Op. cit. 164

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ISSN 0030-3305

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gennaio 2019

numero 164

Architettura e tecnocultura “post” digitale. Verso una storia - Arte di ieri, oggi e forse anche domani - L’arte del XXI secolo - Il Teatro grottesco di Mejerchol’d - Industrialismo e archeologia industriale - Convergenze tra design e bioscienze - Ernesto Basile: dall’architettura d’interni al design - Libri, riviste e mostre Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli

Grafica Elettronica



Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco

Comitato scientifico Philippe Daverio Kenneth Frampton Giuseppe Galasso Vittorio Gregotti Juan Miguel Hernández León Aldo Masullo Vanni Pasca Franco Purini Joseph Rykwert

Comitato redazionale Roberta Amirante Pasquale Belfiore Alessandro Castagnaro Imma Forino Francesca Rinaldi Livio Sacchi Alberto Terminio Segretaria di redazione Emma Labruna

Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 info: +39 081 7690783 - fax: +39 081 7705654 e-mail: rendefus@unina.it - elabruna@unina.it Amministrazione: 80128 Napoli, Via B. Cavallino, 35/G info: +39 081 5595114 - +39 081 5597681 e-mail: info@graficaelettronica.it Abbonamento annuale: Italia e 50,00 - Estero e 70,00 Un fascicolo separato: Italia e 18,00 - Estero e 25,00 Un fascicolo arretrato: Italia e 20,00 - Estero e 27,00 Grafica Elettronica


M. Unali R. Barilli M. Maiorino C. Fiorillo G.E. Rubino C. Langella D. Russo

Architettura e tecnocultura “post” digitale. Verso una storia 5 Arte di ieri, oggi e forse anche domani 22 L’arte del XXI secolo 36 Il Teatro grottesco di Mejerchol’d 51 Industrialismo e archeologia industriale 61 Convergenze tra design e bioscienze 79 Ernesto Basile: dall’architettura d’interni al design 92 Libri, riviste e mostre 105

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Pasquale Belfiore, Fabio Mangone, Paolo Rizzoli, Alberto Terminio, Federico Turelli.



Architettura e tecnocultura “post” digitale. Verso una storia MAURIZIO UNALI

Le continue mutazioni tecnoculturali del nostro tempo sembrano essere declinate dall’architettura (ma non solo) in multiformi semantiche dal carattere “post” – spesso genericamente definite postdigital dai mass media –, molte ancora da decifrare, che stanno contribuendo a rigenerare il senso dell’abitare contemporaneo, sia nella dimensione materiale del reale, sia nella sfera immateriale del virtuale. Ma cosa significa per l’architettura essere entrata in questa ipotetica era post digitale e nell’Industry 4.0? Le ultime frontiere dell’innovazione – le ricerche sulle biotecnologie, sulle nanotecnologie, la fabbricazione digitale (la stampa 3D, i dispositivi a controllo numerico, la rete dei Fab Lab), la progettazione parametrica e BIM, la gestione dei Big Data, le trasformazioni delle reti, ecc. – in che modo stanno alimentando la creatività, modificando la formazione e la professione? E quali gli effetti sulla rappresentazione e conformazione dello spazio e dei prodotti, considerando anche il digital divide e il modus vivendi contemporaneo, spesso destabilizzato dalla globalizzazione? Facciamo un passo indietro. Alle soglie del nuovo millennio, interrogandoci sui rapporti fra “architettura e cultura digitale”1 – esito della prima rivoluzione digitale in architettura (pionieristica, a tratti ingenua e retorica ma positivamente sperimentale), esplosa negli anni ’90 con gli esordi del “digitale di massa” –, ci domandavamo in che modo quella nuova tecnocultura (recepita subito come innovativa e già prevista pervasiva e trasversale) sta-

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va ampliando lo spazio del progetto e modificando la dimensione del tempo, con tutte le ricadute sul senso del nostro lavoro. Oggi, usciti dal periodo rivoluzionario del “paradigma elettronico” in architettura, alla luce di alcuni decenni di creatività alimentati dalle tecnoculture digitali, possiamo analizzare con più maturità e conoscenze i risultati di quel prolifico periodo del progetto, approfondendo gli eventi e innescando ulteriori processi di storicizzazione, fondamentali requisiti per interpretare l’attuale stato dell’arte del fenomeno. Una fase che appare ancora in formazione, a tratti contraddittoria, ma in cui emergono già nuovi e interessanti spunti teorico-operativi che meritano l’attenzione della critica. Si evidenziano, inoltre, laboriosità più attente ai temi studiati dalle cosiddette Digital Humanities, progettualità tecnoculturali che sembrano tendere a relazionarsi più intensamente con la sensibilità umana, con la natura, con l’universo e con “la presenza del passato”. Quest’ultima citazione consiglia di studiare la condizione postdigitale alla luce dell’esperienza della lezione del postmoderno che, seppur in tutt’altro contesto, sembra offrire interessanti riferimenti storici. La condizione Post: “Learning from Post-Modern”

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Nell’attività critica d’architettura, i temi alimentati dal prefisso “post” – generalmente con funzione prepositiva rispetto al secondo elemento, che può essere un sostantivo o, più spesso, un aggettivo – aiutano, come gli “ismi”, gli “iper”, i “neo”, ecc., a rappresentare paradigmi e fenomeni culturali, in uno scenario storico. Per contestualizzare l’argomento rispetto all’ambigua declinazione “post” (digitale) qui trattata, segnalo quattro autoriali riflessioni di riferimento, accomunate soprattutto dall’analisi della condizione postmoderna, che sembra il filo rosso da seguire per orientare lo studio della condizione postdigitale dell’architettura odierna. Tomás Maldonado, nella metà degli anni ’80, interrogandosi sul futuro della modernità affronta “la questione post” e, ragionando sul significato delle espressioni “moderno, modernità e modernismo”, analizza l’idea di un superamento storico di una


realtà, giudicata inattuale e che deve, quindi, essere sostituita, arrivando all’ipotesi di impostare l’argomento in termini temporali, ossia: al posto di qualcosa che aveva prima una carica di novità (e l’ha persa) subentra dopo qualcosa che ha (o si reputa che abbia) tale carica. Un approccio che ovviamente non è senza precedenti nella storia. […] i “post” coniati negli ultimi decenni vanno spiegati in quest’ottica. Ma la difficoltà è che […] la dialettica vecchio-nuovo è ora diventata molto più complessa, in quanto il suo andamento non è più lineare. Ecco perché la questione che solleva oggi l’uso del prefisso “post” è tutt’altro che facile. […] Il “post” regge i più vari accostamenti semantici. Di solito si tratta di parole d’ordine che hanno un’indubbia presa sui mass media e pertanto sull’immaginario collettivo, ma che, sul piano concettuale, sono scarsamente affidabili2. Renato De Fusco, all’interno di un ragionamento sul postmodern, riprende quest’ultima affermazione di Maldonado e osserva che se è vero che “sicuramente il post-moderno fa parte del moderno”, che oggi “un’opera può divenire moderna solo se è prima post-moderna” (Lyotard), ecc., può vedersi nell’espressione in esame quella contraddizione in termini, quel senso di paradosso così espressivi della più generale e caotica condizione attuale. […] il concetto di condizione post-moderna altro non può essere […] che un “artificio” storiografico, una prospettiva per inquadrare gli eventi, un tipo-ideale3. Paolo Portoghesi, riflettendo sul postmoderno nel contesto del dibattito di fine anni ’90, scrive: perduto il clamore polemico prodotto dalla volgarizzazione giornalistica, il termine ‘postmoderno’ ha addirittura intensificato la sua presenza nelle trattazioni specialistiche delle varie discipline, sino a rappresentare uno dei concetti più efficaci della futurologia, poiché consente di accentuare gli elementi di novità della produzione culturale connessi con gli sviluppi della tecnologia – come l’avvento del ‘virtuale’ e l’impatto del computer sulla ricerca e la rappresentazione – e al tempo stesso contribuisce a sottolineare un altro aspetto emergente della ‘condizione postmoderna’, ossia quella ‘responsabilità verso il futuro’ identificata come dato epocale dalla speculazione filosofica e sociologica4. Mario Costa, sul versante dell’arte e dell’estetica, dopo aver

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esposto i caratteri “non lineari” dell’evoluzione della produzione artistica, nel rapporto tra “tecnica e cultura”, osserva che la pittura, la fotografia e l’immagine sintetica, oppure la penna e il pennino, la macchina da scrivere elettrica e la videoscrittura, oppure ancora, la musica strumentale, la chitarra elettrica e i suoni elettronici, non sono per nulla in continuità tra di loro ma valgono come tre epocalità differenti dell’immagine, della scrittura e del suono, e segnano tre diversi modi di essere della produzione “visiva”, “scritturale” e “musicale”. Ricordando il dibattito sull’idea di postmoderno, così prosegue: se si riflette sufficientemente su tutto questo, ad esempio, le polemiche sulla legittimità di una distinzione tra “moderno” e “postmoderno”, o sulla stessa definizione del concetto di “post-moderno”, cesserebbero, perché si capirebbe che si tratta, inequivocabilmente, di epocalità differenti perché differente è il loro fondamento tecnologico. Per il filosofo la conclusione del ragionamento è che: sempre le arti consistono nella estetizzazione di una tecnica, ciò che bisogna considerare è il tipo di tecnica che viene estetizzata perché tra le “arti tecniche”, le “arti tecnologiche” e le “arti neo-tecnologiche” esiste una differenza profonda5. Attualizzando tali concetti emerge come il ricco percorso storiografico del postmoderno in architettura, qui solo accennato, sia un importante riferimento da cui imparare per leggere l’odierna scena post digitale. Tutta da verificare, però, rispetto alla storia. Verso una storia

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Per comprendere l’attuale evoluzione del digitale in architettura è necessario contestualizzare gli eventi rispetto alla storia del fenomeno. Ma una storia delle relazioni fra l’architettura e la tecnocultura digitale è, in gran parte, ancora da scrivere. Travolge un ambito temporale di circa quattro decenni, dagli anni ’80 a oggi; un periodo complesso e ricco di riferimenti interdisciplinari, che non sembrano ancora trovare delle sintesi concettuali per essere rappresentati. Una storia che non sembra scorrere in modo fluido e unitario – ricordando quell’idea sulle “differenti epocalità” prima riportata –, rendendo ancora difficile il riconoscimento di pro-


tette periodizzazioni delle poetiche e degli eventi. Le ragioni sono molte: alcune trasformazioni sono ancora in atto; certi temi corrono paralleli; altri hanno avuto diversi sviluppi internazionali nella timeline della storia culturale, sociale e geopolitica del fenomeno. Con l’obiettivo di verificare l’attuale stato dell’arte dell’architettura digitale, proviamo allora a contestualizzare l’argomento rispetto a delle provvisorie rappresentazioni della storia del fenomeno, non ragionando tanto sulle poetiche, ma tratteggiando soprattutto macro-evoluzioni temporali. Una prima sintesi concettuale consiglia di suddividere il corso degli eventi in due principali fasi evolutive: le origini del fenomeno (con gli antefatti, i riferimenti e le previsioni), cioè la rivoluzione digitale in architettura; l’attestazione del fenomeno con tutte le sue declinazioni interdisciplinari e mature laboriosità “post”. Quindi, senza nessuna pretesa di descrivere la storia del fenomeno, in forma di sintetica “vertigine della lista” (ricordando Eco) si propongono delle “serie” di simulazioni, individuando solo alcuni eventi che sembrano offrire spunti per innescare una riflessione sull’attuale rapporto fra l’architettura e la tecnocultura post digitale. Ciò nella consapevolezza, come rileva Mario Carpo, che la storia dell’ascesa delle tecnologie elettroniche nella concezione e nella produzione di oggetti e forme architettoniche non è ancora stata scritta, e forse non dovrebbe esserlo ancora per qualche tempo6. Anni ’80-2000. Antefatti e origini: dall’architettura disegnata all’architettura digitale Dagli anni ’80 all’inizio del nuovo millennio abbiamo assistito a una vasta laboriosità pluridisciplinare (progetti, realizzazioni, libri, mostre, dibattiti, ecc.) incentrata soprattutto sulla sperimentazione del modello di rappresentazione innescato dalla rivoluzione informatica, medium conformativo che ha ibridato “tutto”, dall’arte all’economia. È la fase più radicale e spettacolare, anche se a tratti retorica e ingenua, della rivoluzione digitale in architettura. Per Alessandro Baricco sono grossomodo gli anni che da Commodore 64 arrivano a Google, è “l’epoca classica” del suo The Game7. In architettura, dal mio personale punto di osservazione geo-

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culturale, sembra interessante analizzare gli eventi compresi in quell’intervallo temporale che dalla prima Biennale di Venezia, La Presenza del Passato, diretta da Paolo Portoghesi nel 1980, arriva a quella del 2000 ideata da Massimiliano Fuksas: una timeline su cui sperimentare letture critiche del fenomeno, in un fervido periodo evolutivo dei rapporti fra linguaggi estetici e tecnologie, che parte dalle esperienze postmoderne degli anni ’80 – da considerare come uno fra gli antefatti del fenomeno –, e arriva all’architettura digitale di fine secolo. In particolare, si segnalano due sfere elaborative: i prospetti “di carta” in scala 1:1 dell’effimera Strada Novissima del 1980 (spazio scenograficamente abitabile rappresentato da caleidoscopiche conformazioni estetiche); le architetture digitali esposte nella Biennale del 2000. Un confronto fra epocalità differenti che declinano diversamente le potenzialità del virtuale, perché differente è il loro “fondamento tecnologico” (come direbbe Costa): analogico-postmoderno da un lato, digitale-online dall’altro; “dagli atomi ai bit”, per utilizzare un concetto su cui torneremo più avanti. Nella virtualità analogica dell’architettura effimera degli anni ’80 possiamo quindi leggere alcuni antefatti della virtualità digitale della fine del secolo, a sua volta origine delle odierne creatività post digitali; testimonianze tutte che, tra l’altro, consentono di studiare anche le trasformazioni del carattere utopico, ideale e radicale del progetto di architettura. Sulle origini dell’architettura digitale si ricordano alcuni progetti, realizzazioni, libri ed eventi significativi. La Torre dei Venti progettata da Toyo Ito nel 1986 a Yokohama sembra essere la prima realizzazione che si avvale della tecnocultura digitale e la figura del suo progettista, come scrive Antonino Saggio, è assolutamente centrale per comprendere il portato delle conquiste della rivoluzione informatica in architettura. Il suo ruolo storico è da una parte quello del pioniere e dall’altra quello di uno dei più maturi ricercatori dei rapporti tra informatica e architettura8. Fra i tanti testi pubblicati in questo periodo segnalo due libri che, grazie alla loro edizione in lingua italiana, hanno avuto successo anche nel nostro Paese. Cyberspace del ’91, a cura di Michael Benedikt – che ha diffuso l’idea del ciberspazio come luo-


go abitabile e, quindi, progettabile – e City of Bits di William J. Mitchell che, nella metà degli anni ’90, invita a pensare a una nuova architettura per la città digitale e a un nuovo modo di abitare il virtuale. Dal 1997 (anno fondamentale per la storia dell’architettura contemporanea) alla fine del secolo alcuni eventi rappresentano una svolta nell’attestazione dell’architettura digitale, sia nell’ambito specialistico degli addetti ai lavori, sia in quello dei mass media. Fra le realizzazioni l’esempio più significativo è il Guggenheim Museum a Bilbao di Gehry. Inaugurato nel ’97, ha subito veicolato l’architettura sul palcoscenico massmediatico – dalle cover dei periodici alla satira dei Simpson fino al film-documento di Pollack – e può essere considerato il simbolo internazionale della condizione architettonica di fine secolo9: Architecture Effects10. L’opera sembra l’esito di un processo progettuale che possiamo definire “tradizionale” e che, solo “a posteriori”, come scrive Franco Purini, ha trovato «nello strumento digitale il modo di declinare secondo sofisticati programmi di calcolo la complessità delle sue superfici ondulate che hanno reso più agevole, tra l’altro, la progettazione del cangiante rivestimento in titanio […]. In questo caso il digitale non è stato in realtà veramente organico alla concezione dell’opera essendo intervenuto successivamente, quando la configurazione generale dell’edificio era già stata definita»11. Sempre nel ’97, The Virtual House Competition è un’altra importante opportunità di studio per capire come le teorie sul virtuale, attualizzate dal digitale, stavano conformando nuove spazialità architettoniche; “ANY magazine”12, il principale sostenitore dell’iniziativa, documenta l’evento pubblicando le premesse teoriche – ispirate da sette filosofi (da Deleuze a Virilio) – e i sei progetti elaborati da Toyo Ito, FOA/Alejandro Zaera-Polo, Jean Nouvel, Peter Eisenman e Ingeborg Rocker, Herzog & de Meuron, Daniel Libeskind. Fra tutti, evidenzio la sintesi concettuale proposta da Eisenman, da considerare un’altra delle emblematiche opere della storia dell’architettura digitale, fra i primi esempi di un uso conformativo-creativo dei processi di modellazione. Ancora nel ’97, il Salt Water Pavilion di Kas Oosterhuis e il

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HtwoOexpo dei Nox (Neeltje Jans, Olanda), sono l’esempio dell’architettura fluida e interattiva (conformata dall’informazione) sperimentata in quel periodo dall’architettura digitale; sono anche interessanti anticipazioni di ciò che nel successivo secolo verrà denominato “parametricismo digitale”. Agli inizi del nuovo secolo assistiamo alla consacrazione internazionale della rivoluzione digitale in architettura. Fra gli eventi più significativi spicca, come già anticipato, la Biennale Less Aesthetics, More Ethics ideata da Fuksas nel 2000. In particolare, nell’eterogenea galleria di proposte, si vuole evidenziare quella trasversale tendenza del progetto ad esplorare le nuove dimensioni dei comportamenti e delle trasformazioni architettonico-urbane attraverso il medium tecnoculturale (informazione, comunicazione, rete e virtuale). Un esempio è il padiglione USA, pensato come un laboratorio creativo, condotto da Greg Lynn (con il Department of Architecture and Urban Design in the School of Arts and Architecture di UCLA) e Hany Rashid (con la Graduate School of Architecture Planning and Preservation della Columbia University), per esplorare l’applicazione delle nuove tecnologie sul progetto contemporaneo13. Nell’esposizione principale della Biennale i due architetti espongono, inoltre, due fra i più noti progetti dell’architettura digitale: l’Embryologic House (1998-2000) di Lynn; il Museo Guggenheim Virtuale (1999-2000) degli Asymptote (Rashid & Lise Anne Couture). Ma è anche la Biennale di altri protagonisti della rivoluzione digitale in architettura: dECOi; NOX; Kas Oosterhuis; Kovac Malone; Reiser & Umemoto; UN Studio; MVRDV e Marcos Novak che, nel padiglione della Grecia, propone l’installazione Invisible Architectures. Solo fermandoci a questi esempi, emerge che l’architettura è stata molto sensibile nel declinare le opportunità tecnoculturali del tempo, sia nell’opera di sperimentazione, sia in quella teorica; alle volte anche in quella d’invenzione. Sensibilità che, indipendentemente dal giudizio sui risultati, ha prodotto anche nuovi modelli semantici, composti da parole chiave: Blobs, Folds, Mor­phing, Trasformazioni Parametriche, Geometrie Topologiche, Barocco Digitale, Transarchitettura, Hypersurface Architecture, Progettazione Generativa, ecc., sono opportunità di analisi, di sperimentazione e proficuo dibattito14.


2001-Oggi. L’elaborazione: dalla rivoluzione digitale alle metamorfosi “post” Superato il periodo più spettacolare e sperimentale della rivoluzione digitale in architettura, tratteggiamo ora alcune fra le molteplici creatività che, a partire dal nuovo millennio, hanno contribuito a generare l’attuale stato dell’arte del fenomeno. Iniziamo ricordando la situazione di inizio secolo. Nel 2001 Renato De Fusco dedica l’ultimo capitolo del suo Trattato di architettura alle Previsioni, cogliendo dalle tendenze in atto ciò che esse suggeriscono per il futuro, affrontando quindi anche l’architettura digitale, considerata quale fenomeno che supera i tradizionali caratteri conformativi e rappresentativi15. Rileggendo quelle previsioni e, in particolare, il paragrafo dedicato all’Architettura informatica, emerge una articolata analisi sul fenomeno a quella data, che offre, a posteriori, interessanti verifiche critiche. Fra queste, sembrano oggi incontrarsi nell’era post digitale le “due vie” rilevate allora dallo storico: quella di fabbriche effettivamente realizzate e quella di altre destinate a rimanere pure immagini, le une rientranti nel dominio del reale, le altre in quello del virtuale16. Innescare strategie di interazione fra ambiente fisico e spazio digitale è uno dei compiti dell’architetto post digitale. Antonino Saggio in Architettura e modernità. Dal Bauhaus alla rivoluzione informatica ci aiuta a capire il passaggio dalla società industriale alla società dell’informazione e nell’ultima parte del libro, dal titolo La rivoluzione informatica dell’architettura. Dopo il 2001, consegna un testo fondamentale per approfondire questa fase storica, dove la cultura anti-ideologica contemporanea evita risposte certe, ma ciò non esclude la possibilità di tentare di formulare, almeno, le domande più sensate: come usare gli strumenti che abbiamo creato?17. Fra le realizzazioni temporanee del periodo emerge il Blur Building, progettato da Diller Scofidio + Renfro per l’Expo 2002 a Yverdon-les-Bains in Svizzera. La nuvola mutevole e interattiva catalizza l’interesse del pubblico e della critica. Saggio scrive: l’edificio rompe tutte le convenzioni precedenti di architettura e si propone come un vero e proprio nuovo paradigma per l’architettura a venire18.

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Altre testimonianze sull’architettura informatica del periodo possiamo trarle dagli esiti della Biennale del 2004. Diretta da Kurt W. Forster, già nel titolo, Metamorph, esprime l’obiettivo di rappresentare i cambiamenti in corso, esplorando le trasformazioni dell’architettura generate e facilitate anche dalle nuove tecnologie. Non c’è dubbio che l’innovazione tecnologica nel mondo è ormai indispensabile per l’architettura e funzionale alla sua trasformazione in una specie diversa19. Per rappresentare una parte del dibattito di quegli anni, ricordiamo due autoriali riflessioni tratte dal catalogo della Biennale. Carpo riflette su alcune progettualità alimentate dalle tecnologie elettroniche – definite “volubili”, rispetto alle forme prodotte da tecnologie meccaniche (fisse, stabili e solide) –, tratteggiando una prima maniera dell’architettura digitale – caratterizzata da forme fluide, curve continue e da geometrie complesse (in particolare, geometrie topologiche) che possono essere descritte da funzioni matematiche, visualizzate sullo schermo e materializzate in tre dimensioni da tecnologie file-to-factory (stereolitografia, rapid prototyping, e altri utensili di produzione a controllo numerico)20. Picon rileva che il nucleo essenziale del dibattito pro o contro l’architettura digitale ha riguardato soprattutto le forme, il valore da accordare ai blobs e agli altri plis che ritroviamo sotto firme così diverse come quelle di Greg Lynn, UN Studio o Foreign Office»; ma la domanda che subito dopo pone è: «la loro ispirazione baroccheggiante è sinonimo di un vero rinnovamento, come riteneva il critico Herbert Muschamp […], oppure poggia su false premesse come afferma Jorge Silvetti […]?21. Sono anche gli anni della progettazione parametrica – istintiva pulsione “senza tempo” della composizione architettonica (si pensi, ad es., alle ricerche di Luigi Moretti negli anni ’60) –, che nel medium digitale trova, in questi anni, la possibilità di collaudare “ogni” trasformazione spaziale. Viene presentato il Parametricist Manifesto; l’autore è Patrick Schumacher che, nel 2008, con il saggio dal titolo Parametricism as Style, inizia a delineare i principi fondativi di tali progettualità, aprendo un ampio e conflittuale dibattito che, soprattutto nelle pagine della rivista “AD”22, ha trovato un ampio impulso critico-divulgativo.


Un altro importante argomento che caratterizza la scena culturale del nuovo secolo riguarda il tema della conservazione del patrimonio digitale23, nelle sue varie casistiche. È del 2003 la Carta per la conservazione del patrimonio digitale dell’UNESCO, dove si prende atto del fatto che il patrimonio digitale corre il rischio di andare perduto e che la sua conservazione per il bene delle generazioni attuali e future è un’emergenza di carattere mondiale. Fra le iniziative che hanno trattato argomenti simili ricordo la mostra Archaeology of the Digital, curata da Lynn nel 2013 per il Canadian Centre for Architecture di Montréal, in cui si propone una rappresentazione della cosiddetta architettura digitale (soprattutto tra gli anni ’80 e ’90). In questo contesto è stato anche intrapreso un programma di archiviazione dei materiali di progetto digitali degli architetti che per primi hanno adottato software specifici sin dagli anni ’80 (come, ad es., Eisenman, Gehry, Chuck Hoberman, Lynn, Shoei Yoh). Nello stesso anno, ricordo poi la mostra Applied Design, incentrata sui rapporti fra arte e videogames, allestita al Moma (NY), dove sono state esposte, fra l’altro, storiche ambientazioni ludico-digitali – scelte rispetto al design e all’innovazione tecnologica –, da Pac-Man a Tetris fino a SimCity, poi confluite in una collezione permanente. Nonostante queste (e altre) esperienze, il tema della lettura e conservazione del patrimonio digitale sembra ancora in fase sperimentale, attendendo condivisi studi e progetti sul rilevamento dell’abitare virtuale, sulla conservazione e l’esposizione delle opere digitali (garantendo hardware e software funzionanti per opere “datate”, ecc.), dall’arte all’architettura, dal web design ai virtual worlds fino ai videogames. Metamorfosi post digitali Quest’ultimo argomento ha introdotto l’attualità delle odierne metamorfosi tecnoculturali, indicando uno fra i primi compiti del ricercatore post digitale: documentare il patrimonio immateriale digitale. Fra i temi che sembrano emergere dal nuovo corso del digitale e dall’innovazione all’interno della cosiddetta quarta rivoluzione industriale (prevista automatizzata e interconnessa), si se-

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gnalano le ricerche sulle biotecnologie, sostenute dal pensiero di accreditati autori. Il fondatore del Media Lab del MIT, Nicholas Negroponte, con lo slogan Biotech is the New Digital24, sintetizza una delle frontiere dell’odierna innovazione. L’attuale direttore del Media Lab, Joi Ito25, osserva che il Biotech si relazionerà ad ogni cosa, così come già avviene con il digitale. Paola Antonelli, curatrice della sezione Design e Architettura del MoMA (NY), ha affrontato il tema in diverse occasioni: ad esempio, nel 2014 ha curato un evento culturale26 nel quale sono stati illustrati i risultati della ricerca Synthetic Aesthetics27, dove sono state trattate le relazioni fra scienza, arte e design, e dove sono stati illustrati alcuni progetti sulle nuove frontiere della biologia sintetica (synbio). Fra gli ultimi studi sui rapporti fra progetto e tecnologia, ricordo il libro di Lluís Ortega, The Total Designer. Authorship in Architecture in the Post-Digital Age28, e le considerazioni socioeconomiche proposte da David Sax nel libro The revenge of analog29, che esplora alcuni fenomeni emergenti postdigitali come il caso delle aziende che investono nella produzione di oggetti esteticamente e sensorialmente analogici. Viviamo in un’epoca post digitale in cui da un lato “rigeneriamo” l’analogico – rivalutando i suoi prodotti (dischi in vinile, giradischi, ecc.), “incidendo” tatuaggi su sculture in bronzo (Marco Manzo) per tramandare estetiche, ecc. –, dall’altro ci spingiamo oltre i limiti del “naturale” utilizzando al massimo il progresso tecnologico raggiunto, inventando anche la carne “sintetica” vegetale stampata in 3D30, per superare quello che alcuni definiscono un alimento non più sostenibile. Nelle ricerche artistiche contemporanee possiamo scoprire le ragioni forse più spontanee ed empatiche che attestano idee postdigital. Ad iniziare dalla musica. Le riflessioni del compositore statunitense Kim Cascone31 evidenziano, sin dal 2000, l’esistenza di una nuova estetica musicale Post-Digital, diffusa e ispirata da Internet, che elabora suoni quotidiani della tecnologia, tratti dal ronzio della ventola del computer, dalla carta negli ingranaggi delle stampanti, dal rumore accidentale, ecc. Cascone evidenzia almeno due precursori del fenomeno, i Futuristi (Russolo, L’arte dei rumori, 1913) e John Cage (4’33’’ del 1952).


Tra la vasta pubblicistica sulle nuove tendenze dell’arte digitale, segnalo un libro del 2016 a cura di Christiane Paul, A Companion to Digital Art32, una “guida” per comprendere l’evoluzione storica ed estetica del fenomeno. Nell’introduzione, sul tema dell’arte postdigitale l’autrice evidenzia con questa espressione soprattutto quelle pratiche artistiche (digitali) comprese nell’idea New Aesthetic, proposta dal saggista londinese James Bridle, che definisce così quelle creatività che si pongono nell’intersezione fra il mondo reale e la sua rappresentazione digitale. Infine, emerge il tema della comprensione del modello di rappresentazione compreso nella rivoluzione digitale33. In architettura l’importanza dello studio del modello di rappresentazione generato dalle svolte epocali è fondamentale, e più volte riscontabile nella storia (si pensi, ad es., al caso della Prospettiva rinascimentale per la cultura spaziale dell’Occidente). Si aprono molti argomenti che l’attuale maturità post digitale può interpretare. Fra questi segnalo il digital divide nella rappresentazione e conformazione dell’architettura. Pensiamo solo all’ambito didattico e domandiamoci, rispetto alla nostra esperienza, in che misura la diffusione nelle migliori scuole d’architettura di hardware e software potenti e sofisticati ha aiutato l’apprendimento e la circolazione delle idee fra gli studenti? E in che misura ha penalizzato, invece, quelle scuole e quegli studenti che, per motivi diversi, a tali hardware e software avanzati non hanno potuto facilmente accedere? Quanto osservato riguarda la storia del disegno digitale di architettura, fra i principali laboratori creativi per sperimentare le potenzialità dell’informatica, e occasione per leggere l’evoluzione del fenomeno34. Sono stati molti gli eventi internazionali che hanno in diversi modi dibattuto i temi della rappresentazione nell’era digitale. Fra questi segnalo il convegno Is drawing dead?, organizzato dalla Yale School of Architecture nel 2012, a cui hanno partecipato molti autori35, pro e contro la tesi. Commentando l’evento, così scrive Livio Sacchi: «a chi attribuire la responsabilità di tale fine? Naturalmente alla nuova, o seconda rivoluzione digitale in generale, e alla diffusione del BIM, in particolare. Non sappiamo in che misura l’ipotesi della scomparsa (o almeno del tramonto) del

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disegno come consolidato strumento di elaborazione progettuale dell’architettura sia realistica. Molti concordano tuttavia almeno sull’inizio di una nuova stagione, diversa da tutto ciò che ha segnato il nostro passato di architetti, anche quello più recente, e sulla necessità di rispondere a tali cambiamenti rifondando la nostra pratica professionale. […] ci troviamo dinanzi a una vera e propria rivoluzione, alla fine di un paradigma progettuale che ha storicamente funzionato molto bene per almeno cinque secoli e sulla soglia di una nuova era o, almeno, di una nuova stagione: una seconda rivoluzione digitale, la cui principale sfida è la riduzione del gap creato dalla prima tra il progetto, sempre più virtuale, e la costruzione, ancora inequivocabilmente reale»36. Più recentemente le riflessioni critiche sulle questioni teoriche del disegno di architettura sono state attualizzate rispetto alla presunta tendenza postdigital. Fra queste segnalo le riflessioni di Sam Jacob che37 analizzano le caratteriste del disegno post digitale, evidenziando le differenze con il precedente eccessivo uso del rendering fotorealistico, rilevando le potenzialità di composizione del digitale che alimentano l’uso di tecniche miste, collage, ecc. Dove stiamo abitando?

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La celebre previsione di Negroponte, The Digital Revolution is over38, si è avverata. Ma allora, oggi, abitiamo nell’era post digitale? La prima risposta a questa domanda possiamo trarla da una recente riflessione di Carpo, il quale osserva che la prima fase del digitale ha interessato “bit e atomi”, mentre l’attuale sta riguardando “bit e neuroni”: c’è dell’altro digitale dopo il digitale, che ci piaccia o no39. Forse si sta avverando anche quell’aspettativa che nel 1993 disegnava Maldonado40 riflettendo sull’ideologia della dematerializzazione digitale e auspicando la via della creatio mundi contro un’alienante fuga mundi. Comunque sia, abbiamo di fronte un fenomeno ancora in corso, una nuova fase dei rapporti fra l’architettura e la tecnocultura digitale. Superato lo sperimentalismo digitale del secolo scorso, l’architettura sembra relazionarsi con maggiore maturità alle attuali sensibilità tecnoculturali, esplorando vari percorsi di ricerca


nella consapevolezza dei mezzi a disposizione e in uno scenario più ampio del precedente. Nuove progettualità alimentate anch’esse, come le precedenti, dal progresso tecnologico – spesso forza principale dei movimenti di idee della storia dell’architettura –, ma recepito e gestito in modo diverso da prima. Un modo che alcuni autori racchiudono in una temporanea tendenza postdigital della ricerca, attribuendo a questa espressione di ordine basic valori polisemici; una parola chiave per interpretare il progetto contemporaneo in relazione alle trasformazioni tecnoculturali in corso. Oppure siamo di fronte a un inevitabile “riflusso”, in cui viene spacciato per nuovo l’aggiornamento e la rielaborazione di strumenti e idee già note; assistiamo a un prevedibile “stallo” tecnoculturale, un naturale momento di passaggio, una transizione, un fenomeno che irrompe dopo quello precedente, ma che nella società della “crescita a ogni costo” deve essere propagandato comunque come “novità”, garantendo così una sorta di “rivoluzione permanente” in cui la tecnologia può essere utilizzata come una rassicurante religione di massa per vendere prodotti e giustificare le molteplici crisi della globalizzazione. La condizione post digitale sembra esprimere questi e altri argomenti, apparendo camaleontica, irresistibile, contradditoria, complessa e ancora in forte evoluzione: un fondamentale sensore per capire il presente e ipotizzare dove stiamo andando?

1  L. Sacchi, M. Unali (a cura di), Architettura e cultura digitale, Skira, Milano 2003. 2  T. Maldonado, Il futuro della modernità, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 15-16. 3  R. De Fusco, Trattato di architettura, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 267. 4  P. Portoghesi, Postmoderno, in Enciclopedia del Novecento, II Supplemento, Treccani, Roma 1998. 5  M. Costa, Dimenticare l’Arte. Nuovi orientamenti nella teoria e nella sperimentazione estetica, Franco Angeli, Milano 2005, p. 47. 6  M. Carpo, Pattern recognition, in N. Baltzer e K.W. Forster (a cura di), Metamorph. Focus, catalogo della 9. Mostra Internazionale di Architettura, La Biennale di Venezia, Marsilio, Venezia 2004, pp. 45-46. 7  A. Baricco, The Game, Einaudi, Torino 2018. 8  A. Saggio, Architettura e modernità. Dal Bauhaus alla rivoluzione informatica, Carocci, Roma 2010, p. 431.

