ISSN 0030-3305
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settembre 2019
numero 166
Linguistica, semiotica e architettura - Il museo nell’era del web - La poesia scenica di Gordon Craig - Fare, pensare e progettare nel tempo della app economy - Essere designer: ruoli e dinamiche al confine con l’arte - Libri, riviste e mostre Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli
Grafica Elettronica
Selezione della critica d’arte contemporanea
rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Comitato scientifico Philippe Daverio Kenneth Frampton Vittorio Gregotti Juan Miguel Hernández León Aldo Masullo Vanni Pasca Franco Purini Joseph Rykwert
Comitato redazionale Roberta Amirante Pasquale Belfiore Alessandro Castagnaro Imma Forino Francesca Rinaldi Livio Sacchi Alberto Terminio Segretaria di redazione Emma Labruna
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R. De Fusco F. Irace C. Fiorillo P. Nunziante C. Scarpitti
Linguistica, semiotica e architettura 5 Il museo nell’era del web 13 La poesia scenica di Gordon Craig 25 Fare, pensare e progettare nel tempo della app economy 37 Essere designer: ruoli e dinamiche al confine con l’arte 47 Libri, riviste e mostre 59
Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Federica Deo, Jacopo Leveratto, Paolo Rizzoli, Roberta Ruggiero, Alberto Terminio.
Linguistica, semiotica e architettura* RENATO DE FUSCO
Nella letteratura critica d’oggi, l’architettura è accostata alle più varie esperienze, dal mondo delle arti a quello degli affari, dalla tecnologia all’informatica, dalla politica all’economia, dal teatro ai mass media, ecc., al fine di ritrovare un senso che evidentemente non si coglie più nell’autonomia di quest’arte, nella sua capacità di rinnovarsi. Anche il nostro testo intende stabilire un accostamento alle discipline che figurano nel titolo. Queste indurrebbero a prevedere un saggio diviso in tre parti distinte, autonome e ordinate, ma non è così; pur esposte per capitoli e paragrafi, esse s’intrecciano tra loro tanto da formare un quadro unitario composto tuttavia da parti differenti. Così, mentre c’è qui una esposizione condotta per periodi storici, non manca un’altra orientata per temi e problemi. Linguistica e semiotica furono legate da Saussure, mentre il legame dell’architettura alle altre costituisce la maggiore indicazione sull’oggetto del presente testo. La ragione di tale «confluenza-contaminatio» sta nell’intento di costruire un discorso libero dalle pedanterie di alcuni linguisti come dai tecnicismi di alcuni architetti e di poter chiamare in causa conoscenze come la filosofia, la storia, le
* È l’introduzione del vol. omonimo pubblicato recentemente da «Altralinea edizioni» di Firenze.
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teorie, gli usi e costumi, le mentalità al fine di inquadrare in senso più critico gli argomenti principali. In ordine alla liceità del nostro accostamento, va notato che il rapporto fra architettura e linguistica si trova già in molti precedenti a cominciare dal binomio di storia e storiografia, dove per storia vanno intesi gli eventi, i fatti (nel nostro caso le opere d’architettura) e per storiografia il discorso sui fatti che è esclusivamente linguistico (la descrizione, la critica). Lo conferma Vitruvio laddove associa fabrica et ratiocinatio, ovvero appunto l’architettura e il discorso sull’architettura. Il richiamo a questo binomio indica un altro fenomeno di legittimazione del nostro parallelo, la trattatistica. Questo genere letterario accosta appunto le opere a tutta la descrizione, guida del progettare, normativa e simili che certamente sono di natura linguistica. Ma soprattutto il precedente più chiaro quanto alla liceità del nostro accostamento è dato dall’ekphrasis, ovvero dall’uso di descrivere a parole le arti visive, grazie al quale molte opere del patrimonio greco passarono alla cultura romana e quindi alle età successive. Sono questi eterogenei argomenti che conferiscono al libro un carattere sui generis e intenzionalmente eclettico. Al posto di tecnicismi e filologismi abbiamo preferito accogliere ogni contributo, quale che sia la sua provenienza, al fine di cogliere, scrivendo, quella fenomenologia della cultura, almeno nei campi da noi più frequentati, di cui siamo alla ricerca. L’ideazione del libro è stata suggestionata da una frase di Lyotard: un artista, uno scrittore postmoderno è nella situazione di un filosofo: il testo che egli scrive, l’opera che porta a compimento non sono in linea di massima retti da regole prestabilite e non possono esser giudicati attraverso un giudizio determinante attraverso le cate gorie comuni. Queste regole e queste categorie sono ciò di cui l’opera o il testo sono alla ricerca. L’artista e lo scrittore lavorano quindi senza regole, e per stabilire le regole di ciò che sarà stato fatto1. Al di là delle intenzioni del suo autore, la frase è attraente per il suo radicale accento ma, a ben riflettere, non esprime altro che uno stato d’a-
nimo di chi si accinge ad affrontare un testo in un tempo incerto come il nostro; in effetti, essa indica, come tutte le ricerche, che si può partire da qualcosa non ancora prevedibile, e riscontrabile solo in corso d’opera, secondo il motto «imparare facendo». Il punto che più avvicina il presente saggio al pensiero citato è il proposito di articolarsi nel modo più libero fino al più deliberato arbitrio. Così le regole prestabilite staranno accanto alle nuove, le ipotesi più inattese a quelle che avranno un richiamo didascalico. Qui, nei limiti del possibile, non tratteremo degli aspetti «tecnici» delle materie poste a confronto, bensì delle teorie che concettualmente le sostengono. Esemplificando, in linguistica non ci occuperemo di quei cambiamenti particolari, segnatamente fonetici, che avvicinano gli idiomi, ma di concezioni teoriche del tipo innere Sprachform, avanzata in questo caso per denotare la connessione antropologica di una lingua con la comunità che la parla. Analogamente, per l’architettura non ci soffermeremo sull’evoluzione delle strutture costruttive, sul codice degli ordini, sui sistemi di misurazione e simili, bensì su teorie quali la Raumgestaltung, ossia la concezione spaziale, ritenendo lo spazio, e segnatamente quello interno, lo specifico dell’architettura. Inoltre, va chiarita la presenza nel titolo del saggio del termine «semiotica», che designa una disciplina cui abbiamo dedicato molti studi precedenti. La relazione di questa con la linguistica e la stessa architettura, trova nell’accostamento di Fiedler e de Saussure la più emblematica espressione del nostro programma. In linguistica, come in architettura, il tema dell’origine del linguaggio si è posto tra i primi. Epicuro sosteneva che le parole sono dapprima diver se per la diversità delle genti, che dipende anche dai luo ghi; ma poi vengono rese comuni affinché i loro significa ti siano meno ambigui e più rapidamente comprensibili; dietro di lui Lucrezio affermava: la natura costrinse gli uo mini a emettere i vari suoni del linguaggio e l’utilità con dusse a dare a ciascuna cosa il suo nome2. Una analoga origine per l’architettura, nata dalla necessità naturale e isti-
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tuzionalizzata dalla utilità culturale, si trova nel contemporaneo Vitruvio. Nel descrivere l’ambiente in cui sorse la primitiva abitazione umana, Vitruvio indica come primo approccio dell’uomo alla natura il fuoco e come primo rapporto interumano il linguaggio. Dopo l’iniziale sgomento in vista del fuoco, i primitivi chiamavano gli altri uomini, mostrando loro a cenni qual utile ricavavano da quel fuoco. In questi con gressi formando gli uomini col fiato diverse voci, anda vano di giorno in giorno, siccome occorreva, creando i vocaboli: nominando indi più frequentemente le cose, cominciarono a caso a parlare, e così formarono fra loro le lingue. Essendo cominciate dunque coll’occasione del fuoco a nascere fra gli uomini le adunanze […] comin ciarono alcuni a fare i tetti di fronde, altri a scavare spe lonche sotto i monti, ed altri ad imitazione de’ nidi, e delle case delle rondini, a fare di fango e virgulti luoghi sotto i quali si potessero ricoverare, indi facendo rifles sione sopra le case altrui, ed aggiungendovi di proprie idee delle cose nuove, andavano alla giornata miglioran do le abitazioni3. A sostegno della sua narrazione, Vitruvio richiama le concezioni dei presocratici sull’origine della realtà: per Eraclito il fuoco, per Talete l’acqua, per Democrito gli atomi, per i pitagorici l’aria e la terra. Oltre al riferimento ai «fisici», Vitruvio deriva il suo racconto sulla nascita dell’architettura, parallela a quella del linguaggio, dall’osservare i costumi dei popoli «primitivi» a lui contemporanei, ossia cercando una conferma nell’etnologia. Sullo stesso tema è tornato recentemente un geniale storico dell’architettura, Joseph Rykwert. Rileggendo la Genesi, dove si citano le mansioni di Adamo nel giardino dell’Eden, egli deduce che ivi dovette esservi un angolo dove deporre gli attrezzi da lavoro e altre cose utili a quel primo uomo, in breve una casa; ma la Scrittura, che è così preci sa a proposito dell’onice che si trovava sparso nel para diso, non dice nulla a proposito di questa casa, che io intravvedo, sottintesa, nel testo. Tante cose sono già sta
te viste nel Libro (e specialmente nel suo inizio), da farmi sperare che la mia modesta inferenza non sollevi obiezio ni. La formulo convinto che l’ombra, il contorno di una simile casa ha perseguitato molti costruttori e architetti […]. Tutti costoro hanno tessuto le loro fantasie sul tela io della pianta del paradiso, benché ogni paradiso, come Proust acutamente osserva, sia necessariamente un pa radiso perduto. Il che implica – in primo luogo – che non sarò in grado di proporre ai miei lettori una descrizione dettagliata di questa prima casa. Tuttavia, poiché la me moria di essa sembra aver frequentato tutti coloro che erano impegnati nel costruire, molto prima che ciò ve nisse chiamato architettura, vorrei ripercorrere la via lungo la quale alcune reminiscenze delle sue fattezze si sono presentate in contesti diversi, e trarre dalla sua os sessiva persistenza nella memoria qualche conclusione intorno alla natura della prima casa4. Ritornando al nostro discorso, Maurice Leroy considera il tema origine del linguaggio un enigma che in ogni epo ca ha eccitato la fantasia umana e ricorda l’aneddoto tramandato da Erodoto secondo il quale il re d’Egitto Psammetico (VII secolo a.C.), volendo sapere quale fos se il più antico popolo del mondo, avrebbe fatto allevare due neonati dando ordine che nessuna parola venisse pronunciata in loro presenza; dopo due anni il pastore che si occupava di loro li sentì pronunciare la prima pa rola: békos […]; vero è che i bambini erano stati allevati vicino a un gregge di capre!5. Anche quel curioso perso naggio che fu l’imperatore Federico II (1194-1250) fece, secondo una leggenda, un’esperienza analoga, che si ri velò però infruttuosa perché i bambini morirono in tene rissima età; più fortunato sembra invece che sia stato, tre secoli più tardi, il re di Scozia Giacomo IV: narrano in fatti le cronache che i due bambini, allevati senza che nessuno pronunciasse mai parola in loro presenza, quan do cominciarono a parlare, spak very guid Ebrew6, confermando così la preminenza della lingua ebraica generalmente ammessa in quell’epoca7.
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Nel Rinascimento fu assai condivisa l’idea di individuare una originaria lingua madre generatrice di tutte le altre; si pensò quindi alla lingua dell’Antico Testamento, alla monogenesi della lingua ebraica. Nonostante la sua origine teo logica, quest’idea ebbe seguito presso gli stessi studiosi della lingua. Guillaume Postel, il maggiore teorico della monogenesi linguistica ebraica, nel 1538 pubblicò il De originibus seu Hebraicae linguae et genus antiquitate, atque variarum linguarum affinitate. Nonostante l’infondatezza scientifica, il tema che trovò ampio seguito e durò fino al secolo XVIII, ebbe un perfetto parallelo architettonico. Infatti, nel ricordare la ricerca di un sesto ordine architettonico da parte di Giacomo Soldati, architetto della corte di Emanuele Filiberto di Savoia, Rudolf Wittkower sostiene che l’idea di questo sesto ordine, che contenesse tutte le qualità dei tre ordini greci e dei due romani ed esprimesse meglio le armonie fondamentali dell’universo, era assai diffusa nel Rinascimento. Conformato da tale ordine sarebbe stato – e qui sta l’analogia con la monogenesi ebraica della lingua – il Tempio di Gerusalemme. Quest’ordine si riteneva originariamente ispirato diret tamente da Dio, quando Egli aveva incaricato Salomone di costruire il Tempio; gli architetti mirarono perciò a ricreare tale archetipo perfetto, dal quale si pensava de rivassero tutti gli altri ordini. […] Mentre Francesco Giorgi si valeva della Bibbia come di un potente ausilio per corroborare il sistema pitagorico-platonico della proporzione musicale, l’architetto francese Philibert de l’Orme, che aveva contatti con l’ambiente veneziano, proponeva di applicare sistematicamente le proporzioni che l’Antico Testamento rivelava: “les divines proportions venues du ciel”. Prima dello spirare del XVI secolo Giovan Battista Villalpando sviluppò ulteriormente queste idee, con apparato pressoché incredibile di erudi zione. Il suo immenso commento a Ezechiele, opera che ebbe sugli architetti, anche in campo internazionale, una durevole influenza, contiene la più famosa ricostruzione del Tempio8.
