utile leggerlo in molti. Potrei riflettere ancora a lungo qui con voi su tante cose, ma andrei oltre la soglia della recensione (forse l’ho già superata e me ne scuso). Fortunatamente ho ancora i miei molti dubbi e per questo sono grato a Roberta. Per il resto non voglio spoilerare il libro, buona lettura! L. S.
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Sommario dei fascicoli pubblicati
N. 111. Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112. Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113. Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114. L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115. L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116. Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117. Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118. Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119. L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121. La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori
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N. 122. L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre
N. 123. Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125. Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126. L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127. Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128. Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129. Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131. Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132. Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133. Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134. Abitare la razionalità - Per una nuova classificazione delle arti - Il design aeronautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135. Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, demo-
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crazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137. Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138. Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 139. Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine del l’ADI N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
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N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI N. 152. Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre N. 153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazione Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre N. 154. Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione - Ancora sul rapporto tra arte e pubblico - Design: scenari morfologici della contemporaneità - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 155. Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia - Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo - Della omologazione in architettura - Arti visive: da zona franca a fronte comune - È del designer il fin la meraviglia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 156. Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» - Modern/post: un territorio in-between - «Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradigma espositivo - Moda: sistema e processi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Campania N. 157. Editoriale - Una “ipostasi” della forma-tatuaggio - Aspetti e intenti del graffitismo d’oggi - Lebenswelt e architettura - Design vs Lebenswelt Libri, riviste e mostre N. 158. Architettura e qualità nell’età dei concorsi - La nostalgia nella cultura digitale - Conformazione e trasformazione degli spazi interni - La ricerca di una definizione di design - Libri, riviste e mostre N. 159. «Corporea» alla Città della scienza di Napoli - Mono-ha nel contesto globale. Poetiche e culture a confronto - Distruzioni e ricostruzioni a Berlino - Il tempo del tipo nello spazio del design - Libri, riviste e mostre
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N. 160. Il mestiere di architetto: prospettive per il futuro - Téchne e progetto d’architettura - Riflessioni sulla 57ª Biennale di Venezia e Documenta 14 a Kassel - Didattica e design, dal learning by doing al learning by design - La rivista «October»: temi e nuclei teorici - Libri, riviste e mostre N. 161. La metodologia circolare della progettazione in architettura - Aldo Rossi. Topografia urbana - Artisti italiani e realtà sociale nel secondo dopoguerra - La rivista «October»: novità metodologiche e crisi di un paradigma - Il design (morale) dell’ordine - Ernesto Basile. Dall’architettura d’interni all’industrial design - Enzo Mari. Opera, multiplo, serie - Libri, riviste e mostre N. 162. Il BIM. Un parere in evoluzione - Bruno Zevi e lo spazialismo architettonico - Semantiche del sublime architettonico - Brecht nostro contemporaneo - Il dono e l’arte, la festa e la dépense ai tempi di internet - Il “nuovo” nel modello Design-Oriented - Handmade in Italy - Libri, riviste e mostre
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