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9   Carpo ha trattato in diverse occasioni il progetto di Gehry, descrivendolo come emblema di un nuovo modo di costruire e di una nuova era tecnologica; dimostrazione di come il digitale può contribuire alla realizzazione di oggetti che fino a pochi anni prima solo alcuni architetti avrebbero potuto concepire. Cfr. M. Carpo, The Second Digital Turn. Design Beyond Intelligence, The MIT Press, Cambridge Massachusetts 2017. 10   Architecture Effects, è il titolo della mostra allestita al Guggenheim di Bilbao dal 5 dicembre 2018 al 28 aprile 2019, che consente di valutare a distanza di due decenni il ruolo pionieristico svolto dall’opera di Gehry, nell’architettura, nell’arte, nell’uso delle tecnologie e nella società. 11  F. Purini, Digital Divide, in L. Sacchi, M. Unali (a cura di), op. cit., pp. 90-91. 12   The Virtual House, “ANY Magazine” 19/20, New York 1997. 13   Sul padiglione degli Stati Uniti d’America (Commissario: M. Hollein) cfr. G. Lynn, H. Rashid, Architectural Laboratories, NAi Publishers, Rotterdam 2002. 14   Antoine Picon scrive: «Vivaci dibattiti oppongono i partigiani dell’architettura digitale ai suoi detrattori. Gli uni vi vedono un potenziale creativo di un’ampiezza paragonabile all’avvento della modernità all’inizio del XX secolo, se non addirittura al sorgere di un’architettura nuova in epoca rinascimentale. Gli altri deplorano la dissociazione che sembra prodursi tra progetto e fisicità della costruzione». Cfr. A. Picon, Architettura digitale e poetiche del computer, in N. Baltzer e K.W. Forster (a cura di), op. cit., p. 59. Per ampliare cfr. A. Picon, Digital Culture in Architecture. An introduction for the design professions, Birkhäuser, Basilea 2010. 15  R. De Fusco, op. cit., p. 262. 16   Ibidem, p. 303. 17  A. Saggio, Architettura e modernità. Dal Bauhaus alla rivoluzione informatica, Carocci, Roma 2010, p. 401. Fra le iniziative culturali dell’autore, segnalo inoltre: la collana La rivoluzione informatica in Architettura diretta da Saggio dal 1998 al 2015; A. Saggio, Introduzione alla rivoluzione informatica in architettura, Carocci, Roma 2007. 18  A. Saggio, Architettura e modernità, cit., p. 436. 19  K.W. Forster, Architettura ombre riflessi, in N. Baltzer e K.W. Forster (a cura di), op. cit., p. 13. 20  M. Carpo, Pattern recognition, in N. Baltzer e K.W. Forster (a cura di), Metamorph. Focus, op. cit., p. 46. 21  A. Picon, Architettura digitale e poetiche del computer, in N. Baltzer e K.W. Forster (a cura di), op. cit., p. 59. Per ampliare cfr. A. Picon, op. cit. 22   Per approfondire cfr. “AD” n. 240, 2016, Parametricism 2.0, a cura di P. Schumacher. 23   Sul tema cfr. “Carta per la conservazione del patrimonio digitale”, adottata dall’UNESCO nel 2003. 24   Tratto da una conferenza di N. Negroponte. Cfr. D. Howarth, “Biotech is the new digital” says MIT Media Lab founder, in “Dezeen”, 24 april 2017, https://www.dezeen.com/2017/04/24/biotech-is-the-new-digital-nicholas-negroponte-mit-media-lab-being-material/ (consultato il 12 dicembre 2018). 25   [Biotech] “Bio is the new digital” - Joi Ito, in https://www.youtube. com/watch?v=cFz5L9mOPMM (consultato il 12 dicembre 2018).


26  P. Antonelli, Designing Life: Synthetic Biology and Design, dicembre 2014, in https://www.moma.org/explore/inside_out/2014/12/17/designing-life-synthetic-biology-and-design/ (consultato il 12 dicembre 2018). Segnalo anche la mostra curata da P. Antonelli, Design and the Elastic Mind, (MoMA, NY 2008). 27  A.D. Ginsberg, J. Calvert, P. Schyfter, A. Elfick and D. Endy, Synthetic Aesthetics. Investigating Synthetic Biology’s Designs on Nature, MIT Press, 2014. 28  L. Ortega, The Total Designer. Authorship in Architecture in the Post-Digital Age, Puente Editores e Actar Publishers (versione in inglese), 2017. 29  D. Sax, The revenge of analog: real things and why they matter, Perseus books, New York, 2017. Cfr. anche L. Aguzzi, Abbiamo ancora bisogno degli oggetti, in “Doppiozero” 2018. 30   Il progetto è dell’ingegnere biomedico G. Scionti. Cfr. https://www. domusweb.it/it/design/2018/12/06/la-carne-stampata-in-3d-alternativa-vegetariana-ecologica-bistecca.html (consultato il 9 dicembre 2018). 31  K. Cascone, The Aesthetics of Failure: ‘Post-Digital’ Tendencies in Contemporary Computer Music, in “Computer Music Journal”, vol. 24, n. 4, The MIT Press, 2000, pp. 12-18. Cfr. https://www.jstor.org/ stable/3681551?seq=1#page_scan_tab_contents (consultato il 10 dicembre 2018). 32  C. Paul (edited by), A Companion to Digital Art, Wiley Blackwell, UK 2016. 33  M. Unali, Qual è il modello di rappresentazione compreso nella rivoluzione informatica, in “Disegnare. Idee, immagini”, n. 38, Gangemi, Roma 2009, pp. 30-39. 34   Carpo, ad es., ricostruisce le vicende storiche dell’architettura anche in riferimento alle trasformazione del disegno digitale (software, metodi, tecniche, interfacce, ecc.). Cfr. M. Carpo, Parametric Notations, “AD” n. 240, marzo-aprile 2016; M. Carpo, The Second Digital Turn, cit. 35   Fra questi ricordo: M. Carpo, P. Cook, M. Graves, G. Lynn, J. Pallasmaa, P. Schumacher, M. Scolari, P.S. Cohen, S. von Moos, M. Weiss. 36  L. Sacchi, La fine del disegno?, in “Op. cit.”, n. 153, maggio 2015. 37  S. Jacob, Architecture Enters the Age of Post-Digital Drawing, in “Metropolis. The magazine of architecture & design”, 21 marzo 2017. 38  N. Negroponte, Beyond Digital, in “Wired”, 12 gennaio 1998. 39  M. Carpo, The Post-Digital Will Be Even More Digital, Says. The cycle of digital innovation in architecture is far from over, in “Metropolis”, July 5, 2018. 40   «Non una fuga mundi, ma una creatio mundi», T. Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1993, p. 78.

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Arte di ieri, oggi e forse anche domani RENATO BARILLI

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Un discorso sull’arte di oggi, e presumibilmente anche di domani, a mio avviso non può che partire dal 1968, che fu davvero l’anno di una rivoluzione, ma non di ordine politico: da questo punto di vista aveva ragione il politologo francese Raymond Aron a parlare di una Révolution introuvable. Infatti, a quel livello, almeno qui in Italia la Dc continuò a governare il Paese per oltre un ventennio, e semmai, da quell’estremismo appunto di ordine politico venne fuori il fenomeno non certo positivo del brigatismo. Ci fu invece una vera e propria rivoluzione di ordine tecnologico, o diciamo pure culturale, se ci ricordiamo che la radice latina di “cultura” ci riporta a interventi di natura pratica, strumentale. In effetti io da tempo mi dichiaro seguace di una concezione di materialismo storico culturale, ma potremmo avere il coraggio di definirlo “tecnologico” tout court, e in base a una simile impostazione riformulo i periodi storici tradizionali1, anche sulla scorta dell’insegnamento del canadese Marshall McLuhan, mio massimo ispiratore. Se vogliamo parlare di un’età moderna, la sua Gutenberg Galaxy ce ne porge la miglior data di partenza, il 1450, anche se gli eventi forniti dalla nostra manualistica non sono affatto da sottovalutare. Infatti con la morte di Lorenzo il Magnifico, 1492, finisce il periodo dello splendore dei nostri staterelli, minacciati dal costituirsi, al di là delle Alpi, delle grandi formazioni nazionali unitarie, soprattutto Francia e Spagna, e poi gli Asburgo d’Austria, pronti via via a trangugiarci. E anche la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo è


beninteso un evento da non trascurare, anche se il vero atto creativo d’ingegno da parte del navigatore genovese fu di spingere le sue tre caravelle verso l’alto mare, mentre in precedenza ci si limitava a costeggiare, ancorando le navi a sera e scendendo a bivaccare a terra. Approfitto subito per seguire di nuovo la saggezza di McLuhan che infatti reagiva alla logica deterministica che aveva la pretesa di porre in testa a tutto qualche invenzione di carattere materiale, fin quasi a ricalcare le orme del vecchio positivismo ottocentesco, o del marxismo ortodosso, con la sua fastidiosa gerarchia tra strutture di ordine economico-produttivo, e sovrastrutture, costituite da tutta la fascia delle attività culturali “superiori”, ma costrette così a dipendere da una costringente piattaforma posta ai loro piedi. McLuhan reagiva a un’impostazione del genere indicando che anche le invenzioni a livello “alto”, mentale, ideal-progettuale, giungevano nello stesso momento, anzi, talvolta addirittura con qualche anticipo. Infatti l’invenzione di Gutenberg, della stampa a caratteri mobili, collocata di solito nel 1450, era stata preceduta da Leon Battista Alberti, che nel suo De pictura del 1432 aveva tracciato il modello della prospettiva fondata sulla piramide rovesciata e sul punto di fuga unico, così in sostanza anticipando i meccanismi percettivi che poi la fotografia, ma quattro secoli dopo, si sarebbe incaricata di realizzare materialmente. Si vadano a leggere le righe in cui McLuhan sostiene un simile accostamento tra un tecnico, Gutenberg, e un operatore “mentale”, Alberti, in tal modo applicando di fatto, se non di nome, un accorgimento che circa nello stesso tempo il sociologo francese Lucien Gold­mann riportava alla nozione di omologia, o di identità funzionale, La tesi è che la tipografia “funziona”, all’atto pratico, come la camera prospettica, e che pertanto le due invenzioni risultano confluenti, anche se nell’inconsapevolezza reciproca dei rispettivi fondatori, e questo loro fondersi costituisce davvero la base dell’età moderna. Ma andiamo subito a vedere quando questa termina. Sempre secondo i manuali, si dovrebbe pensare al 1789, inizio della Rivoluzione francese, però anche in questo caso si trascurano certe fondamenta materiali-tecnologiche per dare la precedenza a fatti apparentemente più nobili e di più alta portata. In effetti la Rivoluzione francese altro non fu che la presa del potere da parte di quella

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classe borghese che era nata, McLuhan ancora una volta docet, proprio attorno all’invenzione di Gutenberg, quando i professionisti in nuce, medici, notai, avvocati, poterono permettersi di acquistare i testi dei classici, divenuti merce a prezzo ragionevole, e pretesero di leggerli, di interpretarli coi proprio occhi, nella privacy di stanze riservate. Fu anche la nascita dell’individualismo, che non si deve affatto considerare come un qualcosa di insito ab ovo nella condizione umana, ma come il frutto, al solito, di impostazioni materialiste-tecnologiche. Quella stessa classe borghese allora appena ai suoi albori tre secoli dopo possedeva quasi per intero l’economia della Francia, ma era esclusa dal potere politico, e dunque la Rivoluzione francese altro non fu che la legittima richiesta di dominare lo stato, in forza della propria maggioranza, secondo un sistema rappresentativo calcolato per teste, per individui, e non per classi, come invece si faceva dal medioevo in su, con la nobiltà e l’alto clero, nati da uno stesso parto, che messi assieme erano portati a dominare. Naturalmente, quella fu soltanto una rivoluzione borghese, del terzo stato, che escludeva del tutto il quarto stato, contadini ed operai, infatti da quel momento in poi si posero i presupposti per una successiva rivoluzione, lunga e faticosa, rivolta ad assicurare i diritti anche della classe fino a quel momento esclusa. Ma allora, se vogliamo insistere a seguire un metodo di materialismo tecnologico, dove trovare il giusto termine di riferimento? In proposito non è che io sia aiutato molto dal mio mentore, McLuhan, che non si è impicciato particolarmente di fornire delle periodizzazioni, ma con qualche estensione del suo metodo posso additare i primi passi di una rivoluzione per lo meno scientifica, se non ancora tecnologica, fondata su una qualche iniziale consapevolezza circa la presenza dell’elettromagnetismo, che ovviamente è una forza, una energia esistente da sempre, fin dalla prima nascita dell’universo, già conosciuta anche dagli antichi, dai Greci che, constatandone la presenza, suscitata in particolar modo dall’ambra, ne avevano usato il nome, “electron”, a designare quell’intero continente allora incognito e misterioso. In tale ambito spiccano due straordinari scienziati di casa nostra, Luigi Galvani, col suo famoso esperimento delle rane, che funzionano da condensatori di cariche elettriche, pronte a produrre


corrente, e ad agitarsi, anche se morte, a contatto con una ringhiera metallica. E Alessandro Volta, con la sua altrettanto famosa pila, che si può considerare il primo generatore di corrente elettrica. Beninteso non baratto la mia professione di storico dell’arte con quella di epistemologo, e dunque passo subito ad applicare lo straordinario strumento dell’omologia dichiarando che certi homines novi dell’arte, in quella fase storica. immisero nelle loro forme proprio quell’energia esagitata che fra l’altro aveva portato a coniare il vocabolo dell’essere galvanizzati (galvaniser in francese, to galvanize in inglese). Se non ricorriamo a una simile callida iunctura, non comprendiamo perché mai, a interrompere il placido decorso dell’arte post-rinascimentale, naturalista, mimetica, intervenissero le forme scatenate di Füssli, Blake, Goya, David, Canova, su su fino a Turner. Ma in proposito rimando alla mia Alba del contemporaneo2. Però dobbiamo metterci in testa che i periodi storici, ovvero le innovazioni tecnologiche che li marcano, non si susseguono meccanicamente, che cioè muoia l’uno al sorgere dell’altro. Ma al contrario ci sono lunghe fasi intermedie di coesistenza. La borghesia, preso il potere politico con la Rivoluzione francese, nel corso dell’Ottocento lo ha congiunto a quello tecnologico impadronendosi del vapore acqueo, dell’energia termica e delle sue applicazioni e destinandola sia alla produzione di merci, i telai meccano-tessili, sia al trasporto di cose e persone, con le locomotive. Ma l’elettromagnetismo era già pronto a far avvertire la sua presenza, a cominciare col telegrafo, e già mostrava la sua proprietà sconvolgente che solo Albert Einstein sarebbe riuscito a misurare, l’enorme velocità delle onde elettromagnetiche, di cui è fatta la luce, pari a circa 300.000 km al secondo, per cui un tasto di telegrafo battuto a Londra manda il suo segnale in pochi istanti a New York, mentre un bastimento, procedente a vapore, ci metteva allora alcune settimane. L’intero Ottocento può essere considerato come un campo di combattimento tra queste due grandi famiglie tecnologiche, quella delle macchine mosse prima dal vapore acqueo, poi dai combustibili, e l’altro, leggero, immateriale, pervasivo, della serie elettromagnetica, col suo esito ultimo dell’elettronica. Io ho scritto un intero volume, Arte contemporanea3, improntato a questa immane contesa. In quel mio con-

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tributo parto da Cézanne, che in definitiva è ambiguo, perché senza dubbio ha il merito di sottrarre l’arte contemporanea a una dipendenza dal vecchio universo euclideo, dell’angolo retto, degli assi ortogonali, inclinando e contraendo tutta la visione, ma in definitiva, dopo una partenza di estremo coraggio, quasi in anticipo sull’Informale, non si è ritratto da un obbligo residuo di “quadrettare” la visione, di imporle ancora qualche residuo di diedri spigolosi, così aprendo la strada al Cubismo e agli altri movimenti neoplastici del primo Novecento. Fa eccezione il nostro Futurismo, in cui Marinetti, se per un verso inneggiava all’auto da corsa, ritenendola più bella della Nike di Samotracia, per un altro verso già intuiva i poteri della radio, e Boccioni, di rincalzo, profetizzava che sarebbero venuti tempi in cui la conquista della terza dimensione sarebbe stata affidata ai gas, però non prevedendo che questi, come il neon, avrebbero potuto essere racchiusi a risplendere dentro tubicini simili ai capillari degli organismi viventi. Comunque da lui il testimone è passato a un altro nostro fulgido campione della seconda metà del secolo scorso quale Lucio Fontana4. Ma corriamo verso il ’68, che significa la totale surrogazione del sistema meccanico e il trionfo definitivo dell’elettronica, auspice ancora una volta McLuhan, con le sue formule decisive che ci dicono che siamo oramai tutti immersi in un villaggio globale e collegati in rete, in un unico campo sintetico. Si noti che a questo modo il nostro Occidente ha avuto il coraggio di liquidare quanto in passato aveva assicurato la nostra importanza e possibilità di dominare il pianeta. Infatti il naturalismo pedissequo, pre-fotografico stabilito dall’Alberti aveva dato ai nostri condottieri militari e ai nostri mercanti una mappatura perfetta del territorio circostante, rendendone possibile da parte loro l’invasione, l’occupazione. Si potrebbe ricorrere al proverbio che dice che “per un punto Martin perse la cappa”: infatti i Cinesi, che fino al ’400 erano nostri rivali, e forse superiori a noi nell’arte del paesaggio, non coltivarono mai l’unicità del punto di vista, redigendo delle carte geografiche imprecise, affidate al parallelismo delle linee di fuga, che quindi non “stringevano” l’obiettivo. Si aggiunga il loro guaio di valersi di un sistema di scrittura ideografica, dal numero enorme di caratteri, il che rendeva di ardua appli-


cazione la tipografia. Ma oggi, in piena età elettronica, queste due armi del vecchio Occidente, la stampa gutenberghiana e la camera pre-fotografica, sono ormai spuntate, non fanno più la differenza. Il ’68 è stato davvero rivoluzionario in arte, anzi, ha portato a condannarne gli strumenti tradizionali, il pennello, la tela, il riquadro su cui proiettare le immagini esterne. Sulla scorta della diffusione del campo elettromagnetico si è predicata l’invasione dello spazio (environment, Land Art, installazioni site specific), oppure l’immersione nella propria corporalità (Body Art), l’estetica intesa come esercizio di sensorialità affidata all’azione, alla performance. In Italia tutto questo clima ha trovato espressione, anche se non solo, nel fenomeno dell’Arte povera. Rifiutando il tradizionale mimetismo, simile a un fedele specchio della realtà, abbiamo anche rinunciato a un accorgimento che lungo tutti i secoli della modernità ci aveva permesso di procedere a una occupazione fisica dei territori, rispetto a tutti gli altri Paesi del globo. Non si è riflettuto abbastanza su un simile fenomeno grandioso, per cui per la prima volta nella storia dell’umanità tutto il mondo è divenuto Paese, ovvero Indiani, Cinesi, Giapponesi, Turchi, Iraniani, Arabi eccetera dispongono, e sanno manovrare, forse con maggiore abilità rispetto a noi, quei medesimi strumenti della rivoluzione del ’68, anche se, ammettiamolo, è stato pur sempre un occidentale, Joseph Kosuth, a proporli con evidenza didattica, coi suoi famosi “triangoli”, One and three chaìrs, o Three watches, o Three Saws: se tu artista vuoi menzionare una sedia, hai tre modi legittimi per farlo, puoi esporne una foto, o prendere l’oggetto stesso e collocarlo nell’opera, o assumerne da un vocabolario la definizione lessicale. Fu un allargamento senza confini, in quanto a questo modo l’opera poteva dilagare in estensioni smisurate, o invece nascere a livello virtuale, vivere nella nostra mente, come veniva predicato dalla cosiddetta arte “concettuale”. Forse un buon termine per unificare un simile vasto continente fu quello di “comportamento”, magari da far corrispondere a un vocabolo inglese, attitude. Il pensiero va a una mostra illuminante in questo senso, ideata da un grande curator, Harald Szeemann, nel 1969, a Berna, When Attitudes Become Form. Io ebbi la ventura di realizzare poco dopo, alla Biennale di Venezia del ’72, la sezione Comportamento5, invitato ge-

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nerosamente da Francesco Arcangeli che mi volle come sostenitore appunto di questa causa, in contrasto dialettico con la precedente modalità del dipingere, di cui egli preferì essere sostenitore, per rispetto alla propria storia intellettuale. Ma ritornando al cuore del ’68, l’estremismo, anche se di specie estetica e non politica, fu pure la sua ragion d’essere, e dunque il rifiuto dei mezzi tradizionali del dipingere si distinse per una compiaciuta radicalità che giungeva ad escludere anche il colore. Si trattò di una rivoluzione “in bianco e nero”, anche perché il video, che cominciava ad apparire come il logico prolungamento della fotografia, a quei tempi non era in grado di praticare la cromia. Scatta però a questo punto un fenomeno forse inevitabile: quando ci si è spinti troppo in una direzione, subentra necessariamente una sorta di contraccolpo, di rinculo, ce lo insegna anche la fisica, con la legge dell’azione e reazione. Sappiamo bene che se spariamo un colpo col fucile, rischiamo di fracassarci la spalla se non facciamo attenzione. Questo è un modo letterale per accennare a una profonda legge del divenire storico, che non procede solo col pro-gresso, cioè con un avanzare rettilineo davanti a sé. Una simile fiducia nel progresso era tipica soprattutto dell’Ottocento dominato dal positivismo, appunto all’insegna delle “magnifiche sorti e progressive”, mentre il nostro tempo è retto dalle leggi einsteiniane, che fra l’altro negano l’esistenza di rette unilineari nell’universo, procedenti sempre davanti a sé, anch’esse invece si flettono, fino a ritornare su se stesse chiudendo il cerchio. L’universo è curvo, secondo il paradosso dell’immaginare un’astronave capace di procedere all’altissima velocità della luce, con un passeggero a bordo che infine arriverebbe alle proprie spalle, a scorgere la propria nuca. La mia impostazione di metodo ha sempre creduto nelle oscillazioni bipolari, aderendo fin dall’inizio alle coppie dialettiche enunciate da WolÚ fflin, tipica e dominante fra tutte quella sottesa tra i terminali del chiuso e dell’aperto, col loro succedersi, che però, combinandosi con l’asse del tempo, dà luogo a una curva spiraliforme, per cui due stazioni successive di chiuso o di aperto non ricadono mai su se stesse, ma si collocano a distanza, sulla verticale rispetto alle posizioni occupate in precedenza. Ovvero, si potrebbe anche dire,


c’è una sorta di contatori dei giri di pista, che permette di non confondere due gareggianti che sembrano appaiati, mentre uno dei due ha un vantaggio sull’altro, appartiene a una fase più avanzata. Io ho sempre creduto a questi ritmi binari, fedele in ciò all’insegnamento ricevuto dal mio maestro Luciano Anceschi, che esordiva negli anni ’30 proprio enunciando nel titolo della sua tesi di dottorato una di queste coppie dinamiche, autonomia ed eteronomia dell’arte. E dunque, pur aderendo all’“aperto” integrale inalberato dal clima sessantottesco, mi disponevo già a dover ammettere l’inevitabilità di un contraccolpo, che cominciò ad avverarsi fin dai primi anni ’70, anzi, di più, già nel seno stesso dei cultori di quegli esperimenti oltranzisti. Tra i membri dell’Arte povera si distingueva ab origine Giulio Paolini che applicava i precetti del non-dipingere, dell’avvalersi di disegni, parole, oggetti, ma andando a rovistare nei depositi di un museo di antichità. A questo modo si ricollegava a due grandi precedenti che la nostra storia dell’arte può vantare, Antonio Canova, il primo che ebbe il coraggio di prendere le statue del museo grecoromano, ma tali e quali, meglio in copia, nei brutti gessi esibiti nelle accademie di belle arti, consegnati irrimediabilmente al kitsch, al cattivo gusto. Su quella lontana esperienza si era innescata la più recente di Giorgio De Chirico, la cui Metafisica aveva enunciato il principio di ispirarsi non già all’originalità, alla ricerca del nuovo ad ogni costo, bensì all’originarietà, al ritorno ai padri deputati e ai loro capolavori. Infatti, a breve distanza dal sessantottismo, si sono visti scattare i precetti del “ritorno a”, della citazione, della rivisitazione programmatica. Del resto un’oscillazione molto simile si era già avuta un mezzo secolo prima, quando gli stessi Futuristi, morto Boccioni, avevano voltato la rotta del loro navigare indietreggiando proprio verso soluzioni arcaiche; si pensi a Carlo Carrà, che del resto andava a raggiungere, al momento di abbracciare un andamento del genere, il collega De Chirico, che di quel modo di procedere era stato da sempre il praticante indefesso. Lo stesso De Chirico, all’inizio degli anni ’70, ritornava in pieno a correre quelle acque, riproponendo se stesso in una versione volutamente leggera, improntata a quei colori quasi infantili che frattanto anche la televisione stava per adottare, proponendoci il primitivismo sfavillante dei car-

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toni animati. Se Paolini, in definitiva, era riluttante a valersi di una tavolozza gioiosa e scintillante, alcuni membri più giovani, pur usciti da quella medesima compagine, come Salvo e Luigi Ontani, furono pronti a rimettere in scena un cromatismo pieno, saturo, ma sempre accompagnato da una nota intellettuale. Ad appena due anni dall’aver dedicato al Comportamento una rassegna esemplificativa io ritornavo al lavoro proponendo la Ripetizione differente, in una mostra che Giorgio Marconi mi permise di realizzare nel suo allora Studio6. Il binomio era ricavato da uno dei nouveaux philosophes francesi, Gilles Deleuze, l’unico che io abbia accettato e ricalcato, mentre sono sempre stato molto critico verso Foucault e Derrida7. Posso rivendicare una precedenza cronologica, in quanto quella mostra fu forse il primo segno netto di una inversione di marcia, che poi avrebbe conosciuto tanti altri affiliati. Io stesso, accanto ai due capofila Ontani e Salvo, gli unici che all’altezza del ’74 fossero già maturi per assumere una tale responsabilità, aggiunsi via via molti altri esponenti, con l’aiuto di due validi collaboratori, Francesca Alinovi e Roberto Daolio, reclutando una larga formazione di quasi una ventina di unità. Le demmo un nome forse un po’ generico, i Nuovi-nuovi, mentre più azzeccata era l’etichetta, di Anacronisti, con precisa allusione a un voler capovolgere, “ana”, una regolare direzione dell’asse del tempo, assunta da una formazione in concorrenza con noi. Ma anche il capofila di questo gruppo, Carlo Maria Mariani, ebbe il battesimo della presentazione a una sua mostra da un mio scritto, benché in prevalenza questo gruppo sia stato seguito da Maurizio Calvesi e da altri critici. E ci fu infine il quintetto della Transavanguardia, reclutata da Achille Bonito Oliva, che lì per lì sembrò portar via tutto il piatto, ma poi, poco alla volta, i miei moschettieri si sono rifatti, e ora le quotazioni critiche, soprattutto di Ontani, risultano essere parecchio alte. Riprendiamo però a utilizzare certi schemi filosofici. È vero che in genere mi sono valso con abbondanza di quello binario, delle oscillazioni pendolari, ma sono pronto anche a riconoscere i buoni meriti dello schema ternario applicato soprattutto da Hegel, e infatti per capire quanto è avvenuto dagli anni ’80 inoltrati fino ad oggi è di questo che ci dobbiamo servire. Il clima del ’68, col suo estremismo negazionista di tante virtù buone o cattive


della tradizione pittorica, ha funzionato da tipica tesi, che proprio per la sua radicalità ha chiamato in causa un movimento avverso, una antitesi, ben rappresentata da quanto io ho posto sotto il cappello della Ripetizione differente, o in genere dell’intero capitolo del citazionismo. Ma poi viene inevitabilmente l’ora della mediazione, ovvero di una sintesi che assume gli aspetti validi di ciascuna delle due posizioni precedenti armonizzandole tra loro. Una sintesi del genere emerse magnificamente in una mostra tenuta nella Galleria di Ileana Sonnabend, e dunque nella indubbia capitale dell’arte occidentale, a New York, nel 1986, in cui compariva in primo luogo Jeff Koons, deciso a ritrovare gli oggetti monumentali di Oldenburg, ma portandoli verso un’aura di gioco, di futilità. Diciamo in formula che se la Pop Art aveva voluto dare cittadinanza artistica agli oggetti del consumo quotidiano, appunto i cibi, gli impianti igienici, le macchine da scrivere, come era stato nel caso di Oldenburg, ora bisognava fare attenzione a una generazione di oggetti più sofisticati, caratterizzati da tante scelte personali, da tanti optional, il che del resto stava accadendo anche nell’ambito delle automobili. Questa nota di eleganza frivola era un lascito dalla stagione del “ritorno a”, del recupero di qualche valore auratico. Accanto a Koons, quella medesima mostra schierava Haïm Steinbach, che su degli scaffali, proprio da supermarket, allineava anche lui tanti reperti snidati tra i prodotti legati al superfluo, a scelte eccentriche e impensate, non certo a strette e imprescindibili necessità. Tra gli altri, figurava Peter Halley, che sciorinava tutti quei colori striduli, acidi da cui sono invasi gli interni dei nostri uffici, anch’essi in definitiva improntati a un cattivo gusto, pronto però a riscattarsi fino ad acquisire un valore raro e sofisticato. Infine c’era pure un giovanissimo europeo, un fiammingo, Wim Delvoye, anche lui capace di proporci i suoi validi ossimori, come per esempio il rifacimento di una banale rete da campo di calcio, ma foderata con vetrate neogotiche degne di una tavernetta di buona borghesia. Oppure una macinatrice di cemento che veniva intagliata nel legno come fosse un ciondolo di lusso. Naturalmente anche nel resto dell’Europa, e anche presso di noi, in Italia, emergevano questi prodotti di sintesi, sospesi tra rigori ancora sessantotteschi e impreziosimenti auratici. Non posso certo qui stare a sfornare lunghi elenchi: mi

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limiterò a rimandare alle molte mostre in cui ho indagato su questi multiformi e piacevoli aspetti, prima fra tutte la rassegna proprio intitolata agli Anninovanta8. Ma è giunto il momento di abbandonare l’Occidente per dimostrare che la rivoluzione del ’68, ovvero del raggiungimento di una compiuta cultura di specie elettronica, in perfetta osservanza dei precetti di McLuhan, si è compiuta davvero erga omnes, ha riguardato tutti i continenti e Paesi del mondo, realizzando la situazione assolutamente inedita, nell’intera storia dell’umanità, di vederci tutti impegnati ad armi pari nel confezionare opere o animazioni di ordine artistico-estetico. Compresa pure una partecipazione sempre più estesa anche alle donne artiste, e magari anche agli appartenenti al terzo sesso, verso cui proprio questa temperie oggi dominante risulta largamente favorevole. Questa del resto altro non è che una nuova declinazione dello spirito di sintesi hegeliana di cui sto parlando. Al proposito c’è da parare una minaccia insidiosa: qualcuno infatti potrebbe rinfacciarmi che in tal modo sto celebrando il fenomeno della globalizzazione, dell’omologazione di ogni prodotto, sia a livello di consumo sia anche di gusto. Ma così non è, dato che davvero il principio della sintesi funziona, permettendoci di offrine una variante assai utile, secondo cui il “globale” si congiunge in una crasi, o se si vuole in un ossimoro, col “locale”. Nasce una perfetta risultante volta a parlarci dl “glocalismo”, che è il clima oggi, e ritengo anche nei prossimi tempi, dominante a livello mondiale. Ovvero, gli strumenti tecnologici sono comuni, in ogni Paese oggi gli artisti lavorano con la foto, fra l’altro ormai ottenuta per via digitale, come sottile tessuto di minuti pixel, pronta anche a prolungarsi nei video. Oppure prelevano gli oggetti stessi per collocarli nello spazio, o li contornano, li avvolgono, li condiscono con scritte, che magari sono tracciate con i caratteri ideografici propri di Cina e Giappone, o con i caratteri ebraici, o arabi, così da creare davvero un incantato, magico arabesco, ben superiore ai rigori spartani che appartengono alla nostra scrittura fonetica. Ovvero, la nudità austera della fase sessantottesca è temperata dagli apporti della successiva fase citazionista, o detto ancora in altri termini, gli artisti dei vari Paesi del mondo applicano una strumentazione comune, ma per andare a recuperare tesori, me-


morie, giacimenti delle loro rispettive tradizioni. Il triangolo di Kosuth, nudo, “povero”, schematico si arricchisce ormai di una serie numerosa di altri bracci e punte, fino a spingersi verso esiti di grande fertilità, graffitismo, muralismo, wall painting, street art, così ponendo fine all’ostracismo che l’Occidente aveva osato pronunciare contro l’intero capitolo dell’ornamento. Quanto alla possibilità odierna di evitare una neutra e passiva omologazione di esiti posso riferirmi a un esempio perfetto, che ci viene da un artista messicano, Damian Ortega, nato nel 1967, in fondo l’età statisticamente prevalente tra questi esponenti di un felice mondialismo. In una mostra ospitata a Torino, alla Fondazione Sandretto Rebaudengo, che ho avuto il piacere di visitare, egli ha preso per le corna il reo numero uno della possibile accusa di globalizzazione neutra e impassibile, la bottiglietta di Coca Cola, ma dimostrando che in ogni paese, se il contenuto è uguale e indiscriminato, il contenitore viene modellato in forme diverse, autonome, qualche volta più affusolate e col collo slanciato, altre volte invece tozze, schiacciate su se stesse. Quasi la raffinata stilizzazione di Morandi applicata al prodotto più vile sul mercato. Ecco il meccanismo che consente di produrre una felice differenza, pur nell’applicazione di strumenti per tanti aspetti simili. Posso procedere a una dimostrazione di questa felice situazione attuale elencando, quasi per ogni paese, un qualche campione balzato agli onori della critica, e del mercato, e proprio nel nome di questo fortunato glocalismo9. Per il Giappone si distingue in primo luogo Takashi Murakami, orditore di tappeti floreali, da cui però si innalzano pure idoli, talvolta aggraziati, quasi leziosi, talaltra truci, come guerrieri usciti da antiche saghe, e magari in combutta col suo omonimo narratore, o col grande regista cinematografico Akira Kurosawa. Al suo fianco, una donna artista, Mariko Mori, che parte dalle geishe dei nostri giorni, da dive della pornografia o delle parate di moda, onuste sotto il peso di acconciature gonfie, esagerate, ma pronte anche a prendere una strada penitenziale e a mutarsi in raffinate sacerdotesse di culti obsoleti, o al contrario a imbarcarsi su astronavi protese a solcare gli spazi interstellari. Si sa poi che il Giappone possiede un primato a livello di cartoons, che un’altra artista, nota con un nome d’arte, Tabaimo, è pronta a travasare in magnifici video, proietta-

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ti in modo da fasciare per intero un estasiato spettatore, distendendosi sul soffitto, sul pavimento, sulle pareti. Ma anche l’India non intende certo mancare a questo festoso e fastoso appuntamento, con Subodh Gupta che rappresenta il momento in cui anche l’economia domestica del suo Paese si può permettere batterie da cucina o da toilette fatte di scintillanti utensili metallici cromati, da accumulare in ricche panoplie, quasi inseguendo gli esiti dell’ormai lontano Nouveau Réalisme di César e di Arman. Notevole anche Jitish Kallat che ritrova nelle carcasse di auto o di altri mezzi di viaggio dei nostri giorni la presenza di scheletri disossati, forse di dinosauri preistorici. Dall’Iran è venuta una straordinaria Shirin Neshat che riscatta l’onore e la dignità delle donne della sua gente portandole a impugnare orgogliosamente un fucile, dal cui orifizio, però, svetta un fiore di pace. E tutto attorno c’è una distesa vergata con i sottili ed eleganti caratteri cufici. Naturalmente non è che il nostro Occidente esca del tutto dall’orizzonte, anzi, c’è chi in qualche misura ne è figlio, come il più importante videoartista dei nostri tempi, il sudafricano William Kentridge, che per un verso commenta addirittura le avventure di un nostro classico quale Italo Svevo, ma per un altro eleva un commosso inno alla rivolta dei neri sottoposti, fino a ieri, alle angherie dei bianchi dominanti. L’Africa è enorme, e dunque molti e grandemente diversificati tra loro sono gli apporti che ce ne giungono, e mai del tutto dimentichi dell’antico dominio coloniale. Così per esempio Inka Shonibare se ne vendica proponendo qualche bianco colonialista simile a uno spauracchio, a uno spaventapasseri, ma mozzandogli la testa, però nello stesso tempo abbigliandolo coi tessuti multicolori della tradizione locale. E anche un pur totalmente ambientato in Inghilterra Chris Ofili mantiene qualche proficuo ricordo dell’Africa d’origine traendo perfino dagli escrementi degli elefanti come delle filigrane decorative. Rivolgendoci a un altro smisurato continente, l’America, e dando per scontato che continuano a giungerci straordinari prodotti dal Nord degli USA e dal Canada, rivolgiamo però lo sguardo, sicuramente premiato da ottimi frutti, verso l’America Latina. Tomàs Saraceno, argentino, anche se emigrato in Germania, sembra assumersi il compito di materializzare l’impalpabile reticolo di tracciati elettronici da cui è solcato l’etere, materializ-


zandolo con tanti lacci e legami sospesi a mezz’aria. Dal Brasile Ernesto Neto lancia una incredibile sfida ai tesori della foresta dell’Amazzonia tentando di imitarla stendendo e gonfiando pelli, membrane, epidermidi ottenute coi nostri materiali sintetici. Sembra quasi il rifacimento della gara esopea tra la rana e il bue. Risalendo l’enorme corpo americano, e giungendo in Colombia, ecco Doris Salçedo, capace di fondere molto bene il formalismo minimalista con un cupo, tragico riferimento ai sommovimenti, alle stragi che hanno scosso il suo Paese. Negli interstizi tra due edifici questa artista accumula, incastra a forza un gran numero di nudi scheletri di sedie, un tempo occupate da esseri viventi, che però sono stati soppressi, per cui ora restano al loro posto soltanto dei vuoti terribilmente eloquenti. E ancora più su, se ci spingiamo verso Cuba, ecco un altro testimone, Kcho, che dalla diaspora della sua gente, pronta ad affidarsi a fragili imbarcazioni per sfuggire alla dittatura castrista, ricava dei fiori malati eppure suggestivi, ovvero coi detriti di quelle barche compone delle corolle gigantesche, delle ninfee galleggianti.