Nel ’700 il problema dell’origine non era nuovo, ma assunse un accento nuovo in quest’epoca; anzi, si può dire che ogni rinnovamento della riflessione linguistica derivasse proprio dal tema dell’origine del linguaggio così come fu dibattuto nel secolo XVIII. Di esso si occuparono Gianbattista Vico, Rousseau, Condillac, Diderot, De Brosses, Court de Gebelin, Monboddo, Hamann, Herder e numerosi altri. Le teorie sull’origine del linguaggio, per la loro stretta parentela con l’estetica e in genere con la speculazione sul mito del primitivo, si svolsero in parallelo con le riflessioni sull’origine dell’architettura. Le motivazioni di tale fenomeno sono molteplici: dal lato della lingua prevalgono ragioni filosofiche, glottologiche, etnologiche, storicistiche; dal lato dell’architettura vi sono quelle di «applicazione» estetica, di scoperte archeologiche, di poetica razionalista, di avversione al Barocco, ecc. Cosicché, sotto la comune etichetta dell’«origine», vi sono a volte tratti comuni fra le due discipline che studiamo in parallelo, a volte ragioni completamente diverse. Pertanto, nel nostro excursus terremo distinti i due filoni di ricerca, salvo ad accostarli nei punti dove risultano più evidenti l’analogia e la convergenza. Quanto al campo linguistico, una svolta del tutto nuova sul problema dell’origine del linguaggio si deve notoriamente a Gianbattista Vico (1668-1744). Nella sua Scienza Nuova, nel quadro di una «storia ideale eterna», egli divide in tre stadi lo sviluppo del linguaggio: un primo nel quale gli uomini comunicano per gesti muti, un secondo per voci affettive ed onomatopeiche, e un terzo con il vero e proprio linguaggio articolato. Per ciò che concerne la questione sulla naturalità o convenzionalità della lingua, Vico sostiene che, all’origine, il legame tra le parole e ciò che esse significano è naturale, mentre si perde con l’allontanarsi dallo stadio primitivo, per farsi prevalentemente convenzionale nella fase più recente del linguaggio. Ancora più significativa per il nostro argomento è la diretta analogia tra la filogenesi della lingua e quella architettonica che si trova nell’assunto per cui anche nelle fasi più evolute del linguaggio rimane sempre un’impronta della sua primitiva origine emo-
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zionale, distintiva dei diversi primordiali gruppi etnici ed attuale caratteristica di ciascuna lingua. Nell’esplicitare tale assunto vichiano, De Mauro scrive: anche quando le lin gue diventano strumento di un sapere razionale, scienti fico, e di società coltivate e non più barbare, il loro antico fondo tradizionale persiste e si combina in misura varia con la razionalità: sicché ogni lingua ha un suo diverso “genio”, legato alle vicende storiche della nazione che l’adopera9.
1 J.-F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano 1986, p. 24. 2 De rer. nat., V 1027-28. 3 De arch., II, 1. 4 J. Rykwert, La casa di Adamo in Paradiso, Adelphi, Milano 1972, pp. 15-16. 5 M. Leroy, Profilo storico della linguistica moderna, Laterza, Bari 1965, p. 45. 6 Cfr. L.H. Gray, Foundations of Language, New York 1939, p. 39. 7 Ibid. 8 R. Wittkower, Principi architettonici dell’età dell’umanesimo, Einaudi, Torino 1964, pp. 118-9. 9 T. De Mauro, Introduzione alla semantica, Laterza, Bari 1965, p. 54.
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Il museo nell’era del web FULVIO IRACE
Quattro anni fa, rispondendo alla sollecitazione per cui «Internet non s’addice all’architettura», esprimevo l’opinione secondo cui se è vero che la cultura digitale mal si adatta alla fisicità dell’architettura, essa trova invece una sponda più favorevole in quella del design. Un design, precisavo, non coincidente più con la storica definizione dell’industrial design e quindi non limitato, come sino a pochi decenni fa, alla mera produzione di oggetti. Internet – scrivevo – si addice al design, perché ne asseconda la vo cazione onnivora a contrassegnare consapevolmente non solo la forma delle cose, ma quelle addirittura delle relazioni fra le cose fra queste e le persone1. In particolare la mia argomentazione si concentrava sul l’applicazione di questa definizione allargata di “design” al campo del cultural heritage e della cultura immateriale, non mancando di sottolinearne le sempre più frequenti incursioni in quel settore specifico del patrimonio rappresentato dai musei. Sono passati da quel mio articolo appena quattro anni e quanto andavo allora descrivendo come una tendenza in atto è diventata oramai una realtà diffusa e pervasiva al limite quasi dello stereotipo, e certamente un luogo comune sostenuto da asserzioni apodittiche, al punto da indurci a ritornare su questo connubio in maniera più analitica e interrogativa. Mi propongo dunque in queste note di prendere in esame, attraverso alcuni casi studio particolarmente emblema-
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tici, quali siano allo stato di fatto le conseguenze dei nuovi strumenti digitali dei musei e la ricaduta sull’architettura e il progetto allestitivo, valutandone sia i possibili benefici per una più incisiva presenza nella società che i pericoli o le aporie dovute a una frettolosa ed euforica applicazione delle nuove tecnologie in contesti che, proprio per la complessità di significati e di storie stratificate, richiederebbero certamente una maggiore prudenza e un maggiore sforzo di teoria e di metodo. Se qualcuno avesse dubbi sul progressivo allargamento dell’identità del museo sotto la pressione delle tecnologie digitali, basterebbe scorrere le più recenti cronache progettuali – dall’Amos Rex (studio JKMM Architects) di Helsinki al National Museum of Quatar (Jean Nouvel) a Doha, al Cooper Hewitt Design Museum a New York, all’esempio italiano del M9 di Mestre, forse il più rilevante contributo del nostro paese alla concezione di un museo interamente digitale, etc. – per rendersi conto di come il passaggio dal modernismo all’età dell’informazione – come è stato notato – ha definitivamente avallato un cambio di paradig ma dalla categoria della forma a quella della performan ce; così i parametri di percezione e valutazione qualitati va dei luoghi si spostano dalla composizione alla perfor matività2. Nuovi Musei: qualche esempio
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L’Amos Rex di Helsinki esprime al meglio un corrente tipo di progettazione museale espansa dal singolo edificio alla intera città: sulla scia di casi consolidati, come il celeberrimo Guggenheim di Bilbao, il museo non è più solo una ben definita architettura, ma piuttosto una sorta di landscape integrato, dove il restauro di una pregevole preesistenza razionalista (il Lasipalatsi, il Palazzo di Vetro degli architetti Viljo Revel, Heimo Riihmaki e Niilo Kokko) degli anni Trenta diventa il punto di partenza per un ridisegno globale di tutto l’intorno urbano. Il museo chiuso in sé infatti non sembra più sufficiente perché oltre alla ovvia funzione di
ospitare opere e collezioni, la sua presenza deve riverberarsi in una attrattività sociale che ne giustifichi la metamorfosi genetica da arena sociale in luogo di suggestione turisti ca3. La partecipazione attiva del pubblico – per molti direttori e curatori – serve anche a far sopravvivere i musei e anche in questo caso le interazioni fisiche e quelle digitali devono potenziarsi a vicenda per incrementare la customer satisfaction e l’impatto di mostre e collezioni sulle comunità degli utenti: dati questi ultimi necessari a promuovere sponsor o filantropi abituati a investire solo davanti a un pubblico misurabile. Nel bene o nel male, nella continua corsa verso il pubblico, il museo ha assunto le dimensioni di un’istituzione globalizzante, che ha voluto interiorizzare anche le strategie del marketing tipiche dell’economia dei consumi. L’Amos Rex nasce dalla fusione di uno storico museo esistente (la casa museo Amos Anderson) e l’icona razionalista dei cinema Bio Rex: la storia da sola non rende sufficiente la sopravvivenza del museo e richiede un rilancio nel futuro attraverso l’invenzione di una struttura ibrida. L’idea è di costruire nuovi spazi espositivi ipogei, che denunciano la loro presenza attraverso lucernari di varia forma ed altezza che irrompono nella piazza retrostante trasformandola in un parco ludico di grande appeal per il pubblico di turisti e cittadini. Caratteristica di questi vuoti ipogei è la conformazione a volte dei soffitti che si proiettano all’esterno come crateri di luce e all’interno definiscono una sequenza di passaggi dall’originale plastica organica. La scelta di inaugurare il museo con l’installazione “Massless” del gruppo giapponese teamLab si è rivelata di grande fortuna popolare per la persuasività ipnotica del complesso sistema di proiezioni immersive, che dava ai visitatori l’illusione di trovarsi in un altrove fortemente spiazzante: un non-luogo paradossalmente, del tutto antitetico alla volontà degli architetti di connotare plasticamente gli spazi espositivi. Nel buio delle sale, solcato solo dal movimento vorticoso di linee luminose e di simulacri colorati, l’architettura scompare del tutto, rivelandosi superflua la sua realtà materiale rispetto a quella virtuale. In un certo senso è come se l’architettura del mu-
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seo si avvicinasse a quella dei padiglioni fieristici, grandi scatole vuote e illuminate solo artificialmente in modo da prestarsi di volta in volta alle più diverse e fantasiose interpretazioni. L’installazione mediatica annulla la percezione dello spazio, rendendo inutile ogni sforzo ideativo da parte dei progettisti, perché lo spazio reale deve cedere il passo alla sensazione di muoversi al di fuori delle coordinate abituali di spazio e di tempo. Non a caso, la sezione permanente dedicata alle collezioni di arte finlandese ha dovuto essere alloggiata in stanze separate dal resto, con le opere appese alle pareti dipinte di bianco e illuminate singolarmente nella tipica ambientazione neutra cui si ricorre per esaltare la singolarità dei quadri e apprezzarne la texture da vicino. Il tema è interessante perché, come vedremo tra breve, l’introduzione della realtà virtuale e delle immagini in movimento è al centro di valutazioni diametralmente opposte anche da parte degli studiosi di estetica e di museografia. Un conflitto irrisolto è anche quello evidenziato nel museo nazionale a Doha, su disegno di Jean Nouvel: se l’esterno – lo snocciolarsi di un intreccio suadente di grandi dischi di fibra plastica a simulare le caratteristiche concrezioni di sabbia note come “rose del deserto” – risponde alla logica del contenitore museale come oggetto di meraviglia, l’interno ne tradisce interamente le attese. Poco o niente delle complesse geometrie dello skyline è percepibile negli spazi espositivi dove prevalgono – sulle collezioni concentrate in pochi spot adattati all’uso – vuoti indefiniti lungo le cui superfici, orizzontali e verticali, scorrono sequenze di film che raccontano la storia del Quatar con i modi spettacolari dell’espressione cinematografica. La “white box” cede il passo alla “black box”, unica forma capace di corrispondere all’annullamento dello spazio in favore dell’illusione filmica. White Box vs Black Box
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Per più di mezzo secolo la nozione di “cubo bianco” ha dettato lo standard ideale dei musei d’arte contemporanea: uno spazio neutro e incolore dove le opere si ritagliano uno
spazio assoluto di contemplazione; uno spazio che proietta le opere fuori dal loro tempo di produzione, dal “colore” per così dire della storia da cui pure prendevano le mosse, e le sospende nell’astrattezza di una parete bianca. Nel 2018, una mostra alla Fondazione Prada a Milano – “Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943” – poneva in chiaro questa contraddizione. Partendo da una considerazione di Jacques Rancière in Le partage du sensible. Esthétique et politique (2000) secondo cui l’arte non esiste mai in astratto, ma prende forma e si precisa in un determinato contesto storico e culturale, quadri, disegni ed oggetti dell’arte italiana tra le due guerre sono stati proposti in un singolare allestimento dello studio newyorkese 2 × 4, che consisteva nel collocarli su pareti dove erano riprodotti in scala fotografica gli ambienti dove erano originariamente ed abitualmente esposti, in modo da farne risaltare il valore di novità rispetto alla realtà estetica del loro tempo. Secondo il curatore, Germano Celant, in tal modo si metteva in discussione l’idealismo espositivo, dove le opere d’arte, nei musei e nelle istituzioni, sono messe in scena in una situazione anonima e monocroma, generalmente su una superficie bianca, per riproporle in relazione a una testi monianza fotografica d’epoca e nel loro spazio storico di comunicazione4. La rivoluzione allestitiva in questo caso nasceva da una provocazione interpretativa e utilizzava materiali e accostamenti omogenei alle opere esposte. Da un punto di vista diverso, la contestazione del “cubo bianco” è stata riproposta da Giuliana Bruno5 contrapponendole la “scatola nera” del cinematografo, che l’autrice trova non solo di grande attualità, ma paradossalmente come un ritorno alle origini giacché: Oggi, con il trasferimento e la rilocazione delle immagini in movimento nel museo, assistiamo a un rin novamento sostanziale della loro relazione6. Per la Bruno, infatti, la convergenza di cinema e museo – istituita agli albori della modernità – fa sì che i locali del museo diven tano spesso vere e proprie sale di proiezione, trasforman dosi in un rinnovato spazio cinematografico7.