1   Rimando in proposito al testo di cui mi sono valso per un trentennio quale manuale del mio insegnamento al DAMS dell’Università di Bologna, Scienza della cultura e fenomenologia degli stili, ultima ed. BUP, Bologna 2007. 2   Feltrinelli, Milano 2001. 3   Feltrinelli, Milano 1984, poi aggiornato nel 2005. Per un ulteriore approfondimento si veda l’altro mio saggio, Prima e dopo il 2000, ivi, 2006. 4   Sono anche autore di una Storia dell’arte contemporanea in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2011. 5   Di cui il Centro Pecci di Prato ha proposto un rifacimento, con cat. Silvana editoriale, Milano 2017. 6   Anche di questa mi è stato possibile offrire un rifacimento, nel 2013, sempre presso Marconi, frattanto divenuto Fondazione. Cat. autoedito. 7   Per le mie riflessioni su quegli autori francesi rimando al mio saggio Tra presenza e assenza, Bompiani, Milano 1979, seconda edizione. 8   Mazzotta, Milano 1991. 9   Mi posso vantare di aver organizzato delle rassegne organiche degli emergenti nei vari Paesi, partendo dall’Italia, attraverso delle Officine via via dedicate alle diverse aeree, cominciando dall’Italia, 1997, poi l’Europa, 1999, poi l’America del Nord, USA e Canada, 2002, infine Asia (Cina, Giappone, Corea del Sud), 2004, tutte con catalogo Mazzotta, Milano. Purtroppo la Regione Emilia Romagna, che ha il merito di aver finanziato quelle mostre, ora ha cessato di darmi un sufficiente contributo.

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L’arte del XXI secolo MASSIMO MAIORINO

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Fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, il sistema dell’arte ha subito profonde trasformazioni per effetto di elaborazioni avvenute nel corpo della storia dell’arte e, ancor prima, della storia tout court, che Hans Belting ha posto sotto l’emblema de La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte (1983) inaugurando un nuovo corso aperto al racconto di “più storie dell’arte”1, di molteplici modi narrativi. Una libertà di cui è un dato ormai acquisito il collasso del modello di uno sviluppo lineare e progressivo della storia dell’arte, a fronte di una pluralità che si manifesta in “osservazioni provvisorie e parziali”2. Più di recente, da un’altra postazione e con intenzioni differenti, ma convergenti, Arthur Danto ha osservato, che “in un certo senso l’atmosfera post-storica restituirà l’arte a scopi umani”3 ed ha precisato che “l’arte dopo la fine dell’arte, quella che riflette la nostra epoca, è capace ormai di convivere con il pluralismo nell’arte, ma non ancora nella vita politica e religiosa”4. Una proposta che elegge l’arte a stazione esemplare di scambio e di comprensione dei transiti della modernità, ma anche a paradigma complesso e articolato delle interrelazioni che governano la società. Riflessioni, i cui segnali ancora definiscono il quadro critico ed artistico attuale, che Trimarco, in un testo del 2004, ha analizzato e ha colto nello spazio post-storico un territorio mobile e ricco, difficilmente riducibile allo splendore di pochi emblemi, in cui si concretizza il progetto dell’arte o più propriamente dell’esperienza estetica come spazio di decostruzione e costru-


zione non soltanto delle strutture e dei profili semiotici delle pratiche specifiche, ma insieme, della vita e del mondo5. Da questa latitudine che dimostra il ruolo centrale e privilegiato dell’arte, in quanto, al contempo, pratica decostruttiva e fondativa di linguaggi, si annuncia, in questo primo segmento del XXI secolo, anche la dimensione planetaria che Edgar Morin ha presentato come un tutto che si nutre di ingredienti multipli, conflittuali, crisici, che li ingloba, che li supera e che, a sua volta, li nutre, una condizione che è certamente unificatrice, ma va subito aggiunto che è anche conflittuale nella sua essenza6. Un fenomeno, la planetarizzazione, che non comporta uno spazio liscio e trasparente, ‘pura mediazione’ contraddistinta dal tratto ontologico del continuum […] piuttosto genera aspre contraddizioni spazio-elementari che turbano la geometria piana del pensiero politico illuminista ed invita alla ricerca di una nuova misura nei rapporti tra l’uomo e la Terra, l’urgente necessità di un nuovo nomos globale7. È la fase che segna per Belting la nascita della global art che By its own definition is contemporary and in spirit postcolonial; thus it is guided by the intention to replace the center and periphery scheme of a hegemonic modernity, and also claims freedom from the privilege of history8. Così lo sguardo dal di fuori (Boatto) che segna lo “spaesamento ecumenico” della Terra, è anche un avvertimento che racchiude il grande tema del nomadismo e connette gli itinerari dell’antropologia e dell’architettura, tra gli aspetti più vivaci del tessuto artistico odierno, oltre a suggerire il passaggio essenziale tra centro e periferia, metropoli e megalopoli, e ad aprire alla questione centrale dell’abitare. Dunque un arcipelago complesso di temi e di figure, di luoghi e di transiti, che significa per l’arte contemporanea La perdita del centro, per utilizzare il titolo del saggio di Hans Sedlmayr che recentemente Stefania Zuliani ha risemantizzato, osservando come lo storico dell’arte austriaco ha indicato in maniera paradossalmente involontaria, una linea di sviluppo dell’arte contemporanea tra le più interessanti e criticamente efficaci. Sì, perché il tono apocalittico di Sedlmayr – “Tutti i centri sono in frantumi/ non esiste più nessun centro”, scriveva Majakovskij nei versi che Sedlmayr scelse come esergo per il suo libro –, riflette

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la Zuliani, assume oggi il sapore di una profezia non priva di speranza, oggi che il gerarchico rapporto tra centro e periferia sembra essere fortunatamente saltato a favore di una più mobile condizione di orizzontalità, non priva, certo, di contraddizioni e di drammatici conflitti9. Una nuova episteme spazio-temporale, che segna una rimappatura dei luoghi, ma anche una riperiodizzazione dei fatti – Che cos’è il contemporaneo? (Agamben) – che ha riguardato anche il racconto dell’arte ordito dalle istituzioni, come nel caso esemplare per l’Italia della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, le cui collezioni sono state riscritte dalla direttrice Cristiana Collu sotto il segno di Time is out of joint10. Così la cartografia dell’arte dalla postazione offerta da questo primo ventennio del XXI secolo suggerisce una nuova geografia dell’arte11 che sfugge alle cesure continentali di cui, come ha osservato Stefano Chiodi, sono appunto i musei e le grandi manifestazioni artistiche internazionali, i punti di osservazione fondamentali e privilegiati […], rappresentano la pluralità di voci, di tendenze espressive e appartenenze culturali che la caratterizzano12. In questo quadro, i musei hanno assunto una centralità mai conosciuta prima nel sistema dell’arte divenendo spazi dialogici, luoghi, connessioni e zone di contatto (Cameron), ma anche straordinari palinsesti architettonici sempre meno vincolati alle collezioni permanenti. Se, all’imbocco del duemila, Achille Bonito Oliva annotava come il trend tipico dell’economia finanziaria, la globalizzazione, sembra segnare anche le strategie del sistema dell’arte, con un’attenzione non all’opera ma al suo emblema eccellente: il museo13, durante l’ultimo decennio, anche per effetto della crisi finanziaria, si è innescato – come ha avvertito Claire Bishop14 – un processo di radicale messa in discussione delle funzioni museali che ha fatto dei musei dei dispositivi di ricerca e di sperimentazione per rispondere alle mutate esigenze della società. Veri e propri laboratori che, assumendo spesso anche le funzioni di committenza, sono diventati spazi di esperienza creativa, ponendo così il processo artistico al centro della strategia museale. Una dimensione globale che nel nuovo millennio ha segnato l’allargamento ad aree geografiche originariamente considerate periferiche come i paesi balcanici, l’America Latina, il Nord


Africa, il Sud-Est asiatico e soprattutto la Corea e la Cina, innescando una contagiosa Biennal fever che ha prodotto l’affermarsi di una specifica disciplina di studio, la “biennalogia”15. Così, accanto ad un crescente consenso ottenuto dalle manifestazioni storiche d’area europea, come la Biennale di Venezia, la Documenta di Kassel e l’itinerante Manifesta che si sono sempre più definite come costruzioni sinuose e magmatiche, c’è stata un’inarrestabile proliferazione planetaria che dal 2001 ha visto la nascita della Biennale di Tirana, nel 2003 è stata la volta di Praga, risale al 2005 la prima edizione della Biennale di Marrakesh e della Biennale di Mosca, mentre nel 2007 è nata in Argentina la Biennal del Fin del mundo, nel 2012 in India ha fatto il suo esordio la B. di Kochi e nel 2014 in Thailandia la Pattaya Biennial, mentre per il 2016 è prevista la prima Honolulu Biennial16. Alle forme istituzionalizzate della global art si affianca, in una scena vivace e fluida, un’articolata galassia di luoghi e figure che in un costante divenire ne modella l’orizzonte: fiere d’arte e collezioni private, fondazioni e residenze d’artista formano un quadrilatero nevralgico del sistema dell’arte, ma anche lo spazio in cui agiscono figure complesse e trasversali come il curatore-artista – un sincretismo adoperato da artistar come Luc Tuymans (1958), Maurizio Cattellan (1960), Damien Hirst (1965) – ed il collezionista17. Tutti indizi di una condizione dell’arte che, come ha ricordato Rosalind Krauss, si trova nella sua fase postmediale, caratterizzata da un’estrema varietà di forme e modi (performance, installazione, testo, fotografia, film, video, elaborazione digitale ecc.) e dall’abbandono del carattere specifico dei diversi media (pittura, scultura, ecc.) a favore di pratiche fondate sulla nozione di arte-in-generale18, in cui qualsiasi tassonomia diventa una risposta temporanea e parziale. Un orizzonte mobile, caratterizzato da un numero elevatissimo di artisti in attività, che Renato Barilli legge con ottimismo – il fare arte, oggi, è una condizione estremamente diffusa, il che consente di trarre i migliori auspici circa il futuro che ci attende19 –, di cui, tra connessioni ed intersezioni, consideriamo alcuni temi teorici – cinque macrocategorie: poetiche postcoloniali, impulso archivistico, nuovi linguaggi del corpo, l’immagi-

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ne dipinta, micro utopie e zone di resistenza – come dispositivi d’analisi delle pratiche artistiche di questo primo segmento del nuovo secolo. Poetiche postcoloniali

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Un osservatorio d’avvicinamento allo spazio presente dell’arte, segnato dalla perdita del centro, è offerto certamente dalla galassia di artisti che accoglie le teorie post-coloniali. Fenomeni artistici che, con un’immagine efficace, Barilli ha interpretato come segni della caduta del codice occidentale, osservando che oggi la geografia ‘fa premio’ su ogni altra considerazione, oggi sono le ‘latitudini’ a divenire forma, a farsi carico della smisurata gamma di espressioni, tutte ugualmente lecite e poste sullo stesso piano, con pari valore e dignità20. Un’area che così configura la sinuosità del pensiero arci-pelagico di Édouard Glissant21, una riflessione in cui vengono discussi alcuni dei concetti cardine della cultura occidentale, come quelli di nazionalità, identità, purezza etnica, razza, per schiudere all’alterità delle culture differenti, ai flussi delle grandi migrazioni, a quei soggetti sradicati che caratterizzano e attraversano spazi e tempi della nostra con­temporaneità. Più nello specifico, le teorie postcoloniali analizzano i retaggi culturali del colonialismo e le conseguenze umane del controllo di un paese allo scopo di sfruttare il popolo nativo e la sua terra. In tal modo, affrontano anche come la società e la cultura dei popoli non europei siano state viste dalla prospettiva della conoscenza culturale occidentale e gli effetti sull’identità di colonizzatore e colonizzato. Dunque una proposta che è incentrata sul concetto di scambio e su una prospettiva fondata sull’ibridazione tra culture diverse che porta l’arte sulla via dell’antropologia, come aveva indicato, già negli anni Ottanta, Joseph Kosuth suggerendo la figura dell’antropologo impegnato come modello operativo per l’artista. Un territorio abitato da un elevato numero d’artisti che affronta questi aspetti attraverso una pluralità di linguaggi e da latitudini diverse, tra i quali iscriviamo presenze strategiche come quelle di William Kentridge (1955), Glenn Ligon (1960), Ghada Amer (1963), Subodh Gupta (1964), Kara Walker (1969), Henrique Oli-


veira (1973), Gonçalo Mabunda (1975). Di questa costellazione, il sudafricano Kentridge è forse la figura più brillante, poiché esprime in modo esemplare le tensioni postcoloniali anche per via delle condizioni estreme in cui si è verificato questo fenomeno nel suo paese d’origine. Con la sua opera ha analizzato gli effetti e respinto le drammatiche storture prodotte dalla feroce repressione razzista mediante il sistema dell’apartheid. Un discorso che Kentridge ha ordito incrociando scavo interiore e memoria collettiva, identità ed alterità, attraverso l’invenzione di due personaggi: Soho Eckstein, magnate bianco di Johannesburg, a cui si contrappone Felix Teitlbaum, uomo sognatore identificabile come alter ego dell’artista. Ne ha narrato la storia attraverso lunghe processioni – “una cinematografia dell’età della pietra” ha osservato l’artista – composte da straordinarie sequenze di disegni moltiplicati, animati e proiettati. Affrontando i processi interiori di trasformazione della memoria collettiva in narrazione storica, Kentridge ha costruito affascinanti palinsesti intermediali (Krauss) di cui è una straordinaria prova la grande opera d’arte pubblica Triumph and Laments (2016) realizzata per la città di Roma. Una dimensione intima invece connota la riflessione dell’artista egiziana Ghada Amer che, nutrendo la pittura con il gesto dolce del ricamo, con le forme della sartoria, ha indagato aspetti legati alla condizione femminile nel mondo arabo, all’estremismo ed al fanatismo religioso, ma soprattutto ha indagato il potenziale sovversivo prodotto dalla seduzione del corpo. In opere recenti, come You are a lady (2015) e Ma lune noire-RFGE (2016), figure di donne appaiono nel groviglio dei fili, parti di corpi e particolari intimi appaiono e scompaiono nell’intreccio del ricamo; così, in un processo di continua ricostituzione dell’immagine, si attua una metafora del processo di ridefinizione dell’identità femminile. Dunque una riflessione che coniuga le traiettorie postcoloniali con le questioni di genere, facendo della condizione femminile un emblema dell’alterità, un elogio del differente. Impulso archivistico Un filo che scorre tra le esperienze dell’arte del tempo presente rivela, seppure con orientamenti assai diversificati e con

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forme altrettanto variabili, un crescente impulso archivistico nella produzione artistica. Un orientamento che trova nutrimento nella riflessione di Foucault che ha segnato l’archivio innanzitutto come la legge di ciò che può essere detto, il sistema che governa l’apparizione degli enunciati come avvenimenti singoli, ma ha anche sottolineato un altro aspetto nodale che nella sua totalità, l’archivio non è descrivibile; ed è incircoscrivibile nella sua attualità. Esso si dà per frammenti, regioni e livelli, indubbiamente tanto meglio e con tanta maggiore nettezza quanto più il tempo ce ne separa22. Così, muovendo dalle indicazioni teoriche foucaultiane, l’arte contemporanea ha assunto l’archivio non solo come oggetto d’indagine, ma anche come medium per realizzare nuove visioni e ricostruzioni del mondo, che spesso nascono in parallelo, se non addirittura in anticipo, rispetto al discorso filosofico-speculativo che dall’archivio sembra essere di giorno in giorno sempre più affascinato23. L’impulso archivistico, come ha registrato con prontezza Hal Foster24 già nel 2004, è una delle tracce più marcate dell’arte internazionale e trova un potente propulsore nel modello suggerito dal mega-archivio di internet: si presenta in una poliedricità di forme che vanno dall’atlante-mappa all’album-diario, dal modello della Wunderkammer allo schedario-database nelle sue possibili varianti. In questo campo, con modalità differenti, opera una nutrita squadra di artisti, tra i quali segnaliamo, Thomas Hirschhorn (1958), Mark Dion (1961), Pierre Huyghe (1962), Gabriel Orozco (1962), Philippe Parreno (1962), Tacita Dean (1965), Elisabetta Benassi (1966), Roberto Cuoghi (1973). Sul fronte mediale di questo raggruppamento troviamo il francese Huyghe che lavora sull’archivio come forma di postproduzione25 – così come teorizzato da Bourriaud (2001) –, dispositivo di sovrapposizione che incrocia realtà, rappresentazione e interpretazione, soprattutto mediante il filtro del cinema. Attraverso un approccio creativo che non si limita a selezionare e rielaborare linguaggi e contenuti, ma riutilizza persino le stesse forme di esposizione e distribuzione alla stregua di inesauribili repertori di forme26, Huyghe realizza opere come la videoinstallazione The Third Memory (2000), complesso archivio visivo che intreccia eventi accaduti ed invenzioni, cronaca e finzione.


Sotto l’emblema del collezionismo si muove invece Mark Dion che, lavorando sul confine evanescente tra opera e collezione, riproduce l’ordine di rappresentazione delle Wunderkammer, di cui restituisce la grammatica espositiva attraverso l’utilizzo di teche, vetrine, cornici. Tra il metodo scientifico e le influenze soggettive, Dion riflette sui sistemi di ordinamento, di classificazione e di esposizione, costruendo delle articolate narrazioni visive che oscillano tra le forme delle raccolte di scienze naturali ed i cabinet de curiosité, come nel caso dell’esposizione napoletana The Pursuit of Sir William Hamilton (2014)27. Dell’impulso archivistico, Tacita Dean, appropriandosi di un metodo scientifico-archeologico di raccolta, è forse il modello esemplare. In un certo senso, il suo lavoro d’archivio è un’allegoria del lavoro d’archivio, che come ha osservato Foster, talvolta è melanconico, spesso vertiginoso, sempre incompleto28. L’interesse per il passato, per la memoria, per le testimonianze di ogni genere si manifesta nell’utilizzo di uno stile documentaristico, come evidenzia anche un’opera come Still life (2009) dedicata a Giorgio Morandi29, che rende il suo lavoro enigmatico ed affascinante. I suoi racconti – storie di fantasmi – si sviluppano in una pluralità di linguaggi tra video e fotografie, documenti e frammenti, che assumono la forma di installazioni preservando il carattere eterogeneo e discontinuo della ricerca degli oggetti ritrovati. Nuovi linguaggi del corpo Le trame disegnate dal Posthuman hanno avuto il merito di richiamare l’attenzione del mondo dell’arte su questioni e temi in cui sono impegnate, in misura e con sensibilità diverse, la filosofia e le scienze, nell’interrogarsi, appunto, sulla destinazione dell’umano30, ha osservato Trimarco rileggendo le poetiche che, dalla metà degli anni Novanta, hanno collocato il corpo al centro della propria ricerca. Del resto, come ha spiegato Francesca Alfano Miglietti: uno dei più evidenti segni della rivoluzione cognitiva degli ultimi anni è nel modo in cui gli esseri umani vedono se stessi, e nei loro corpi mutati, grazie alla messa in discussione di ruoli sociali e sessuali tradizionali, è già iniziato il processo di una nuova definizione della vita umana31. Dun-

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que l’uso del corpo come codice dell’arte è uno snodo decisivo per decifrare la “destinazione dell’umano” nel nuovo secolo, attraverso un linguaggio che, pur nel sotterraneo dialogo con le forme maturate già dagli anni Settanta con la Body Art, è orientato ad interrogare il corpo nelle sue relazioni con la tecnologia, ma anche come luogo di contaminazioni e di ibridismi. Così il corpo nell’arte del presente diviene dispositivo di verifica, laboratorio aperto, che affronta la natura e la tecnologia, l’etica e la bioetica, il reale ed il virtuale, la sessualità e la chirurgia, le politiche identitarie e le funzioni del corpo nello spazio sociale, zona di confine dell’identità, di ibridazione tra l’io e l’altro, fra una cultura e l’altra32. Un ampio spettro ricognitivo, in costante divenire, che esplora il corpo come medium diretto ed indiretto – da opera a supporto dell’opera a matrice dell’opera – attraverso infinite varianti linguistiche come la pittura, la scultura, l’installazione, la video art, la performance, la fotografia, il cinema, l’elaborazione digitale. Una dimensione postmediale ispirata dal corpo, interpretata da un elevato numero di artisti in attività, tra i quali un segmento parziale ed eterogeneo è formato dai nomi di Shirin Neshat (1957), Francis Alÿs (1959), Maurizio Cattelan (1960), Oleg Kulik (1961), Sarah Lucas (1962), Matthew Barney (1967), Anri Sala (1974) e la Societas Raffaello Sanzio (1981) fondata da Romeo Castellucci, Claudia Castellucci, Chiara Guidi e Paolo Guidi. Di questa latitudine dell’arte, l’universo generato ed abitato da Matthew Barney è uno dei modelli più affascinanti, di cui il Cremaster cycle (1994-2002) è il nodo nevralgico. Nei cinque episodi che lo compongono, l’artista è protagonista di continue trasformazioni ed ibridazioni che lo presentano come una figura androgina che si muove tra spazi ipertofici disseminati di simboli e di allusioni sessuali. Opera complessa dalle infinite esegesi, al confine tra Body Art e cinematografia, fiaba ed allucinazione, biologia e mitologia, mostra il corpo dell’artista che cresce e si modella dentro frammenti di storia recente e mitologica, tra resistenze fisiche ed energie che invadono e determinano la sua stessa costituzione organica. Un’indagine che segna il corpo, come macchina in evoluzione, come sistema da cui tutto parte e tutto si realizza. Denso di ambiguità, tra barocchismi ed oscenità, si presenta anche il lavoro di Sarah Lucas che del corpo racconta le meta-


morfosi, lo scarto organico, attraverso sculture che si presentano come grandi escrescenze o deformazione corporali. Una ricerca che tende all’estroversione delle funzioni corporali attuando un’antropizzazione anche dello spazio abitato, con una trasformazione inquietante che colpisce gli oggetti ed il mobilio di casa, come nel caso dell’opera Titti Doris (2017). Un’altra polarità è offerta dalla ricerca dell’iraniana Shirin Neshat che legge il corpo attraverso fotografie in bianco e nero di donne velate, come nella grande serie dedicata alle Woman of Allah (1996-2015): primi piani del viso, delle mani, sulle quali l’artista sovrascrive versi di poetesse iraniane contemporanee, costruendo così un discorso altamente poetico per esplorare la complessità delle condizioni sociali all’interno della cultura islamica, rivolgendo uno sguardo particolare al ruolo che qui la donna ricopre. L’immagine dipinta L’intenso dibattito sullo statuto dell’immagine nell’epoca postmediale dell’arte, che ha animato l’ultimo decennio del Novecento ed il primo del nuovo secolo, ha senza dubbio segnato anche il territorio della pittura. Un gruppo di studiosi impegnato da differenti prospettive, ma con finalità convergenti ha discusso il significato delle immagini; tra questi brillano i nomi di David Freedberg, che ha riflettuto su questi temi nel volume Il potere delle immagini e di Victor Stoichita, che nel saggio L’invenzione del quadro ha seguito l’oggetto quadro nella sua evoluzione a partire dall’epoca successiva a quella dell’immagine. La stessa storia di questo medium è stata riformulata, in particolare da Hans Belting, che ne ha riletto le origini e gli svolgimenti soprattutto come strumento che ha permesso all’immagine di acquisire una presenza, un “corpo”. Lo storico dell’arte tedesco scegliendo la via antropologica, come aveva opportunamente suggerito anche Regis Débray nel suo Vita e morte dell’immagine, ha costruito un’Antropologia delle immagini suggerendo come “la storia delle immagini è sempre stata una storia dei mezzi figurativi”33. Centrale nella riflessione di Belting è dunque la distinzione tra immagine e mezzo, uno scarto che pone il corpo al centro del

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discorso sul visivo che diviene significativamente “luogo delle immagini”. Sono alcuni dei dati teorici che nel nuovo millennio connotano la pratica pittorica che se ha perduto la sua posizione secolarmente privilegiata, non va per questo considerata ‘storicamente’ antiquata: al pari di altri media essa è oggi sottoposta a un processo di revisione e riappropriazione permanente che tende a mostrarne la natura eterogenea, ibridata con altri campi di formazione dell’immagine (fotografia, cinema, televisione, architettura e così via)34. Così la scena pittorica attuale riflette in modo esemplare una tensione postconcettuale e si offre come un caleidoscopio caldo e vivace in cui operano artisti che si sdoppiano in due grandi aree: una sotto il segno del ritorno del reale – per citare Hal Foster – o ancor meglio dell’iperreale, l’altra nella convergenza tra radical painting e site specific. Del primo gruppo la pittura muta del belga Luc Tuymans (1958) – una forma d’arte persistente, che ha a che fare con la maniera in cui una persona contempla un’immagine, attraverso il tempo, con il tempo e oltre il tempo35 – è uno dei riferimenti più luminosi. I suoi dipinti, attraverso una figurazione fredda che si nutre di dettagli, di frammenti, di memorie intermittenti, segnano un approdo esemplare per la pittura della post-storia. Un corpus pittorico che impiega fotografie, ritagli di quotidiani, frame video, come pretesti per approfondire i fatti tragici della storia, focalizzandosi su dettagli superflui, macchie di colore indefinite, che ad un primo sguardo non rimandano al reale significato dell’opera. Le meta-immagini di Tuymans segnano il confine della rappresentabilità, e attraverso l’utilizzo di un cromatismo smorto, riflettono sull’ambiguità della storia creando un’atmosfera meditativa, silenziosa, malinconica che restituisce l’iconografia inquieta del presente. Sotto l’insegna del reale, dell’immagine dipinta, militano anche artisti come Marlene Dumas (1953), Rudolph Stingel (1956), Francis Alÿs (1959), Peter Doig (1959), Ghada Amer (1963), Andrew Grassie (1966), Jenny Saville (1970). L’analisi della grammatica del linguaggio pittorico è invece il centro della proposta che anima artisti diversi come Ian Davenport (1966), Julie Mehretu (1970), Wade Guyton (1972), Cheyney Thompson (1975), Davide Balula (1978). Muovendo dal traccia-


to delle ricerche analitiche degli anni Settanta, da esperienze radicali come quella del gruppo Support/Surface o quella di Daniel Buren, questi artisti riflettono sulla pittura come linguaggio intransitivo, autoriflessivo, come un sistema nel quale la pittura afferma la propria esclusiva sovranità. Una ricerca fredda, frequentemente attuata con formule aniconiche, che si snoda in un doppio itinerario che se da un lato affronta il dipinto come un testo per analizzare gli elementi della sintassi pittorica, dall’altro utilizza la pittura come installazione, come medium di verifica del rapporto fisico e percettivo con lo spazio. Micro utopie e zone di resistenza Il confronto tra culture diverse, le differenze sociali e di genere, i modelli di sviluppo economico, le questioni ecologiche, i diritti delle minoranze, la bio-politica, i processi di globalizzazione, sono solo alcuni dei molteplici aspetti che determinano le pieghe della società che orientano la ricerca di un’eterogenea costellazione di artisti, tra i quali troviamo, Alfredo Jaor (1956), Thomas Hirschhorn (1957), Ai Weiwei (1957), Doris Salcedo (1958), Francis Alÿs (1959), Cristina Lucas (1973). Una famiglia di artisti che coniugano l’energico portato trasformativo delle Avanguardie e delle Neoavanguardie – “il concetto ampliato di arte” segnato dalla stella di Joseph Beuys – con la necessità di ripensare, dentro e fuori le istituzioni, il ruolo dell’arte e soprattutto della società. Un orizzonte articolato al cui interno si profilano delle stazioni di utopia – micro forme per costruire alternative alle strategie del tardo capitalismo –, ma anche delle riserve di resistenza ed antagonismo, che discutono il ruolo e la responsabilità dell’arte. Una latitudine dell’arte polarizzata su la vita, il sogno, il cambiamento, l’azione e la speranza che, come ha osservato una delle sue più figure più energiche, Hirschhorn, interpreta l’arte come uno strumento da utilizzare per affrontare il mondo, la realtà, per vivere nel presente36. L’artista svizzero, interessato ad una dimensione sociale e politica impegnata, costruisce le sue opere come grandi installazioni per analizzare i fenomeni più drammaticamente critici della situazione politica attuale. 24h

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Foucault (2004), Crystal of Resistance (2014) sono opere esemplari della sua riflessione, ingombranti dispositivi ipertrofici di accumulo, che nascono dall’assemblaggio di oggetti eterogenei messi in una forma che, questa è la dichiarata ambizione di Hirschhorn, deve essere una forma che renda possibile pensare. Un’ambizione che Doris Salcedo ha nutrito attraverso enigmatiche archeologie domestiche – stratificati procedimenti scultorei nati da pezzi di vecchia mobilia combinati con cemento e ferro, logore scarpe usate, stralci di tessuti – che raccontano le tragedie della recente storia civile e politica della Colombia, dove ogni anno migliaia di persone scompaiono. Utilizzando oggetti profondamente intrisi della patina d’uso, l’artista costruisce complesse installazioni che raccontano le esperienze traumatiche di chi ha vissuto sulla propria pelle, sia singolarmente che collettivamente, forme di violenza politica. Tra le sue opere più note, l’opera Shibboleth (2007), un radicale intervento site specific rea­ lizzato alla Tate Modern di Londra con la creazione di un’inquietante crepa lungo l’intero pavimento dell’edificio. Una spaccatura emblema della separazione che esiste tra paesi occidentali e resto del mondo, tra poveri e ricchi, e che definisce anche l’arte moderna costruita quasi esclusivamente dagli occidentali. Palimp­ sesto (2018) è il poetico contro-monumento, allestito nel luminoso Palacio de Cristal di Madrid, che racconta le esistenze di tutti gli immigrati del mondo. Un’opera post-identitaria che l’artista presenta come un’orazione funebre per nominare tutti gli esseri umani che non esistono più e che non hanno avuto il diritto di essere ricordati37. Continuando in questa confluenza, la riflessione dell’artista cinese Ai Waiwei si caratterizza per una critica radicala del regime in fatto di diritti umani ed al contempo per un attacco all’erosione capitalistica della millenaria cultura cinese. Ricerca plurale che intreccia installazione ed architettura, scultura e fotografia, ma che si affida anche alla scrittura come avvenuto dal 2008 con un’inchiesta affidata alle pagine di un blog38 per accusare il regime di mentire sulle cause dei crolli e sul numero delle vittime del sisma di Sichuan. Nello stesso anno realizza le opere Snake Bag, un serpente fatto di zaini scolastici per ricordare i bambini vittime del terremoto e, più di recente, a partire dal 2014, una serie di


ritratti di militanti e prigionieri politici realizzati in mattoncini Lego. Anche Cristina Lucas, artista spagnola, analizza attraverso video, installazioni, performance, le strutture politiche ed economiche contemporanee, segnalando le contraddizioni tra la storia ufficiale, la storia vera e la memoria collettiva. Un’opera significativa della sua ricerca è la video installazione Unending Lightning (2015) che ricostruisce attraverso grandi cartografie la storia degli attacchi aerei avvenuti dal 1911, anno della guerra italoturca, disegnando una mappa del terrore di tutti i bombardamenti sulle aree civili. 1  H. Belting, La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte (1983), trad. it., Einaudi, Torino 1990, p. 4. 2   Ivi, p. XIV. 3  A.C. Danto, La destituzione filosofica dell’arte (1986), trad. it., Aesthetica, Palermo 2008, p. 39. 4  A.C. Danto, Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia (1997), trad. it. Bruno Mondadori, Milano 2008, p. X. 5  A. Trimarco, Post-storia. Il sistema dell’arte, Editori Riuniti, Roma 2004, pp. 8-10. 6  E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, trad. it., Raffaele Cortina editore, Milano 2001, p. 69. 7  M. Veggetti, L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria, Einaudi, Torino 2017, p. XIV. 8  H. Belting, The Global Contemporary and the Rise of New Art Worlds, in The Global Contemporary, Art Worlds after 1989, catalogo della mostra (ZKM Center for Art and Media Karlsruhe, 17 settembre 2011 - 5 febbraio 2012), MA: The MIT Press, Cambridge 2013, pp. 178-185. Sul tema della Global Art cfr. anche il recente contributo di M.G. Mancini, Crossing the border: la storia dell’arte nell’epoca della globalità, in “Op. cit.”, n. 163, settembre 2018. 9  S. Zuliani, La perdita del centro. Sud Africa alla Biennale di Venezia, in “Arshake”, 19 aprile 2018. 10   Cfr. C. Collu, M. Maiorino, Time is out of Joint ovvero come è stata riallestita la Galleria Nazionale nel tempo del senza tempo, in “Ricerche di s/confine”, vol. VIII, 2018, i.c.s. 11   Sulla circolazione e la geografia della Global Art cfr. T. Da Costa Kaufmann, C. Dossin, B. Joyeux-Prunel, a cura di, Circulations in the Global History of Art, Ashgate, Burlington 2015. 12  S. Chiodi, Orientamenti dell’arte contemporanea, in Enciclopedia Italiana XXI Secolo/Gli spazi e le arti, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2010. http: //www.treccani.it/enciclopedia/ orientamenti-dell-artecontemporanea_%28XXI-Secolo%29 (consultato novembre 2018). 13  A. Bonito Oliva, Italia 2000. Arte sistema dell’Arte, Prearo Editore, Milano 2000, p. 12.