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Se l’affermazione della studiosa napoletana, titolare della cattedra di Visual and Environmental Studies presso l’università di Harvard, riflette la realtà di molte esperienze d’avanguardia nel campo della vera e propria digital art, risulta difficile condividerne l’entusiasmo quando si passa dagli interventi autoriali a quelli più generalmente curatoriali, come ad esempio, nel caso del M9, il Museo del 900 a Mestre, inaugurato poco meno di un anno fa, al termine di una lunga e complessa operazione di rigenerazione urbana. M9 è un museo ipertecnologico che, nato con i migliori intenti di contribuire al rilancio dell’entroterra veneziano, combina il restauro di un ex convento cinquecentesco e il riuso di un edificio degli anni Settanta con una nuova architettura (dello studio Sauerbruck Hutton Architects), nell’intento di proporre un’operazione allo stesso tempo culturale, commerciale e di intrattenimento. In particolare, la funzione museale è incentrata sull’allestimento di una serie di ambienti dove si racconta l’evoluzione sociale del paese nel l’arco di un secolo ricorrendo all’esperienza multimediale. La narrazione – lo storytelling – sostituisce la prassi curatoriale classica avvalendosi della realtà immersiva per tradurre la storia del passato in esperienza sensoriale. I risultati però, deludenti anche dal punto di vista del pubblico, evidenziano i punti deboli di questo tipo di installazioni, per loro natura legati a un tempo breve e non ripetibile, al contrario della natura permanente del museo tradizionale. È opinione molto diffusa tra curatori e manager museali che la forza di questo genere di eventi sta nell’abbattere le barriere tra l’arte e la sua comprensione, permettendo a tutte le tipologie di pubblico di conoscere la storia di ciò che si vede, grazie all’integrazione tra immagini, testi, suoni e fotografie del tempo. Eppure, paradossalmente questo processo sembra corrispondere a una idea di democratizzazione forzata dell’arte: proprio l’utilizzo di un plot narrativo congegnato in una sequenza di immagini in movimento, infatti, si rivela rigida ed obbligata, come l’assistere a una proiezione senza la possibilità di quell’interazione personale che ogni visitatore finisce sempre con lo sviluppare decidendo i pro-
pri tempi di visione a seconda del suo interesse e della sua sensibilità. Nonostante il suo appeal, la tecnologia si dimostra insomma inferiore alla fantasia individuale e se i suoi effetti speciali suscitano interesse durante la prima visita, la sua performance risulta in pratica uno spettacolo chiuso, che difficilmente un visitatore ha interesse a rivedere… Guardare o toccare? Eppure, sempre secondo la Bruno, il rinnovato connubio tra musei e cinema segnala l’emergere di una “sensibilità museale particolarmente porosa” ricollegabile addirittura al “culto moderno della memoria” teorizzato da Alois Riegl, secondo cui il valore dell’antico consiste nel fatto che non sembra richiedere nessuna delle conoscenze ac quisite dall’erudizione storica e anzi viene suscitato da una percezione squisitamente sensitiva8. Se per Riegl è la sensibilità ottica a parlare con imme diatezza al sentimento, per Bruno questa immediatezza è ricreata dal senso dell’aptico che provoca un’esperienza di trasporto intimo e in un tradursi del moto in emozione. Niente meglio dunque del cinema (la cui derivazione dal termine greco kinema ne lascia trasparire la natura legata alla trasmissione del movimento) per ricreare un’empatia diretta e senza mediazioni tra lo spazio delle arti e i suoi visitatori. Il revival di un termine – aptico – che sembrava relegato nell’estetologia della Scuola di Vienna alla fine del XIX secolo è un altro segnale della rivincita della storia contro la linearità progressiva del tempo moderno: la nozione del “toccare” come strumento per conoscere e per interagire è stata infatti favorita dalle riflessioni intorno alle più recenti evoluzioni delle tecnologie informatiche. In particolare, l’esaltazione dell’aptico si è manifestata sin dagli anni 90 nelle profezie di Nicholas Negroponte che, nel suo manifesto del 1995, Being Digital, aveva preconizzato l’idea che la comunicazione attraverso i bits avrebbe sostituito quella attraverso gli atomi, trasformando ogni altro tipo di comuni-
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cazione materiale precedente (dai giornali, ai libri, al sesso) in un’esperienza digitale e dunque aprendo la strada al perfezionamento di interfacce evolute come il touch screen in cui la tattilità dello schermo diventa la via d’accesso privilegiata e immediata alle informazioni. Non è un caso che da allora il coinvolgimento dei media digitali è stato interpretato da molti curatori e direttori di musei come “un altro modo” di comunicare l’istituzione culturale, più potente rispetto ai metodi tradizionali come le mostre e le pubblicazioni cartacee. L’introduzione dei touch screen nei luoghi deputati dell’arte corrisponde allo stesso tempo a una doppia intenzione di didatticità (attraverso lo schermo si possono trasmettere con facilità di comprensione tutti quei contenuti scientifici ed informativi prima veicolati dai testi e dalle didascalie) e di implementazione della conoscenza secondo modalità interattive. Due esempi sembrano particolarmente significativi, il Museo di Storia della città di Rotterdam – con il suo carico di stampe, oggetti, dipinti e modelli – e il Cooper Hewitt di New York, il museo di arti decorative e design moderno fondato nel 1886 e dal 1970 allestito nella Andrew Carnagie Mansion, una suntuosa residenza del XIX secolo nei pressi di Central Park. Il grande touch screen, che nel Museo di Storia della Città di Rotterdam spiega visivamente i contenuti storici impliciti nelle rappresentazioni pittoriche della vita quotidiana nella città olandese, rimpiazza le dettagliate descrizioni che un tempo ne facilitavano la comprensione: ma lo fa secondo i canoni della cultura visiva popolare e dunque scavalcando d’impeto una lunga e consolidata tradizione di protocolli divulgativi: il che suscita l’allarme di quelle voci critiche che lamentano la perdita di confine tra reale valo rizzazione del patrimonio e la sua inutile spettacolariz zazione, in ciò adducendo i gusti e le aspettative di un pubblico che si vorrebbe educare all’arte (rendendolo responsabile di scelte fatte da altri) ma che, in realtà, ne riceve, in cambio, una lettura distorta e mistificante9. Riaperto nel 2012 dopo tre lunghi anni di ristrutturazio-
ne radicale del suo impianto espositivo, il Cooper Hewitt sorprende il visitatore sin dall’ingresso: al posto del biglietto riceve infatti una “penna” che gli permette di immagazzinare su supporto digitale tutte le informazioni su ogni pezzo delle collezioni, semplicemente accostandola a un bar code che funge da didascalia. Cuore del cambiamento è un’app di interfaccia, una super rete che connette i dati relativi alle collezioni e ai visitatori, monitorandone le reazioni e le eventuali richieste. Questo significa che non solo gli oggetti “parlano” ai visitatori ma anche li “ascoltano”: il pubblico può scaricare contenuti aggiuntivi (video, immagini, testi) sulla propria penna e anche commentare quello che vede usando degli schermi tattili. Ma il pezzo forte della visita – e la maggiore attrazione – è l’Immersion Room, dove le gigantografie delle tappezzerie del museo possono essere accostate a piacere usando la penna digitale come su un enorme impaginato 3D. Come si può immaginare in questo caso, l’effetto speciale della proiezione a parete ha una sua logica nella difficoltà di valutare il decoro di un campione di stoffa o di carta da parati nella sua possibile applicazione, conciliando la soddisfazione visiva con un giudizio critico. Educare o intrattenere? Nel 2007, la definizione di Museo sancita dall’ICOM in occasione della 22° Assemblea Generale di Vienna, affermava che il Museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimo nianze materiali e immateriali dell’uomo e del suo am biente, le acquisisce, le conserva, le comunica e specifica mente le espone per scopi di studio, istruzione e diletto. Questa definizione, che tiene conto dell’importanza della comunicazione e del diletto accanto a quelle più tradizionali della conservazione, pur apparendo frutto di una negoziazione tra conservatori intransigenti delle prerogative scientifiche del museo e innovatori aperti alle evidenti richieste di un pubblico radicalmente cambiato rispetto al
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l’immediato passato, continua a dividere chi scommette sul museo come acceleratore di relazioni culturali e sociali rese possibili proprio dal ricorso ai social media e chi al contrario ne paventa la banalizzazione a mero strumento di intrattenimento di massa. La sovrapposizione dei nuovi device digitali dentro musei e gallerie d’arte pone insomma in evidenza una sorta di rinnovata partita in sospeso tra apocalittici ed integrati con, tuttavia, delle differenze rispetto al passato. Niente di strano, si potrebbe dire, visto che a ogni trasformazione del concetto di museo è corrisposta una nuova maniera di esporre il passato in relazione alle mutevoli esigenze di pubblici sempre diversi. Oggi siamo ben lontani dall’impulso originario del “museo universale”, sostituito dalla nozione di “museo globale” che fa riferimento all’abbandono dell’antica matrice illuminista in favore di una prospettiva multifocale dove tutte le esperienze artistiche sono slegate da gerarchie geografiche o di genere: esporre il passato implica in un certo senso riscriverlo e renderlo disponibile alla comprensione di nuovi utenti. E qui il design trova un campo di applicazione cruciale, come fu anche per l’Italia il passaggio, nel dopoguerra, dai musei della tradizione a quelli della democrazia. Fu la stagione d’oro della museografia rinnovata e i nomi di Albini, dei BBPR, di Scarpa rimasero legati in maniera determinante alla straordinaria capacità di creare più adeguate condizioni di fruizione del patrimonio con l’invenzione di straordinari dispositivi allestitivi che di fatto aprivano al design le porte del museo. La sostanziale differenza con l’oggi consiste però nel fatto che in quel caso non si interrompeva (ma solo si aggiornava) la continuità materiale tra il manufatto artistico e il supporto di design; nei casi odierni invece la presenza di uno schermo accanto a un quadro introduce un salto di scala tattile e visivo che non è stato studiato con sufficienza, né da parte degli architetti, né da quello dei curatori. L’abbondanza di mezzi oggi a disposizione e l’allascamento dei confini tra conservazione e valorizzazione del patrimonio rendono infatti fondamentale valutare con giudizio le esperienze in atto perché mai come in questo mo-
mento siamo consapevoli che si sta giocando una partita che non coinvolge solo i luoghi deputati dell’arte ma, più in generale, il futuro del nostro rapporto con la memoria e un’idea stessa di civiltà. In una recente mostra (curata da Carolyn Christov Bakargiev e Marcella Beccaria) alle Gallerie d’Italia a Milano – “Dall’argilla all’algoritmo. Arte e tecnologia” – per indagare la relazione tra tecnologia, recezione e arte e mostrare come gli avanzamenti tecnologici modificano l’esperienza della realtà, si sono proposti accostamenti inediti (e arditi) tra antichi vasi greci, ad esempio, e opere di artisti contemporanei che utilizzano l’elettronica, il cinema e il digitale. Lo svolgimento della mostra è appeso al filo dell’interpretazione del concetto di arte come téchne, che instaura la volontà dell’artista di dominare la realtà riproducendola: tuttavia, dal punto di vista dell’allestimento espositivo non si può fare a meno di notare come la disomogeneità dei manufatti a confronto faccia risultare l’esistenza di una frattura più che di una continuità tra mondo preindustriale e mondo tecnico, ognuno dei quali richiede proprie modalità di visione. Si può esporre un manufatto accanto a un modello digitale o un video accanto a un dipinto? In questione non è certo la legittimità critica, piuttosto quella estetica e metodologica: ormai è chiaro infatti che un museo o una galleria contemporanea sono diversi dal contenitore d’arte abituali sino a qualche decennio fa. Analogamente chiaro è che le varie esperienze di pratiche artistiche contemporanee rispondono a un tipo d’arte completamente nuova persino rispetto alle avanguardie degli ultimi anni: gli spazi del museo sono pensati per visitatori divenuti consumatori in una direzione che non avremmo ritenuto mai compatibile con l’oggi e che pare richiesta dalle liturgie di massa che si inscenano dentro i luoghi del consumo artistico secondo modi che esigono un’adesione tattile ed emotiva, che esalta l’esperienza rispetto alla formazione o all’informazione. E tuttavia pare immediatamente evidente rispetto alla logica spaziale dell’allestimento che l’arte prodotta con l’ausilio delle nuove tecnologie esige sistemi espositivi au-
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tonomi e difficilmente conciliabili con quelli delle opere più tradizionali: richiede ambienti chiusi e totalmente autonomi, spazi neutri e oscuri capaci di far risaltare la brillantezza degli schermi e i prodigi delle realtà virtuale, insomma un surplus specifico di accorgimenti che non ammette rapporti diretti e immediati con il manufatto e con l’architettura. Per questo, allora, concludevo il mio articolo osservando che: serve una riflessione più articolata per definire utilità e danno del design applicato all’heritage: se non una vera e propria teoria, certamente una “carta” che stabilisca limiti e possibilità, relazioni di congruenza e di legittimità, e, ovviamente, tutti i possibili gradi di coesi stenza tra rispetto della storia e sua “attualizzazione” nell’attuale scenario della cultura globale10.
1 F. Irace, Due nuovi modi di essere nel web, in «Op. cit.», n. 152, febbraio 2015. 2 E.E. Giunta, La dimensione performativa dell’ICH: definizioni e potenzialità progettuali, in F. Irace, a cura di, Design&Cultural Heritage. Immateriale Virtuale Interattivo, Electa, Milano 2013, p. 230. 3 H. Foster, Design &Crime, Postmedia, Milano 2003, p. 31. 4 G. Celant, Introduzione al catalogo della mostra. 5 G. Bruno, Superfici, a proposito di estetica, materialità e media, Johan & Levi, Milano 2016. 6 Ivi, p. 155. 7 Ivi, p. 160. 8 Cit., in G. Bruno, op. cit., p. 156. 9 P.C. Marani, Spettacolarizzazione e manipolazione versus digitalizzazione delle opere d’arte, in F. Irace, a cura di, op. cit., p. 55. 10 F. Irace, Due modi di essere nel web, cit.