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14  C. Bishop, Museologia radicale (2013), trad. it., Johan & Levi, Milano 2017. 15   Cfr. E. Filipovic, M. van Hal, S. Øvstebø, a cura di, The Biennial Reader. An anthology on large-scale perennial exhibitions of contemporary art, Ostfildern-Bergen 2010. Sull’emergenza espositiva dell’ultimo decennio cfr. anche S. Zuliani, Esposizioni. Emergenze della critica d’arte contemporanea, Bruno Mondadori, Milano 2012. 16  S. Zuliani, Biennale-Arte. Manifesta. Monumenta, in Enciclopedia Italiana di Scienze Lettere ed Arti, IX Appendice, A-I, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2015, p. 175. 17   Su queste figure cfr. almeno H.U. Obrist, Breve storia della curatela, trad. it., Postmedia Books, Milano 2011; E. Grazioli, La collezione come forma d’arte, Johan & Levi, Milano 2012. 18  S. Chiodi, Orientamenti dell’arte contemporanea, cit. 19  R. Barilli, Prima e dopo il 2000. La ricerca artistica 1970-2005, Feltrinelli, Milano 2006, p. 12. 20   Ivi, p. 196. 21   Cfr. E. Glissant, Poetica del diverso (1996), trad. it., Meltemi, Roma 1998. 22  M. Foucault, L’Archeologia del sapere (1969) trad. it., Rizzoli, Milano 1980, p. 173. 23  C. Baldacci, Archivi impossibili, Johan & Levi, Milano 2016, p. 9. 24  H. Foster, An archival impulse, in «October», 110, 2004, pp. 3-22. 25  N. Bourriaud, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo (2002), Postmedia Books, Milano 2004. 26  S. Chiodi, Orientamenti dell’arte contemporanea, cit. 27   Cfr. S. Zuliani, Mark Dion, The Pursuit of Sir William Hamilton, in “Doppiozero”, 21 febbraio 2014. 28  H. Foster, An archival impulse, cit., p 12. 29  Cfr. Giorgio Morandi-Tacita Dean. “Semplice come la mia vita”, catalogo della mostra, a cura di A. Morari e M. Mininni con la collaborazione di M. Maiorino e D. Sogliani, Skira, Milano 2017. 30  A. Trimarco, Italia 1960-2000. Teoria e critica d’arte, Paparo Edizioni, Napoli 2012, p. 198. 31  Cfr. F.A. Miglietti, Identità mutanti, Bruno Mondadori, Milano, 2004. 32  F. Caputo, Lezioni di Body Art con Lea Vergine e Francesca Alfano Miglietti, in “Arskey”, n. 1, 2011, p. 72. 33  H. Belting, Antropologia delle immagini (2001), trad. it., Carrocci Editore, p. 30 34  S. Chiodi, Orientamenti dell’arte contemporanea, cit. 35  A. Testino, Barocco contemporaneo. Intervista a Luc Tuymans, in “Artribune”, 29 maggio 2018. 36  M. Schumm, Thomas Hirschhorn. Cristalli di resistenza, in “Flash Art”, n. 295, settembre-luglio 2011. 37  F. Lonati, Scrivere il presente. Doris Salcedo al Reina Sofia di Madrid, in “Artribune”, 2 gennaio 2018. 38   Su questo tema cfr. A. Trimarco, Le carte dell’arte. Forme della scrittura autobiografica, Euno edizioni, Leonforte 2017.


Il Teatro grottesco di Mejerchol’d CLARA FIORILLO

I veri strumenti da usare in teatro, come disse un giorno ai suoi allievi, sono il telescopio e il microscopio1. L’eredità culturale di Mejerchol’d sta nell’aver insegnato questa ginnastica dello sguardo, con cui riuscire a cogliere sia l’insieme che il più sfuggente dettaglio. Il suo lascito consiste nell’aver messo a punto una specie di moto perpetuo del rappresentare, che non va inteso propriamente come un “sistema”, ma come un’arte per interpretare e decostruire ogni sistema. Nemico di qualsiasi recinto teorico e pratico del mettere in scena, ha solo cercato ovunque e in ogni tempo la teatralità del teatro: in primo luogo la pantomima; in secondo l’improvvisazione; in terzo la tecnica di utilizzo del proscenio; in quarto la maschera […]. Il teatro contemporaneo – diceva – deve assorbire tutti questi elementi2. Mejerchol’d superava di continuo le regole da egli stesso fissate: fu un grande precorritore e interprete dell’“opera aperta”. La furia con cui ha attraversato i primi quattro decenni del ’900 ha lasciato tutti attoniti, spaesati: pezzo dopo pezzo, ha fatto crollare modi e teorie del fare teatro, attraversando con impeto tutti i generi, gli stili, i luoghi, le epoche, dal balletto al cabaret, dal canto al teatro del grand guignol, dal circo all’opera, dalla tragedia giapponese ad Arlecchino sensale di matrimoni, passando dalle messe in scena sontuose dei Teatri Imperiali al Teatro marginale delle piccole forme3. Nella sua intensa e irrequieta opera di rinnovamento o di scompiglio della cultura teatrale del suo tempo, non ha usato riguardi per niente e per

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nessuno, rimettendo in discussione autori, drammaturghi e compositori, facendo variare i parametri teatrali, sfogliando la storia del teatro, […] saltando da una cultura all’altra per scoprire le leggi fondamentali che governano quello che egli chiama[va] allora “il paese delle meraviglie”, il Teatro4. A voler condensare in una sola espressione la strategia scenica di Mejerchol’d, si potrebbe dire che ha usato il grottesco come principio di frammentazione dell’opera e come tecnica di straniamento. Questa fondamentale posizione estetica, che affondava le radici nel passato, servì per spazzar via d’un colpo tutto il teatro ottocentesco: Mejerchol’d fece un acrobatico balzo all’indietro, ritornò all’età dei lumi e riattizzò il fuoco della querelle tra Goldoni e Gozzi, schierandosi, naturalmente, dalla parte di Gozzi e della Commedia dell’Arte. Questa sua predilezione fu subito recepita dalla critica europea e, in Italia, nel 1925, si lesse su “Comœdia”: Il teatro, secondo i nuovi riformatori, dev’essere teatrale cioè convenzionale e artificioso […]. Meierhold […] torna alla commedia dell’arte, a Gozzi e al teatro di fiera francese5. Ma Mejerchol’d, che alzava continuamente il tiro, andò anche oltre la “commedia all’improvviso”: si rivolse al baraccone, al circo e al rovesciamento carnevalesco, ma anche alle forme del teatro orientale, al music-hall e al cinema6, creando un esplosivo miscuglio di linguaggi. Egli cerca un denominatore comune a tutte queste forme teatrali – ha scritto Picon-Vallin – […] nei mimi latini, nel teatro elisabettiano, spagnolo, giapponese, si ritrova la stessa indipendenza nei confronti della letteratura, la stessa predominanza del movimento e del gesto sulla parola, la stessa assenza di motivazioni psicologiche, lo stesso passaggio delicato dal tono alto al tono basso, dal comico mostruoso allo stile eroico, la stessa tendenza alla generalizzazione, alla sintesi del personaggio, alla creazione della maschera7. La rappresentazione del grottesco implicava, nella sua sperimentazione, una specifica tecnica della messa in scena, fondata sulla frammentazione delle componenti dell’opera e sul montaggio. La monotona divisione in atti, l’immobilità della struttura non ci soddisfano più – aveva dichiarato. È venuto il momento di dividere le opere in episodi, in quadri, sull’esempio di Shakespeare o dei drammaturghi del teatro spagnolo anti-


co. La divisione in episodi consente di superare l’inerzia della pseudoclassica unità d’azione e di tempo8. Quest’idea di novella frammentazione dell’opera, così ragionevolmente esposta, al­ l’atto pratico della messa in scena, viene spinta da Mejerchol’d al parossismo: la dichiarata rottura con la mimesis, con il sistema analogico9, nelle sue mani, più che frammentazione delle parti, diventa vera e propria deflagrazione dell’intera opera e del suo impianto scenico. Con lui, ogni elemento dello spettacolo viene smontato all’infinito: dal testo si passa alla singola frase, alla parola, all’intonazione, al sussurro. Nella messa in scena de Il Revisore, ad esempio, nessuna frase, nessuna parola pronunciata nello spettacolo sfugge all’intervento scenico di Mejerchol’d. […] Vuole illuminare ogni parola, ripulire il testo dai significati accumulati, concentrarlo in scoppi sonori, obbligando, […] ciascun attore a concentrarsi su ogni battuta, per ottenere un insieme costruito sugli accenti, i ritmi, le pause10. Al corpo dell’attore e alla musica è riservato lo stesso trattamento: tutto viene scandagliato per progressivi, implacabili frazionamenti, che riducono, alla fine, ogni cosa a puro segno. Dopo aver smontato l’opera, per osservarne gli ingranaggi nascosti, Mejerchol’d la rimonta a suo modo, nella libertà di una inedita dialettica tra comico e tragico, fantastico e quotidiano, illusione e realtà. Il suo vero strumento di lavoro è il montaggio e, non a caso, il suo miglior allievo è Ejzenštejn. Solo così si può ricominciare: il materiale è quello originario, ma, ridotto all’osso e rimontato, ormai libero dai legacci della struttura che lo conteneva, può imboccare nuove direzioni, avviare diversi sviluppi, parlare una nuova lingua. Del resto, Mejerchol’d era convinto che sia sempre meglio tradire che imbalsamare e che, solo ricreandolo con un nuovo fervore, senza ingolfarsi nell’ipocrisía del rispetto, si possa restar fedeli ad un testo11. E, a sostenere la copiosa messe delle sue invenzioni sceniche, frutto dell’intersezione di linguaggi eterogenei, vi fu, come alleato, uno strumento infallibile: la poetica costruttivista. La terra promessa dei costruttivisti fu il teatro – ha scritto Ripellino. Essi sguarnirono stizziti il palcoscenico di ogni addobbo superfluo, e nel suo spazio […] eressero arditi ponteggi, tramezzi, scivoli e scale, complicate armature […]. Il costruttivista Mejerchòl’d spazza via come un túrbine

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quinte, soffitta, fondali, attrezzi di cartapesta12. Così come ha smontato testi, musiche e corpo dell’attore, in idea smonta anche l’edificio teatrale, ne analizza ogni parte e si proietta nel futuro con l’utopistica immagine di un teatro dinamico per grandi masse. La più avanzata cultura architettonica di quegli anni precipita nel suo discorso sulla tipologia teatrale e incide sulla sua stessa concezione drammaturgica. Anche lui non resiste al fascino di piroscafi, aerei, dirigibili e transatlantici, per cui, proprio come fa Le Corbusier per l’abitazione, Mejerchol’d adotta il modello della nave per lo spazio del teatro: il palcoscenico dev’essere organizzato in maniera da poter salire e scendere in qualsiasi istante, in qualsiasi punto. Occorre costruire una scena a vari livelli ispirandosi alla struttura di una nave13. Egli è convinto della necessità per il teatro contemporaneo di una stretta collaborazione fra regista e architetto-ingegnere14 e ammira Gropius che, negli stessi anni, aveva concepito il Total-Theater: Bravo Piscator, ma lui ha trovato nell’architetto Walter Gropius un collaboratore di talento!15 Mejerchol’d sogna un teatro per rappresentazioni di massa, con un palcoscenico capace di contenere 700-1000 persone, pronte a sfilare sulla scena16 e in grado di mostrare l’atterraggio di un aereo17. In definitiva, in cima dei suoi pensieri è un palcoscenico largo come un velòdromo, un immenso polígono di commedia, ma, in mancanza di questo, frattanto dilata la scatola-cannocchiale, sgombrandola degli accessori e della zavorra e abolendo il mantello d’arlecchino, il sipario, la “corazza-ribalta”18. Nel suo palcoscenico svuotato, come si è visto, mette a reagire, come in un laboratorio scientifico, i più eterogenei materiali, rendendolo una sorta di campo di forze19 nel quale sperimentare tutta la grammatica delle possibili mutazioni e declinazioni sceniche: egli, infatti, suscita operazioni di collegamento per giustapposizione […], ripetizione con variazioni, dissonanza, compenetrazione e, soprattutto, sostituzione e spostamento: queste sottolineano, completano, rovesciano o trasformano il significato, fanno della scena uno spazio di scambio, di metamorfosi costante e cosciente20. Su un tale palcoscenico Mejerchol’d fa agire un attore biomeccanico, duramente allenato all’ombra della riflessologia di Pavlov, del taylorismo e del produttivismo21. Il risultato è


un nuovo attore, che è, al contempo, ginnasta, mimo, danzatore, musicista, cantante, acrobata, clown. La recitazione si fonda sulla padronanza del corpo, considerato come un materiale da organizzare, e sulle relazioni che l’attore, padrone del proprio corpo, intrattiene con lo spazio, con il tempo, con i partners, con gli oggetti scenici22. Per quattro decenni Mejerchol’d ha agito in questo modo. Allo scoccare del quarantesimo anno, colui che Schino ha definito forse il più geniale uomo di teatro dell’intero Novecento23, venne arrestato, torturato, condannato in un processo durato una ventina di minuti, e il giorno successivo, il 2 febbraio del 1940, fucilato. In quei 40 anni la sua popolarità, in tutta Europa, non aveva conosciuto, nel bene o nel male, momenti di bassa fortuna. Già negli anni ’20 il suo nome suona come formula magica24 e schiere di giovani […] accorrono dai più remoti angoli della contrada sovietica, col desiderio di diventare suoi allievi25. Vachtangov, nel 1921, volendo stabilire un confronto tra titani del teatro, aveva fatto svettare il suo nome su tutti: Che regista geniale, il più grande di tutti i tempi. […] Io so che la storia porrà più in alto Mejerchol’d di Stanislavskij […] Mejerchol’d ha fornito le basi per il teatro del futuro. E il futuro gliene renderà merito. Mejerchol’d è superiore a Reinhardt, a Fuchs, a Craig e ad Appia26. A lui non erano mai stati riservati i mezzi toni: i giudizi avevano oscillato paurosamente tra l’assoluto disprezzo e la più incondizionata devozione. Come ha ricordato Feuralskij, alcuni si indignavano, altri lo esaltavano ammirati, e poteva accadere che i suoi vecchi avversari diventassero suoi sinceri esegeti27. Sentimenti assoluti e contrastanti avevano attraversato, dunque, la medesima persona, come nel caso di Lunaciarskij, Commissario del popolo per l’istruzione negli anni della rivoluzione, che nei suoi saggi, articoli o discorsi non perse mai di vista Mejerchol’d, non importa se per difenderlo o attaccarlo. Voi volete fare l’elegantone indossando stracci vecchi, ecco il vostro guaio, signor Meyerhold28, aveva scritto in un saggio del 1908. Ma, nel 1926, si era fermamente ricreduto: ho sempre considerato V.E. Meyerhold un uomo dotato di un magnifico talento di regista, di immense risorse e di grandissima fantasia29. La cultura teatrale europea aveva riservato al

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suo lavoro la stessa altalenante, ma sempre acuta attenzione di cui era stato oggetto in patria. In Italia, anno 1925, la rivista “Comœdia” aveva esaltato la sua figura: Quali dei teatri di Mosca si debbono considerare come più avanguardisti? Primo fra tutti, senza dubbio, il Teatro di Meejerhold, il grande Direttore Artistico russo, che ha creato in Russia il metodo costruttivo per la messa in scena […]. Le sue trovate sono sempre molto acute e inaspettate30. E Ilja Ehrenburg, nel 1961, rammentava il successo da lui ottenuto, un trentennio prima, sulle scene parigine: Nella primavera del 1930 vidi a Parigi Il revisore allestito da Mejerchol’d. […] Aveva dilatato tutti i significati della commedia di Gogol’. A Parigi gli spettatori erano nella massima parte francesi, registi, attori, appassionati di teatro, scrittori, artisti: Louis Jouvet, Picasso, Cocteau, Derain, Bati… E quando lo spettacolo terminò, questa gente, abituata a dosare i propri consensi, si alzò e uscì in tali ovazioni come a Parigi non avevo mai visto31. Ma, a riconferma di questo gioco dei contrari, che aveva sballottolato da una parte o dall’altra la sua fama, non si può non ricordare come quella stessa opera fosse risultata sgraditissima ad Alberto Savinio: Nel 1931, al teatro Montparnasse, di Parigi, vedemmo Il Revisore rappresentato dalla compagnia del teatro Kamerny, con la regia di Me­yer­ hold. L’apparenza era di un verismo allucinante. La polvere sugli stivali era polvere genuina, il sudiciume della biancheria era senza trucco, l’untume sui colletti delle uniformi era autentico grasso animale. Ma traversata quell’apparenza, si scopriva lo spettacolo più artefatto, più viziato, più manieristico, più falso. Non un atteggiamento che fosse “naturale”. Non un attore che si comportasse da uomo. Non una voce che non fosse o un abbaìo, o uno squittìo, o un raglio. Le deformazioni erano accresciute dal palcoscenico convesso, che spostava i piani. Il risultato era quello di una compagnia di scimmie, che imitassero gli uomini e le loro commedie32. Va ricordato, infine, ciò che colpì Walter Benjamin nell’assistere, a Mosca, al Revisore. In un articolo del 1927 egli esordiva: non c’è dubbio che Mejerchol’d sia il più significativo regista russo33. E un attimo dopo colorava il giudizio con una vena di inquietudine: egli è, però, una natura infelice34. Più avanti, a malincuore, anche lui


decretava il fallimento dello spettacolo: ciò che ha fatto fallire la prestazione registica è, non già il fatto della rielaborazione, bensì il modo in cui questa si è realizzata. Essa ha scacciato dal Revisore il celebre riso gogoliano35. Oscillando tra amori e odi, la fama di Mejerchol’d, insomma, aveva attraversato l’età più feconda del ’900, ma a partire da quel fatidico 2 febbraio 1940 e per più di un quindicennio il suo nome s’appannò, sbiadì, scomparve: come non fosse mai esistito. Bisognò attendere il 1955 e la sua riabilitazione ufficiale come vittima della repressione staliniana affinché si ricominciasse a parlare di lui e riaffiorasse il suo insegnamento nella coscienza della cultura teatrale europea d’oriente e d’occidente. Dagli anni ’60 in avanti si iniziò a comprendere che, per una ricostruzione genealogica della spettacolarità moderna, occorreva assegnare a Mejerchol’d un posto d’onore: in quanto fondatore del concetto di regia, ma soprattutto, estendendo la dimensione disciplinare del teatro, in quanto ideatore di forme e codici dell’estetica contemporanea. Mejerchol’d, infatti, è stato il massimo poeta, in campo teatrale, della frammentarietà e della dissonanza, cioè di quella visione del mondo che ha attraversato, a partire dal XX secolo, i territori della filosofia, della letteratura, dell’arte e persino della scienza. Solo nel 1980 fu allestita, in patria, una tardiva Mostra commemorativa e un anno dopo ebbe luogo, a Stoccolma, un Simposio Internazionale dove si era riproposto Mejerchol’d nella sua più autentica contemporaneità, al di là di formali e rigide celebrazioni36. Se si volessero trovare, dunque, gli eredi legittimi del suo rigoroso eppure antisistematico modo di procedere, ci si troverebbe in grave imbarazzo. Già ai suoi tempi, il suo teatro fu malamente scimmiottato, equivocato, frainteso: nel nome di Mejerchòl’d, si compivano in teatro le più stolte incongruenze. Rozzi raffazzonatori guastavano l’unità dei lavori, aggiungendo e scartando figure, tagliando passaggi, incastrando nel testo ricombinato eteròcliti inserti37. Il suo modello drammaturgico “aperto”, aveva consentito, allora come negli anni che seguirono, il nascere di un teatro, come lo ha definito Ripellino, smanioso, dinamico, antirespiratorio38, in cui la regia è diventata aggressione, pretesto di parapiglia, dannato accumulamento di trucchi39. Ma il suo insegnamento è anche approdato in porti si-

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curi, primo fra tutti l’inossidabile teoria scenica di Brecht. Già nel 1922 Vachtangov così spiegava il rapporto “straniato” tra attore e personaggio in Mejerchol’d: per teatralità […] intende uno spettacolo in cui il pubblico non si dimentica mai di essere a teatro e non smette mai di sentire l’attore come un professionista che interpreta una parte40. Parole che fatalmente fanno riecheggiare quelle dello stesso Brecht: all’attore non occorre dar l’illusione di trovarsi nel mondo reale ma la conferma di trovarsi in un vero teatro41. I più accorti critici, del resto, hanno messo in luce il filo che lega Mejerchol’d a Brecht: non c’è chi non veda – ha scritto Ripellino – che questa non-coincidenza fra interprete e immagine scenica precorre quel modo di recitare che Brecht, ricalcando forse il termine di Šklovskij “ostranènie”, chiamò “straniamento”42. Anche Benjamin, sottolineando come Mejerchol’d rifiutasse il “misticismo della ribalta”, ha descritto così la sua scena: le sue rappresentazioni si svolgono senza sipario, senza illuminazione della ribalta, con apparati scenici mobili che vengono manovrati a scena aperta così che si può scorgere il passaggio d’accesso alle quinte43. Qui sembra davvero di scorgere, in filigrana, le istruzioni brechtiane su una scena e una sala ripulite da ogni aura “magica”44. E non va dimenticato che lo stesso Brecht, che puntava all’unità di istruzione e divertimento, annoverava Mejerchol’d tra coloro che avevano sorprendentemente arricchito le possibilità espressive del teatro, accrescendone senza alcun dubbio la capacità di divertire45. Si potrebbero tessere, in verità, numerosi fili che collegano l’opera di Mejerchol’d alle esperienze delle successive avanguardie, ma ciò non varrebbe a modificare l’immagine di un Novecento che, come sostiene Allegri, non riesce a secernere un’idea di teatro unitaria46 poiché nessuna proposta ha conquistato quella condivisione necessaria a qualificarla come l’idea dominante della scena novecentesca47. Questa pacata visione delle sorti progressive del teatro europeo non può, tuttavia, non riconoscere un primato agli effetti dirompenti del lavoro di Mejerchol’d, che ha dotato la cultura della scena di teorie e tecniche per riconquistare la gioiosa libertà del fare teatrale, in un amalgama inestricabile di ragione e immaginazione.


1  V. Mejerchol’d, 1918: Lezioni di teatro, trad. it. di C. Moroni, Ubulibri, Milano 2004, p. 23. 2   Ivi, p. 71. 3  B. Picon-Vallin, Il grottesco in Mejerchol’d, in “Il Dramma”, a. LVIII, n. 7-8, sett.-ott. 1982, p. 56. 4   Ibidem. 5  C. Mociulski, Il teatro russo dopo Ostrovski, in “Comœdia”, a. VII, n. 3, 1 feb. 1925, p. 122. 6   Sul ruolo del cinema nell’opera di Mejerchol’d cfr. O. Iardino, Frammentazione e montaggio sul palcoscenico di Mejerchol’d, in “Teatro contemporaneo e Cinema”, a. X, n. 31, ott. 2018, pp. 54-64. 7  B. Picon-Vallin, Il grottesco in Mejerchol’d, cit., pp. 56-57. 8  V.E. Mejerchol’d, L’Ottobre teatrale 1918/1939, a cura di F. Malcovati, trad. it. di S. de Vidovich, Feltrinelli, Milano 1977, p. 97. 9  B. Picon-Vallin, Mejerchol’d, trad. it. di C.M. Paternò (trad. e cura Centro Internazionale Studi di Biomeccanica Teatrale), MTTMedizioni, Perugia 2006, p. 400. 10   Ivi, p. 351. 11  A.M. Ripellino, Il trucco e l’anima, Einaudi, Torino 2002, p. 301. 12   Ivi, p. 282. 13  V.E. Mejerchol’d, L’Ottobre teatrale 1918/1939, cit., p. 94. 14   Ivi, p. 109. 15   Ibidem. 16   Ivi, p. 92. 17   Ivi, p. 94. 18  A.M. Ripellino, op. cit., p. 282. 19  B. Picon-Vallin, Mejerchol’d, cit., p. 401. 20   Ibidem. 21   Cfr. V. Mejerchol’d, L’attore biomeccanico, testi raccolti e presentati da N. Pesoc]inskij, a cura di F. Malcovati, trad. it. di M.R. Fasanelli, Ubulibri, Milano 1993. 22  B. Picon-Vallin, Mejerchol’d, cit., p. 402. 23  M. Schino, Teorici, registi e pedagoghi, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da R. Alonge e G. Davico Bonino, vol. III (Avanguardie e utopie del teatro. Il Novecento), Einaudi, Torino 2001, p. 5. 24  A.M. Ripellino, op. cit., p. 297. 25   Ibidem. 26  E.B. Vachtangov, Il sistema e l’eccezione, a cura di F. Malcovati, trad. it. di F. Gori e M. Guerrini, la casa USHER, Firenze 1984, p. 171. 27  A. Feuralskij, L’arte teatrale di Mejerchol’d, in “Il Dramma”, cit., p. 30. 28  A.V. Lunaciarskij, Teatro e rivoluzione, trad. it. di G. Crino, Samonà e Savelli, Roma 1968, p. 69. 29   Ivi, p. 45. 30  V. Lidin, Le novità nei Teatri d’Arte, in “Comœdia”, a. VII, n. 14, 15 lugl. 1925, p. 778. 31  I. Ehrenburg, Le ire di Mejerchol’d, in “Sipario”, n. 188, dic. 1961, p. 21.

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32  A. Savinio, I Russi, in Id., Palchetti romani, Adelphi, Milano 1982, pp. 115-116. 33  W. Benjamin, Una disputa al teatro di Mejerchol’d, trad. it. di G. Carchia, in Id., Strada a senso unico, Einaudi, Torino 1983, p. 146. 34   Ibidem. 35   Ivi, p. 147. 36  F. Malcovati, Ritorno a Mejerchol’d, nostro contemporaneo, in “Il Dramma”, cit., p. 20. 37  A.M. Ripellino, op. cit., p. 401. 38   Ivi, p. 299. 39   Ibidem. 40  E.B. Vachtangov, op. cit., p. 174. 41  B. Brecht, Scenografia della drammaturgia non aristotelica, trad. it. di C. Pinelli, in Id., Scritti teatrali, vol. I (Teoria e tecnica dello spettacolo, 1918-1942), Einaudi, Torino 1975, p. 238. 42  A.M. Ripellino, op. cit., p. 292. 43  W. Benjamin, La nuova letteratura russa, trad. it. di G. Carchia, in Id., Strada a senso unico, cit., p. 219. 44  B. Brecht, Breve descrizione di una nuova tecnica della recitazione che produce l’effetto di straniamento, trad. it. di E. Castellani, in Id., Scritti teatrali, cit., p. 177. 45  B. Brecht, Il teatro sperimentale, trad. it. di C. Pinelli, in Id., Scritti teatrali, cit., p. 155. 46  L. Allegri, La scenografia novecentesca tra persistenze e rivoluzioni, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, cit., p. 1236. 47   Ibidem.

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Industrialismo e archeologia industriale GREGORIO E. RUBINO

Definizione di Archeologia Industriale Il crescente interesse per la storia socio-economica e per le sue implicazioni nel dopoguerra, ha risvegliato un po’ dovunque l’attenzione per lo studio della Rivoluzione Industriale. A partire dagli anni successivi al ’50, anche in Italia sono così comparsi i primi saggi sistematici volti a ricostruire il modello di sviluppo del nostro Paese e da allora le ricerche limitate alle singole regioni e gli studi orientati ad approfondire i motivi storici della “Questione Meridionale” si sono moltiplicati, rinfocolando una mai sopita polemica. Più o meno negli stessi anni, in Gran Bretagna e nei paesi di cultura anglosassone, prende forma l’interesse per l’Archeologia Industriale. Con questo termine, ad un tempo fortunato ed ambiguo (nulla in apparenza è più antico dell’archeologia e nulla è più moderno dell’industria!), si è voluto inizialmente indicare la comparsa di una nuova disciplina autonoma, interessata al censimento, alla catalogazione ed alla conservazione delle testimonianze materiali dell’industrialismo, lette nel contesto della storia socio-economica e tecnologica e con particolare riguardo agli aspetti architettonici ed ambientali del costruito. L’Archeologia Industriale introduce il nuovo concetto di monumento industriale quale parte inalienabile del patrimonio culturale delle nazioni e rivolge il proprio interesse allo studio dei resti fisici del fenomeno produttivo, utilizzando la convergenza

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di più interessi di prevalente carattere storico-artistico (architettura, design, restauro, etc.), non esclusa l’indagine sul campo, da effettuarsi con i metodi e le tecniche dell’archeologia tradizio­ nale. Ma il desiderio di limitare l’approccio alla sola componente estetica del processo di analisi, all’insegna del pittoresco e di una visione romantica delle rovine, si è presto dimostrato irrealizzabile sul piano operativo. È infatti evidente che l’oggetto delle nostre attenzioni non può culturalmente estraniarsi, al momento della lettura, dal suo contesto storico, sociale, economico, tecnologico, geografico e politico nel quale si identifica e si giustifica e ciò risulta tanto più evidente ai fini della conservazione, in quanto essa richiede la formulazione di un giudizio di valore che non sempre può trarsi da una valutazione esclusivamente estetica dell’oggetto stesso. Inoltre, se vogliamo convenire che alla base dell’attuale consenso vi siano ragioni più problematiche, che contestano una visione idealistica della storia per recuperare come “fatto culturale” anche il momento della produzione materiale, dobbiamo concludere che l’Archeologia Industriale deve considerarsi, più in generale, un campo interdisciplinare di studi aperto alla problematica storica del mondo del lavoro e della “cultura materiale”, in tutte le sue connessioni ed interazioni ed al cui approccio sono interessate discipline di varia formazione, dalle scienze umane e sociali a quelle di laboratorio, dove comunque l’interesse specifico per gli aspetti “fisici” del fenomeno è caratterizzante. In questo modo l’Archeologia Industriale cessa di essere una semplice disciplina dalle ambigue connotazioni culturali, per imporsi come “argomento di studio” per tutte le discipline e ciascuna nel proprio ambito, in nome della reciproca chiarezza. Pur muovendosi in piena autonomia, esse concorrono in definitiva a meglio delineare sul piano scientifico sia gli aspetti culturali ed antropologici del fenomeno, che gli “oggetti” fisici della materia. Sono rientrate di conseguenza le riserve sul pericolo di uno sviluppo diacronico dell’Archeologia Industriale su modelli positivistici per ribadire il principio di un “corpo” di studi specializzato nell’analisi sincronica del processo produttivo.


La “via italiana” all’Archeologia Industriale Le discussioni sui problemi specifici che investono la ricerca sono ancora molte, ma soprattutto evidenziano un orientamento più problematico e per molti versi “autarchico” della cultura italiana, rispetto agli indirizzi tracciati da quella anglosassone. A meglio definire, per esempio, la controversia sui limiti cronologici della materia, concorre la stessa definizione di grande industria proposta da Marx. Si discute in sostanza, se l’Archeologia Industriale debba limitare la propria indagine esclusivamente all’ambito temporale della Rivoluzione Industriale (Archeologia dell’Industria), ovvero se sia lecito indagare anche sul­ l’età delle manifatture (Archeologia Industriale), risalendo così nel tempo anche alle più remote manifestazioni del lavoro umano. L’impostazione inglese era circoscritta ai secc. XVIII-XX, ma in seguito la limitazione fu superata e gli studi estesi anche ai secoli immediatamente precedenti. In Italia, alla prima posizione sembrano aderire gli studiosi di ispirazione gramsciana, alla seconda quelli di fede crociana e la polemica si rispecchia e si riassume nell’interrogativo se sia lecito o meno prescindere dal momento della conflittualità di classe come fattore storiografico. Sebbene una limitazione cronologica estesa all’età della produzione artigiana e del mercantilismo sembrerebbe più accettabile, giacché sarà in questo periodo che assisteremo alla prima organizzazione proto-capitalistica delle manifatture cittadine e rurali, la restrizione dell’analisi alle varie fasi della Rivoluzione Industriale gode, ancora oggi, di maggiori consensi sia in Italia che altrove, nella considerazione che non possa legittimamente parlarsi di “industria” o di “prodotto industriale” se non in presenza di un processo produttivo con precise caratteristiche economiche e tecnologiche ed in cui emergono per la prima volta con virulenza i rapporti di forza esistenti fra le componenti sociali della produzione. In definitiva manifattura e industria hanno significati distinti, che andrebbero utilizzati con cautela. Essi sottendono modi di produzione antitetici: lavoro artigianale e cottimismo, macchinismo elementare mosso da energia animale o idraulica ed asservito all’uomo, prodotto con caratteristiche di unicità ed irripetibilità il primo, tipico dell’assetto economico e

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politico dell’ancièn regime; divisione del lavoro e salariati asserviti alle macchine, energia a vapore (elettrica etc.), prodotto di tipo seriale, capitalismo avanzato e conflittualità di classe il secondo, tipico invece del mondo contemporaneo. Osserviamo tuttavia che una posizione integralista ancorata all’esatto significato delle parole, non solo contrasta con la stessa definizione di Archeologia Industriale, di per sé una contraddizione in termini, ma è inaccettabile sul piano storiografico in quanto tende a generalizzare cronologicamente un fenomeno (la Rivoluzione Industriale) che appare invece fortemente diversificato per ambiti geografici e culturali. Non sono pochi inoltre gli studiosi che indicano nell’età medievale l’origine del macchinismo ed altri che mettono l’accento sull’importanza della “rivoluzione scientifica” dei sec. XVI e XVII. Venuti ormai meno anche i pretestuosi riferimenti ideologici, essa appare ormai del tutto insostenibile. Una cosa dunque è stata l’esperienza industriale inglese, un’altra quella di un qualsiasi altro paese. Se vogliamo di conseguenza convenire che sarà il modello di sviluppo italiano l’oggetto delle analisi degli studiosi italiani, non possiamo ignorare che nel nostro Paese l’avvento del macchinismo fu più lento che altrove, né dimenticare – se vogliamo riferirci all’esperienza del Mezzogiorno – l’importanza rivestita dalle attività manifatturiere, i cui metodi artigianali in alcuni casi perdurano ancora oggi e la cui distribuzione sul territorio – al contrario della magniloquente, quanto improduttiva grande industria d’iniziativa pubblica – costituì il principale sostegno dell’economia in un momento particolare di crisi sociale e politica. In definitiva non vi è dubbio che sia legittimo per noi, come già era apparso evidente al Borsi nell’ormai lontano 1978, individuare una sorta di “via italiana” all’archeologia industriale, nel senso di poter estendere l’analisi al fenomeno della piccola e media manifattura dell’età pre-capitalistica, profittando peraltro della presenza sul territorio nazionale di importanti testimonianze materiali sfuggite alla logica del rinnovamento tecnologico ed ai modi della produzione industriale. L’opportunità di ricercare “vie nazionali” allo studio dell’Archeologia Industriale, intendendo il termine “industriale” in senso lato, è ormai un principio generalmente riconosciuto.