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La poesia scenica di Gordon Craig CLARA FIORILLO
Nel 1924 Gordon Craig aveva 52 anni, aveva già lanciato la rivoluzionaria idea scenica degli screens, “le mille scene in una”, aveva già pubblicato i testi con cui avrebbe conquistato fama imperitura, On the Art of the Theatre e Towards a New Theatre, e aveva già fondato la mitica rivista The Mask, eppure, su un prestigioso periodico dell’epoca, “Comœdia”, un articolo a lui dedicato esordiva con queste parole: Edward Gordon Craig nel mondo degli amatori di cose di teatro è un nome noto anche se non si sa che cosa precisamente abbia compiuto o scritto1. L’autore dell’articolo, si impegnava poi, nelle pagine successive, a documentare nel migliore dei modi l’attività di questo singolare uomo di teatro, premettendo, comunque, a sua discolpa, la temerarietà dell’impresa: Craig è uno spirito eclettico […]. Volerlo definire nella sua multiforme atti vità artistica sarebbe impossibile2. Nonostante tutte le cautele iniziali, l’articolo andava però al nocciolo dell’idea scenica craighiana: l’artista deve parlare al pubblico at traverso la scena e non agire come in una specie di casa per bambole. Nella sua costruzione vi sono i muri, il pa vimento, il soffitto: niente altro. Riduce la scena al suo essenziale e le dà poi la mobilità che le è indispensabile3. Nel 1933, questa volta sulle pagine di “Scenario”, veniva allestita, per Craig, una sorta di pubblico “processo”, con tanto di advocatus diaboli. L’articolo dava equamente voce
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ad avversari e sostenitori dell’artista, tentando di venire finalmente a capo della reale natura della sua arte. L’autore, Henry Furst, cavallerescamente faceva parlare per primi i suoi nemici: “Le sue scene presentano proporzioni im pressionanti; ma se provate a metterle in esecuzione, scoprite che ci vorrebbe un palcoscenico di un’altezza inconcepibile. […] Sino ad oggi egli non ha prodotto la famosa super-marionetta di cui ci ha tanto parlato. Egli vuole eliminare dal teatro anche lo scenografo, per met tervi della pura visione: ma visione di che cosa? e in qual modo materiata? […] Cominci il Craig col farci vedere qualche cosa di concreto, cessi di pubblicare libri; e crei un teatro”4. Il resto dell’articolo di Furst si dipanava come una sistematica confutazione di tutte le accuse, anticipando il tutto con un chiarimento essenziale: nulla avete capito, e nulla potete capire di Craig se non abbandonate del tut to il vostro punto di vista5. E anche qui, dopo aver dato voce ai dubbi e alle incertezze, l’autore dell’articolo metteva in luce punti fondamentali della teoria craighiana: Craig non si stanca mai di ripetere le accorate parole di Eleo nora Duse: “Per salvare il teatro, bisognerebbe… che tutti gli attori e tutte le attrici morissero di peste”. […] Ciò non vuol dire che egli non apprezzi l’attore valente […]. Il paradosso della Super-marionetta ha suscitato molto scalpore nel teatro; ogni persona intelligente intende che ciò non va preso alla lettera. Ultimo fine dell’arte dev’es sere l’eliminazione di tutto quel che non è plasmabile, che non può portare l’impronta della mente creatrice, e soltanto così un intero dramma potrà essere l’espressio ne di un’unica mente direttiva6. Le indagini sull’arte teatrale di Craig sembrano accogliere sempre due opposti punti di vista, come se non fosse concesso il magnificarlo senza registrare anche i punti oscuri del suo operato pratico e teorico. Ancora nel 1948, ad esempio, sulla rivista “Sipario”, Vito Pandolfi disinvoltamente portava Craig nella polvere e un attimo dopo sull’altare, in un andirivieni critico sconcertante: La sua vita è un seguito di errori e di presunzioni. La sua prosa ha ora
spesso l’accento di un falso giornalismo letterario. Fini scono col contare soltanto alcune sue audacie critiche: come quando sostenne, fra lo scandalo generale, che Scarpetta, Petrolini, De Filippo, erano i maggiori attori viventi, erano il vero teatro. […] Ma dietro a queste ap parenze e a questi atteggiamenti, dietro alla perentorietà delle sue affermazioni, vi è una sostanza più ampia, un gesto sincero, che non viene preso a prestito da nessun apparato culturale7. Nel 1966, anno della scomparsa di Craig, Ferruccio Marotti, vox clamantis in deserto, denunciava con amarezza la profonda incomprensione di cui era stato vittima Craig: ri fiutare acriticamente in toto l’esperienza di Craig, o ad dirittura sentire insofferenza nei suoi confronti, come tende a fare il mondo teatrale italiano d’oggi, a differen za di quello straniero, significa non aver compreso quel profondo travaglio spirituale che ha sovvertito le regole dell’espressione artistica tradizionale8. E, arrivando ai giorni nostri, Mirella Schino ancora una volta ha messo in luce il defatigante impegno interpretativo che tocca a chiunque si accosti alla sua opera: Craig è stato forse il princi pale creatore del complesso tessuto di ambiguità, con traddizioni, fascino, volontà di sopraffare, consapevole ed inconsapevole distruzione e depistamento storiografi co che avvolge il rapporto tra il teatro di regia ed il teatro del grande attore9. Si potrà notare, tra l’altro, come non vi sia esegeta che non abbia avvertito l’imperioso impulso ad accostare l’opera al carattere, agli umori e allo stile di vita di Craig. Pressoché tutti hanno considerato decifrabile la sua arte solo passando attraverso il filtro della sua personalità. Addirittura Raffaele Calzini, sulla rivista “Comœdia”, nel 1925, con la sua consueta esuberanza verbale, che una volta Gramsci ironicamente definì abbondante frasca di parole10, decise di condurre il lettore direttamente al cospetto di Craig, nella convinzione che fosse essenziale spiare questo artista nella sua “officina” per comprendere davvero la sua arte, coglierlo nella freschezza dei comportamenti per spiegare il suo spiri-
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to: riempie di marionette, di bozzetti, di libri rari e di ma schere le camere dello studio e della biblioteca, rizza un bandierone tricolore sull’asta, pota alberi, aggiusta aiole, trasporta piante; accarezza con lo stesso affetto un pupaz zo giavanese e una maschera pompeiana, una rosa fiorita e le pagine di un volume di teatro illustrato da Moreau le jeune, si entusiasma davanti una prospettiva del Bibbie na, una xilografa sua, una veduta di Genova: si interessa a una ricetta della cucina ligure, ad un aneddoto sul tea tro del Foscolo, a una barzelletta milanese. […] Non c’è opera di teatro, pianta di teatro, attore che egli non cono sca11. Ecco, questo era Craig, l’uomo sempre disposto a rin novare l’ammobigliamento nel cuore e nel cervello12. È stato, naturalmente, lo stesso Craig ad alimentare un tale atteggiamento critico, a causa di quel suo modo di produrre intellettualmente attraverso un flusso di pensiero ininterrotto, attraverso un diffondere il proprio sapere nella totale libertà dell’espressione, nel libero sfogo dell’intuizione, come di chi pensa a voce alta. Lo hanno testimoniato in tanti, lo precisò anche Copeau, in una sua memoria del 1915, quando confessò: c’è sempre un qualcosa in ciò che dice Craig, e sovente delle verità preziose. Ma si agita qua e là, criticando, profetizzando. […] Niente mi affati ca, nella conversazione, come queste illuminazioni disor dinate che rischiarano l’orizzonte ora a ovest e ora a sud, sviando tutti i percorsi13. Lo ha ribadito Marotti quando ha scritto che in realtà, tutta la vita di Craig è stata un con tinuo mostrare agli altri una immagine fantastica, in ventata, di sé, un continuo travestirsi14. Tutto questo lambiccarsi il cervello sull’autentica arte di Craig è stato prodotto, dunque, da una parte, dalla fonda mentale artificialità del linguaggio craighiano15, e dall’altra – per usare espressioni di Mario Apollonio – da quel suo fare battagliero e impetuoso, quell’esoterismo aggressivo che vuol imporre al gregge dei catecumeni sviati la veri tà rivelata16. Anche Marotti, negli anni ’70, volle offrire al lettore, accanto alla rappresentazione del suo ingegno, una particolare
immagine dell’uomo, come se fosse il setaccio che fa scoprire le pepite d’oro: Il mondo di Craig è un mondo scom parso. E in esso Craig si era ritagliato un mondo a parte, dai confini rigorosamente tracciati e presidiati dall’Inef ficacia e dall’Afasia. Inefficacia di un artista radicale, che progetta in solitudine e vuole realizzare ogni cosa in mo do perfetto, talmente teso all’assoluto da preferire l’ina zione ad ogni sia pur minimo cedimento alle esigenze della “pratica” […]. Afasia, anche, di colui che non nutre sufficiente fede nella parola e che, impossibilitato a co municare attraverso segni teatrali assoluti, si serve di em blemi letterari: le forme precostituite del dialogo filosofi co, della visione profetica, dell’excursus storico e filologi co […], della pagina ironica, dell’enfasi satirica17. Craig, in definitiva, un po’ come Appia e come Artaud (la triade dei visionari della rivoluzione teatrale del no vecento)18, è stato rappresentato dalla critica come un rappresentante di quella ristretta schiera di inattivi sognatori che hanno sollevato il mondo, di profeti più o meno inascoltati le cui profezie si sono inopinatamente e variamente inverate, di utopisti “concreti” sulla cui vagheggiata isola sembra che siano approdati i migliori drammaturghi e uomini di teatro della modernità. A voler riassumere in due parole la portata del suo insegnamento, si potrebbe ripetere l’opinione di Pandolfi quando, tra strali e lusinghe, però ammetteva: quello che oggi sembra consueto, fu detto la prima volta da lui19. Ma, per sintetizzare in pochi punti la sua rivoluzionaria concezione scenica, si potrebbe accogliere l’opinione di Marotti quando scrisse: l’idea della super marionetta e quella della “scena col volto che cambia” sono forse gli elementi di più grande importanza nella storia dell’estetica teatrale moderna20. Va rammentato, in particolare, quell’Amleto messo in scena al Teatro d’Arte di Mosca nel 1912, con la regia di Craig e di Stanislavskij, uno spettacolo che, negli anni an teriori alla prima guerra mondiale, fu il mito del mondo teatrale21, ma che ha avuto un grande influsso sui più im portanti uomini di teatro del Novecento: da Mejerchol’d
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a Vachtangov a Ejzenštejn a Barrault a Gielgud a Olivier a Brook22. La soluzione scenica adottata a Mosca è all’apparenza elementare: gli screens di Craig altro non erano che degli schermi, dei pannelli rettangolari di legno, di me tallo o di sughero, uniti fra loro da cerniere snodabili, che si mettono in piedi uno accanto all’altro. Questi pan nelli si possono muovere in tutti i sensi, con tutte le an golazioni possibili23. Nel suo saggio Scene, del 1923, lo stesso Craig chiarì che lo “spirito” della sua idea scenica era lo spirito dell’incessante mutamento24. In questo scritto, egli dichiarava che la scena sempre mutevole possiede un volto espressivo. La sua superficie riceve la luce, e, a se conda che la luce cambi posizione, compia altri muta menti, e la scena stessa vari le sue posizioni – la luce e la scena si muovono di concerto come in un duetto, ed ese guono delle figurazioni come in una danza – il suo volto esprime ogni emozione25. A ben vedere, in tutta la cultura teatrale del ’900 sembra esserci qualcosa di Craig. Ma è vero anche il contrario: che in tutta l’opera di Craig precipitarono le più significative tendenze della cultura teatrale del ’900. Oltre che di primogeniture, di discendenze e di derivazioni, con Craig si dovrebbe piuttosto parlare di un complesso sistema di vasi comunicanti. E un fondamentale canale di comunicazione fu quello con Adolphe Appia: è da notare che i due artisti ebbero modo di conoscersi quando ormai avevano elabo rato appieno le proprie teorie estetiche26 e la loro amicizia fu profonda e sincera, come ha testimoniato il loro carteggio. Craig ad Appia, il 22 febbraio 1917: Voi, mio caro, siete l’Espressione più nobile nel teatro moderno; lo sie te, per me, e ve lo dico senza adulazione. […] Nessuno parla come i vostri disegni27. E poi Appia a Craig, il 24 maggio 1917: In fondo all’anima noi abbiamo “la stessa vibrazione e lo stesso desiderio”; soltanto sono espressi in modi diversi a causa dei nostri temperamenti diversi e delle nostre situazioni assai diverse. Che importa! Noi siamo, per sempre, uniti. E questo basta28. Se poi si analizza il maggiore dei suoi paradossi, quello