Archeologia, Archeologia Industriale e Storia dell’Industria Nelle intenzioni dei suoi promotori, l’espressione Archeologia Industriale stava probabilmente a significare “studio delle testimonianze materiali del processo d’industrializzazione”. La definizione ebbe fortuna e l’indagine sul campo, dall’analisi del reperto materiale alla ricerca delle fonti scritte ed orali, acquistò un aspetto predominante. Si ammise di conseguenza la necessità dello scavo “archeologico” sui siti non sufficientemente documentati sul piano storico ed iconografico, oppure allo scopo di inquadrare vecchi problemi di ordine socio-economico nell’ottica innovativa di una ricerca topografica degli insediamenti e di una analisi materiale delle loro effettive potenzialità produttive e di sviluppo. La reazione dell’Archeologia ufficiale fu scettica, ma positiva. Le risposte al questionario che nel 1976 K. Hudson inviò a diciotto dei più eminenti archeologi britannici evidenziarono un atteggiamento di seria attenzione, sia pure misto a pacate riserve sull’avvio “dilettantistico” della disciplina e ad utili suggerimenti per migliorarne lo “status” sul piano metodologico. In generale furono giudicati buoni i risultati dal punto di vista sociale (migliorava la coscienza sociale), discreti da quello educativo (come strumento didattico) e scarsi da quello accademico (risultati dispersivi, scarsa coscienza dei necessari apporti interdisciplinari). La difesa d’ufficio dello Hudson si affrettò a porre in evidenza l’importanza dell’attività dell’archeologo industriale nella ricerca di documenti e testimonianze di varia natura, di pari dignità delle “tecniche di scavo”, ma le riserve sottolineavano oggettivamente l’assenza di una identità culturale e le incongruenze di una “scienza” al suo esordio. Tutto ciò appare oggi in larga misura superato da un dibattito ventennale orientato proprio secondo le osservazioni della critica archeologica e che ha messo anche a tacere il frettoloso giudizio di “moda culturale”, a suo tempo avanzato in Italia ed altrove. Bisogna anche ricordare che nel corso degli anni Settanta, non solo l’Archeologia Industriale, ma tutta una serie mirabolante di nuove discipline erano apparse alla ribalta della ricerca scientifica con alla base il metodo archeologico. A parte l’Archeo­

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logia Medievale, dagli interessi ben noti, è questo il caso della cosiddetta Archeologia Spaziale (applicazione alla ricerca archeo­ logica delle foto dai satelliti), dell’Archeologia del Territorio (studio degli insediamenti umani in rapporto all’evoluzione geologica, economica, sociale e politica), dell’Archeologia Etnologica (tecniche di scavo applicate allo studio delle popolazioni primitive), dell’Archeologia Zoologica (applicate allo studio degli animali) e Medica (applicate allo studio delle malattie) etc. In realtà nulla di veramente nuovo, ma solo formulazioni appariscenti di ricerche interdisciplinari. In definitiva, se fino ad oggi era un assioma che l’Archeologia, come “scienza del passato”, si identificasse con lo studio delle “antichità” e avesse per oggetto lo sviluppo della cultura umana nel tempo, in particolare attraverso le tecniche di scavo, le più recenti posizioni culturali tendono invece ad identificare la ricerca archeologica nel solo metodo operativo, cioè nel recupero delle testimonianze materiali del tempo trascorso (ove è implicito che questo può essere sia remoto che recente), con la possibilità d’integrarsi in ricerche di carattere interdisciplinare. Da ciò la disponibilità degli archeologi, che vedono in questo modo la loro disciplina, al centro di molteplici interessi, giungere alle soglie dei nostri giorni. Ricordiamo ancora che la più ampia definizione di Archeologia Industriale ha consentito di superare la pregiudiziale “estetica” sul monumento (significativa dal punto di vista archeologico), a vantaggio dei necessari apporti interdisciplinari. Osserviamo infine che, se volessimo interpretare l’espressione Archeologia Industriale come “studio delle origini del processo d’industrializzazione”, intendendo il termine “archeologia” in senso storico, la materia si identificherebbe con un ramo della Storia dell’Industria. È evidente che la storia, come la geologia, l’economia, l’architettura, etc., concorre come si è detto alla definizione dei “monumenti” del campo disciplinare, ma non può sostituirsi ad esso. Da ciò lo studio comparato dei resti materiali, la catalogazione dell’esistente, le istanze di conservazione come obiettivi insostituibili dell’attività dell’archeologo dell’industria. In definitiva, se gli interrogativi continuano, è certamente finita la crisi d’identità della fase pionieristica ed oggi l’Archeolo-


gia Industriale è vista come una sorta di scintillante “crocevia intellettuale” alla frontiera di discipline diverse, nella consapevolezza che il “fatto industriale” (come il “fatto archeologico”) è soprattutto conseguenza di un rapporto fra uomini, fra classi sociali e che dallo studio dei dati materiali si possa derivare una migliore comprensione dei dati antropologici. La figura dell’archeologo industriale Come qualsiasi altra branca dell’Archeologia, l’Archeologia Industriale è dunque basata sulla centralità dei resti fisici e sull’osservazione diretta dei siti. Secondo lo Hudson anzi, chi pensasse di poter svolgere il proprio lavoro solo in un ufficio o nelle biblioteche non può definirsi un archeologo industriale. In definitiva l’Archeologia Industriale è nel contempo uno studio sul campo ed uno studio umanistico, perché i resti materiali vanno letti nel loro contesto sociale ed ambientale, non nei musei. Tutto ciò è teoricamente possibile, ma richiede una formazione specialistica che mal si concilia con le posizioni di difesa ad oltranza del “dilettantismo” dello studioso inglese. Più che uno studio sul campo, l’Archeologia Industriale sembra in effetti uno studio a tutto campo del mondo del lavoro, fino ad una sorta di “archeologia” del presente e così come oggi si prospetta, la figura dell’archeologo industriale appare un terminale obbligato della ricerca, in possesso di competenze scientifiche tali da poter ridurre i contributi “multidisciplinari” in una convincente sintesi “interdisciplinare”. Il suo compito non può essere delegato, neanche parzialmente, ai “collies” della ricerca, così come è ben nota nella pratica sia l’inutilità di affidare la “catalogazione” di oggetti e monumenti al volontariato improvvisato, sia la pericolosità di utilizzare, nel campo della tutela dei beni culturali, personale privo di competenze specifiche. E dal momento che di “fatti storici” si dovrà pur sempre occupare, possiamo pensare che l’archeologo industriale sarà in futuro soprattutto uno storico; in ogni caso uno specialista ai massimi livelli del variegato mondo della produzione e con competenze particolari nei settori operativi (archeologia, architettura, tecnologia, disegno industriale, restauro dei monumen-

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ti). Il suo lavoro si svolgerà a due livelli: da una parte la lettura stratificata della civiltà delle macchine, alla luce delle acquisizioni sul campo, dall’altra la sua attività di operatore della “conservazione”. Quanto agli esperti dei vari settori disciplinari che non concorrono all’attività di ricerca con indagini operative sull’oggetto fisico, le riserve dello Hudson sembrano legittime. Non vediamo tuttavia validi motivi per negare ai loro risultati il riconoscimento di “contributi di Archeologia Industriale”. Gli “oggetti” dell’Archeologia Industriale

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Il campo specifico dell’Archeologia Industriale presenta un patrimonio di “oggetti-monumenti” così vasto, da prestarsi solo ad un elenco approssimativo. Volendo limitare l’analisi alla Rivoluzione Industriale e considerare la “fisicità” delle testimonianze come espressione del “modo di produzione” capitalistico, potremmo inserire nel nostro elenco gli opifici e le macchine come strumenti di materializzazione del capitale; le abitazioni ed i villaggi operai come rappresentazione della forza-lavoro; le infrastrutture ed i mezzi di trasporto (ferrovie e stazioni ferroviarie, funicolari, porti, canali, ponti, strade, etc.) come strumenti di circolazione degli uomini e delle merci; aggiungendo ancora le strutture di servizio (mercati, magazzini, macelli, etc.), le materie prime (cave, miniere, etc.) e la vasta gamma dei prodotti di consumo, unitamente alle tecnologie di produzione ed alle tecniche di disegno, pubblicità e commercializzazione fino ai nostri giorni. Se invece fossimo più inclini a considerare il campo disciplinare come una sorta di “archeologia del lavoro”, esteso cioè alla problematica della cultura materiale, allora l’elenco andrebbe dilatato al mondo artigiano e contadino, alle manifatture, al paesaggio agrario ed alle architetture cosiddette “minori” (mulini, masserie, etc.), tanto per ricordare solo alcuni aspetti del modo di produzione pre-capitalistico. Un indice esauriente è praticamente impossibile, anche perché i criteri di censimento e di valutazione differiscono secondo gli autori ed i contesti culturali. Gli inglesi hanno tentato una


classificazione per settori di produzione, senza raggiungere risultati apprezzabili. Altri studiosi diffidano invece degli schematismi “tipologici” – conseguenza del censimento dell’“oggetto” singolo, settore per settore – proponendo un più complesso sistema conoscitivo “per relazioni” territoriali, culturali, etc., che sembra più corretto ed elastico. Il passaggio dal “tipo” di produzione alle sue interconnessioni strutturali ha consentito di ampliare l’inventario all’uso di nuovi materiali (ferro, vetro, etc.) nell’edilizia (gallerie civiche, pensiline e coperture, arredo urbano, etc.) ed a quella vasta casistica di edifici e tecnologie particolari, solo empiricamente classificabili per settori produttivi: industria energetica (centrali elettriche, gasometri, impianti petroliferi, etc.), industria termale (edifici ed impianti termali), etc. Ciò che in ogni caso appare evidente è la necessità di procedere per esemplificazioni, rinunciando sia alla velleità di censimenti esaustivi che a rigide schematizzazioni teoriche. Ciò che conta, in definitiva, sono gli obiettivi scientifici della ricerca e le finalità di tutela, che non potranno mai essere condizionati da un elenco, lungo o corto che sia. Storicità del concetto di Monumento Passando a ragionare del desiderio di conservazione è evidente che se accettiamo per le testimonianze materiali dell’industrialismo la connotazione di “bene culturale” e la definizione di “monumento”, dobbiamo necessariamente convenire sulla sua legittimità, respingendo inutili confronti con altri beni e monumenti, testimonianze di valori già acquisiti. La realtà della tutela degli oggetti della “civiltà materiale”, perché di questo si tratta, a livello istituzionale (pensiamo in Italia ad alcune Soprintendenze, a molte Amministrazioni locali, etc.) è tuttavia più controversa e ci porta a richiamare sinteticamente il concetto stesso di monumento, per poi cercare di comprendere i motivi delle resistenze alla conservazione che, in qualche caso, ancora si registrano. È il “monumento”, per sua definizione, “testimonianza di un fatto storico (o artistico)”, tant’è che la legge italiana tutela entrambi gli aspetti. È altresì nota la soggettività del “fatto storico”,

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in quanto funzione del giudizio critico dello storico. Si dice infatti che non vi è Storia senza Storiografia e si conviene convenzionalmente che la cosiddetta età storica inizia con la comparsa sulla scena del primo storico noto (Erodoto, V sec. a.C.). Osserviamo inoltre che raramente lo storico è un individuo isolato, bensì l’interprete, il portavoce di una parte della società civile di cui condivide i “valori”, quindi i “giudizi” sui fatti. Ne consegue, in definitiva, che il “monumento” (sia storico che artistico) altro non è che la testimonianza di fatti (e valori) selezionati da quella parte della Società che è riuscita ad imporre la propria supremazia culturale (politica, economica, etc.), in altre parole la propria Storiografia. Possiamo quindi considerare il “monumento” una variabile culturale nel tempo e nello spazio. Nel tempo perché la storiografia si rinnova continuamente, nello spazio perché i “valori” che valgono per noi hic et nunc possono legittimamente non valere per i nostri vicini di casa o di continente. Al limite tutto ciò che oggi è “testimonianza”, potrebbe non esserlo domani e viceversa e ciò pensiamo possa spiegare a sufficienza il motivo per cui i monumenti industriali non erano considerati degni di attenzione solo pochi anni fa ed ancora oggi si discrimina nel merito. Il concetto di “monumento” va dunque storicizzato, cioè riferito al tempo ed al luogo. Al di là degli enunciati teorici, ne consegue che esso sarà oggetto di tutela solo se sarà espressione di fatti e valori riconosciuti. Questa realtà non solo giustifica la ricerca di “vie nazionali” ma, ricordando le istanze di aggiornamento teorico del concetto di “bene culturale” – che auspicano uno stretto rapporto fra il “bene” ed i suoi più immediati fruitori – suggerisce ancora la necessità di riferirsi alle realtà regionali e territoriali, anche se il riconoscimento della delega comporta dei rischi evidenti. Cultura materiale e cultura tecnologica

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È opinione comune che la nascita dell’Archeologia Industriale sia legata ad una nuova visione storiografica, meno attenta alla lettura idealistica dei fatti e più aperta all’acquisizione di nuove fonti, dalla microstoria alla storia materiale. Ma la materia, come abbiamo visto, è frutto principalmente di un approccio


spontaneistico, solo successivamente sistematizzato a livello scientifico. Ciò che in effetti sembra aver contribuito sul piano dell’interesse iniziale è quella diffusa “cultura tecnologica”, tipica delle società industrialmente avanzate, dove l’interesse per l’economia, per gli aspetti economici del quotidiano, ha sostituito interessi più tradizionali e consolidati. In effetti è la stessa industrializzazione, la “civiltà delle macchine” – assimilata nei comportamenti di massa e nell’inconscio collettivo – che sembra reclamare la celebrazione dei suoi feticci. In ogni caso, una volta manifestatasi la volontà alla conservazione, la materia è stata ricondotta alla casistica della cultura materiale, già pianificata dagli indirizzi storiografici dei paesi comunisti (nel 1919 Lenin fonda nell’URSS la prima Accademia di storia della cultura materiale) e poi proseguita nei contributi della scuola francese delle “Annales”. Lo studio del rapporto fra l’uomo e gli oggetti della sua quotidianità consente in definitiva all’archeologo dell’industria non solo di approfondire le conoscenze sullo sviluppo delle tecniche e delle tecnologie partendo dalla lavorazione artigiana, ma di rivendicare alla conservazione, su basi non più empiriche, le architetture spontanee e vernacolari, finora considerate prive di particolare interesse. Anche il vecchio concetto di “monumento” è stato di conseguenza rinnovato, partecipando oggi in più larga misura alle esigenze di una società complessa e dai mutati riferimenti simbolici. Monumenti, ambiente e paesaggio industriale Definire i resti materiali del processo storico produttivo “beni culturali” significa, per quanto abbiamo appena detto, giudicarli testimonianze di fatti e valori degni di conservazione. Abbiamo anche visto come non a caso il Monumento Industriale è un concetto acquisito solo recentemente dalla cultura del mondo Occidentale e come molte siano ancora le riserve, soprattutto in quei paesi (come l’Italia) fortemente ancorati alla tradizione classica e dove la Rivoluzione Industriale ha rappresentato solo un momento marginale e tardivo di crescita. È evidente che la storiografia marxista e la progressiva evoluzione degli studi di “cultura materiale” hanno svolto in questo campo un ruolo trai-

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nante, ai fini del riconoscimento di monumentalità, così come del tutto coerenti, anche se inutilmente settarie, ci sembrano le resistenze messe in atto dalla superstite cultura idealistica. Ci piaccia o meno, l’importanza del mondo del lavoro come fattore di progresso sociale è ormai storicamente acquisita, né può essere esorcizzata o emarginata a posteriori con sciocche battaglie di retroguardia. La comparsa dell’Archeologia Industriale ha comunque segnato decisamente una svolta contro la discriminazione, mettendo contemporaneamente a fuoco, sul piano metodologico, il concetto di monumento industriale come conseguenza di apporti interdisciplinari. Assodata l’importanza della produzione materiale come “fatto storico”, se in linea di principio ne consegue che tutti gli oggetti che la riguardano sono da considerarsi potenzialmente delle testimonianze monumentali, è altresì evidente che un intervento generalizzato di salvaguardia è improponibile, oltre che inutile. Sarà pertanto necessario, ai fini della dichiarazione di monumentalità, stabilire una scala di priorità suggerita da un preciso giudizio di valore. Nella formulazione di tale giudizio la valutazione della componente estetica (o artistica) dell’oggetto da tutelare non interverrà però che in modo marginale (salvo casi eccezionali), giacché, ai fini della dichiarazione di “bene culturale”, per i nostri monumenti, dovranno intervenire considerazioni diverse dal passato e cioè la peculiarità dell’episodio, la sua ubicazione sul territorio, l’interesse storico e tecnologico, il grado di conservazione, la possibilità di riuso, etc.; tutte considerazioni, in definitiva, che costituiscono una ulteriore conferma dei necessari apporti interdisciplinari richiesti dalla materia. Sempre per gli stessi motivi ci accorgiamo poi che oggetto della tutela non potrà essere l’episodio molecolare estraniato dal suo contesto, quanto il sistema di fabbrica, cioè l’insieme integrato delle risorse idrogeologiche e paesistiche, minerarie e forestali, infrastrutturali, produttive ed abitative che in stretta relazione fra loro hanno interessato – in una determinata epoca e con connotazioni di varia natura – quella specifica area geografica ove il nostro episodio si colloca. La tutela dei monumenti industriali non sembra differire, in


altre parole, dalla tutela integrata monumenti-ambiente della moderna metodologia del Restauro. Operiamo intanto una distinzione fra paesaggio e ambiente industriale, dove il primo non è altro che la “forma assunta dal territorio”, in conseguenza dei “segni” impressi nel tempo dai modi di produzione della grande industria. Dunque un paesaggio artificiale, senza alcun riferimento all’ecosistema se non nel senso della sua violenta trasformazione in una scenografia industriale. Anche il Borsi insiste in una definizione del paesaggio dell’industria come “forma che l’uomo nel corso ed ai fini delle sue attività agricole ed industriali coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale o agricolo”, dove intanto il termine industriale è usato nel suo significato più ampio, ma egli si spinge ben oltre e ragionando del monumento industriale come “struttura storica del territorio”, considera la fabbrica “baricentro di un sistema al quale, per stretta connessione funzionale, appartengono case, strade, luoghi per tempo libero e strutture terziarie, aspetti paesistici e via dicendo”, da cui la necessaria lettura, ai fini della tutela, dell’immagine ambientale dei luoghi. In definitiva, paesaggio ed ambiente hanno significati distinti. Il primo, quando esiste, appartiene solitamente all’età della Rivoluzione Industriale; il secondo, sempre esistente, si riflette nell’ecosistema (acque, boschi, sentieri, miniere, villaggi operai, etc.) e sembra maggiormente riferirsi all’età delle Manifatture e della produzione artigiana. Ma l’ambiente industriale, considerati i numerosi apporti interdisciplinari, non è solo un luogo fisico. Secondo P. Lenain infatti “l’esistenza del patrimonio industriale è una pesante ipoteca che grava sia sul paesaggio che sull’uomo” e già i materialisti inglesi, come ricorda opportunamente A. Vidler, “avevano messo in evidenza gli effetti dell’ambiente sulla mente e la morale dell’uomo”, da cui l’esperienza del sensismo, come forza educatrice per eccellenza. Il concetto di ambiente industriale implica dunque non solo fattori materiali, ma anche culturali, antropologici, folkloristici, religiosi, etc., la cui tutela dovrà intendersi come “archiviazione storica” dei dati e delle testimonianze, prima che vadano definitivamente perduti.

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Conservazione e riuso dei monumenti industriali

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Evidente riflesso degli interventi di tutela integrata sono gli “Ecomusei”: ovvero i musei “open” del sistema di fabbrica, dove non vi sono necessariamente visitatori, ma “abitanti”. Gli esempi dell’Ironbridge Gorge Museum in Gran Bretagna e di Le Creusot in Francia (vedi più avanti) sono, in questo senso, fra i più significativi. L’acquisita coscienza del monumento industriale quale “bene culturale”, ci consente oggi di pretendere che il problema della conservazione sia impostato su basi meno empiriche che nel passato e sia risolto in un’ottica di riuso che, attraverso il Restauro monumentale, consenta la rivitalizzazione sia degli episodi singoli che dei grandi complessi obsoleti a fini sociali e comunitari. È il caso di sottolineare inoltre, l’importanza dell’apporto storico-critico nel campo disciplinare, propedeutico agli interventi di tutela ed in realtà mai posto in discussione dagli storici e dai restauratori, ma che alcuni fra gli archeologi dell’industria tendono ancora a sottovalutare a favore di un maggiore impegno verso la catalogazione dell’esistente e la tutela del costruito, che invece non possono scientificamente concretizzarsi in astratta autonomia. Fin qui nulla di nuovo rispetto ai criteri di Restauro tradizionale, anche se bisogna tenere presente che il recente progresso delle iniziative di Recupero urbano ed edilizio – ancora prive di strumenti orientativi universalmente riconosciuti – e la pericolosa tendenza ad affrontare con un atteggiamento “possibilista” gli interventi sui monumenti dell’industria, sembrano orientare la metodologia su criteri meno rigorosi. I veri problemi nascono sul piano operativo. Si discute infatti sulle difficoltà di tutela derivanti dal gigantismo delle aree industriali obsolete e talvolta delle singole testimonianze monumentali, da cui il prevalente indirizzo di tutela attiva, cioè funzionale e produttiva, e di restauro ambientale, anche preventivo. In realtà la natura degli interventi da pianificare, in termini di investimenti, di tempi e di finalità operative si presenta per la prima volta di tale dimensione, da entrare in conflitto con gli orientamenti tradizionali e da ciò anche la preoccupazione di non pochi studiosi ed operatori istituzionali della conservazione, soprattutto in Italia,


che l’ampliamento del campo dei “beni culturali” al patrimonio dell’industrialismo possa togliere risorse preziose alla tutela dei “veri” monumenti. Come si vede l’equivoco permane e da ciò il perdurare di un atteggiamento discriminante, ma il problema in Italia oggettivamente sussiste. Esso si pone ovviamente in chiave molto differente negli altri Paesi industrializzati, dove sia la rilevanza della fase storica dell’industrializzazione rispetto alle esperienze precedenti, sia la qualità delle testimonianze, sia forse un atteggiamento più spregiudicato, consente di superare le limitazioni del metodo con interventi risolutivi. In verità non sempre accettabili ed in qualche caso dolorosi, vedi la distruzione delle celebri Halles parigine e la recente ristrutturazione dell’area dei Docks londinesi. L’appetibilità economica delle vecchie aree industriali poste all’interno o ai margini delle grandi città e rese ormai obsolete dal passaggio alla fase della post-industrializzazione, renderà impossibile la conservazione generalizzata, peraltro già in questa sede giudicata inutile e certo non estranea alle resistenze sopra esposte. Sarà dunque preferibile chiedere il rispetto filologico degli interventi, puntando realisticamente sulla tutela di episodi e sistemi di fabbrica particolarmente significativi, magari giudicati per ambiti territoriali, piuttosto che abdicare a favore di una concezione disattenta o rivendicare faraoniche operazioni di conservazione non rapportate alle risorse nazionali. L’Archeologia Industriale in Europa e negli Stati Uniti Come ormai sappiamo, l’Archeologia Industriale è nata all’inizio degli anni Cinquanta, non per ben definiti interessi accademici, ma sull’onda di uno spontaneo interesse emotivo di una parte della società civile inglese, tendente a salvaguardare le tracce della cultura tecnologica britannica. L’espressione fu avanzata da Donald Dudley, allora direttore di un dipartimento extra-mural (scuole d’istruzione superiore collegate ai dipartimenti universitari), ma fu poi messa a fuoco nel 1955 dal collega Michael Rix che – nel tracciare per grandi linee gli interessi della materia – ne fissò i limiti cronologici nell’ambito della Rivoluzione Industriale.

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Secondo lo Hudson, studioso e divulgatore di storia sociale ed industriale, nonché fondatore e direttore nel 1963 della rivista “The Journal of Industrial Archaeology”, la disciplina ha conosciuto in Gran Bretagna tre fasi di sviluppo. Le prime due pionieristiche e spontaneistiche, caratterizzate dall’urgenza di compilare un primo inventario dei beni superstiti. La terza, a partire dalla prima metà degli anni Settanta, applicata alla discussione sui problemi di metodo. Nel 1973 fu costituita l’Association for Industrial Archaeology, con una sua Newsletter e nel 1976 al “Journal” subentrò la “Industrial Archaeology Review”, coinvolgendo il mondo accademico. Nel frattempo la disciplina era entrata nel consumo culturale di massa – in ciò ribadendo l’importanza dell’aspetto dilettantistico nell’esperienza inglese – mentre si era fatta progressivamente strada la convinzione di un necessario ampliamento cronologico e dell’estensione della materia allo studio del paesaggio e dell’ecosistema. Oggi la Gran Bretagna può contare su una rete molto vasta di associazioni locali, mentre presso l’Università di Bath si trova il National Record of Industrial Monuments, dipendente dal Council of British Archaeology. Interessanti sviluppi ha avuto l’attività conservativa, coordinata dal Ministero dei Lavori Pubblici. L’esempio più importante è dato dall’Ironbridge George Museum Trust Ltd, diretto da Neil Cossons, uno dei più eminenti archeologi industriali. L’Eco-museo di Ironbridge, nello Shropshire, tutela la valle del fiume Severn, culla dell’industrialismo inglese, con la presenza del primo ponte in ferro mai costruito (1777), delle famose fonderie Darby, di miniere, depositi, villaggi operai, infrastrutture, etc., riuniti in un solo complesso amministrativo che ne cura la manutenzione e la gestione. Molto simile a quello inglese è l’Eco-museo francese delle Comunità Urbane di Le Creusot in Bourgogne, centro metallurgico fra i più importanti d’Europa, nato dall’insediamento del Reale Opificio per la produzione dei Cristalli (trasferito da Sèvres nel 1784) e di una reale fonderia dopo l’apertura nel 1794 del Canal du Centre e passato nel 1836 alla famiglia Schneider. Il museo è costituito in pratica dall’intero distretto, trecento miglia quadrate con una popolazione di 150.000 abitanti.


Altrettanto importante è il complesso delle Saline reali di Chaux (Arc et Senans), opera del celebre architetto C.N. Ledoux. In Francia due sono gli organismi principali per la catalogazione e la conservazione del patrimonio industriale: il Conservatoire National des Arts et Métiers (dal 1794) ed il Musée des Arts et Traditions Populaires. L’associazionismo è rappresentato invece dal Comitè d’Information et de Liaison pour l’Archéologie Industrielle (CILAC), aderente al comitato internazionale, affiancato dal Centre de Documentation d’Histoire des Techniques (CDHT). In Belgio l’interesse relativamente recente per la materia appare particolarmente legato allo studio del rapporto fra industrializzazione e paesaggio ed ai problemi di recupero e rivitalizzazione dei principali complessi industriali obsoleti: vedi i villaggi carboniferi di “Le Grand Hornu” e di “Bois-du-Luc”. Gli esempi della più rigorosa impostazione metodologica vengono però dai Paesi ex comunisti: Polonia, Cecoslovacchia e Repubblica Democratica Tedesca, dove l’Archeologia Industriale ha trovato la sua naturale collocazione nell’ambito della “cultura materiale”. L’Italia si è mossa in ritardo e quasi esclusivamente in ambiente accademico e regionale. Ricordiamo comunque la fondazione a Milano nel 1977 della Società italiana di Archeologia Industriale (SIAI, oggi scomparsa) e l’anno seguente, a Napoli, dell’Associazione per l’Archeologia Industriale. Centro di documentazione e di ricerca per il Mezzogiorno, ancora attiva e con un suo “Bollettino” informativo. Fra le riviste specializzate ricordiamo ancora i cinque numeri di “Archeologia Industriale” (Brescia, giugno 1983 – ottobre 1984) editi da Luigi Micheletti ed infine dal 1987 “Il Coltello di Delfo” (Roma), a cura dell’Istituto per la Cultura Materiale e l’Archeologia Industriale (UCMAI). Estremamente attivo anche il lavoro di studio e di catalogazione negli Stati Uniti, dove la Society for Industrial Archaeology (SIA) si è costituita nel 1971, dando contemporaneamente vita ad una Newsletter, ad un Journal annuale e ad importanti conferenze. L’attività americana si caratterizza per l’accuratezza delle rilevazioni e della documentazione, risultato di collaborazioni interdisciplinari, cui tuttavia fa riscontro un atteggiamento meno rigoroso sul piano della conservazione e del riuso, non privi infatti di carattere speculativo. La figura principale dell’archeo­

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logia industriale americana è quella di Robert Vogel della Smith­ sonian Institution di Washington (cui fa capo anhe la Society). Oggi i monumenti dell’industria sono normalmente inseriti nel­ l’inventario dei beni d’interesse storico (National Register of Historic Places), mentre il governo federale ha promosso la costituzione dell’Historic American Engineering Record (HAER), cui è affidato il compito di catalogare il patrimonio industriale nazionale. Ricordiamo infine la presenza del The International Committee for the Conservation of the Industrial Heritage (TICCIH), presieduto da Louis Bergeron, che riunisce le rappresentanze nazionali del settore e che ha finora promosso numerose conferenze di studio (Ironbridge, Bochum, Stockholm, Lione, etc.).

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Convergenze tra design e bioscienze CARLA LANGELLA

Nell’ultimo decennio lo scenario del design contemporaneo è stato connotato da una progressiva crescita di interesse per i nuovi domini sperimentali di convergenza tra cultura del progetto e bioscienze1 come il design biomimetico, il design biomedicale, il synbiodesign2, l’adaptive design3, il growing design4 e l’hybrid design5. Nell’era biotecnologica, dunque, progetto e bioscienze si avvicinano esplorando le possibili modalità relazionali attraverso molteplici prospettive e sfumature6 che apportano alla cultura dell’innovazione nuovi e originali contributi7. I ruoli e le competenze di progettisti e scienziati si ibridano e si rinnovano mediante collaborazioni mutuali per guadagnare avanzamenti condivisi nei reciproci settori in un’ottica di entanglement, cioè di intreccio complesso tra visioni, obbiettivi, azioni e risultati di diverse discipline8. Il designer trova negli avanzamenti delle bioscienze ispirazioni e strumenti di innovazione allo scopo di individuare visioni originali e di approdare a nuovi prodotti che avvicinino la vita delle persone ai progressi scientifici. Allo stesso tempo le bioscienze possono fare riferimento al design e alle sue capacità di envisioning e modellazione per ricevere supporto e indirizzo sulle direzioni di ricerca da intraprendere in relazione al mutare delle esigenze della società e degli stili di vita. Il diffondersi di questi fenomeni e l’esigenza di definirli e comprenderli nella loro complessità ha dato luogo nel 2016 alla nascita di una nuova rivista scientifica di design: il Journal of

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Design and Science (JoDS), una joint venture nata tra il MIT Media Lab9 e l’editore MIT Press, che si propone di indagare le nuove forme di intersezione tra design e scienza, con particolare attenzione alle scienze bio, abbattendo le consuete barriere tra discipline progettuali e scientifiche. Il Journal che ha un approccio open access per garantire un’ampia diffusione di queste tematiche, esplora temi attuali e controversi per il loro impatto sulla cultura del progetto e sulla società. In questo scenario design, scienza e tecnologia tendono ad evolversi in maniera integrata e a sincronizzarsi generando nuovi prodotti e servizi ibridi che si collocano nell’interspazio tra la dimensione sintetica e quella biologica definendo “nuovi futuri ibridi”. Natsai Chieza e Alexandra Daisy Ginsberg hanno scelto il termine biodesign per definire l’ampio spazio delle relazioni tra design e universo bio. In un loro editoriale sulla stessa rivista JoDS dal titolo Other Biological Futures affermano che se il design è il processo con cui l’umanità può trasformare le condizioni attuali in condizioni diverse, secondo le proprie preferenze (parafrasando lo scienziato politico Herbert Simon), allora il biodesign, che qui definiamo ampiamente come il design della biologia, con la biologia o dalla biologia, offre nuove prospettive su come il cambiamento può manifestarsi per noi stessi e per gli altri esseri viventi10. Biomimetica. Metodi, terminologie e equivoci

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I percorsi del design contemporaneo ibridati con le bioscienze delineano uno scenario affascinante che si manifesta attraverso molteplici sfumature e potenzialità. Tuttavia, il carattere interdisciplinare di questo approccio implica non poche difficoltà nel confluire in risultati concreti e innovazioni a causa della scarsità di riferimenti metodologici e procedurali adeguati. Tra le diverse forme di collaborazione fra design e bioscienze, la biomimetica, disciplina che si propone di trasferire qualità e funzionalità biologiche al progetto di artefatti, è sicuramente quella più antica e diffusa. Nella storia del progetto la natura ha sempre costituito un importante riferimento, soprattutto formale. Da sempre architetti, ingegneri e designer attingono morfologie,


strutture e tessiture dall’osservazione di sistemi biologici. Rispetto al passato, però, oggi il design ispirato alla biologia può spingersi molto oltre l’imitazione del solo aspetto estetico e formale. L’evoluzione delle tecnologie (microscopi digitali e scanner tomografici tridimensionali) e dei software digitali impiegati per analizzare e simulare i processi e i dettagli naturali consentono agli scienziati di conoscere più a fondo i processi e le funzionalità dei sistemi biologici. Il livello di approfondimento e di accuratezza delle attuali conoscenze consente, quindi, ai designer contemporanei di concepire prodotti e manufatti che ripropongono alcuni dei caratteri più complessi celati nel mondo naturale. In ambito internazionale con i termini bionic design, biomimicry, biomimetics e bioinspired design vengono indicati i vari approcci progettuali fondati sul trasferimento di conoscenze, principi, logiche, funzionalità e strutture tratti dalla biologia ai processi di innovazione di prodotti e servizi, allo scopo di renderli più sostenibili, adattabili e aderenti alle nuove complesse esigenze del vivere contemporaneo. Il design che fa riferimento alle bioscienze si fonda su analogie tra problemi progettuali e problemi del vivere e sul principio di astrazione che permette di tradurre i caratteri biologici in caratteri artificiali o ibridi. L’interesse, mostrato non solo dalla ricerca ma anche dal mercato, per questo approccio ha portato alla nascita di una specifica normativa ISO, la ISO/TC 266 Biomimetics, con l’obiettivo di standardizzare il campo della biomimetica, sistematizzando metodi e tecnologie sviluppati in ambito internazionale nei settori dei materiali, processi e prodotti ispirati alla biologia, alla luce dei risultati dei più recenti dei progetti di ricerca e sviluppo condotti. L’esistenza di una norma ISO dedicata dimostra che queste modalità progettuali sono ormai ritenute importanti e strategiche in termini di potenzialità di innovazione, anche perché promettono soluzioni tecnologiche e progettuali più sostenibili sia ambientalmente che eticamente. La norma propone una classificazione delle terminologie che cerca di distinguere e codificare i termini impiegati per indicare questo approccio progettuale in forma di glossario, attraverso definizioni molto semplici ed essenziali.

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Bioinspiration: approccio creativo basato sull’osservazione dei sistemi biologici. Biomimicry: filosofia e approcci progettuali interdisciplinari che impiegano la natura come modello per affrontare le sfide dello sviluppo sostenibile (sociale, ambientale ed economico). Biomimetics: cooperazione interdisciplinare tra biologia e campi di innovazione, come la tecnologia, il design, l’architettura o l’ingegneria, con l’obiettivo di risolvere problemi pratici attraverso l’analisi funzionale dei sistemi biologici, la loro astrazione in modelli, il trasferimento e l’applicazione di questi modelli alla soluzione. Bionics: disciplina tecnica che cerca di replicare, aumentare o sostituire le funzioni biologiche con i loro equivalenti elettronici e / o meccanici11.

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Le definizioni fornite dall’ISO tentano di mettere in evidenza alcune accezioni specifiche assunte dall’approccio progettuale che trae ispirazione dalla biologia in relazione ai contesti storici e culturali in cui queste denominazioni sono nate o si sono sviluppate. Il termine biomimicry, ad esempio, è fortemente condizionato dall’influenza del lavoro dell’ecologa Janine Benyus12, imperniato sulla sostenibilità ambientale, mentre il carattere meccanicista del sostantivo bionics rimanda allo scenario storico e tecnologico sviluppatosi intorno alla cibernetica alla fine degli anni ’50. L’intento di fornire descrizioni sintetiche e ben delimitate in un panorama così complesso e articolato ha indotto l’ISO ad operare un’eccessiva semplificazione che ha reso le definizioni poco aderenti a tale complessità e al modo in cui questi termini vengono impiegati. Da una indagine approfondita della letteratura tematica internazionale degli ultimi venti anni emerge, invece, che bionics, biotechnique, biomimetics, biomimicry e bioinspired design vengono generalmente utilizzati in maniera quasi equivalente e che possono essere considerati sinonimi. La scelta di utilizzare una denominazione piuttosto che un’altra deriva, più che dall’approccio applicato, dal contesto geografico e culturale di provenienza degli autori. Nei paesi di lingua tedesca e di lingua spagnola, ad esempio, si preferisce, generalmente, l’espres-


sione bionic design, in Inghilterra il termine biomimetics, negli Stati Uniti biomimicry. In Italia viene impiegata più frequentemente la definizione biomimetica. Diversi autori, tra cui Olga Speck, invece, ritengono che bioinspired design sia la denominazione più ampia e adeguata a comprendere le molteplici sfumature di questo approccio progettuale, incluse quelle più tecniche e ingegneristiche13, in contrasto con la norma ISO che la relega all’accezione di “approccio creativo” Al di la delle discussioni sulle terminologie, ciò che emerge dal variegato quadro internazionale e dalla presenza di una norma ISO è la necessità di confrontare e sistematizzare le metodologie e i punti di vista di designer e gruppi di ricerca che negli ultimi decenni hanno maturato esperienze in questo ambito nei diversi luoghi del mondo. Il trasferimento biomimetico può avvenire secondo diversi approcci metodologici. Thomas Speck ha proposto un processo relazionale tra natura e progetto di tipo verticale in cui la biologia è collocata in basso e il design in alto. In questa visione vengono distinti un approccio bottom up e un approccio top down14. Nel primo si parte dall’individuazione di caratteri biologici, prevalentemente biomeccanici o morfologico-funzionali, di particolari specie biologiche per poi scegliere gli ambiti progettuali e tecnologici più adeguati al trasferimento. In letteratura questo approccio, che parte dalla biologia per approdare al design, è stato definito in diversi modi: solution-based15, solution-driven16, biology push17, biomimetics by induction18 e biology to design19. L’approccio opposto, definito top-down, consiste invece nel partire dall’analisi di problemi progettuali complessi per cercare nella biologia specifici modelli naturali in grado di offrire soluzioni innovative a tali problemi. In letteratura questa modalità viene definita anche problem-driven20, problem-based 21, challenge to biology22 technology pull 23 e biomimetics by analogy24. Il secondo approccio può rivelarsi uno strumento strategico e progettuale prezioso per le aziende produttrici perché consente di ridurre molto i tempi dell’innovazione di prodotto e di processo e di approdare a soluzioni originali in grado di distinguersi dall’omologazione della concorrenza. L’approccio top down può essere coadiuvato da strumenti stocastici che consentono l’interrogazione di database molto am-

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pi che includono ogni sorta di fenomeni biologici e naturali correlati, per analogia, con questioni progettuali25. La European Space Agency, ad esempio, ha sviluppato un database biomimetico in cui i dati sono organizzati secondo una struttura ad albero definita “technology tree” che ordina i modelli naturali secondo le categorie: structures and materials, mechanism and processes, behavior and control, sensors and communications, generational biomimicry26. Il database bioTRIZ, sviluppato dal Centre for Biomimetics and Natural Technology di Bath in Inghinlterra, usa l’approccio TRIZ, strumento fondato sulla teoria del problem solving inventivo progettato da Genrich Altshuller. Include una componente statistica che filtra una vasta quantità di invenzioni biomimetiche e favorisce anche il trasferimento di soluzioni biomimetiche da un campo del progetto ad un altro27. Il più noto e accessibile tra i database biomimetici è Ask Nature28. Proposto dal Biomimicry Institute fondato da Janine Be­ nyus, totalmente gratuito, può essere consultato inserendo parole chiave legate alla qualità ricercata, ad esempio bioluminescence o lightness. È particolarmente adatto a risolvere problemi molto specifici perché può essere interrogato, oltre che con parole chiave, anche con frasi più articolate come, ad esempio, water reduction. Ad ogni interrogazione la piattaforma risponde con ispirazioni suddivise nelle categorie: biological strategies, inspired ideas e collections. L’evoluzione del design biomimetico

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La natura è la migliore fonte di ispirazione per progettare artefatti ambientalmente sostenibili, compatibili con le complesse dinamiche ambientali attuali. Il progetto di design che collabora con la biologia può offrire un prezioso contributo alle politiche di sviluppo eco-sostenibile in termini di riduzione dell’impatto dei processi e prodotti ma anche di bio-marketing e di comunicazione etica. In un mercato sempre più sensibile alle problematiche ambientali e più propenso a scegliere prodotti a basso impatto, la bioispirazione si propone come efficace veicolo strategico per


caratterizzare, identificare e promuovere i prodotti eco-sostenibili. La consapevolezza, sempre più diffusa, delle problematiche climatiche e ambientali e dell’impatto dello stile di vita sulla salute e sul benessere inducono le persone a scegliere ciò che percepiscono più naturale e affine alla propria radice biologica e a prediligere prodotti che implementano un biological factor sia che si tratti di materie prime che di ispirazione progettuale. Per questi motivi le aziende e le organizzazioni commerciali sono ormai consapevoli del grande potenziale competitivo della bioispirazione in termini di attrattività, valore percepito e marketing, alla base degli studi sull’imprenditoria bio-orientata definita biopreneuring29. Nonostante sia chiaro ed evidente il vantaggio competitivo legato all’impiego della natura nella generazione di nuovi prodotti nell’ambito del design di prodotto, questo approccio è meno diffuso rispetto a settori come la robotica, l’ingegneria dei materiali e la bioingegneria. La maggior parte dei prodotti di design biomimetico, sia in forma di concept che di prodotti commerciali, interpreta l’ispirazione biologica prevalentemente da un punto di vista formale, riducendo il potenziale di innovazione funzionale che questo paradigma progettuale propone. La mimesi formale su cui si basano molti prodotti bioispirati è generalmente fondata su analogie casuali, fuori scala e fuori contesto che rischiano di apparire forzate e di produrre risultati inconsueti ma anche grossolani e di scarsa qualità estetica, slegati dall’evoluzione, sia linguistica che concettuale, della cultura del progetto. Sono numerosissimi gli arredi ispirati a morfologie macroscopiche e microscopiche tratte da sistemi biologici30 in cui il riferimento naturale prescelto risponde a requisiti estetici più che funzionali o concettuali. Alcuni riferimenti come le forme di fiori, alberi e foglie ricorrono in modo gratuitamente figurativo come nel divano Fiori progettato dalla designer russa Albina Basharova che ricalca pedissequamente, senza alcuna motivazione funzionale, un fiore di lilium. Analogamente il tavolo Tree Table progettato da Scott Cawoo, in acciaio forgiato e saldato, ripropone la sagoma di un albero. Molto meno frequenti sono invece i prodotti che derivano dalla biologia, o più ampiamente dalle bioscienze, strategie e principi

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funzionali più complessi. Lo studio di design Almond costituito da designer norvegesi, finlandesi e coreani ha progettato la linea di arredi biomimetici Lamella, concepiti per la fabbricazione digitale, in cui la struttura lamellare di alcuni funghi viene trasposta nel design di giunzioni tra elementi verticali ed orizzontali. La collezione include diverse versioni di tavoli, mensole e sedute. Ogni arredo è costituito da elementi in legno fresati a controllo numerico con cui vengono realizzati piani, sedute e sostegni e da elementi di congiunzione lamellari stampati in 3D con materiali plastici. La funzionalità biologica delle lamelle, sottili lamine disposte a coltello e a raggiera sotto il cappello dei funghi, che consiste nel fornire una connessione resistente ma flessibile tra il cappello del fungo e il gambo è stata posta in analogia con le esigenze progettuali legate al dettaglio dei giunti. I giunti a lamella vengono stampati con processi di stampa 3D additiva in modo da consentire di produrne diverse versioni in grado di adattarsi all’ampia varietà di esemplari previsti dalla collezione, evitando di acquisire macchinari costosi fondati su processi complessi, stampi ed estrusioni. La morfologia venata, strutturalmente ottimizzata, permette di superare anche il limite delle ridotte prestazioni meccaniche che spesso caratterizzano i materiali impiegati nella stampa additiva, conferendo una buona resistenza anche a flessione. Nel progetto Lamella il riferimento alla natura e l’uso delle tecnologie digitali si integrano in modo coerente e innovativo, dando luogo ad un criterio progettuale, oltre che a prodotti, in grado di produrre un risultato di buona qualità in termini di equilibrio, aspetto formale e ottimizzazione nell’uso di materia ed energia. Il progetto Lamella è stato premiato con il premio Korea Furniture Design Competition 2018. Il tavolo in vetro Mantis Table, progettato da Alvaro Uribe, trae ispirazione dallo studio della morfologia e della struttura degli arti della mantide religiosa per la realizzazione della base di sostegno in alluminio. La struttura, sottilissima ma ben bilanciata, è in grado di sorreggere un peso sei volte maggiore del proprio. Anche i dinamismi e le articolazioni della natura possono costituire un valido riferimento per migliorare i prodotti industriali. La lampada da terra orientabile in metallo Doride prodotta da Artemide e progettata da Karim Rashid è ispirata al modo in cui


gli steli delle piante, molto più sottili delle foglie che sorreggono, che per analogia corrispondono al corpo illuminante, si muovono al vento mantenendosi eretti. La lampada è composta da un tubo metallico idro-formato e da un diffusore in grado di ruotare di 350 gradi, dotato di uno schermo con feritoie schermanti in materiale termo-plastico, simili alle venature delle foglie, per ridurre al minimo il rischio di abbagliamento della fonte di luce LED. L’innesto della natura come materia viva negli oggetti La natura non è solo fonte di ispirazione ma anche materia viva o attiva da innestare nei prodotti allo scopo di dar luogo a oggetti ibridi, sempre più complessi, adattivi, flessibili e dunque idonei alla mutevolezza del vivere contemporaneo. Molti designer stanno sperimentando l’innesto di concetti biologici come la crescita (growing design) o la vitalità (living objects) in cui natura e artificio collaborano sia nei processi produttivi che nella produzione. Batteri che partecipano alla produzione di materiali, funghi che digeriscono i materiali modificandoli, alghe che illuminano lampade artificiali attraverso la fotosintesi clorofilliana sono alcuni degli esempi che popolano questo nuovo e variegato universo. Un universo in cui la relazione tra persone e prodotti è molto differente dal consueto. I prodotti ibridi richiedono talvolta di essere accuditi, cresciuti, alimentati come generalmente si fa, con gli animali domestici. Si innesca, così una relazione più stretta che porta gli utenti ad affezionarsi a questi artefatti quasi-biologici, a curarli e a conservarli prolungandone la durata. Questa estensione della vita degli oggetti apporta notevoli vantaggi ambientali e profonde rivoluzioni nella catena produzione-valore-mercato. L’applicazione di logiche e processi biologici associata all’immissione di elementi biologici nei processi produttivi consente al design per la sostenibilità di ridurre fortemente l’impatto ambientale dei suoi prodotti. Le plastiche del futuro verranno prodotte da microorganismi come già avviene nel caso del PHB, polimero biodegradabile, prodotto da batteri come gli Halomonas boliviensis che, quando vengono nutriti con molto zucchero, sono in grado di immagazzinarlo come molti animali fanno con l’adipe corporeo. Il PHB è

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un materiale ideale per il packaging alimentare perché è biocompatibile e ha buone proprietà di barriera, ma ha ancora un prezzo di produzione troppo alto31. La chimica verde e la biologia sintetica collaborano per ridurre al massimo i costi di questi processi al fine di renderli competitivi con le plastiche comuni che verranno sempre più bandite dal mercato. Il riferimento alla bioluminescenza di organismi e vegetali è uno degli ambiti più percorsi nell’ampio spettro del design biomimetico. Molti designer e aziende, tra cui la Philips, sono impegnati da diversi anni in ricerche orientate a sviluppare soluzioni di illuminazione che inglobano microrganismi nei dispositivi per generare luce. Possedere una “lampada vivente” significa prendersi cura di piccoli ecosistemi di microorganismi o alghe che, in cambio delle cure, restituiscono luce. Si verifica, così, un ribaltamento del paradigma tradizionale secondo cui per illuminare un ambiente è sufficiente azionare un interruttore senza essere consapevoli che quella luce è il risultato dell’impiego di energia spesso non rinnovabile. La designer olandese Teresa van Dongen, conduce da diversi anni sperimentazioni trasversali tra design e scienza. La lampada Ambio e la sua estensione in forma di installazione One Luminous Dot, sviluppate in collaborazione con i due biotecnologi Bart Joosse e Richard Groen, incorporano batteri (di una particolare specie di Photobacterium isolati dal polpo) che per essere mantenuti in vita e quindi in grado di emettere luce richiedono moltissime cure. Gli ultimi lavori Spark of Life e Electric Life, prodotti con la collaborazione del Center for Microbial Ecology and Technology (CMET) della Ghent University e con il Flemish Institute for Technological Research (VITO) sono più evolute perché sono più autonome e richiedono un minore intervento da parte dell’utente. Mentre nelle prime lampade, infatti, i batteri emettevano direttamente la radiazione luminosa, in queste ultime rilasciano, come prodotto di scarto, elettroni che vengono canalizzati in circuiti elettrici che alimentano una fonte LED. I microorganismi hanno bisogno di essere alimentati con ridottissime quantità di aceto, acqua di rubinetto e sostanze nutritive circa una volta a settimana. Queste sperimentazioni rappresentano molto bene il concetto di ibridazione tra biologico e sintetico poiché sfuggono alle tradizionali demarcazioni. La tecno-


logia LED è, infatti, artificiale ma viene alimentata da microorganismi vivi, dunque naturali, grazie ad un dispositivo biotecnologico. È praticamente impossibile definire questi prodotti biologici o sintetici. Per lo sviluppo di queste lampade, la designer ha collaborato con dei biologi che stavano compiendo ricerche sulla capacità di questi batteri di emettere elettroni, ed erano consapevoli della possibilità di convogliarli come fonte di energia. Ma l’intervento della designer ha offerto la possibilità di verificare che usando solo un lotto di batteri si è in grado di mantenere accesi quattro LED per la durata di un intero anno. Il lavoro della designer olandese è riuscito a pervenire a prototipi funzionanti anche grazie alla collaborazione mutuale con gli scienziati che ha consentito di ottenere progressi sia nell’ambito del design che in quello della microbiologia. Affinché possano essere ottenute prestazioni stabili nel tempo, replicabili in scala industriale ed a costi accessibili è, dunque, necessaria una stretta collaborazione tra design e scienza fondata sulla mutualità di intenti e risultati. Conclusioni I risultati progettuali dell’ibridazione tra design e bioscienze devono fondarsi su obiettivi condivisi e sull’opportunità di produrre innovazioni o avanzamenti in entrambi gli ambiti. Per favorire questo tipo di sinergia è importante che designer e scienziati siano consapevoli dei benefici comuni che ne possono scaturire come l’opportunità di verificare e validare i risultati della ricerca scientifica attraverso prodotti che possano approdare al mercato; la crescita di potenzialità di trasferimento tecnologico e di generazione di imprese e start up; l’aumento della visibilità istituzionale e mediatica; la nascita di nuove visioni prospettiche congiunte; l’opportunità di sviluppare innovazioni e brevetti congiunti e di produrre pubblicazioni scientifiche di impatto elevato.

1   Per bioscienze si intendono le scienze derivate dalla biologia come biologia molecolare, bio-fisica, bio-chimica, biologia sintetica, bio-robotica, bioingegneria dei materiali, neuroscienze, biomeccanica, farmacologia, scienze naturali e neuroscienze.

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Design che coinvolge la biologia sintetica.   Design che ingloba la capacità di auto-adattamento al variare delle condizioni interne ed esterne. 4   Design che incorpora materia in grado di crescere e modificarsi. 5  C. Langella, Hybrid design. Progettare tra tecnologia e natura. Franco Angeli, 2007. 6  J. Ito, Design and science, in «Journal of Design and Science» n. 1, 2016. 7  P. Antonelli, Design and the Elastic Mind, The Museum of Modern Art, New York 2008, p. 15. 8  N. Oxman, Age of entanglement, in «Journal of Design and Science» n. 1, 2016. 9   Laboratorio del Massachusetts Institute of Technology. 10  N. Chieza, A. Ginsberg, Other Biological Futures, in «Journal of Design and Science», 2018. Tradotto liberamente dal testo originale: Medical devices embedded deep in human flesh. Mushrooms growing designer chairs. Engineered probiotic bacteria colonising the guts of soldiers. Implants; fungal factories; bacteria. All three are “biodesigns”, yet each is a product of a very different discipline: biomedical engineering, design, and synthetic biology. Over the last twenty years, each field has in turn claimed the fusing of biology and design as their own. If design is humanity’s process for changing present conditions to other, preferred ones (to paraphrase political scientist Herbert Simon), then biodesign – which we broadly define here as the design of, with, or from biology offers novel perspectives on what change could look like, for ourselves and other living things. 11   ISO 18458. Biomimetics-Terminology, concepts and methodology; 2015. Il testo riportato è stato tradotto liberamente dal testo originale della norma: Bioinspiration: creative approach based on the observation of biological systems. Biomimicry: philosophy and interdisciplinary design approaches taking nature as a model to meet the challenges of sustainable development (social, environmental, and economic). Biomimetics: Interdisciplinary cooperation of biology and technology or other fields of innovation with the goal of solving practical problems through the function analysis of biological systems, their abstraction into models and the transfer into and application of these models to the solution. Bionics: technical discipline that seeks to replicate, increase, or replace biological functions by their electronic and/or mechanical equivalents. 12  J. Benyus, Biomimicry: Innovation inspired by nature, William Morrow & Company, New York 1997. 13  O. Speck, D. Speck, R. Horn, J. Gantner, K.P. Sedlbauer, Biomimetic bio-inspired biomorph sustainable? An attempt to classify and clarify biology-derived technical developments, in «Bioinspiration & biomimetics» 12.1, 2017. 14  T. Speck, O. Speck, N. Beheshti, A.C. Mcintosh, Process sequences in biomimetic research, in «Design and Nature IV», 114, 2008, pp. 3-11. 15  M.E. Helms, S.S. Vattam, A.K. Goel, J. Yen, M. Weissburg, Problem-driven and solution-based design: twin processes of biologically inspi2 3

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red design, 2008; L. Badarnah, U. Kadri, A methodology for the generation of biomimetic design concepts, in «Architectural Science Review», 58(2), 2015, pp. 120-133. 16  S. Vattam, M.E. Helms, A.K. Goel, Biologically-inspired innovation in engineering design: a cognitive study, Georgia Institute of Technology, 2007; M.E. Helms, S.S. Vattam, A.K. Goel, J. Yen, M. Weissburg, op. cit. 17   ISO/TC 266 2015 Biomimetics-Terminology, Concept and Methodology (Berlin: Beuth) ISO 18458:2015. 18  I.C. Gebeshuber, M. Drack, An attempt to reveal synergies between biology and mechanical engineering. Proceedings of the Institution of Mechanical Engineers, Part C: in «Journal of Mechanical Engineering Science», 222(7), 2008, pp. 1281-1287. 19  D. Baumeister, Biomimicry resource handbook: A seed bank of best practices, Biomimicry 3.8, 2014. 20  P.E. Fayemi, K. Wanieck, C. Zollfrank, N. Maranzana, A. Aoussat, Biomimetics: process, tools and practice. Bioinspiration & biomimetics, 12(1), 011002, 2017. 21  L. Badarnah, U. Kadri, op. cit.; S. Vattam, M.E. Helms, A.K. Goel, op. cit.; M.E. Helms, S.S. Vattaùm, A.K. Goel, J. Yen, M. Weissburg, op. cit. 22  D. Baumeister, op. cit. 23   ISO/TC 266 2015 Biomimetics-Terminology, Concept and Methodology (Berlin: Beuth) ISO 18458:2015. 24  I.C. Gebeshuber, M. Drack, op. cit. 25  S. Maidin, et al. Tools to Incorporate Biomimetic into Product Design-A Review, in «Journal of Advanced Manufacturing Technology» (JAMT), 2018, 12.1 (1): pp. 189-202. 26  M. Ayre, ESA biomimicry a review, 2014, p. 7. 27  T. Kobayashi, Toru, et al. Bio-TRIZ database for sustainable lifestyle technology transfer from nature to engineering, in «Knowledge Creation and Intelligent Computing (IES-KCIC), 2017» International Electronics Symposium on. IEEE, 2017, pp. 276-280. 28  https://asknature.org. 29  J.P. Ulhøi, Framing biomimetics in a strategic orientation perspective (biopreneuring), in «Technology Analysis & Strategic Management» 27.3, 2015,: pp. 300-313. 30  F. Tavsan, E. Sonmez, Biomimicry in furniture design, in «Procediasocial and behavioral sciences» 197, 2015, pp. 2285-2292. 31  L. De Souza, S. Shivakumar, Polyhydroxyalkanoates (PHAs) Biodegradable Polymers for ‘Green’Food Packaging Materials. Recent Advances in Biotechnology; Delhi Printer & Lamination, New Delhi India 2017, pp. 149.

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Ernesto Basile: dall’architettura d’interni al design DARIO RUSSO

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Ne Lo Studio Basile. Un crocevia di arti e mestieri (2013), il già Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Palermo Roberto Lagalla affermava: Illustrare, commentare e divulgare l’attività di […] Basile non è solo esercizio di cultura e di sensibilità storiografica; è soprattutto un’operazione civile che restituisce identità alla Città di Palermo e ne invera la dimensione internazionale, la sua ambientazione e i suoi sogni in un momento in cui essa è protesa verso la ricerca di un nuovo futuro1. Ernesto Basile, infatti, è non soltanto architetto raffinato d’un passato glorioso ma designer proteso verso il Futuro. La sua opera si offre ai nostri occhi come una straordinaria macchina del tempo. Ma essa non guarda il passato come sarebbe ovvio pensare […] ci invita a traguardare il futuro di una Palermo che avrebbe potuto essere e non è stata2. Perché allora gli ottimi e sorprendentemente innovativi arredi di Basile, a differenza di altri capolavori del passato, non sono stati riediti dalle aziende del nostro tempo? Come mai, tanto per fare un esempio, Charles Rennie Mackintosh, architetto scozzese contemporaneo di Basile, è diventato simbolo culturale di Glasgow negli anni Ottanta e un’azienda italiana ha ricostruito i suoi mobili nella Collezione “I Maestri | Cassina”, mentre di Basile si trovano tracce soltanto tra gli addetti ai lavori? È possibile progettare una strategia che faccia dell’opera di Basile un volano per la diffusione della cultura del progetto sul territorio anche in direzione economico-imprenditoriale?


Basile architetto Ernesto Basile passa alla storia come insigne architetto palermitano a cavallo tra Otto e Novecento: l’esponente italiano più importante dell’Art nouveau (o Liberty che dir si voglia); l’unico, in Italia, a fare “progettazione integrale” o Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale). Per alcuni Basile è un genio; per altri, soltanto un buon professionista. Stranamente, non compare nei saggi di autorevoli storici dell’architettura come Nikolaus Pevsner, Kenneth Frampton e Malcolm Haslam3. Leonardo Benevolo, nella sua Storia dell’architettura moderna, dedica a Basile due righe: Ernesto Basile (1857-1923) all’Esposizione agricola di Palermo accetta i medesimi motivi dell’Art nouveau4. Secondo Bruno Zevi, Basile è artista secondario, benché eccezionale e sincera voce liberty ancora nel 19105. Comparato a progettisti del calibro di Adolf Loos, Louis Sullivan, Otto Wagner, Hendrik Petrus Berlage, Victor Horta, Henry Van de Velde, Charles Rennie Mackintosh, Josef Hoffmann e Joseph Maria Olbrich – afferma Zevi – Basile rappresenta una personalità coraggiosa ma pallida6. Eppure, nonostante la storiografia dell’Architettura non abbia sempre messo in rilievo l’opera di Basile, le caratteristiche che lo hanno reso grande sono oggi ben note e abbondantemente evidenziate: 1) la rinuncia ai modelli antichi sia nel tema sia nel linguaggio; 2) il collegamento tra le arti maggiori (architettura, pittura, scultura) e le arti cosiddette minori o applicate (oggetti d’uso e design); 3) la sintesi di funzionalità e decorazione, vale a dire di tecnica ed estetica; 4) l’aspirazione a un linguaggio cosmopolita non privo di riferimenti locali, perché l’Art nouveau è al tempo stesso internazionalista e regionalista, glocal (global + local), per usare una crasi in uso ai nostri giorni7. Basile designer Se sull’opera architettonica di Basile molto è stato scritto, il suo lavoro nell’ambito del design, e in particolare del design d’interni, potrebbe essere ulteriormente indagato, perché altrettanto interessante ma molto meno conosciuto. Alcuni suoi arredi, infatti, non soltanto possono essere annoverati tra le migliori pro-

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duzioni del primo Novecento, ma sono tanto innovativi da irrompere nel Futuro ben oltre le idee dello stesso Basile. I motivi per i quali l’architetto palermitano può essere considerato anche designer a pieno titolo sono sostanzialmente tre. In netto anticipo rispetto al suo tempo, Basile: 1) progetta per l’industria; 2) subordina l’ornamento alla funzione pratica; 3) assume il ruolo di art director o design coordinator (dell’azienda Ducrot). All’inizio del Novecento, Vittorio Ducrot, diventato proprietario del mobilificio palermitano Carlo Golia & C. Studio, più tardi soltanto Ducrot, riuscì a impiantare un’industria moderna con macchine tecnologicamente avanzate tali da ottimizzare ogni fase della lavorazione, aumentando la produttività senza cedere mai sul piano della qualità, anzi perseguendo la cura del dettaglio. Così, riuscì a mettere a sistema l’intero ciclo produttivo, potendo contare su laboratori di ebanisteria, di intaglio, di tappezzeria di lusso, di fonderia e patinatura di apparecchi metallici (oggetti di illuminazione, finimenti, montature, ecc.), di cuoio inciso, di vitraux, di tarsia… nei quali i perfezionamenti meccanici più recenti, i processi tecnici più nuovi, le macchine più moderne, rendevano possibile una raffinata produzione di tutti i rami di arte applicata8. Nelle officine di via Pao­ lo Gili alla Zisa (oggi Cantieri Culturali della Zisa), con 20 macchine e 200 operai, la razionalizzazione del ciclo produttivo rese possibile la separazione dei processi di lavorazione e quindi la definitiva scissione del lavoro esecutivo dalla fase progettuale, non più affidata all’operaio-ebanista ma a una figura nuova: il designer. In questo senso, Basile giocò un ruolo fondamentale: progettare arredi per l’industria ovvero una bellezza immediatamente riproducibile mediante processi meccanici9. Definendo quindi design – disegno industriale – ciò che è pensato per la serie10, ne consegue che gli arredi di Basile progettati per uno spazio architettonico predeterminato, quello specifico Palazzo o quello specifico appartamento, rientrano nell’architettura (d’interni): “progettazione integrale” la cui parte (arredo) corrisponde esteticamente col tutto (architettura); mentre i mobili per così dire fuori-contesto, non pensati per uno spazio architettonico predeterminato, sono a pieno titolo design (d’interni). Ed è questo il caso dei mobili disegnati da Basile per essere riprodotti in serie


nelle officine Ducrot, appunto, all’interno di un processo di produzione a tutti gli effetti industriale. Del resto, negli anni Trenta del secolo scorso, come affermano Renato De Fusco e Raffaella Rosa Rusciano nella storia Design e Mezzogiorno, nonostante la tenace persistenza dell’industria nel Sud la fine della Ducrot segna la crisi dell’industrial design in Sicilia11. La seconda ragione che spiega perché Basile è designer ante litteram consiste nel suo modo di considerare il rapporto tra funzione e ornamento; ornamento che per tutto l’Ottocento è considerato parte indispensabile dell’artefatto “bello”: Ho immaginato la mia casa pensando dapprima all’ordinamento interno per la comodità dell’uso, poi alla costruzione e infine all’ornato, che deve essere logica conseguenza dell’ordinamento e della struttura, non affermato preventivamente con dei preconcetti di stile o di speciali partiti estetici12. Perciò Basile, se pure non ritiene che l’ornamento sia “delitto”13, si avvicina al concetto compositivo dell’architettura moderna, secondo cui l’ornamento è insito nell’opera, quale sintesi degli elementi tettonici e funzionali, che si rivelano quindi quali elementi figurativi14. E qui Basile si rivela – ancora una volta – pioniere, anticipando Henry van de Velde il quale rimarca, in occasione del Congresso del Werkbund a Colonia nel 1914, l’urgenza di sostituire l’ornamento “immorale” degli stili tradizionali con quello “morale” dello “stile moderno”15. In altre parole, morale è l’ornamento legato all’oggetto e alla sua funzione; immorale, quello posticcio, appiccicato sopra. La terza peculiarità di Basile designer è poi il suo rapporto privilegiato e prospettico con l’azienda Ducrot. Per il mobilificio palermitano, infatti, Basile progetta non soltanto mobili ma anche negozi, stabilimenti, spazi espositivi, oggetti d’uso, marchi, biglietti, targhe, carte intestate, carta da regalo, ecc., imprimendo uno specifico “carattere” modernista al volto ufficiale della Ducrot16. Tale attività registica è senz’altro atipica e si collega a un tema cruciale che segna il Novecento: l’immagine coordinata dell’azienda (corporate image); cosa doppiamente interessante e ancora una volta sorprendente. Da una parte, Basile si occupa della “riorganizzazione del visibile” della Ducrot ancor prima del programma di immagine coordinata dell’AEG (industria tedesca

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dell’elettricità) ad opera di Peter Berhrens (1907-1914), al quale va riconosciuto, secondo Gillo Dorfles, il merito – o la fortuna – di essere stato forse il primo caso di “consulente artistico” – di designer dunque – chiamato al fine di curarne ad un tempo la organizzazione tecnica ed artistica17. Dall’altra, Basile lega la sua reputazione all’immagine (coordinata) Ducrot dando luogo al formidabile binomio Basile-Ducrot che esplode e s’impone all’attenzione internazionale nel corso delle successive partecipazioni alle esposizioni di Torino, di Milano e di Venezia nel breve arco di un decennio tra il 1902 e il 190918. Questo sodalizio tra progettista e produttore – un rapporto stretto, sistematico e fruttuoso – caratterizzerà il design italiano nel Dopoguerra contribuendo decisamente al suo successo; si pensi al binomio Ponti-Cassina, Magistretti-De Padova, Castiglioni-Flos o, più di recente, Giovannoni-Alessi19. Laboratorio di disegno industriale

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Riconosciuta la qualità di Basile nell’ambito del design del mobile, la sua opera torna a vivere oggi nelle aule universitarie del Dipartimento di Architettura di Palermo. Alcuni arredi selezionati, infatti, sono oggetto di “ricostruzione materiale e immateriale” nei laboratori di disegno industriale ideati e coordinati da chi scrive grazie alla collaborazione dell’Archivio Basile, dov’è conservata gran parte dei progetti dell’architetto palermitano, e dell’azienda Caruso Handmade, mobilificio palermitano che, proprio come Ducrot un tempo, riesce a contenere l’intero processo produttivo del mobile nelle sue officine. Ciò che caratterizza tali laboratori è la presenza delle aziende che partecipano all’esercizio didattico operativamente, con visite guidate nei luoghi di produzione e confronti frequenti circa le implicazioni tecnicocostruttive. Si determina così una strategia a vantaggio di tutti: l’Università attinge a risorse esterne, strutturali ed economiche, potendo contare su atelier e macchine professionali; le aziende mettono a frutto la ricerca accademica ovvero sperimentano le idee a briglia sciolta degli studenti; questi ultimi possono finalmente coniugare teoria e pratica, proiettati in una prospettiva imprenditoriale con possibilità di assunzione ed eventuali royal-


ties20. Una iniziativa – osserva Antonio Labalestra – che, oltre a rappresentare una rilettura antologica dell’attività pluriennale di ricerca svolta sull’architetto palermitano e della sua collaborazione con una delle aziende più nodali per la nascita della cultura d’impresa e dell’industrial design nel nostro Paese, riproduce un’indicativa prospettiva di un modello di didattica calibrata intorno a un’aura di autentica adesione disciplinare rispetto ai diversi materiali indagati, ricomposti, rivissuti e riprogettati […] Gli esiti presentati in quest’occasione, oltre a rappresentare un termometro dello stato della ricerca nell’ambito del design, compiono un ulteriore passo verso quella modalità operativa che rifiuta la concezione disgiunta della didattica rispetto alla ricerca, contestando un equivoco diffuso secondo il quale si tende, erroneamente, a costruire antitesi dialettiche tra manufatto e il fare ricerca e didattica tra progetto e prodotto21. Il passo immediatamente successivo è la comunicazione di un’avventura progettuale, che si propone come marchio – Basile-Caruso Handmade – carico di fascino e qualità intrinseca. È una virtuosa triangolazione, tra l’Università di Palermo (didattica, ricerca e disseminazione nella società), l’Archivio Basile (memoria storica, fonti, documenti) e Caruso Handmade (know-how tecnico, processi produttivi, imprenditorialità): una storia Made in Sicily, anzi tutta Made in Palermo22. Metodo di ricostruzione In che modo gli arredi di Basile possono essere oggi ricostruiti? E perché parliamo di ricostruzione e non di riprogettazione o di riproduzione. L’idea non è certo quella della copia filologica, con materiali, tecniche costruttive e processi di un tempo. Ciò sarebbe anacronistico e quindi non avrebbe una prospettiva imprenditoriale. Che s’intende allora per ricostruzione di un arredo del passato? A tal proposito, nella recente storia del design esiste un precedente importante: la Collezione “I Maestri | Cassina” ossia una serie d’importanti arredi del passato progettati da: Le Corbusier (1965), Charles Rennie Mackintosh (1973), Gerrit Thomas Rietveld (1973), Erik Gunnar Asplund (1983), Frank Lloyd Wright (1986), Charlotte Perriand (2004), Franco Albini