della Übermarionette, il sistema di vasi comunicanti si moltiplica. Va riconosciuto come quella sua enigmatica profezia fosse comunque incastonata in un flusso teorico sul tema della marionetta che partiva da molto lontano: dalle settecentesche novelle di E.T.A. Hoffmann e dal Paradosso sull’attore di Diderot, ma soprattutto dal saggio, del 1810, Über das Marionettentheater di Heinrich von Kleist. Un flusso inarrestabile che, soprattutto tra la fine dell’‘800 e la prima metà del ’900, spinse il generale tema del “doppio antropomorfo”, nelle sue variegate declinazioni di marionetta, fantoccio, manichino, automa o robot, sui palcoscenici europei d’Oriente e d’Occidente. E a dare la stura fu, in un certo senso, quel deflagrante “Merdre!” pronunciato nel 1888 dal fantoccio Ubu, con cui Alfred Jarry mandò a gambe all’aria tutto il teatro ottocentesco. Nel travagliato primo ’900, dunque, da diverse sponde dell’avanguardia artistica e teatrale – Dadaismo, Futurismo, Bauhaus, Costruttivismo o Metafisica – si fanno avanti inquietanti o divertenti figure inanimate, che, nel teatro, rubano la scena ai Grandi Attori, agli imitatori della realtà: le marionette sceniche, da sole o come travestimento del corpo di un attore, pur articolando il tempo e lo spazio con l’astratta geometria del proprio gesto, hanno tuttavia il potere di giudicare la storia, visto che, come scrisse Benjamin, esse con leggerezza, senza divenire malvage, possono farsi beffe di tutto29. Il fatidico saggio craighiano, L’Attore e la Supermarionetta, la cui stesura risale al 1907, al suo apparire lasciò comunque tutti di sasso e non la smette di meravigliare: L’attore deve andarsene – aveva scritto, senza mezzi termini, Craig – e al suo posto deve intervenire la figura ina nimata – possiamo chiamarla la Supermarionetta, in attesa di un termine adeguato. […] La marionetta di scende dalle immagini di pietra dei templi antichi – e attualmente è una figura di un Dio alquanto degenerata. […] Eppure anche i burattini moderni sono cose straor dinarie. Se gli applausi scrosciano o se al contrario sono fiacchi, nei loro cuori il battito non accelera, né rallenta,
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i loro gesti non diventano precipitosi o inesatti e, sebbene inondato da un torrente di fiori e d’ammirazione, il volto della prima attrice rimane solenne, bello e remoto, come sempre30. Poi, più avanti, incitando alla riconquista di una antica, “nobile artificialità”31, coloriva il suo incitamento con questo presagio: dobbiamo cercare di ricostruire quelle immagini – e non accontentarci più del burattino: dobbiamo creare la Supermarionetta. La Supermario netta non competerà con la vita – ma piuttosto andrà oltre. Il suo ideale non sarà la carne e il sangue ma piut tosto il corpo in catalessi: aspirerà a vestire di una bellez za simile alla morte, pur emanando uno spirito di vita32. Quel suo scritto assunse subito i crismi di una memorabile profezia, ma occorre dire che la mitica Supermarionetta dovrebbe essere considerata, in qualche modo, anche come una sorta di punta dell’iceberg, poiché sul tema della marionetta Craig si impegnò in maniera “globale”: con la medesima passione studiò la tradizione del teatro “minore” italiano e quella del teatro orientale e la sua idea di marionetta si costruì – volendo adottare espressioni di Bachtin – sui caratteri del “grottesco romantico” come su quelli del “grottesco popolare”. Il figlio di Craig, Edward, ha ricordato la passione del padre per ogni genere di pupazzo: Nel 1912 Craig aveva organizzato a Firenze quella che chia mava la sua “Scuola”. […] Oggetto di studio erano an che marionette di ogni tipo, pupazzi, burattini, ombre e così via: erano i primi esperimenti pratici dopo gli scritti puramente teorici su una “super figura” o “essere supe riore” che Craig in seguito chiamò “Übermarionette”. Nell’Arena Goldoni aveva raccolto Pupi Siciliani raffi guranti Paladini in assetto di guerra, altre marionette di origine polacca, indiana, italiana nonché bellissimi esemplari provenienti da Giava e dalla Birmania33. La figura della marionetta, insomma, è sempre stata, per Craig, un motivo dominante, il concetto della marionetta, come sintesi dei tratti universali dell’umanità – come ha notato Maymone Siniscalchi – […] è un concetto che non subisce eclissi sull’orizzonte craighiano34.
Quello sulla Übermarionette è comunque un testo che mise in forma letteraria un sentimento scenico già in nuce, uno spirito del tempo, offrendo una immagine potente che stava a metà tra il ricordo, il presagio e il progetto. Che cosa precisamente fosse, in questo senso, la sua Supermarionetta è difficile da dire. Alla fine, la Übermarionette potrebbe essere assunta come una sorta di formula essenziale, vitale, per definire la sostanza dell’arte attorica, presa nella sua tensione “straniante” tra gesto naturale e gesto convenzionale. Non c’è da meravigliarsi, allora, del fatto che la Supermarionetta possa rispuntare, all’improvviso, in qualsiasi punto della storia del teatro e possa assumere, di volta in volta, una novella specificazione: eccola, allora, come si è visto, nelle anticipazioni della sua figura date dal Paradosso di Diderot, ma eccola riaffiorare anche, come ha notato Marotti, in Mejerchol’d, che cercò di realizzare l’ideale della supermarionetta in una recitazione gestuale ritmica, la biomeccanica35, in Oskar Schlemmer, che nei personaggi del “Triadische Ballett” espresse appieno una concezio ne metafisica dell’uomo burattino36, nell’arte scenica di Prampolini, indicata da Verdone come il compimento logi co estremo del movimento inaugurato da Gordon Craig37, e, andando avanti nel tempo, nel Teatro della morte di Kantor, giudicato da Isola e Pedullà un’opera fondata teoricamente su un manifesto che è, insieme, un omag gio ed una confutazione dell’idea di Supermarionetta38, e persino nella recitazione dei fratelli Eduardo, Titina e Peppino De Filippo, dal momento che, come ha ricordato ancora Marotti, Craig, che pure da buon anglosassone non aveva mai imparato perfettamente l’italiano e com prendeva assai poco il napoletano, si faceva tutta la loro stagione al Valle perché trovava che erano altre super marionette, che erano appunto un’immagine della su permarionetta, di quello che può essere l’attore perfet to39. L’elenco potrebbe allungarsi a dismisura, ma nulla aggiungerebbe al valore indiscusso di quella prima profezia “progettante” di Craig, che seppe condensare, in un’unica figura, l’istanza di rinnovamento di un’intera generazione
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di teorici e uomini di teatro, e che non ha smesso di risuonare nelle poetiche della modernità. Quando Craig, cioè, formulò l’utopia della Supermarionetta, nei fatti fissò un punto di svolta nella riflessione sull’attore e sullo spazio della scena. È Attolini a far notare che l’eredità di Craig sarà raccolta dalle avanguardie artistiche del primo No vecento: dopo di lui la presenza o l’assenza dell’attore sarà il problema cardine intorno al quale ruoteranno le teorie e le pratiche teatrali40. Con la Supermarionetta Craig aveva espresso un’idea “pura”. Ma la sua tecnica letteraria è stata speculare alla sua tecnica di palcoscenico: egli ha sempre puntato sull’evocazione, sul non detto e sull’implicito, ma in una cornice di plateale evidenza, di chiarezza spinta al paradosso. Il suo anelito verso la purezza delle idee, che non scendono a patti con la realtà, lo indusse sempre a parlare anche alle zone d’ombra dell’intelletto, quelle che sanno intendere al di là delle parole. Le vere ombre, sulla scena, esercitavano su di lui un fascino particolare, visto che, come ha ricordato Peter Brook, Craig voleva che un’ombra allusiva prendesse il posto di una foresta completamente dipinta sul fondale […] perché si rendeva conto che le informazioni inutili assorbono la nostra attenzione a spese di qualcosa di più importante41. Di più, Craig era interessato all’invisibile. Si vedano le sue pagine sugli spettri shakespeariani, dove il primato della messa in scena appartiene alle evanescenze. Craig, dunque, è stato il poeta delle ombre e di quelle che egli stesso chiamava le “sostanze invisibili”42, ma è stato anche – lui che ha creato attorno a sé un indicibile frastuono – il regista del silenzio. Lo dimostrano tutte quelle sue scene avvolte in una nebbiolina sottile, che sfuma e sospende la realtà, che toglie gravità alle cose, che traduce ogni corpo in un’anima. Lo dimostrano quei 4 disegni con cui ha composto il dramma Le scale, in cui ha condensato l’intera esistenza dell’uomo. Nelle note ai disegni, egli chiarì che esistono due tipi di dramma, nettamente di stinti. Potrei chiamarli – egli scrisse – il Dramma di Pa role e il Dramma del Silenzio43. Quelli del silenzio erano,
per lui, drammi in cui la parola diventa gretta e inadegua ta44, drammi nei quali un posto d’onore spetta alla più no bile delle attività umane: l’Architettura45. Questo solitario poeta delle ombre, dell’invisibile e del silenzio, nemico acerrimo della parola, ha tuttavia usato parole e segni capaci di attrarre le più disparate sensibilità e di far scendere in campo le più diverse coscienze critiche. Deliberatamente Craig ha voluto che la sua produzione teorica fosse contrassegnata, a dirlo in una parola, dallo stigma dell’enigma. Dicesi testo letterario – scrisse una volta Sanguineti – un testo che si presenta nella forma dell’enig ma. Dove c’è la poesia, lì c’è un indovinello46. È stato questo il caso della poesia scenica craighiana, affacciata sul futuro del teatro, potenzialmente capace, per sé, di infini te risoluzioni47.
1 A.M. Nasalli Rocca, Edward Gordon Craig, in “Comœdia”, a. VI, n. 21, 10 nov. 1924, p. 5. 2 Ibidem. 3 Ivi, p. 8. 4 H. Furst, Gordon Craig e il teatro, in “Scenario”, a. II, n. 11, nov. 1933, pp. 564-565. 5 Ivi, p. 565. 6 Ivi, p. 568. 7 V. Pandolfi, Il profeta disarmato, in “Sipario”, a. III, n. 28, agosto 1948, pp. 3-4. 8 F. Marotti, Il regista della forma pura, in “Sipario”, a. XXI, nn. 244-245, ago.-sett. 1966, p. 15. 9 M. Schino, Teorici, registi e pedagoghi, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, vol. III, Einaudi, Torino 2001, p. 64. 10 A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1953, p. 353. 11 R. Calzini, Di uno scenografo e della sua officina G.C., in “Comœdia”, a. VII, n. 19, 1 ott. 1925, p. 958. 12 Ibidem. 13 J. Copeau, Incontri con Craig 1915, in Id., Il luogo del teatro, La casa Usher, Firenze 1988, p. 173. 14 F. Marotti, Amleto o dell’Oxymoron, Mario Bulzoni, Roma 1966, p. 123. 15 F. Marotti, Introduzione a E.G. Craig, Il mio teatro, Feltrinelli, Milano 19802, p. VII. 16 M. Apollonio, Da Craig a Reinhardt in attesa del futuro, in “Comœdia”, a. XV, n. 11, 15 nov./15 dic. 1933, p. 14.