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(2008), Zanuso (2015)23. Se il successo commerciale e massmediatico si deve senz’altro all’abilità imprenditoriale di Cassina, il merito scientifico dell’operazione va riconosciuto a Filippo Alison, professore di Architettura d’interni dell’Università di Napoli, ideatore di un efficace metodo di ricostruzione materiale e immateriale, tale da attualizzare gli arredi senza perdere l’aderenza al progetto storico. Il metodo di Alison consiste fondamentalmente in tre fasi: selezione, rilievo e ridisegno. La prima – la selezione – richiede molto studio, ragionamento prospettico e osservazione dell’esistente, non soltanto com’era ieri ma anche come sarebbe qui e ora. In breve, ricerca. Per fare una selezione, infatti, occorre inoltrarsi nel processo ideativo e costruttivo di un progetto. È possibile così comprenderne le reali possibilità di applicazione nello spazio e d’interazione con gli utenti: Processo metodologico che va compreso non per essere pedissequamente applicato, ma per porsi in continuità con esso, evolvendolo e rapportandolo all’oggi24. La seconda fase è quella del rilievo, la parte più impersonale del processo. Qui, la molla ideativa che caratterizza il progettista deve essere frenata, perché bisogna prendere atto di quanto è stato fatto, del come e del perché di ogni cosa. Si tratta allora di una restituzione quanto più possibile asettica (dimensioni, proporzioni, configurazioni ecc.) mediante un codice convenzionale e trasmissibile. Il rilievo permette di cogliere la dimensione funzionale dell’arredo, in termini sia pratici sia simbolici, registrare dimensioni, posture, comportamenti, azioni, movimenti, anche in relazione ad altri arredi e allo spazio architettonico, cogliere le ragioni dell’uso dell’arredo e la sua presenza fisica nello spazio. La terza fase è infine quella del ridisegno: l’ultimo atto della ricostruzione. Se il rilievo restituisce oggettivamente l’esistente, il ridisegno è il momento in cui s’interviene criticamente scommettendo sul Futuro: Se il rilievo mette in luce le caratteristiche dell’oggetto ferme al momento in cui è stato pensato e prodotto, il ridisegno invece ne insegue le potenzialità, ne legge le dinamiche in divenire in esso contenute, e lo infonde delle conoscenze tecnologiche e culturali contemporanee. È quindi l’operazione in cui l’intervento progettuale si manifesta a tutti gli effetti25. È ora che bisogna valutare se le scelte


metodologiche che hanno guidato il progetto nel passato possono essere integrate e sono ancora attuali rispetto alle esigenze odierne. Per quanto riguarda gli aspetti materiali, è evidente che le tecniche di lavorazione, i materiali e i processi del nostro tempo sono ben diversi e più performanti di quelli del passato. Se Basile progettasse nel Terzo Millennio, ovviamente, non utilizzerebbe certo processi costruttivi di un secolo fa. Ogni buon progettista, del resto, come pure ogni artista, matura una profonda conoscenza dei mezzi tecnici di cui dispone. Per quanto riguarda gli aspetti immateriali, considerato il passaggio dell’arredo da un’epoca all’altra, il che vuol dire da una cultura a un’altra e da un sistema di valori a un altro, per non rischiare il fraintendimento conviene tenere conto di eventuali aggiustamenti progettuali. Gli arredi, infatti, non sono soltanto prodotti d’uso (pratico): sono veicoli di una comunicazione molto più ricca e articolata, in quanto depositari, sia pure indiretti, di usi, comportamenti e, più in generale, di quei valori formali che si riconnettono all’etica sociale o di gruppo, con la differenza che i valori storici degli oggetti di arredo devono essere acquisiti e goduti anche con l’uso effettivo di essi, ritenuti efficaci portatori e diffusori di tali valori, in quanto oggetti di quotidiana utilità26. Pertanto, per mantenerne intatto il significato e il sistema di valori che vi sono connessi, è necessario ricostruire l’arredo in sintonia con la struttura abitativa e la sensibilità dei nostri giorni. Insomma, senza riferimenti che esorbitano dal nostro discorso, vale ancora una volta il celebre adagio di Tomasi di Lampedusa: perché tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi. Arredi Quali sono allora gli arredi selezionati di Basile, e perché? Questi si dividono in sette temi. Il primo è quello della Sediascaletta, disegnata per la Biblioteca di Palazzo Francavilla (1898) quale parte integrante di un’opera d’arte totale. La Sedia-scaletta, sia pure con un timbro Art nouveau che più si confà all’artigianato artistico che non al disegno industriale, è un pezzo asciutto e doppiamente funzionale (arredo trasformabile). Il secondo tema è quello dei mobili Torino, esposti all’Espo-

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sizione Internazionale di Torino del 1902: il Divano, la Sedia, il Tavolo e la Libreria. Memore delle ricerche di Richard Riemershmid, Basile progetta un tipo che, ulteriormente semplificato, permette a Ducrot di avviare una produzione di mobili economici denominata “Tipo Torino”. Tali arredi, contrassegnati da funzionalità, logica strutturale e predisposizione ai processi industriali, anticipano sorprendentemente il Razionalismo dei decenni successivi27. Il terzo tema è quello dei mobili del Villino Ida, progettati da Basile per uso personale o comunque realizzati per sé e per la sua famiglia. Tra questi, il Tavolo da pranzo (1906), il portarotolicomò Acanto (1906) e la scrivania Cervello (1094) sono senz’altro ancor oggi accattivanti. Il Tavolo da pranzo, pezzo unico fatto realizzare per il Villino Ida a Palermo, è un semplice fratino, già di per sé adeguato agli usi odierni, reso ancor più versatile grazie all’applicazione di due pezzi supplementari che ne prolungano la superficie. Il portarotoli Acanto, inedito arredo disegnato da Basile per il suo atelier, assume la funzione di comò, elegante, semplice e lineare. La scrivania Cervello, progettata per Giuseppina Cervello (figlia del medico palermitano di chiara fama e amico di Basile) e in seguito realizzata per Casa Basile (1906), presenta una configurazione asciutta, la cui decorazione si risolve in piante che si adattano alla posizione che assumono sulla superficie del mobile; quando ad esempio si trovano in una zona poco illuminata, le piante sono ombrifere28. Il quarto tema è un trio di mobili contrassegnati da semplicità formale e facilità di ricostruzione, se così si può dire, quindi di altrettanto facile inserimento negli scenari odierni, secondo la ricerca di mercato di Caruso Handmade: il Cavalletto da esposizione (1904), l’Armadio in quercia e acero (1907) e il Vaso portapalma (1907). Il primo è un oggetto tecnico, nitido ed essenziale, ideale per le più disparate esigenze espositive. L’Armadio in quercia e acero, della serie Papavero, è un arredo geometrico e modulare, suscettibile di svilupparsi in direzione lineare o angolare nella zona notte. Il Vaso porta-palma assume nuove prestazioni tecnologiche, mantenendo un tipico carattere identitario, legato al territorio. Ancor più identitario, se possibile, è il tema “Tipo Carretto 100


Siciliano” (1906), ispirato al folklore insulare, alle trame e ai colori dei mosaici arabo-normanni rivisitati nel Carretto. Gli arredi “Tipo Carretto Siciliano”, il Carrello, il Divano, la Dormeuse e il Paravento, sono presentati all’Esposizione di Milano del 1906 quali versioni semplificate di pezzi già in produzione. Per il sistema costruttivo ad assemblaggio e incastro di elementi lineari, in effetti, potrebbero essere accostati ai mobili “Tipo Torino”, ma a differenza di quest’ultimi sono caratterizzati da motivi e rapporti cromatici legati alla tradizione popolare e alla cultura locale29. Perciò esprimono un immaginario Made in Sicily, una fascinazione che fa presa sui mercati internazionali e che Basile ha saputo raccontare ben prima di D&G: il riferimento al carretto siciliano, ormai solamente figurativo e concettualmente obsoleto fino a sembrare anacronistico, è dunque proiettato oltre l’idea di Basile, fino a trasmutare in un oggetto seriale che permetta di configurare i più svariati spazi dell’abitare contemporaneo, pur mantenendo una forte eredità30. Il sesto tema è la sedia Faraglia, progettata nel 1906 per il Grand Café Faraglia di Roma. Il “Tipo Faraglia”, per via della sua semplicità strutturale, è senz’altro uno dei pezzi più versatili di Basile: la risposta italiana alla ben più nota sedia Thonet n. 14. Della Faraglia, in effetti, esistono diverse versioni, che si differenziano per finitura e sedile ora totalmente ligneo, ora in paglia di Vienna, ora imbottito e rivestito di stoffa: modello unico pensato per essere declinato variamente e dunque soddisfare le esigenze di personalizzazione. Lo scrittorio in quercia e acero (1907), infine, è il pezzo in cui l’aggiornamento materiale e immateriale è tanto nascosto quanto evidente. Quando è chiuso, si presenta come una consolle elegante dall’ingombro minimo. L’apertura del pannello, che diviene piano orizzontale (scrittoio), mette in scena l’ideale armamentario tecnologico (carica-batterie wireless, casse bluetooth, led), tipico dello studioso del nostro tempo31. Conclusioni Se questo lavoro di ricostruzione ha qualche attendibilità, è possibile tracciare una parabola che parte dall’Art nouveau e si 101


proietta nel Futuro. La sedia-scaletta, pensata per la Biblioteca di Palazzo Francavilla, rivive oggi nella sua configurazione schematica, quale agile oggetto d’uso (doppio). Allo stesso modo, la Scrivania Cervello, il Portarotoli-comò, il Vaso porta-palma, il Cavalletto da esposizione, il Tavolo da pranzo, l’Armadio in quercia e acero assumono nuova linfa quali arredi dotati d’intrinseca bellezza, testimoni d’una storia importante e adesso aggiornati secondo parametri ergonomici e funzionali odierni. La parabola attraversa il Novecento, con i suoi postulati di produzione industriale e di standardizzazione, dove spiccano gli arredi “Tipo Torino”, abbondantemente semplificati, e quelli “Tipo Carretto Siciliano”, esemplificativi della doppia natura – internazionalista e insieme regionalista – dell’Art nouveau: glocal. La parabola culmina nella sedia Faraglia e nello Scrittoio in quercia e acero. La Faraglia, come accennato, si presta a essere declinata variamente, superando la rigida uniformazione del Movimento moderno: un prodotto attuale, con virtualmente infinite possibilità di applicazione a partire da una configurazione minima e strutturale. Lo Scrittoio è forse un ancor più evidente collegamento tra il Passato e il Futuro, con una configurazione trasformabile e funzionale, già così determinata all’inizio del Novecento, e un nocciolo tecnico ora dotato di tutti i comfort. Forse appare allora evidente quanto geniale e ricca sia l’attività di Basile come designer (non solo come architetto): un simbolo culturale – della Città di Palermo – di qualità progettuale e intrigante bellezza, che rivive così in linea col nostro tempo.

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1  R. Lagalla, in M. Marafon Pecoraro, E. Marrone, Lo Studio Basile. Crocevia di arti e mestieri, 40due, Palermo 2013, p. 7. 2  M. Carta, in M. Marafon Pecoraro, E. Marrone, cit., p. 11. 3  N. Pevsner, I pionieri dell’architettura moderna. Architettura, pittura, design: la storia del movimento da William Morris a Walter Gropius, (1943) Garzanti, Milano 1999; K. Frampton, Storia dell’architettura moderna, (1980) Zanichelli, Bologna 1993; M. Haslam, Stile Art nouveau, Rizzoli, Milano 1990 (1989). 4  L. Benevolo, Storia dell’architettura moderna, (1960) Laterza, Roma-Bari, 1993, p. 331. 5  B. Zevi, Storia dell’architettura moderna dalle origini al 1950, Einaudi, Torino 1961, p. 541. 6   Ivi, p. 210.


7   Cfr. A. Sciarra Borzì, Ernesto Basile. Il Liberty degli architetti siciliani e la tradizione locale rivissuta come memoria creativa, Mazzone, Palermo 1982, p. 21. 8  R. Savarese, L’Arte decorativa moderna in Sicilia, in “L’Arte decorativa moderna”; II, 1, 1903, p. 13. 9   Per approfondimenti sulla produzione Ducrot, cfr. E. Sessa, Ducrot. Mobili e arti decorative, Novecento, Palermo 1989; vedi anche Id., Ernesto Basile. Mobili e arredi, Novecento, Palermo 1987. 10   Cfr. R. Falcinelli, Critica portatile al Visual Design. Da Guten­berg ai social network, Einaudi, Torino 2014, p. 40. 11  R. De Fusco e R.R. Rusciano, Design e Mezzogiorno tra storia e metafora, Progedit, Bari 2015, p. 130. 12  E. Basile, “La Casa”, 1909, cit. in L.V. Masini, Liberty. Art Nou­ veau, (1976) Giunti, Firenze 2006, p. 369. 13   Cfr. A. Loos, Ornamento e delitto (1908), in Id., Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 1972, pp. 217-229. 14  A. Catalano e G. Lo Jacono (saggio critico di), in E. Basile, Architettura dei suoi principi e del suo rinnovamento, (1882) Novecento, Palermo 1981, pp. 217-218. 15  T. Maldonado, Disegno industriale: un riesame, (1976) Feltrinelli, Milano 2008, p. 35. 16  E. Sessa, Ducrot. Mobili e arti decorative, Novecento, Palermo 1989, p. 19. 17  G. Dorfles, Introduzione al disegno industriale (1963), Einaudi, Torino 1972, p. 23. 18  G. Pirrone, Prefazione a E. Sessa, Ernesto Basile e la produzione Ducrot, Novecento, Palermo 1987, p. 7. 19   Sul rapporto progettista-produttore nel design italiano, cfr. D. Russo, Il design dei nostri tempi. Dal postmoderno alla proliferazione dei linguaggi, Lupetti, Milano 2012, segnatamente il paragrafo “Il design è come l’amore”, pp. 186-190. 20   Sul rapporto tra Università e aziende nel suddetto laboratorio universitario, cfr. l’editoriale della rivista “Sicilia InForma | Notizie sul design insulare”, nn. 5, 6 e 7 (autunno 2016 - autunno 2017), i cui articoli sono dedicati ai progetti realizzati da diverse aziende che hanno investito sull’Università e sugli studenti. 21  A. Labalestra, Caruso Handmade | Identità siciliana, profilo internazionale e attualità della riforma modernista nella produzione Ducrot, “Sicilia InForma | Notizie sul design insulare”, 7, autunno 2017, p. 17. 22   Negli ultimi anni, Palermo è teatro di un rinnovato interesse artistico: già “Patrimonio Mondiale dell’Umanità” grazie all’itinerario arabo-normanno o siculo-normanno che dir si voglia, nel 2018 Palermo è “Capitale Italiana della Cultura” e ospita Manifesta 12, una delle più importanti Biennali del mondo. 23   «Con la collezione “I Maestri” Cassina stimolava e educava il gusto del pubblico, offrendo mobili che, consegnati alla storia, costituiscono le radici del design contemporaneo, dando una risposta all’implicita attesa di architetti, professionisti, consumatori colti e attenti di tutto il mondo. Per la prima volta il mercato poteva acquistare repliche di archetipi disegnati dagli

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esponenti più autorevoli e significativi del Movimento Moderno». A. Spadoni (a cura di), L’indiscreto fascino del design. Breve storia del design italiano dall’arredamento attraverso le esperienze di un imprenditore: Rodrigo Rodriquez, Skira, Milano 2011, p. 116. 24  P. Giardiello, La ricerca come metodo di conoscenza, in M. Santoro (a cura di), Filippo Alison. Un viaggio tra le forme, Skira, Milano 2013, p. 74. 25   Ivi, pp. 76-77. 26  F. Alison, I Maestri: ideologia della ricostruzione, in G. Bosoni (a cura di), Made in Cassina, Skira, Milano 2008, p. 76. 27   «Con questo “tipo” di funzionali mobili economici, Vittorio Ducrot orienta parte dell’attività produttiva della ditta verso il filone internazionale della ricerca di una “qualità democratica” per l’arredo moderno […] modelli semplificati, più accessibili alle classi medie ma pur sempre riferiti ai modelli di vita e al gusto di una società aristocratica o alto borghese». E. Sessa, op. cit., pp. 10, 25. 28   In questo senso la posizione di Basile coincide con quella di Louis Henry Sullivan, uno dei maggiori architetti americani e autore del motto form follow function per il quale è stato definito padre del funzionalismo e profeta della nuova architettura. Cfr. E. Di Stefano, Ornamento e architettura. L’estetica funzionalistica di Louis H. Sullivan, Aesthetica Preprint, Palermo 2010, p. 7. Per Sullivan l’ornamento, lungi dal sembrare “appiccicato” sopra, dovrà apparire «come se fosse promanato dalla sostanza stessa del materiale grazie all’intervento esterno di un qualche fattore favorevole ed esistesse con lo stesso diritto di un fiore che appare tra le foglie della pianta che l’ha generato». L.H. Sullivan, cit. in E. Di Stefano, cit., p. 32. 29   Cfr. E. Sessa, op. cit., pp. 25-26. 30  A. Labalestra, op. cit., p. 15. 31   Per quanto riguarda la ricostruzione di: Sedia-scaletta (D. Pizzurro), Divano (F. Lanza) e Sedia Torino (F. Mangia), sedia Faraglia (L. Cantoni) e Carrello Tipo Carretto Siciliano (G. Vassallo), cfr. Dario Russo, Caruso Handmade | L’importanza di chiamarsi Ernesto, “Sicilia InForma | Notizie sul design insulare”, 3, ottobre 2015, pp. 4-5; per quanto riguarda la ricostruzione di: Tavolo (V. Lo Giudice) e Poltrona Torino (G. Giordano), Scrivania Cervello (R. La Vecchia), Tavolo da pranzo (G. Gambino), Scrittoio in quercia e acero (A. Scherma), Portarotoli-comò (E. Cavataio), Dormeuse (A. Gulotta) e Divano Tipo Carretto Siciliano (A. Noto), cfr. M. Marafon Pecoraro, Caruso Handmade | Ricostruire il passato per progettare il futuro, “Sicilia InForma | Notizie sul design insulare”, 5, ottobre 2016, pp. 12-17; per quanto riguarda la ricostruzione di: Libreria Torino (C. Vitabile), Cavalletto da esposizione (C. Verace), Armadio in quercia e acero (M. Lo Meo), Vaso porta-palma (S. Dolce), Paravento Tipo Carretto Siciliano (M.F.P. Burgio), cfr. A. Labalestra, op. cit., pp. 12-17.

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Libri, riviste e mostre

V. Gregotti, I racconti del progetto, Skira, Milano 2018. “I racconti del progetto” è la seconda opera pubblicata da Vittorio Gregotti nella prima metà dell’anno in corso. L’attività teorica e saggistica dell’autore si arricchisce di un ulteriore capitolo che, da principio, riporta alla mente alcune considerazioni già presenti ne “Il territorio dell’architettura” del 1966, per divenire poi un trait d’union fra molte delle opere susseguitesi nei decenni successivi; testi citati puntualmente facilitando in tal modo, al lettore non assiduo del corpus gregottiano, la possibilità di rintracciare all’interno della sua attività saggistica una compattezza ed una costanza di meditazione ormai rare. Si tratta di quelle che Guido Morpurgo nello scritto finale di accompagnamento al volume definisce le continue filaretiane ruminazioni sul significato e sulle finalità della disciplina architettonica, riconoscendo al collega la perseveranza nella prassi teorica e la precisione dello sguardo critico. Il tema, la possibilità cioè di una narrazione della, e nella, architettu-

ra è particolarmente delicato, e lo stesso autore lo chiarisce a partire dal­ l’introduzione, laddove ripete più volte, e nella ripetizione pare definire sempre più precisamente, quale sia lo scopo del testo: scrivere dei diversi percorsi intorno alle possibilità di produrre oggi un progetto di architettura in una forma che diventi progressivamente coerente rispetto alle intenzionalità le quali, a loro volta, si costruiscono nello sviluppo del progetto come alternativa alle contraddizioni del presente. Si tratta di un tema già affrontato da altri autori in passato, su tutti Paul Ricoeur citato in merito a un passo del saggio “Architettura e narratività”, nel quale l’architettura è definita come un momento in cui il tempo raccontato e lo spazio costruito non si lasciano pensare separatamente. Prendendo le distanze da una visione della narrativa architettonica come descrizione pubblicitaria di un prodotto, Vittorio Gregotti ci conduce invece attraverso una rigorosa e logica disamina delle possibilità di un racconto architettonico, interpretandone i rischi, le potenzialità, le forme. Il fine è quello di ritrovare un senso nell’a-

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gire progettuale, oggi sempre più accerchiato da necessità e difficoltà estranee. Con il rigore logico degno di quel­l’illuminismo lombardo cui accennava Umberto Eco nell’introduzione alla riedizione del già citato “Il territorio dell’architettura” del 2008, Gregotti prepara il campo per un discorso relativo alla narrazione in architettura, concentrandosi fin dalle prime battute sui contenuti e sulle parole fondamentali, affinché l’analisi sia precisa, netta, e si riveli fruttuosa per un successivo sviluppo del tema e per un dialogo chiaro e prolifico con le altre discipline. Perché, non va dimenticato, l’attenzione dell’autore è da sempre rivolta anche al rapporto con altri campi del sapere e con le altre arti (basti ricordare scritti precedenti come Diciassette lettere sull’architettura del 2000, oppure il più recente L’architettura di Cézanne, edito nel 2011), consapevole del fatto che l’architettura sia un fatto corale, o meglio polifonico come afferma soffermandosi sulle possibili convergenze fra musica ed architettura: Il progetto di architettura […] è, nella sua stesura, vicino a ciò che lo spartito significa per la musica, anche nella sua relazione interpretativa nell’esecuzione. E relazioni inevitabilmente privilegiate si instaurano anche con la letteratura, al cui apparato critico l’autore ricorre in taluni momenti riepilogando in breve gli apporti di De Saussure, Jacobson, Benveniste e Barthes alla questione del rapporto segno-linguaggio. Ma perché il dialogo fra discipline eterogenee sia possibile, occorre che lo statuto di ogni pratica sia ben definito, trattenendosi da troppo arditi paragoni o da tentazioni di trasferimento procedurale fra le arti. Ne consegue dunque la necessità

di un chiarimento circa i materiali propri del progetto architettonico e le parole che ad esso si attaglino. Nella concezione che l’autore porta avanti con convinzione da anni, come materiali occorre prendere in considerazione sia fatti concreti che elementi costruttivi in senso stretto, come altresì fatti culturali, sociali, antropologici e geografici, che a più riprese Gregotti ha trattato nella sua lunga carriera, in un percorso di costante avvicinamento al senso del progettare. Perché le riflessioni attorno all’architettura devono sempre rifarsi allo stato delle cose entro cui si operi concretamente, senza vane nostalgie o vuote predizioni. E si avverte nel testo la concentrazione nello scavare, nel definire, nel chiarire soprattutto, e tale sforzo è volto da un lato a proseguire la strutturale e necessaria meditazione della pratica architettonica su sé stessa, dal­ l’altro a contrastare gli effetti dell’odierna rapidità acritica, delle pressioni del globalismo finanziario, che hanno portato alla falsa coscienza della nevrosi per il cambiamento incessante. E un racconto, per propria natura, può essere la risposta alla frammentazione sia disciplinare che sociale, in quanto si tratta di un modo per dare al tempo che scorre un inizio e una fine, invece di disperdersi in schegge, secondo una definizione ripresa da Franco Rella. Chiarire i materiali del progetto, dunque, analizzarli nell’essenza e nel significato oggi loro attribuibile considerandone gli sviluppi storici, è il primo passo per ridare una speranza alla pratica architettonica. Fra questi materiali spiccano la storia, la memoria, il luogo e tutto quanto possa essere riunito sotto la denominazione di antropogeografia, tenendo presente che questo tipo di ragionamento vale soprattutto in Euro-


pa, dove la geografia è un modo di essere fisico della storia. Ma materiali sono anche elementi più strettamente legati all’architettura, quali il tema progettuale, la scala e, non ultima, la rappresentazione, circa la quale l’autore si sofferma riconoscendone il ruolo nevralgico di strumento segnico attraverso cui debbano passare sia l’indagine del reale, prima, che la proposta progettuale e la sua comunicazione, poi: nel progetto di architettura il disegno è quindi anzitutto il principale strumento di indagine per un’organizzazione della scelta dei materiali, dei problemi specifici e singolari delle parti e degli spazi necessari all’uso delle loro relazioni e dei principi per la costituzione della forma dell’opera. E l’attenzione, consueta nelle opere di Gregotti, circa i termini e i vocaboli della teoria, si acuisce qui nel tentativo di porre le basi per una narrazione del progetto architettonico, intesa come narrazione di un percorso (o talvolta di un’utopia) compiuto per mezzo di diversi materiali, personaggi, condizioni, procedure e linguaggi, di un’ipotesi di ricerca di giudizio critico sullo stato delle cose reso concreto da una proposta prima nascosta e poi sempre più precisa ed evidente del farsi di una realtà altra, possibile o impossibile, ma necessaria. Fra le parole determinanti quali modificazione, dialettica, verità, intesa non come assoluta o metafisica bensì come necessaria al presente, contestualmente responsabile sulla scia del pensiero albertiano, o creatività, rispetto alla quale viene spazzata ogni ambiguità di senso per chiarire che si tratti di poiesis (secondo il significato greco del termine) applicata alla realtà e non mera affermazione della libertà del soggetto, ne ven-

gono rimarcate quattro, quelle che l’autore, riprendendo un editoriale di “Casabella” del 1994, definisce quattro virtù: precisione, semplicità, ordine e organicità. Con un procedimento che riporta alla mente il Calvino delle “Lezioni americane”, queste quattro parole vengono approfondite nei loro significati, nelle loro relazioni e nel loro sviluppo storico, per costituire una sorta di vocabolario minimo con cui affrontare il progetto. Ma proprio la definizione di virtù permette di passare dalla sfera concettuale a quella reale, conferendo loro lo status di veri e propri strumenti con cui l’architetto possa agire per produrre quella critica al presente, e la conseguente proposta alternativa, che sono l’essenza stessa del progettare. Assunti questi quattro “strumenti”, più semplice diviene rapportarsi al racconto vero e proprio che può essere di due tipi: racconto del progetto nel suo farsi e interpretazione critico-storica del suo risultato. Mentre il secondo tipo è indipendente dalla volontà del progettista, in quanto muterà col mutare delle interpretazioni che verranno elaborate in ogni epoca successiva, dal racconto del primo tipo si dipana invece una narrazione che apre a possibilità di accostamento di principi e metodi afferenti le differenti sfere musicale, teatrale, letteraria e filosofica (con particolare riferimento al pensiero utopico); accostamenti che nell’ultimo capitolo l’autore propone e verifica, convinto della natura molteplice del fare architettonico: Ancora una volta devo ripetere che ciò che conta, nel caso dell’architettura, sono i modi di connettere i processi del progetto alla relazione dialettica tra la complessa autonomia del proprio fare e della sua storia e l’eterono-

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mia delle condizioni necessarie a produrre forme di intenzionalità convergenti […]. Tutto questo con una diversa ma necessaria interpretazione della specificità del caso e del contesto ed insieme di una nuova dialettica delle parti, sia della nostra disciplina che della condizione delle altre arti nella real­tà presente. Nonostante il tema del libro possa facilmente condurre a rischi quali una dialettica fine a se stessa o un’eccessiva tentazione letteraria, ciò non accade in questo testo; avviene invece che l’attenzione sia sempre focalizzata, talvolta anche in un modo che potremmo definire chirurgico, sulla pratica concreta, su quel fare che costituisce l’essenza stessa dell’architettura, ossia l’agire all’interno di una complessa interrelazione di passato e presente, di tempo e spazio, di possibilità e vincoli, nella piena consapevolezza del ruolo non meramente pubblicitario e figurativo, ma concreto e sociale, del mestiere di architetto. F. T. Gio Ponti archi-designer, mostra a cura di S. Bouilhet-Dumas, D. Forest, S. Licitra, Musée des Arts Décoratifs, Parigi, 19 ottobre 2018 - 5 maggio 2019, catalogo Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2018.

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La felice formula di “archi-designer” è stata individuata come chiave interpretativa per ripensare al lavoro di Gio Ponti, con ampiezza di respiro critico e di materiali, nella bella mostra parigina al Musée des Arts Decoratifs nel palazzo del Louvre. Una formula felice perché ben sintetizza la peculiare visione di

Ponti, da cui deriva un consapevole approccio teso a ricercare una coerenza, estetica, funzionale e poetica, tra le plurime scale, dell’oggetto, dell’interno, dell’architettura, della città. Una lezione ancora attuale, nel dilagante processo di “accademizzazione” della disciplina del design, in chiave riduttiva, tutta concentrata sul profilo produttivo e sul processo tecnologico. Per Ponti, invece, si tratti di pezzi unici ovvero di oggetti espressamente disegnati per la produzione in serie, ciascun elemento nasce nell’ambito di una più generale strategia di creazione di un ambiente antropico “empatico” in cui le ragioni della funzionalità si armonizzano con quelle del gusto, quelle del contenitore architettonico con quelle del contenuto, quelle della tradizione con quelle dello stile di vita moderno. Non per caso, a partire da un ingresso allusivo della ineffabile facciata-schermo della cattedrale di Taranto, nella sequenza di tre sale la mostra con sapiente allestimento propone registri di lettura differenziati, non soltanto per il denso e mutevole divenire storico di un mezzo secolo in continua e feconda evoluzione, dagli anni Venti ai Settanta. Soprattutto nel primo dei tre grandi ambienti, al centro della narrazione, si situa la multiforme creatività artistica e progettuale, testimoniata da un gran numero di straordinari pezzi di design, alcuni fortemente iconici come i vasi per Richard Ginori, altri meno noti, accompagnati da bellissimi disegni, tra cui quelli per scenografie; nel secondo predomina la dimensione dell’architettura, che se ebbe nelle molteplici tipologie della casa un fondamentale ambito d’elezione, si estese anche ad altri temi di grande interesse, tra cui ad esempio quello dell’albergo e quello, forse da riconsiderare in maniera più appro-


fondita, della chiesa; nel terzo ambiente invece prevale il rapporto allusivo tra l’oggetto di arredo, pure dotato di sue intrinseche e ineffabili caratteristiche, e gli ambienti che contribuisce a costruire. Accompagnata da un libro-catalogo tanto ricco di spunti critici quanto elegante, in primo luogo la mostra si segnala per la straordinaria ricchezza di materiali esposti: tanto alla scala dell’architettura quanto a quella dell’oggetto di design, la presenza di tutti gli elementi più iconici, per la prima volta forse riuniti al completo, non esclude una serie importante di trovaille, di esiti meno noti e tutt’altro che scontati della creatività di Ponti, ancora passibili di nuovi ragionamenti. Una ricchezza che riflette non soltanto la capacità del designer di plasmare in forme poetiche qualsiasi tipo di materia, dalle ceramiche ai metalli, preziosi e non, dai legni pregiati alle plastiche colorate, ma anche la straordinaria capacità di comunicare con efficace ed acuta leggerezza con il pubblico a cui gli oggetti sono destinati. È stata spesso sottolineata l’efficacia del dialogo tra la borghesia moderna e moderata, individuata come ideale destinatario del profluvio creativo e produttivo, e quello che la mostra odierna propone come archi-designer, attraverso una serie di consapevoli strategie, che comprendevano anche il dominio della parola scritta per diffondere le idee su quotidiani e riviste specializzate, dal “Corriere della sera” a “Domus”, nonché la lucidità di impostazione editoriale delle varie riviste da lui create e dirette. Va detto però che rispetto al differente calibro di questa borghesia, piccola, media o grande che fosse, destinataria dapprima di raffinati pezzi unici e poi anche di prodotti industriali a costi

ragionevoli, Gio Ponti ricerca sempre una coerenza di stile complessiva: quella stessa che in caso di alberghi di montagna o di transatlantici, suddivisi in differenti classi per censo, può ammettere una gradazione del lusso ma non dell’eleganza e dello stile. Ai visitatori più attenti, con una ampia presenza di materiali di studio e di progetto, bozzetti eseguiti di getto, studi preliminari, bozzetti, plastici (tra cui quello straordinario per l’automobile Diamante), prototipi, disegni esecutivi, dettagli, la mostra documenta come la rapida e fertile inventiva non escludeva affatto una severa capacità di indirizzare e controllare gli esiti del progetto, in previsione del cantiere o della costruzione in serie, non soltanto nelle pur ricercatissime qualità formali ma anche in una più generale qualità del manufatto o del prodotto industriale, rimandando appunto alla felice formula dell’“archi-designer”, ben più appropriata di quella generica, a cui si sarebbe tentati di ricorrere, di “artista”. Un Ponti cioè molto più sistematico e tecnico rispetto all’immagine di intuitivo poeta che egli stesso propagandava, nei raffinati e lievi disegni spesso pubblicati, ovvero in scritti felici e diffusi, come il coloratissimo “Amate l’architettura”. Con uno sguardo ampio che spazia dalla stagione degli esordi a quella della piena maturità, che testimonia il feritile dialogo con intense stagioni della cultura figurativa dal déco alla Pop Art, la mostra con ampiezza di argomenti racconta di una creatività dalla ineffabile impronta individuale, fatta di leggerezza, di grazia, di ironia, di misura, di armonia, in grado di attraversare il tempo, evolvendosi con esso in un significativo cinquantennio del Novecento, restando sempre pienamente inserita

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nell’evolvere del dibattito teorico, del gusto, della società. Opportunamente, nella mostra come nel catalogo, non si trascura il fertile dialogo creativo, che in alcuni specifici programmi a varia scala, l’archi-designer intesse con altre figure creative di grande interesse, da Bernard Rudofsky a Paolo De Poli, a Piero Fornasetti. In ogni caso, il divenire dello “stile di Ponti” lo si può leggere nell’evoluzione dei sistemi geometrici preferiti, dalle formule mistilinee e curvilinee al privilegiato sistema a triangoli e cristalli, dal graduale passaggio da una figuratività classicheggiante alla predilezione per i giochi di geometrie, nel susseguirsi delle passioni cromatiche attraverso cui si passa dai gialli, dagli ori e dai blu brillanti delle ceramiche Richard Ginori degli anni Venti al florilegio di tenui verdi nel­l’Albergo dei Principi a Roma. Probabilmente, tra gli approfondimenti ancora a venire sull’inesauribile Gio Ponti, uno sul colore potrebbe rivelarsi particolarmente stimolante e fertile. Apparentemente la mostra potrebbe essere considerata alla stregua di una delle grandi ed esaustive retrospettive sui grandi architetti e/o designer del Novecento, a congrua distanza dalla scomparsa, nel caso di specie all’incirca quarant’anni. In realtà, rappresenta qualcosa di più. Per la perdurante attualità in termini estetici quanto funzionali di molti degli oggetti da lui ideati in bozzetti o progettati in esecutivi, per il costante successo che ancora ottengono quelli rimasti ininterrottamente in produzione, per le potenzialità di successo che hanno molti studi e progetti per pezzi unici o per elementi di arredo mai prodotti, la mostra – prodotta con il fondamentale sostegno di un azienda del calibro di Molteni – si propone di proiettare la

creatività di Ponti non soltanto nel passato della sua storicità, ma in un futuro col quale il dialogo è ancora vivo. F. M. Plastic Field, esposizione della collezione Memphis, Palazzo Franchetti, Venezia, a cura di Adriano Berengo e Jean Blanchaert. All’interno delle manifestazioni espositive della Biennale di Venezia, a Palazzo Franchetti, Plastic field ha proposto la più estesa selezione mai presentata in un palazzo pubblico di opere disegnate dal gruppo Memphis dal 1981 al 1987, una rara occasione per vedere più di centodieci prodotti disegnati dal gruppo: mobili – librerie, credenze, letti e armadi, contenitori e cassettiere, consolle e divani, tavoli e tavolini, poltrone e sedie – orologi e lampade, uno specchio, ceramiche, vetri, argenti, tappeti e tessuti. Il nome Memphis appare scritto per la prima volta su un quaderno di appunti di Michele De Lucchi, scribacchiato in alto sulla prima pagina accanto a una data, 11 dicembre 1980. La seconda e la terza pagina sono datate 12 dicembre in pizzeria e 14 dicembre in via San Galdino, che è poi l’indirizzo di Ettore Sott­ sass, come racconta Barbara Radice, dall’inizio coordinatrice delle iniziative e autrice delle comunicazioni del gruppo. Ad incontrarsi in quei giorni oltre a Sottsass e Radice, Marco Zanini, Aldo Cibic, Matteo Thun, Martine Bedin, Renzo Brugola, ebanista e amico di Sottsass e futuro realizzatore dei mobili, con George J. Sowden e Nathalie Du Pasquier, assenti in tale occasione, già sodali del


gruppo, e con Andrea Branzi e Christopher Radl, responsabile della grafica, partecipi alla prima selezione dei più di cento disegni il 9 febbraio dell’anno seguente. Oltre ai loro, disegni di Michael Graves, Hans Hollein, Arata Isozaki, Shiro Kuramata, Xavier Mariscal, Alessandro Mendini, Paola Navone, Peter Shire, Alchimia-Bruno Gregori, Masanori Umeda, che si uniscono all’iniziativa. Nasce per una scelta di rottura di Sottsass che con fermezza vuole allontanarsi dal virus critico e negativo di Alessandro Mendini. Già l’anno prima le esperienze Alchimia e radicali erano state messe in sospensione con la mostra Catalogue for decorative furniture in modern Style. 1978-1980, e i mobili anticipavano scelte e idee che saranno presenti anche in quelli disegnati per Memphis. È una ‘avventura’ che si materializza allo show room Arc ’74 a Milano il 18 settembre 1981, con cinquantacinque pezzi, trentun mobili, tre orologi, dieci lampade e undici ceramiche, e duemilacinquecento persone, un successo strepitoso e immediato nel bel mezzo di un Salone del Mobile stanco e affaticato. Anche in questa occasione i mobili disegnati dal nume tutelare dell’intera impresa – Carlton, Casablanca, Beverly, la libreria Suvretta, il tavolo Mandarin – sono grandi e pesanti, con zoccoli e basamenti. Non stanno quasi da nessuna parte e comunque non “legano”, non possono neanche produrre coordinati. Stanno soltanto da soli come i monumenti nelle piazze, e non riescono neanche a fare stile. Il gruppo nasce con la particolarità di non presentarsi come movimento omogeneo, di tendenza, ma di essere invece omogeneo nell’atteggiamento che è ottimista nei ri-

guardi del progetto, della sua collocazione e dei suoi sviluppi. Tutti i progetti di Memphis sono gesti propositivi positivi, non critici, come invece era avvenuto per le poetiche radicali e concettuali, che pure hanno funzionato da incubatrici a queste nuove proposte. Il gruppo aggredisce con disinvoltura e felicità il concetto di omogeneo e sobrio, di “armonico” e coordinato, non c’è un’identità, ma più identità e questo confonde, sobilla, agita le acque e fa saltare il tappo. Possiamo fare – quasi – qualunque cosa dirà Sottsass, ci è passata la paura che ci manda il passato e anche quella ancora più aggressiva che ci manda il futuro. Nella collezione nessun materiale nobile, i mobili sono realizzati con manufatti industriali come il laminato, la lamiera, il tubo d’acciaio verniciato o cromato, legno, cristallo; niente verniciatura, i colori sono in laminato Abet Print HPL Finitura 6 e, cancellando d’un sol colpo la convenzione dei colori caldi o freddi, stanno tutti insieme e tutti quei colori spenti e sbiaditi di un tempo vengono sostituiti da colori accesi e acidi, mescolati a formare fianchi, frontali, ante e spessori; le superfici sono decorate, non nel senso che il superfluo orna il funzionale, qui il decoro non si giustappone, si pone, è lì su tutta la superficie fino a diventare volume. La decorazione, salvo nel mobile bar Cipriani di Mendini, nel mobile toilette di Graves e nei mobili di Kuramata, è ovunque, a partire dall’uso dei laminati Batterio e Spugnato – ideati per la Abet Print nel 1978 – usati rispettivamente per la base del mobile Carlton, del mobile a torre Casablanca e della lampada Tahiti, cui si aggiungono i laminati in bianco e nero di De Lucchi, Fantastic, Micidial e Terrific e i tessuti disegnati da

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Du Pasquier anche per rivestire la poltrona Oberoi e il letto Chelsea di George J. Sowden e i suoi orologi Acapulco, American, Excelsior, le ceramiche Nefertiti in giallo e nero di Thun; le geometrie sono semplici, secche ed elementari, come nel caso della libreria Gritti di Branzi, del divano Dublin di Zanini e del tavolo Brazil di Shire; si usano pattern in diagonale come nell’armadio Pacific di De Lucchi e nel tavolo Pierre di Sowden, piani a sbalzo e obliqui come nel mobile da soggiorno Beverly di Sottsass, con le ante in laminato Serpente verde, e in sommità una semplice lampadina rossa; gli oggetti diventano animali domestici come le lampade Tahiti di Sottsass e Terminus di Bedin che in Super, trasforma una lampada in un giocattolo colorato su ruote. Se l’Italia viveva le sue stragi – omicidio Mattarella, Bachelet, Tobagi, l’esplosione alla Stazione Centrale di Bologna, il terremoto in Irpinia cui fa seguito qualche mese dopo, l’inizio della presidenza di Reagan, con l’elezione di Mitterrand e l’attentato al Papa – Memphis è un lampo che accende gli anni Ottanta. Inizia sull’onda di una situazione che vede un tasso d’inflazione del 21,1%, pur in presenza di una sorta di mini-boom che sarà l’inizio di un periodo espansivo nel quale l’Italia riacquisterà una posizione di interesse per il mondo. La Fiat presenta a Cape Canaveral la Fiat Uno, inizia la lenta uscita dagli anni del terrorismo e il desiderio di lasciarsi alle spalle anni bui e dolorosi, la crescita del sistema moda italiano e di alcuni comparti industriali, la concomitanza di vari eventi espositivi e concorsuali, contribuiscono a creare un clima di ottimismo che accoglie il linguaggio Memphis con sorpresa ed entusia-

smo. La collezione, coerentemente con la scelta del nome, “Blues, Tennessee, rock and roll, periferia americana e poi l’Egitto, la capitale dei Faraoni, la città sacra del Dio Ptah”, include il diverso e l’opposto. La semplicità minimalista dei mobili di Kuramata, la ridondanza segnica dei “mobili che fanno la ruota”, i mobili ermafroditi Fuji di Isozaki, il divano Ring di Umeda, protagonista del ritratto ufficiale dell’intero gruppo accomodato al suo interno, perseguono l’intento comune di promuovere il nuovo, ciò che porterà Memphis ad essere involontaria partecipe alle polemiche innescate l’anno precedente alla prima Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale veneziana La presenza del passato. Memphis nelle diatribe sul progetto post-moderno, neo-modern o latemodern, entra in un vocabolario internazionale, sollecita la curiosità e l’interesse di un vasto pubblico. Charles Jencks, nella sua recensione della collezione su Domus, la definisce “una bouillabaisse o un bollito misto”, si parlerà inoltre di kitsch e anarchia compositiva, le etichette abbondano. Nonostante tutto, il gruppo continuerà ad agire compatto, con la temporanea partecipazione di Thomas Bley, Arquitectonica e Gerard Taylor, e le new entries Massimo Iosa Ghini, Marco Zanuso jr., editando anno dopo anno sempre nuovi prodotti, fino alle dismissioni di Sottsass che nel 1986 disegna l’ultima collezione di vetri, contemporaneamente alla presentazione di nuovi designers, i “Dodici nuovi”, fra i quali Beppe Caturegli, Dante Donegani, James Evanson. Massimo Iosa Ghini, Ferruccio Laviani, James Irvine, Giovanni Levanti. Gettando una nuova luce sugli orizzonti del progetto, ha generato onde lunghe di ribellione nei con-


fronti dell’ortodossia progettuale e profondi cambiamenti nel modo di intendere il progetto, imponendo una riflessione sui compiti e limiti del designer nei confronti della produzione industriale e sulla necessità di un nuovo modo di produrre e commercializzare, vedendo nel frattempo nascere una nuova figura di progettista quale il “giovane designer” e il sorgere dell’esigenza di una nuova didattica, che si svilupperà a partire dalla Domus Academy. Nel 1987 chiude i battenti, presentando, a cura di Barbara Radice, oltre al mobile libreria Max di Sott­ sass, disegni di fumettisti quali Giorgio Carpinteri, Daniele Brolli, Massimo Iosa Ghini, Massimo Giacon, Lorenzo Mattotti, Ugo Tuveri. È l’atto conclusivo di un progetto nato come un’idea culturale che è anche un’impresa con una distribuzione commerciale, con Ernesto Gismondi prima principale azionista, poi proprietario del marchio e dei prodotti fino al 1996. Anche in questo stava la novità; non erano prototipi, ma prodotti e il mercato avrebbe deciso la loro sorte. Questa scommessa – soli sette mesi per passare da un disegno al prodotto – favorirà nel corso degli anni successivi il coraggio di intraprendere nuove strade produttive, dalla costruzione ex novo di un’azienda sulla base di un project e business plan, a nuove forme di produzione che sconfineranno in un nuovo artigianato, al­ l’autoproduzione e a una concezione sinestetica del design, tutte esperienze che entreranno a far parte del nuovo design italiano. A testimonianza di quanto la collezione sia ancora vitale e quanto ancora profonda ed attuale sia la capacità di corrompere qualunque unità stilistica, dei pezzi Memphis pensati come unità scoordinate a destina-

zione libera, duecentoventi sono ancora in catalogo e delle dieci lampade presentate all’esordio, con l’attuale riedizione della lampada da terra Cavalieri di Sottsass, ne sono in produzione nove. Molti sono una testimonianza di un tempo, altri compagni di percorso, altri in quanto esemplari, non sono ancora stati superati e il tempo lo stanno segnando in attesa di essere ancora usati indifferentemente in qualsiasi ambiente di qualsiasi stile, come era volontà del gruppo. P. R. D. van den Heuvel (ed.), Jaap Bakema and the open society, Archis, Amsterdam 2018. Il libro curato da Dirk van den Heuvel – professore associato presso la Faculty of Architecture and the Built Environment (TU Delft), nella quale ricopre la cattedra di “Housing Development” – riflette la crescente attenzione maturata negli ultimi anni verso l’architettura della seconda metà del secolo scorso, alla ricerca di “nuovi modelli” con i quali confrontare le esperienze architettoniche contemporanee. Gli interessi storiografici di Van den Heuvel si concentrano, appunto, su quest’arco temporale, spaziando dagli studi monografici su alcune figure chiave dell’architettura e dell’urbanistica del dopoguerra, fino ad argomenti di portata più vasta come il binomio CIAM/Team 10 e il New Brutalism. Il tutto secondo un approccio metodologico che tende a rapportare, in maniera inscindibile, la lettura dei fenomeni architettonici alle specificità dei fattori contestuali – l’andamento economico, le condizioni sociali, le tendenze politiche

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ecc. –, sostenendo, in tal modo, le ragioni della dimensione eteronoma dell’architettura. Un punto di vista, quest’ultimo, coerente con le intenzioni teorico-progettuali dello stesso Jacob Berend Bakema (detto “Jaap”, 1914-1981): egli sentiva che l’architettura ha il compito di sollevare il bisogno di giustizia sociale, libertà e cooperazione, obiettivi che egli riteneva raggiungibili attraverso una direttiva socialmente fondata, un nuovo concetto di spazio e forma organica. Il libro intende, innanzitutto, ristabilire il giusto equilibrio tra l’importanza dell’architetto olandese e la profondità degli studi in materia, colmando una discrepanza che, nonostante una certa diffusione sulle maggiori riviste internazionali e la notorietà nel suo contesto nazionale – dove he became a national figure in 1962, when he presented a lecture series on modern architecture and planning for Dutch television on Sunday evenings –, ancora persisteva. A proposito della fortuna critica di Bakema, è interessante notare che l’esigua pubblicistica italiana annovera, oltre agli affondi zeviani sulle Cronache di Architettura, un contributo monografico antesignano. Si tratta del catalogo della mostra J.H. van den Broek/Bakema. Progetti e opere 1958/’74, realizzata a Napoli nel 1974 ad opera di Camillo Gubitosi e Alberto Izzo nel­ l’ambito di un fecondo ciclo di eventi di respiro internazionale. In particolare, il libro in esame si colloca a valle di un processo di rivalutazione della figura di Bakema avviatosi in ambito olandese, che ha visto, nell’arco del suo svolgimento, lo stesso van den Heuvel tra i principali artefici, come vedremo tra poco. Tale processo può ricondursi all’attenzione posta sul Team 10 da

parte della storiografia olandese agli inizi del nuovo millennio. Di questo gruppo sorto in seno ai CIAM del dopoguerra tra il 1952 e il ’56, Bakema rappresenta il principale esponente, non soltanto per le sue eccezionali qualità di teorico e progettista, ma anche per l’importanza del ruolo organizzativo assunto sia prima che dopo la dissoluzione dei CIAM, avvenuta nel 1959. Egli, infatti, da un lato riveste la carica di segretario generale durante la fase di riorganizzazione dei CIAM – riorganizzazione tentata, ma non compiuta – dal 1957 al ’59; dall’altro, gioca un ruolo fondamentale all’interno del Team Ten, al punto che nel 1981, dopo la sua morte, il Team Ten cessa ufficialmente le sue attività “in onore delle energie di Jaap Bakema”. Gli studi in merito a questo gruppo sono confluiti nella pubblicazione, a cura di Max Risselada e Dirk van den Heuvel, del primo volume che tratta in maniera organica la vicenda complessiva del Team 10 (Team 10. 1953-81. In search of a utopia of the present, NAi, Rotterdam 2005), preceduto dall’edizione di un altro volume (Alison and Peter Smithson - from the House of the Future to a house of today, 010 Publishers, Rotterdam 2004), a cura degli stessi autori, incentrato sull’opera della compagine inglese del core group del Team 10. La pubblicazione olandese è sfociata, inoltre, nell’allestimento di una mostra omonima organizzata a Delft, un anno dopo l’uscita del libro, e nell’istituzione del primo sito internet dedicato al gruppo (www.team10online. org). In linea con questo filone di ricerca, l’approfondimento della figura di Bakema si è concretizzato nella fondazione del “Jaap Bakema


Study Centre” nel 2013 – di cui van den Heuvel è co-fondatore e direttore –, che ha sancito una collaborazione di ricerca tra l’Het Nieuwe Instituut di Rotterdam e la Technische Universiteit (TU) di Delft. Ma il passaggio più diretto sul quale si attesta la redazione di questo libro, scaturisce da un’occasione italiana: la 14. Biennale di Venezia. Qui, il solito van den Heuvel, in veste di curatore del padiglione olandese insieme a Guus Beumer, allestisce una mostra dal titolo Open: A Bakema celebration in risposta al tema “Absorbing Modernity 1914-2014” promosso da Rem Koolhaas nell’ambito dei suoi Fundamentals. Nell’allestimento veneziano viene, infatti, anticipato il filo conduttore di questo volume, focalizzando l’attenzione sul tema dell’“apertura”, già presentato nella sua eterogenea caratterizzazione che riflette le idee dell’architetto olandese riguardo al ruolo dello Stato, dell’architetto e del cittadino, tutte volte al raggiungimento di un medesimo scopo: l’affermazione di una nuova società, una società democratica, in definitiva, una “società aperta”. Come scrive lo stesso Bakema in un articolo pubblicato su «Le Carré Bleu» (n. 4/1960), dal titolo L’Architecture et la Nuovelle Société: La société nuovelle sera una société qui fournira à l’homme les conditions de maintenir une relation individuelle avec la vie totale, universelle; le droit de vivre avec une opinion personnelle de la vie. Alors il faut créer pour l’homme, au moyen des techniques, les conditions physiques, psychologiques, esthétiques qui donneraient à l’individu la plus grande possibilité de définir dans l’espace son opinion de la vie. Inoltre, il materiale espositivo mostrato a Venezia dà corpo, in parte, al ric-

chissimo apparato documentario (schizzi preliminari, tavole di progetto, lettere, fotografie dei modelli tridimensionali e delle opere realizzate) su cui è costruito il libro. Quest’ultimo presenta una suddivisione in tre parti (1. A man with a mission; 2. Building social relations; 3. Growth and change) – che esprimono una successione tematica piuttosto che cronologica – le quali abbracciano l’intera vicenda culturale e professionale di Bakema, dalle prime esperienze progettuali effettuate nell’ambito della ricostruzione di Rotterdam in collaborazione con il Department of Urban Planning della stessa città, ai progetti a scala urbana degli anni ’60 e ’70, fino alle ultime realizzazioni. Le sezioni relative ai progetti si alternano ai saggi, redatti da diversi studiosi contemporanei del panorama olandese, e alla ripubblicazione di alcuni scritti di Bakema in un intreccio di contenuti in cui trovano spazio anche testimonianze e interviste. L’intero discorso trova il suo coagulo nelle diverse modalità, manifestate sia in campo teorico che in quello progettuale nelle sue differenti scale, attraverso cui l’architetto olandese tratta il “principio di relazione”, sul quale deve erigersi l’aspirazione verso una rinnovata società democratica: Bakema’s concept of “relation” embraces at the same time an ideological, a spatial/form and a theosophical meaning: three meanings that he impetuously identifies with one another or unites through a cosmic cross-connection. To him, the concept of relation is no less than “the full essence of existence”. Un principio rispondente, in primo luogo, ad una nuova concezione spaziale che affonda le sue radici nelle sperimentazioni neoplastiche e che mira a favo-

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rire e, al contempo, rendere percepibili i sistemi di relazione all’interno del tessuto urbano. Calandosi nelle diverse fasi che hanno caratterizzato l’attività professionale di Bakema, il libro rivela il profilo di un architetto animato da un forte spirito di collaborazione, lontano dalle “individualità eroiche” dei maestri del Movimento Moderno. Egli, infatti, risulta costantemente coinvolto in una dinamica di gruppo, che rappresenterà la costante della sua attività professionale: da giovane rappresentante del gruppoCIAM olandese Opbouw di Rotterdam, con il quale redige i progetti di quartieri nei quali sperimenta, per la prima volta, la sua “concezione socio-spaziale”; da segretario generale dei CIAM, come già detto, nel suo tentativo di riorganizzazione dal 1957 al ’59; da esponente di punta del Team 10, in seguito alla spinta organizzativa post-CIAM data dal­ l’istituzione della Post Box for the development of the Habitat, una casella postale attraverso la quale proseguire il discorso sull’habitat sviluppato, in particolare, durante il Congresso di Otterlo (1959); da promotore, insieme a Aldo van Eyck, Herman Hertzberger ed altri, del rilancio della rivista olandese «Forum» (1959-1963), nel segno del rinnovamento riassunto nel numero dedicato a The story of another idea; infine, da co-fondatore dello studio associato “Van den Broek and Bakema Architecten” (1951-71), in seguito alla morte di Brinkman, exassociato di Van den Broek. Il valore di questo libro, oltre che nella profondità della ricerca sulla figura di Bakema, si determina nella sua attualità e nel suo sguardo al futuro, ponendosi quale obiettivo principale – in linea con una pubblicazione precedente sempre a cura di

Van den Heuvel (M. Swenarton, T. Avermaete, D. van den Heuvel (ed.), Architecture and the Welfare State, Routledge, London-New York 2015) – quello di indagare i rapporti tra architettura e democrazia nel secondo dopoguerra, in vista di un possibile rilancio di questo binomio nel panorama della progettazione contemporanea ed in virtù delle attuali esigenze della società. A. T. A. Armando, G. Durbiano, Teoria del progetto architettonico. Dai disegni agli effetti, Carocci editore, Roma 2017. Libro difficile e stimolante al tempo stesso, criptico e a tratti ostico in più snodi centrali della trattazione, tale anche per un lettore acculturato su standard universitari di docenza nei Dipartimenti di Architettura. Eppure intelligibile, arioso e a noi cordiale quando­sulla pagina irrompe la storia con i suoi nomi, date, luoghi, circostanze, con i fatti dell’architettura insomma, le sempre benamate res gestae, a esemplificare e rischiarare una teoria che per la forma e il linguaggio con cui è esposta rischia l’entropia comunicativa. Libro con un’impostazione del tutto nuova per una riflessione sulla teoria e sul progetto di architettura. Ancor prima della sua lettura, ce lo dice l’indice dei nomi, indicatore-principe delle scelte ragionate e di gusto d’ogni autore, oltre che elenco consultato febbrilmente da chi ha già pubblicato qualcosa sul­ l’argomento: il primato appartiene al filosofo-sociologo-antropologo francese Bruno Latour con 63 citazioni, seguito dal filosofo italiano Maurizio Ferraris con 48 e dal filo-


sofo americano John Searle con 34. Primo degli architetti, Roberto Gabetti con 25 citazioni, seguito a distanza da Aldo Rossi con 16 e quasi appaiati Tafuri e Gregotti con 9 e 8; per Le Corbusier e Wright, rispettivamente 5 e 2 citazioni. La prova decisiva che non si sia di fronte a un tradizionale libro di teoria dell’architettura è data da Vitruvio, citato una sola volta, in nota a p. 48. Libro molto “torinese”, per il numero di studiosi e architetti coinvolti o largamente citati nel testo, Carlo Olmo e Aimaro Isola tra i più noti, e per essere stato il Politecnico di Torino il grembo entro cui è stato concepito, discusso e verificato il gran lavoro di allestimento del volume. Libro molto filosofico-torinese per il numero di pensatori chiamati in causa, dal maestro Gianni Vattimo al giovanissimo Leonardo Caffo (catanese di nascita) e soprattutto a Maurizio Ferraris, coinvolto d’ufficio, con grande evidenza e con buone ragioni: da qualche anno ricopre con pari autorevolezza il ruolo che negli anni Settanta e Ottanta fu di Massimo Cacciari, cioè il riferimento teorico primario per una parte della cultura architettonica italiana, quella non maggioritaria ma molto ben considerata. Ferraris scrive ora la densa prefazione dal titolo «Il progetto dettato», che ricorda in alcuni passaggi il miglior Eco della prima ora, il brillante semiologo. Libro, infine, prudentemente e abilmente coraggioso perché d’acchito sembrerebbe proporre una versione rivoluzionaria della millenaria teoria dell’architettura, “da Vitruvio ai nostri giorni”, avrebbe precisato uno storico con espressione da prima metà del secolo scorso. Ma Durbiano e Armando sono studiosi accreditati e mai avrebbero potuto proporre un azzardo del genere. E infatti, non

della tradizionale “teoria dell’architettura” si vuol discettare in questo ponderoso saggio – 526 fittissime pagine molto ben editate da Carocci – ma della più inedita “teoria del progetto architettonico” che è ambito raramente frequentato nella nostra letteratura e mai con l’impostazione e il linguaggio qui adottati. Con questo originale viatico, il lettore può cominciare il viaggio dentro i meandri del libro, avvertendolo però che non vi sono qui rettifili e boulevards su cui passeggiare con tranquillità, ma anse, anfratti, curve, serpentine, sinuosità, tortuosità, e ancora, dedali, grovigli, intrecci, labirinti, abissi e recessi, tutti sinonimi di meandri (da Treccani) da attraversare guardingo e senza distrazioni di sorta. Valore e limite di questo saggio che può appassionare o disorientare ma non genera mai distanza tra sé e il lettore perché è evento storiografico nuovo che ci sta di fronte e sembra non disponibile a negoziare, tanto per citare ancora Ferraris ed una delle sue espressioni più note e ricorrenti (anche qui ripresa con numerose parafrasi e varianti). La struttura del libro. Prefazione di Ferraris, attenzione da concentrare sul paragrafo “Tecnologia e teleologia”; pari attenzione per tutta l’Introduzione degli autori; a seguire, quattro grandi parti articolate in capitoli e paragrafi con una sintesi finale per ogni parte; glossario, bibliografia e indice dei nomi. Corredano il testo decine di disegni, diagrammi, schemi, tabelle e qualche rara fotografia di architetture realizzate: una novità assoluta per un libro di teoria ma coerente con il principio qui enunciato che un testo di teoria dell’architettura è un testo illustrato. Il linguaggio adottato contiene termini filosofici di non imme-

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diata decifrazione (l’attante da Latour, l’iscrizione di Ferraris, la psicologia popolare di Bruner, la sovranità di Foucault, …). È perciò indispensabile partire dal glossario, leggere le utili sintesi delle quattro parti e poi continuare con il consueto ordine. La finalità del saggio. Il libro riapre la discussione sulla teoria e propone, a partire da categorie completamente rinnovate, una riflessione sistemica sul potere del progetto. Grazie allo spostamento dell’attenzione dal soggetto (le sue buone intenzioni, insegnate all’università) all’oggetto (i prodotti progettuali, in azione nel sistema sociale che li contiene), il volume si impegna in una trattazione analitica e verificabile delle pratiche progettuali. Che cos’è un progetto architettonico? A chi e a cosa deve il proprio potere? Quali fatti deve considerare? Quali valori può incarnare? Invece di rivolgersi alle teorie dell’architettura e alla loro implicita normativa, il libro risponde a queste domande concentrandosi sulle forme della prassi progettuale. In un confronto continuo con altri saperi – quali l’ontologia sociale, l’Actor-Network Theory, la semiologia, la sociologia della tecnica, le scienze cognitive, la geografia – la “teoria del progetto” ambisce a ricomporre un campo di competenze, altrimenti misconosciuto o ridotto ad altro: l’arte, le tecniche edilizie, la burocrazia, l’attivismo politico e sociale. Programma vasto, obiettivo molto ambizioso. Ritornano gli interrogativi di sempre. L’architettura è un oggetto? È una disciplina? È scritta con la maiuscola o la minuscola? Si vuole indicare un’esperienza o un’idea? Cosa deve sapere l’architetto?

Per rispondere a quest’ultimo interrogativo si parte dalla proposta di Gustavo Giovannoni che metteva nella “valigia dell’architetto” dosi adeguate di cultura generale, pratica artistica, scientifica e tecnica, e poi ancora storia dell’arte e senso pratico. Ingredienti giusti ma semplice sommatoria di conoscenze, scrivono gli autori. Occorre invece “una capacità di sintesi finalizzata ad un effetto”. Come ottenerla? Cominciando a costruire – perché è chiaro che non di soluzione qui si parla ma di processo – una teoria del progetto che nasca da una successione ordinata di valutazioni e scelte qui di seguito riportate (semplificando): l’architettura come prodotto fisico non ha bisogno di legittimazione; tutte le discussioni che la riguardano, la vedono inerte e muta nella sua “ottusa cosalità”; di quella costruzione è invece il progetto, cioè i disegni che la descrivono, le storie che racconta, le condizioni che pone, che necessita di legittimazione, di una narrazione in cui riconoscersi; il progetto deve perciò mettere in campo strategie argomentative specifiche, funzionali a definire accordi sul piano simbolico come su quello tecnico e burocratico, proponendo una composizione di istanze diverse poste su ordini differenti di realtà, secondo modalità formali peculiari. Questo libro tenta di individuare le modalità a nostro giudizio più pertinenti di questa ricerca. Con l’obiettivo di aiutare il progettista a prefigurare non solo la forma del progetto ma anche le implicazioni che ad esso sono connesse. Ancora una volta, obiettivo ambizioso. Non centrato nella sua totalità perché nel dipanarsi della costruzione della tesi si insinua di frequente la sensazione che le auspica-


te “categorie completamente rinnovate” citate in precedenza non siano veramente tali e quindi in grado di procedere all’annunciato sommovimento teorico della triade architettura, prassi, progetto. Nonostante lo sforzo di innovare, si avverte una resistenza delle definizioni così come si sono storicamente innervate nella cultura architettonica. Sicché, molti passaggi del ragionamento sembrano riproporre con diverse parole e nuove articolazioni i tradizionali rapporti tra storia, teoria e critica dell’architettura o ancora l’ampia letteratura sull’autonomia ed eteronomia dell’architettura. Nelle categorie tradizionali (semplificando), la teoria dell’architettura regnava sovrana – unica a avere rango teorico, appunto – sul progetto e sulla prassi considerati meri processi, ideativo il primo, realizzativo la seconda. Che essa avesse crisi di significazione, che non fosse più in grado di esercitare magistero, erano constatazioni comuni. La cultura architettonica italiana del periodo 1965-1980 è il campione prescelto per illustrare il più generale fallimento disciplinare a scala geografica più ampia. Ne sono responsabili gli “architetti nati con la penna in mano” (Gregotti), per distinguerli dai “fratelli maggiori” che dagli anni del dopoguerra hanno dato realtà urbana alla ricostruzione prefigurando la società del benessere. Aymonino, Rossi, Grassi, lo stesso Gregotti, sono gli autori dei primi saggi teorici, ma sono anche gli architetti autori, eroi di una stagione fortunata dell’architettura italiana, e anche, in parte, la causa dell’attuale sua marginalità. Essi scrivono per legittimarsi politica-

mente, progettano per affermarsi autorialmente, governano per normalizzare la disciplina a propria immagine. Tesi forse ingenerosa per il modo perentorio con cui è espressa, ma c’è sostanza di verità da approfondire. Alla crisi della teoria dell’architettura si risponde con la teoria del progetto che è sapere specialistico acquisito solo da chi fa il progettista, mentre una riflessione sull’architettura può appartenere a chiunque frequenti i suoi spazi. Ulteriore spiegazione d’una differenza epistemologica che costituisce la ragion d’essere di questo saggio. Nota aggiuntiva finale. Sarà stato notato l’uso ripetuto della parola “semplificando”. La complessità argomentativa e di scrittura è, ripetiamo, tra i tratti caratteristici del saggio. Non sarà certamente questa rivista a criticare tale impostazione (e, d’altra parte, a voler concedere solo un rapido riferimento al clima culturale e politico del momento che scioglie inni all’incompetenza, ben venga come segnale di critica discorde questo lavoro di rilevante impegno scientifico). «Op. Cit.» da cinquantacinque anni si occupa di argomenti e scritture complessi. Su questo tema, Renato De Fusco nel 1976 propose il dispositivo della “riduzione culturale” per meglio governare intendimento e scrittura della complessità. Questo libro, scrivono Armando e Durbiano, ha tra i tanti obiettivi quello di smantellare l’“architettese” e di avvicinarsi per quanto possibile a una lingua naturale … compresa da tutti. Dubbi permangono sul conseguimento di quest’ultimo obiettivo. P. B.

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Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 135.  Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137.  Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138.  Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­l’ADI N. 139.  Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­l’ADI


N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­ l’ADI N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI N. 152. Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre N. 153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazione Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre N. 154. Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione - Ancora sul rapporto tra arte e pubblico - Design: scenari morfologici della contemporaneità - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 155. Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia - Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo - Della omologazione in architettura - Arti visive: da zona franca a fronte comune - È del designer il fin la meraviglia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 156. Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» - Modern/post: un territorio in-between - «Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradigma espositivo - Moda: sistema e processi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Campania N. 157. Editoriale - Una “ipostasi” della forma-tatuaggio - Aspetti e intenti del graffitismo d’oggi - Lebenswelt e architettura - Design vs Lebenswelt Libri, riviste e mostre N. 158. Architettura e qualità nell’età dei concorsi - La nostalgia nella cultura digitale - Conformazione e trasformazione degli spazi interni - La ricerca di una definizione di design - Libri, riviste e mostre N. 159. «Corporea» alla Città della scienza di Napoli - Mono-ha nel contesto globale. Poetiche e culture a confronto - Distruzioni e ricostruzioni a Berlino - Il tempo del tipo nello spazio del design - Libri, riviste e mostre N. 160. Il mestiere di architetto: prospettive per il futuro - Téchne e progetto d’architettura - Riflessioni sulla 57ª Biennale di Venezia e Documenta 14 a Kassel - Didattica e design, dal learning by doing al learning by design - La rivista «October»: temi e nuclei teorici - Libri, riviste e mostre N. 161. La metodologia circolare della progettazione in architettura - Aldo Rossi. Topografia urbana - Artisti italiani e realtà sociale nel secondo dopoguerra - La rivista «October»: novità metodologiche e crisi di un paradigma - Il design (morale) dell’ordine - Ernesto Basile. Dall’architettura d’interni all’industrial design - Enzo Mari. Opera, multiplo, serie - Libri, riviste e mostre N. 162. Il BIM. Un parere in evoluzione - Bruno Zevi e lo spazialismo architettonico - Semantiche del sublime architettonico - Brecht nostro contemporaneo - Il dono e l’arte, la festa e la dépense ai tempi di internet - Il “nuovo” nel modello Design-Oriented - Handmade in Italy - Libri, riviste e mostre N. 163. L’architettura è (ancora) un’arte? - Sull’unbelievable: Hirst, il fantasy, la post-verità - La Biennale d’architettura 2018 - Crossing the border: la storia dell’arte nell’epoca della globalità - La teoria in scena: Adolphe Appia - Libri, riviste e mostre

Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998 «Grafica Elettronica» - Via Bernardo Cavallino, 35/g - 80128 Napoli



ISSN 0030-3305

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