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F. Marotti, Introduzione, cit., p. VII. F. Marotti, Amleto o dell’Oxymoron, cit., p. 174. 19 V. Pandolfi, Il profeta disarmato, cit., p. 4. 20 F. Marotti, Il regista della forma pura, cit., p. 15. 21 F. Marotti, Amleto o dell’Oxymoron, cit., p. 176. 22 Ibidem. 23 Ivi, p. 182. 24 E.G. Craig, Scena, in Id., Il mio teatro, cit., p. 223. 25 Ibidem. 26 F. Marotti, Amleto o dell’Oxymoron, cit., p. 283. 27 Ivi, p. 286 28 Ivi, p. 289. 29 W. Benjamin, Teatro berlinese delle marionette, in Id., Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, p. 541. 30 E.G. Craig, L’Attore e la Supermarionetta, in Id., Il mio teatro, cit., p. 49. 31 Ivi, p. 51. 32 Ibidem. 33 E. Craig, Come è nato il «Drama for fools», in M. Maymone Siniscalchi (a cura), Il trionfo della marionetta, Officina, Roma 1980, pp. 44-45. 34 M. Maymone Siniscalchi, Introduzione, in Id. (a cura), Il trionfo della marionetta, cit., p. 9. 35 F. Marotti, Il regista della forma pura, cit., p. 16. 36 Ibidem. 37 M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Lerici, Roma 1969, p. 279. 38 G. Isola, G. Pedullà, Introduzione, in Id. (a cura di), Gordon Craig in Italia, Bulzoni, Roma 1993, p. 13. 39 F. Marotti, Gordon Craig, la solitudine, il futuro, in G. Isola, G. Pedullà (a cura di), Gordon Craig in Italia, cit., p. 38. 40 G. Attolini, Gordon Craig, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 87. 41 P. Brook, Il teatro e il suo spazio, Feltrinelli, Milano 19763, p. 93. 42 E.G. Craig, Gli spettri nelle tragedie di Shakespeare, in Id., Il mio teatro, cit., p. 149. 43 E.G. Craig, Per un nuovo teatro, in Id., Il mio teatro, cit., p. 185. 44 Ibidem. 45 Ibidem. 46 E. Sanguineti, La missione del critico, Marietti, Genova 1987, p. 210. 47 Ibidem. 17 18
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Fare, pensare e progettare nel tempo della app economy PIETRO NUNZIANTE
La progettazione d’interfacce rappresenta, oggi, un settore d’applicazione avanzata dei principi e della ricerca di design. La cultura del design e quella progettuale applicata alla vita quotidiana e alla estensione delle funzioni dei dispositivi elettronici progrediscono in modo crescente; la cultura industriale contemporanea produce e rappresenta i valori su cui si fonda l’interazione digitale. L’interazione genera, attraverso gli applicativi informatici, nuovi prodotti, e nuove dimensioni della progettazione; delimita la forma dell’esistente, dell’abitare e del contestuale in un campo dove le forme dei comportamenti e le abitudini incontrano nuove categorie merceologiche, nuovi prodotti e nuovi servizi. Una dimensione prettamente progettuale ha influito sulla ricerca e lo sviluppo di sistemi compatibili, apprendibili e usabili. Richard Sennet1 ha proposto una schematizzazione utile a definire il campo e la caratteristica precipua del design: esso consiste nel formalizzare l’artificiale nelle sue varie articolazioni, da quelle immaginarie, a quelle prototipali e reali. All’interno di questo processo, un ulteriore orizzonte si è andato definendo grazie alle tecnologie digitali e all’uso di strumenti che consentono la connessione permanente ad operatori e utenti. La frontiera di questo nuovo campo industriale ed economico può essere identificato con la cosiddetta App economy. Si può sostenere in una prima approssimazione che essa è l’in-
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sieme delle attività economiche che riguardano le applicazioni software per dispositivi mobili e portatili. Lo sviluppo delle app ha creato nuove fortune imprenditoriali e sta cambiando il modo di operare, produrre e progettare nell’industria, negli affari e nella società nel suo complesso. L’economia delle App comprende la vendita di software, le entrate pubblicitarie, le relazioni generate dalle app stesse e i dispositivi hardware su cui le app sono progettate per funzionare. In modo più preciso la App economy esprime il sorgere di un vero e proprio ecosistema, il cui modello poggia su strati diversi; questi possono essere identificati come livelli di un’unica piattaforma2 su cui si innestano nuove strutture informatiche in grado di dialogare in modo continuo e in tempo reale. Gli stessi sistemi operativi mobili, come l’iOS e l’Android, rappresentano piattaforme di secondo livello, di un nuovo ambiente digitale; questo ambiente è un campo relativamente nuovo della produzione informatica, esso contribuisce in modo rilevante all’affermarsi di un nuovo concetto, quello di Infosfera3. Una combinazione dello spazio delle informazioni che unifica il mondo dei mass media tradizionali con quello delle telecomunicazioni digitali; il mondo di internet e quello che veniva indicato fino a pochi anni fa come cyberspazio; in sintesi l’integrazione dei canali di comunicazione digitali e dei dati accumulati nella loro interezza.
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Riprendendo la tesi del filosofo Luciano Floridi, docente di etica dell’informazione ad Oxford, possiamo intendere l’Infosfera come lo spazio semantico costituito dalla tota lità dei documenti, degli agenti e delle loro operazioni4, in questo senso si devono intendere per “documenti” tutte le tipologie di dato o informazione che sono codificate ed espresse in qualsiasi formato. Per “agenti” possiamo identificare le persone, le organizzazioni o le automazioni stesse (robot virtuali) in grado di agire, interagire, trasformare i contenuti e l’interpretazione di queste aggregazioni di dati. Il concetto di Infosfera nasce e si sostanzia simultaneamente all’affermarsi delle cosiddette Emerging Technology,
vale a dire tecnologie dell’emergenza o tecnologie dell’emersione. Queste si qualificano differentemente dalle tecnologie passate per le modalità attraverso cui si affermano: abbiamo concepito l’“emersione” come quella fase in cui gli attributi dell’emersione sono soggetti a cambiamenti radicali. L’impatto e la crescita possono entrare in una fase stabile o in declino, la tecnologia perde la sua radi cale novità, la conoscenza dei possibili risultati della tec nologia diventa più completa (le probabilità possono es sere assegnate ai risultati) e la comunità di pratica può consolidarsi. La tecnologia quindi entra in un periodo di “post-emersione”5. Tra le numerose tecnologie che hanno i caratteri dell’emersione, una delle principali è rappresentata dalla cosiddetta Internet of Things, ovvero l’internet delle cose. Dove dispositivi intelligenti sono collegati ad oggetti di uso quotidiano come il telefono, l’auto, l’orologio, la lavatrice o il frigorifero, il sistema domotico e di riscaldamento domestico, i sistemi di irrigazione oppure di stampa. I dispositivi dell’internet delle cose possono essere anche componenti di macchine e di sistemi complessi come un aeroporto, un aereo, una fabbrica, una sala operatoria, una piattaforma petrolifera oppure quelli di una stazione spaziale. L’intelligenza artificiale, la robotica, il blockchain, la biometrica, la realtà virtuale e la realtà aumentata, l’uso ampliato dei droni, l’elaborazione dei dati attraverso il cloud sono alcune delle Emerging Technology, queste sono identificabili attraverso alcuni attributi che ne caratterizzano i caratteri e le proprietà, come tecnologie radicalmente nuove e in crescita relativamente rapida, caratterizzate da un certo grado di coerenza che persiste nel tempo e con il potenziale per esercitare un notevole impatto sui settori socioeconomici osservati in termini di composi zione degli attori, delle istituzioni e dei modelli di intera zione tra di essi, nonché dei relativi processi di produzio ne della conoscenza. Il loro impatto più importante, tut tavia, risiede nel futuro e quindi nella fase di emersione è ancora alquanto incerto e ambiguo6.
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Alla fine degli anni Ottanta, meno dell’1% dell’informazione tecnologicamente archiviata era in un formato digitale, nel 2007 lo era in una percentuale del 94%7. Questo fenomeno, che ha prodotto una raccolta di dati così estesa per volume e varietà da richiedere tecnologie e nuovi metodi analitici, specifici per l’estrazione di valore e la costruzione di una conoscenza che sia in grado di usare i dati per la risoluzione di problemi reali, richiede in realtà una vera e propria nuova architettura delle informazioni. Il termine Big Data è utilizzato in riferimento alla capacità di estrapolare e mettere in relazione un’enorme mole di dati eterogenei, allo scopo di scoprire i legami tra fenomeni diversi e prevedere quelli futuri. Un esempio per tutti può essere rappresentato dai dati che le App rivolte alla navigazione forniscono circa il traffico stradale, a partire dalla condizione degli utenti, dalla loro velocità e posizione. Software specifici forniscono informazioni attendibili sugli itinerari da seguire, sui tempi previsti per compiere un determinato tragitto a chiunque ne avesse necessità. Ciò avviene in modalità sempre più attendibili grazie ai feedback che i singoli utenti concorrono a dare al sistema: questo esempio chiarisce bene che l’emersione […] è come il sorgere di strutture, modelli e proprietà nuove e coerenti durante il processo di auto-organizzazione in sistemi complessi. I fenomeni emersivi sono concettualizzati come fenomeni che si verificano a livello macro, in contrasto con le com ponenti e i processi a microlivello da cui derivano8. L’esempio descritto fornisce in modo semplice il rapporto che esiste tra il livello micro dei comportamenti del singolo utente e l’insieme predittivo emersivo del sistema, quello sullo stato del traffico in un determinato tragitto o in un determinata area urbana, oppure nell’insieme globale della rete stradale mondiale. Negli stessi anni in cui entra in crisi il sistema finanziario analogico, basato sul valore proiettato dei beni durevoli, nasceva e si sviluppava la seconda ondata della cosiddetta rivoluzione digitale. In questo quadro le possibilità offerte dalle App di accedere a bacini di dati sempre più grandi hanno
generato una nuova strumentalità delle applicazioni informatiche: le App possono essere immaginate come porte che consentono accesso a volumi grandi di dati non più gestiti da un singolo programma, ma le cui funzionalità possono essere definite e circoscritte. La vera questione epistemologica con i big data è quella di disporre di pattern (strutture) di piccola scala9. Se l’epoca della prima economia digitale si fondava sul fornire capacità computazionali al sistema industriale tradizionale, la seconda si basa sulla virtualizzazione del valore di beni fisici e il superamento di una produzione di valore basata esclusivamente su beni materiali tangibili. Le materie prime, i beni di consumo e la capacità energetica sono progressivamente soppiantati da servizi, piattaforme di commercio e processi di distribuzione virtuosi e circolari. Per un verso è cambiata radicalmente la leadership industriale mondiale e un universo nuovo di prodotti e servizi ha visto la luce, ma per altro si è modificato il senso e la funzione stessa delle capacità computazionali. Se infatti i dati rappresentavano il motore dei sistemi (industriali, economici e di servizio), oggi esse ne sono diventate la materia prima, la miniera da cui estrarre le informazioni (data mining) di cui abbiamo bisogno per poter operare. Il sistema delle piattaforme digitali non resta confinato più entro la produzione di tecnologie, informatiche e digitali, ma pervade tutta la sfera produttiva, trasformando in modo irreversibile il funzionamento dell’industria, la dimensione del progetto e quello della vendita e del consumo. Al tempo stesso questa rivoluzione ha impattato in modo pervasivo la vita quotidiana, la dimensione dei bisogni e più profondamente il livello di coscienza sociale che le comunità umane sono in grado di esprimere. Come è ovvio, l’unica credibile asserzione sul predire il futuro è che è facile sbagliarsi. Chi l’avrebbe detto che, venti anni dopo il flop di Newton della Apple, la gente avrebbe fatto la fila per acquistare un iPad? Talora, oc corre aspettare che la mela giusta cada sulla nostra testa. L’“Internet delle cose”, in cui tecnologie di terzo ordine operano indipendentemente dagli utenti umani, sembra
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un frutto pendente abbastanza maturo da meritare at tenzione. La prossima rivoluzione non sarà lo sviluppo verticale di qualche nuova sconosciuta tecnologia ma uno sviluppo orizzontale, dal momento che riguarderà il connettere tutto a tutto (a2a), e non soltanto gli esseri umani agli esseri umani10. Dunque la nascita di una nuova economia corrisponde all’abbandono di un sistema classico, dove la produzione rappresenta il centro attorno a cui si innestano le spinte innovative e creative, dove alla sequenzialità delle fasi di progettazione-produzione-vendita e consumo si è andata sostituendo una circolarità in cui sempre più spesso la progettazione e la vendita anticipano il momento della produzione. Basti qui pensare a tutte le principali start-up cosiddette unicorn11 (Airb&b, Uber, Dropbox etc.) e alla proliferazione delle piattaforme di crowdfunding (finanziamento collettivo, processo collaborativo teso a sostenere nuove idee d’impresa). La distribuzione e il consumo divengono gli elementi centrali delle dinamiche economiche e tutto il sistema della comunicazione subisce una profonda trasformazione che investe il mondo dell’informazione, la pubblicità e le filiere di distribuzione di beni e servizi. Queste piattaforme digitali sono diverse per funzione e struttura. Google e Facebook sono piattaforme digitali che offrono ricerca e social media, ma forniscono anche un’infrastruttura su cui sono costruite altre piattaforme. Amazon è un mercato, così come Etsy ed eBay. Amazon Web Services fornisce infrastrutture e strumenti con cui altri possono costruire altre piattaforme. Airbnb e Uber utilizzano questi nuovi strumenti cloud disponibili per forzare cambiamenti profondi in una varietà di aziende esistenti. Insieme stanno provocando la riorganizzazio ne di un’ampia varietà di mercati, le modalità di lavoro e, in ultima analisi, la creazione e la cattura del valore aggiunto12. Nel 2007, tra le prime dieci aziende del mondo per capitalizzazione, sei si occupavano di energia, al settimo posto
compariva la Microsoft, seguivano la General Eletrics e la Nestlè. Nell’arco di un decennio il panorama si è completamente ribaltato e oggi nel 2019, sette delle prime dieci aziende del mondo sono direttamente produttrici di tecnologie digitali, in particolare di quelle legate alla diffusione dei sistemi mobili e alla diffusione pervasiva dell’accesso alla rete prodotta dalla diffusione degli smartphone. Apple, Alphabet, Amazon e Facebook, grazie alla diffusione degli smartphone, all’uso dei social network e alla esplosione dell’e-commerce hanno trasformato un mercato di nicchia in un fenomeno di massa. Il successo di queste esperienze è rintracciabile in una applicazione costante dei principi e dei metodi conquistati dal campo del design, da quando questo si è andato orientando allo studio dei processi piuttosto che alle forme dei prodotti. Se il design è storicamente caratterizzato dall’essere atopico, l’affermarsi di una dimensione nuova degli artefatti digitali spinge verso un ulteriore aggiornamento di questo concetto, che può essere identificato con il principio della ubiquità. La definizione di design ha subito una progressiva modificazione del suo significato originale, il design, nella sua accezione di predicato, ha assunto un significato più chiaro ed al tempo stesso più ampio. Per lungo tempo e in particolare in alcune posizioni culturali che oggi possiamo definire come classiche, l’idea di design era esclusivamente associata alla costruzione dei contenitori, degli involucri, di costruzioni auto-consistenti, di forme organizzate essenzialmente per mascherare le funzioni che contenevano, di contenitori in parte indipendenti dal contenuto. Oggi attraverso nuovi artefatti complessi, di cui le App rappresentano l’epifenomeno principale, è evidente come queste siano un accesso diretto ai contenuti, come se matita e libro coincidessero, come esse rappresentino contemporaneamente gli strumenti e il deposito della conoscenza. Gli artefatti digitali complessi non hanno forma ma permettono di accedere direttamente al contenuto, alle profondità desiderate. Questo carattere del modo in cui il digi-
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tale sta evolvendo esprime l’inconsistenza della nozione di separazione e confine tra i livelli cognitivi, quelli informativi e quelli gestuali; essa impone il superamento della divisione tra astratto e concreto, tra pensiero pratico e fare teorico, tra la dimensione analogica e quella digitale; mette in crisi l’idea mono-dimensionale che è alla base del razionalismo ingenuo. L’architettura delle informazioni, la tecnologia e i metodi del design concorrono ad una inedita attualizzazione delle riflessioni fenomenologiche dell’antropologia, dell’archeologia e della filosofia, rendendo di nuovo attuale il parallelismo tra sviluppo della manipolazione e sviluppo del linguaggio. Bateson, MacLuhan, Sennett si erano soffermati sul legame tra esperienza pratica e capacità di articolazione: oggi la rappresentazione plastica di questa relazione può essere ribaltata nelle osservazione delle simmetrie fisiche del corpo e nelle asimmetrie virtuali delle abilità. Otl Aicher13, a partire da una rilettura decontestualizzata della casa progettata da Wittgenstein, ridefiniva la conoscenza come inverso del fare, e ricostruiva la funzione che l’esperienza architettonica unica del filosofo austriaco dimostra ai suoi occhi e cioè che il concreto precede l’astratto, che la verità viene prima della conoscenza, che la visione delle cose anticipa la ragione e i modi in cui le organizziamo. Il problema comune tra design, architettura e filosofia è come il pensare e il fare si relazionano l’un l’altro, e come queste due attività principali dell’uomo siano orientate al soddisfacimento della domanda fondamentale su come progettare il mondo futuro. Immersi nel fare design abbiamo riscoperto come l’uso sia all’origine della percezione, e quanto il fare sia un prerequisito del pensiero.
R. Sennet, L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano 2008. N. Srnicek, Platform Capitalism, Wiley, 2016. 3 L. Floridi, La quarta rivoluzione, come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017, p. 16. 4 L. Floridi, Infosfera, in Internet & Net Economy, a cura di Vito di Bari, Il Sole 24-Ore Libri, Milano 2002. 1
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5 D. Rotolo, D. Hicks, B.R. Martin, What is an emerging technology?, in «Research Policy», vol. 44, n. 10, dicembre 2015, pp. 1827-1843. Disponibile https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?ab stract_id=2564094, 2015. 6 Ibidem. 7 M. Hilbert, P. López, The World’s Technological Capacity to Store, Communicate, and Compute Information, in Science, vol. 332, n. 6025, aprile 2011, pp. 60-65, Disponibile https:/science.sciencemag.org/content/332/6025/60. 8 J. Goldstein, Emergence as a construct: History and issues. Emergence, 1, pp. 49-72, 1999. Disponibile https://www.researchgate.net/publication/243786253. 9 L. Floridi, op. cit. 10 Ibidem. 11 Per Unicorn company si intendono le start-up con valore superiore al miliardo di dollari. 12 M. Kenney, J. Zysman, The Rise of the Platform Economy, in «Issues in science and technology», Arizona University, 2016. 13 O. Aicher, Analogous and Digital, (1991), Wiley Ernst & Sohn, Berlino 2015.
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Essere designer: ruoli e dinamiche al confine con l’arte CHIARA SCARPITTI
Il dialogo ininterrotto tra arte e design L’arte e il design sono da sempre in una relazione complicata. Da quando il concetto di riproducibilità tecnica, analizzato per la prima volta da Walter Benjamin1, ha incrinato “l’aura legata all’opera d’arte”, tutto è cambiato. L’instaurarsi tra il mondo del progetto e quello dell’arte di un dialogo fatto di interscambi e connessioni, ha condotto l’arte verso il disincanto del pezzo unico, e viceversa il design a interrogarsi sulle sue modalità di indagine. La questione continua ad essere attuale, poiché se è vero che il principio di riproducibilità che l’industrializzazione ha portato con sé ha eliminato l’hic et nunc dell’opera d’arte, è vero anche che in un contesto post industriale, quale quello attuale2, il design si distacca sempre più dai suoi storici principi di categorizzazione. A conferma di questo dialogo ininterrotto, in Valore estetico del disegno industriale Gillo Dorfles scrive: Non è possibile, in altre parole, pre scindere ormai dal considerare come determinante l’in flusso del prodotto industriale su tutto quanto il panora ma dell’arte visuale contemporanea, sia che questa cer chi di imitare, di “scimmiottare”, l’oggetto industriale, sia che se ne serva per includerlo nelle proprie costruzio ni o per valersene come “simbolo” della nostra epoca: tutte le opere più interessanti della pittura degli ultimi
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cinquant’anni – da Rauschenberg a Lichtenstein, da Le Parc a Fontana, da Warhol ad Arman – non sarebbero concepibili senza la presenza di un influsso diretto o in diretto dell’oggetto industrialmente prodotto3. Ma se l’arte si è interrogata sul come e se mantenere il carattere di unicità dell’opera, o al contrario provare a conciliare il proprio linguaggio con una dimensione di riproducibilità, nel design, che per sua natura è sempre stato più vicino alle esigenze della massa, quest’idea di unicità è stata percepita con sospetto. Nel 1971, in Artista e Designer, Bruno Munari separa gli ambiti in maniera netta, comparandone le pratiche, le metodologie, gli intenti, il sistema intero che li rappresenta. Mentre l’artista, se deve progettare un oggetto d’uso lo fa nel suo stile, il designer non ha stile alcuno e la for ma finale dei suoi oggetti è il risultato logico di una pro gettazione che si propone di risolvere nel modo ottimale tutte le componenti di un problema progettuale (…) non è quindi l’élite il pubblico al quale il designer si rivolge, bensì tutto il grande pubblico dei consumatori. (…) l’ar tista lavora in modo soggettivo per sé stesso e per una élite, mentre il designer lavora in gruppo per l’intera co munità (…)4. L’attuale superamento storico di tale condizione interessa sia la visione del designer – che nella contemporaneità si configura come personale e unica – che il rapporto con il pubblico che non è più quello di una massa informe, poiché ipersegmentato in micro nicchie di mercato aventi specifiche esigenze. I bisogni sono mutati e il concetto di funzionalità è stato sorpassato da un’evoluzione degli oggetti d’uso che vanno ben oltre le necessità base. Come afferma Pierre Restany in Storia del plusvalore estetico, l’attuale industria creativa, sofisticata e complessa, corrisponde a dei bisogni cosiddetti “più”. Nel comparare arte e produzione, Restany sottolinea come gli oggetti di design che abbiano effettivamente questo valore aggiunto condividano anche sempre qualcosa col campo artistico, per materiali, tecniche, processi, simbologie.
Gli oggetti postmoderni non si fermano al soddisfaci mento delle funzioni primarie, vanno oltre, inventano nuovi bisogni, più complessi e raffinati5. Gli oggetti “più” non sono prodotti che assolvono funzioni prestabilite e chiuse in sé stesse, ma sono provvisti di una spiritualità particolare e assumono, nella vita dell’uomo, finalità che lo spirito funzionalista del secolo scorso aveva sempre guardato con diffidenza. Questa evoluzione del design verso scenari e significati complessi ne modifica le linee di confine in maniera conforme ad una contemporaneità sempre più tesa a una customizzazione totale del prodotto. La comprensione dunque della relazione tra progetto-industria-oggetto passa attraverso rinnovate modalità d’indagine che svincolano il design dall’esclusivo appellativo di “industrial”, verso altre interpretazioni più inclusive. È in questa prospettiva che la crisi del prodotto industriale, in relazione al suo cambiamento “ontologico” e di ambiti della ricerca, apre prospettive favorevoli ad un design indipendente e autoprodotto. Un’apertura che si amplifica con l’introduzione di nuovi criteri del progetto del tutto affini al mondo dell’arte quali: la serie numerata o il pezzo unico, il collezionismo, l’adozione di materiali e tecniche ibride e trans-mediali, la spettacolarizzazione della ricerca, la performance. Il rinnovato valore di senso che un design cosi concepito porta con sé, fa sì che gli oggetti possano permettersi “il lusso” di non dichiarare in maniera primaria la loro natura utilitaria, a favore di una più affascinante apparenza. Al di là di un criterio di efficienza dell’oggetto – che è dato come acquisito – il design abbraccia una sensibilità più complessa, lontana da un principio di stampo razionalista, e conduce ad uno spiazzamento da parte dei consumatori, stimolandoli a riflessioni più profonde. La fruizione stessa dell’oggetto risulta ribaltata rispetto ad una sua passata concezione per la quale: Il consumo di un’opera d’arte è spirituale mentre il consumo dell’oggetto è materiale e conduce al suo logorio e distruzione6.
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In questa prospettiva, la differenza tra consumo intellettuale e consumo fisico svanisce nel momento in cui il designer inizia a preoccuparsi di tutte quelle componenti emotive, concettuali e filosofiche che riguardano il rapporto uomo-oggetto. Operazioni di questo tipo – estetiche, materiche e di senso – sono del tutto simili a quelle esercitate dagli artisti e in quest’ottica, design e arte, ancora una volta, si osservano a vicenda. Sto meditando, non toccatemi
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Arte e design trovano un terreno comune in molti degli oggetti che hanno caratterizzato la storia del design italiano. Al confine tra sensibilità artistica e dimensione scientifica della ricerca, il design italiano si nutre di questa dicotomia e la converte in prodotti sovente caratterizzati da aspetti poetici e tecnologici insieme. Inquadrare il design italiano all’interno di questa duplice cornice significa rinsaldare le matrici culturali e artistiche che hanno influito su questi oggetti. Matrici fatte di miti, ritualità estetiche simboliche, e più in generale dense di una sensibilità di pensiero che trae le sue ragioni nelle relazioni con le comunità dei luoghi e l’autenticità dei territori e delle maestranze artigianali. Il design italiano non abbandona mai il suo legame con una dimensione antropologica dell’abitare, e numerosi progetti firmati da alcuni dei suoi più grandi maestri – come Ettore Sottsass, Alessandro Mendini, Andrea Branzi, Riccardo Dalisi, Marco Zanuso – testimoniano l’importanza di quest’aspetto. Tra le innumerevoli ricerche che hanno in qualche modo sancito un legame con il mondo dell’arte, prendiamo ad esempio due icone del design come la poltrona “Proust” di Alessandro Mendini per Cappellini e il televisore “Black 201” di Marco Zanuso e Richard Sapper per Brionvega. In ambedue gli oggetti, datati intorno agli anni ’70, al culmine del movimento Radical, vi è il tentativo di andare oltre un criterio di funzionalità dell’oggetto, per abbracciare una sensibilità estetica insolita e distante da un concetto di de-
sign meramente funzionale. Entrambi i progetti si presentano come frammenti di un pensiero forte e radicato: l’uno nel dialogo tra tecnologia e mistero, l’altro nella relazione tra decorazione e sapere letterario. Il televisore “Black 201” non a caso esce un anno dopo la pellicola di Kubrick “2001: Odissea nello spazio”. Con la sua forma di totem metafisico, sembra mutare il suo stato ontologico, da oggetto a soggetto del quotidiano. Nella sua imperscrutabilità e cromia nera assoluta, trasforma il dialogo tra uomo e tecnologia e si pone come un anticipatore di alcune tendenze tecnologiche del contemporaneo. Oltre ad essere perfettamente in linea con le tendenze artistiche della minimal-art di Donald Judd e Carl Andre, l’immagine archetipa di scatola chiusa cela ogni elemento meccanico e incita un’ambiguità funzionale. Lo stesso senso di straniamento è generato dalla poltrona “Proust” di Mendini, che attraverso un iper-decorativismo dei tessuti, produce un modo nuovo di guardare all’oggetto. Nel titolo, Mendini si rifà dichiaratamente all’immaginario proustiano, per similitudine con il lessico baroccheggiante e dettagliato. Una volontà – quella di non abbandonare l’ornamento – che ritorna anche in uno dei suoi ultimi lavori intitolato “Le mie prigioni”: Da molto tempo, anzi da sempre, ho la percezione di vivere chiuso dentro a una prigione. Sconto l’ergastolo per il reato di “ornamento”. Mi trovo in una stanza in troversa, un perimetro bloccato, uno spazio mentale in valicabile. […] Imprigionato nell’incubo, nella tortura, nell’allucinazione, nella voragine della decorazione7. In ambedue gli approcci, la dimensione estetica e speculativa esplora le relazioni tra l’uomo e l’oggetto, in un’ottica di dialogo di natura filosofica. Al di là della loro valenza pratica, s’impongono come dispositivi per una riflessione più ampia, che abbraccia anche i valori dell’inconscio, del mistero, dell’empatia, umani. Anche nel lavoro di Sottsass le analogie con l’arte sono manifeste e raccontate esplicitamente nei suoi scritti. Il viaggio, le esperienze totalizzanti nella natura, la sua di-
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mensione contemplativa, sono tutte caratteristiche che veicolano una modalità molto personale del designer di rapportarsi al progetto. Dalle collezioni in ceramica, ai mobili, ai gioielli, fino alle maschere-scultura – il suo ultimo lavoro del 2006 – Sottsass non abbandona mai la propria visione del mondo. In questo senso è vero che le maschere di Sottsass, disegnate nell’isola di Filicudi l’estate del 2006, sono oggetti magici. La prima si chiama “Sto meditando non toccatemi” e rappresenta forse uno spinoso sciamano con occhi rovesciati verso l’interno, in raccoglimento. Nella seconda “Guardo il mare”, sopra una rosea bocca sorridente, lo sguardo di immensi occhi azzurri diventa l’oggetto stesso della contemplazione. La terza maschera si chiama “La mia anima” ed è la vera unica maschera che coprendo svela l’incomprensibile generale mistero8. Dal simbolico al sacro, dal segno immateriale alla semplicità non banale: Come in nessun altro paese dunque l’abitare è visto come un territorio sperimentale, dove si svolge un’incessante ricerca di un assetto definitivo che non si realizza mai, cosi scrive Branzi nel catalogo alla mostra “Che cosa è il Design italiano?”, riassumendo il senso del progetto italiano in sette ossessioni tra cui il Teatro Animista, la Sacralità del Lusso e i Grandi Semplici9. Nel 2010, pochi anni dopo, alla Triennale di Milano Branzi cura “Independent Design Secession” dove espone “I Grandi Legni”, mobili-scultura simili ad assemblaggi totemici, che ricompongono su un equilibrio precario teschi, ossa, radici, piccole sculture metafisiche. La mostra, in antitesi con una tradizionale visione di stampo razionalista, suggerisce una rifondazione del senso del progetto, che trova le sue ragioni su di un piano di riflessione privato e personale. Lontano dalle logiche di una serialità fatta di grandi numeri, i progettisti sono chiamati a confrontarsi con i temi della morte, del sacro, dell’inconscio, per dar vita ad una rara e profonda speculazione filosofica sul significato del proprio lavoro. Come scritto nel catalogo, il design non propone certezze ma nuovi pro
blemi, e acquista una profondità drammaturgica che ri specchia la complessità della nostra contemporaneità, in cui la crisi rappresenta l’unica possibile condizione di crescita10. Il sistema emergente del Collectible Design Esistono grandi quadri o sculture che non sono opere d’arte e piccoli oggetti che invece lo sono. Se accettiamo che non ha più senso parlare in termini di grandezza o medium e secondo ambiti disciplinari circoscritti, è chiaro che il design non ha più esitazioni per irrompere nel mondo dell’arte e viceversa. L’attuale tendenza internazionale del Collectible Design conferma la possibilità di una ricerca di design indipendente che si muove in un circuito economico fatto di gallerie, collezionisti e fiere, contraddicendo in parte quello che finora ha caratterizzato le tradizionali pratiche del progetto. L’espandersi di questo fenomeno – che germina dal design autoprodotto ma non si conclude in esso – è il risultato di una serie di concause quali, la precarietà del lavoro, l’incertezza dei mercati, la discontinuità delle relazioni con le aziende, l’esigenza di distinguersi da un’immagine di progettazione standardizzata, l’emergere delle metodologie transdisciplinari. Nel 2013, il collettivo “Cantiere per pratiche non affermative” pubblica il dossier di denuncia “Designers’ Inquiry: un’inchiesta sulla condizione socio-economica dei designer in Italia”, che mette in luce le oggettive difficoltà della professione. Lo stesso collettivo, attraverso una serie di conferenze e workshop, con il supporto di università e centri di ricerca, prova a fare chiarezza su alternative modalità d’espressione, al fine di creare un sistema attivo, consapevole dei propri sviluppi futuri11. La crisi sistemica, ormai divenuta permanente12, ha fatto sì che la mancanza di una struttura economica stabile potesse essere da stimolo per la nascita di una diversa modalità del fare design, lontano dall’industria e dai numeri di un’i-
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perproduzione di massa. La mostra del 2014, presso la Triennale di Milano “Il design italiano oltre le crisi. Autarchia, Austerità, Autoproduzione” a cura di Beppe Finessi, definendo con il termine autarchico questa specifica situazione, mette in scena diversi progetti che testimoniano questa tendenza13. Tra gli oggetti esposti, vi sono molti pezzi unici o in serie limitata, realizzati con materiali inconsueti e difficilmente riproducibili come, ad esempio, carboni fossili, vetri soffiati, resine con particolari texture, ceramiche artigianali, materiali organici deperibili. Questi oggetti, manifesti di un pensiero personale dell’autore, esprimono una ricerca transdisciplinare al confine tra arte e design che implica un elevato grado di elaborazione concettuale e di esecuzione tecnica e trovano il loro spazio economico e di comunicazione proprio all’interno di un circuito composto da critici e curatori, in analogia al sistema dell’arte. In un’ottica di trasformazione rispetto a quanto affermato da Munari in Artista e Designer. Quasi sempre l’opera dell’artista è sostenuta dalla critica d’arte. […] Tutto questo dovrebbe avere anche la funzione di spiegare, con chiarezza, alla gente i vari pro blemi che si pongono gli artisti cosi che la gente possa capire e partecipare attivamente. […] L’opera del desi gner, invece, non ha bisogno del sostegno della critica […] Agli effetti della presentazione al pubblico degli og getti di design, è sufficiente che siano accompagnati dal le istruzioni per l’uso14. Il superamento di questa posizione trova conferma anche con la nascita di contesti istituzionali pubblici e privati quali Musei e Fondazioni dedicate, oltre a Fiere indipendenti tra cui, in Italia, troviamo “Operae” a Torino e la più giovane, “Edit”, che ha inaugurato quest’anno a Napoli. Nel manifesto di “Operae” si legge che: fa convergere pubblico e addetti ai lavori attorno a progetti accomuna ti da una particolare attenzione nei confronti della mate ria così come del processo e della tecnica produttiva. […] Articolata in due sezioni rispettivamente dedicate ai de
signer e alle gallerie di design contemporaneo, la fiera offre l’opportunità di scoprire prodotti, prendere nota dei fenomeni emergenti, seguire l’evoluzione del merca to del design da collezione, entrare in contatto con gli attori del processo […] Oltre a essere un incubatore di storie, “Operae” mette in luce approcci sperimentali, in novativi e multidisciplinari, consentendo agli espositori di vendere i propri prodotti e ai visitatori di acquistare pezzi unici o realizzati in serie limitata15. Il consolidarsi di un sistema di questo tipo offre a una nuova generazione di designer, “quella degli anni Zero” cosi come definita da Chiara Alessi16, la possibilità di esporre i propri oggetti, prendere contatti diretti con il pubblico, instaurare rapporti e speciali committenze con le singole gallerie. Il più delle volte per queste produzioni non esiste un mercato massificato e i loro interlocutori si trovano ai vertici della filiera del design: musei specifici, concept-store, gallerie orientate al design, collezionisti privati, sono tutti attori già interni a una comunità allargata e internazionale, alla ricerca di una progettualità altamente visionaria, in grado di generare nuove conoscenze ed esperienze d’uso. Questo è il caso di numerosi studi di design italiani tra cui citiamo i FormaFantasma che collaborano stabilmente con la Galleria Giustini Sagetti a Roma, Andrea Anastasio che collabora con la Galleria Luisa delle Piane a Milano, Studio Nucleo rappresentato dalla Nilufar Gallery, Marcantonio Raimondi Malerba che collabora con Rossana Orlandi o ancora Elena Salmistraro, rappresentata dalla Camp Design Gallery. Questi esempi rappresentano solo l’apice di un panorama più esteso fatto di esposizioni collettive e itineranti, piccole produzioni in serie limitata, talk e performance di varia natura, sparse sul territorio nazionale e internazionale. Le istanze trasversali del contemporaneo Nell’affrontare le istanze trasversali alla contemporaneità, quali ad esempio la sostenibilità ambientale, il dibat-
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tito politico, le emergenze sociali, il rapporto con le nuove tecnologie, designer e artisti, in ugual misura, sono intenti a immaginare progetti intesi come dispositivi culturali. Le affinità si evincono in più elementi della loro pratica oltre che nella scelta dei temi d’interesse: nei materiali – ibridi, reinventati, organici o digitali –, nelle tecniche manifatturiere – industriali e artigianali insieme –, nella comunicazione del progetto stesso e nella sua diffusione. In questi casi, il racconto del processo è importante quanto il risultato finale: i lavori sono accompagnati da testi critici, fotografie di work in progress e scenari interpretativi, che ne svelano le complessità e ne dimostrano la singolarità. Una singolarità che è indissolubilmente legata alla visione del singolo autore. Similmente alle logiche dell’arte, svanisce la visione positivistica secondo cui il designer è un risolutore di problemi. Il designer-artista mette in scena una differente capacità del progetto di agire nella realtà operando una sensibilizzazione collettiva finalizzata a nuovi comportamenti e interazioni uomo-mondo. In un recente articolo, parlando dell’aggressività della parola prodotto che, infaustamente, viene applicata al design e che Mendini rifiutava in modo netto, Andrea Anastasio racconta: Pochi mesi fa ho avuto il dono di passarci una giornata intera insieme, passeggiando per Roma, visitando delle mostre di pittura e dialogando libera mente su Alchimia, sul design banale, sul mobile infinito e sulla realtà del progetto dei nostri giorni. A un certo punto, con un sorriso dolce e con gli occhi sgranati di un bambino, mi ha parlato del disagio che provava il più delle volte a sentirsi definire una cosa oppure un’altra, un designer oppure un architetto o un artista. Ecco, il suo modo di stare al mondo per me è stato sempre un incoraggiamento a non temere la complessità ma a ve derla, piuttosto, come una possibilità di ascolto degli al tri e della natura, degli uomini e del loro fare: una pro spettiva di apertura e di contributo ludico alla serietà del sapersi mortali17.
1 W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit. (1996). L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1955. 2 L. Imbesi, Il Design nell’economia della post-produzione, in V. Cristallo, S. Baiani, S. Santangelo (a cura di), Lectures. Design, pianificazione, tecnologia dell’architettura, Redesignpress, Roma 2014. 3 G. Dorfles, Le oscillazioni del gusto. L’arte d’oggi tra tecnocrazia e consumismo, Skira, Milano 2004, p. 114. 4 B. Munari, Artista e designer, Universale Laterza, Bari 1971, p. 28. 5 P. Restany, Arte e Produzione, Arti Grafiche Colombo, Milano 1990, p. 83. 6 A. Mecacci, Estetica e design, il Mulino, Bologna 2012. 7 A. Mendini, Le mie prigioni, in B. Finessi, Stanze. Altre filosofie dell’abitare, Marsilio, Milano 2016, p. 375. 8 B. Radice, 10 anni con Ettore, Galleria Clio Calvi Rudy Volpi. Retrieved June 1, 2019, from https://www.cliocalvirudyvolpi.it/10anni-ettore, 2009. 9 A. Branzi, Che cosa è il Design italiano? Le sette ossessioni, Catalogo Triennale Design Museum, Electa, Milano 2008, p. 156. 10 A. Branzi, Introduzione. Independent Design Secession, Catalogo Triennale Bovisa, Electa, Milano 2011. 11 Cantiere per pratiche non affermative, Designers’Inquiry. Retrieved June 1, 2019, from http://pratichenonaffermative.net, 2013. 12 S. Zizek, Welcome to Interesting Times! (ed. 2012), Benvenuti in tempi interessanti, Ponte delle Grazie, Milano 2010. 13 B. Finessi, TDM7: Il design italiano oltre le crisi. Autarchia, austerità, autoproduzione, Corraini, Mantova 2014. 14 B. Munari, Artista e designer, Universale Laterza, Bari 1971, p. 81. 15 Operae, Retrieved June 1, 2019, from http://operae.biz/about/ operae/, 2018. 16 C. Alessi, Dopo gli anni zero. Il nuovo design italiano, Universale Laterza, Roma 2014. 17 A. Anastasio, La necessità del dubbio. In memoria di Alessandro Mendini. Retrieved June 1, 2019, from https://www.artribune. com/professioni-e-professionisti/who-is-who/2019/03/alessandromendini-ricordo-andrea-anastasio/, 2019.
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Libri, riviste e mostre
A. Castagnaro, Napoli e la cultura architettonica internazionale 1974-1991. Mostre e convegni di Camillo Gubitosi e Alberto Izzo, CLEAN Edizioni, Napoli 2019. Tra il 1974 e il ’91 Camillo Gubitosi e Alberto Izzo, docenti della Facoltà di Architettura del l’Università Federico II di Napoli, furono artefici di una serie di mostre e di convegni che scrissero una pagina imprescindibile per lo sviluppo della cultura architettonica partenopea la quale, grazie al contributo di questi eventi, aprì le proprie porte al sapere architettonico internazionale. Ma c’è di più; dopo il Ventennio fascista in cui Milano era considerata la capitale del Razionalismo e il secondo dopoguerra durante il quale Roma era sotto i riflettori per il suo vangelo “or ganico”, con l’inaugurazione di questi innovativi eventi fu Napoli a guadagnare il “titolo” di capofila della modernità internazionale divenendo il centro della cultura architettonica italiana per quasi vent’anni. Come osservato da Jo-
seph Rykwert, infatti, Improvvi samente e inaspettatamente l’attenzione si è spostata su una serie di splendide mostre che non hanno avuto rivali altrove in Italia o in nessun altro luogo per il loro argomento, Napoli mostrò il massimo della moder nità internazionale per oltre un decennio. A partire da una esposizione di Walter Gropius nel 1974, fino alla mostra su Le Corbusier e alla laurea “Hono ris Causa” di Richard Meier del 1991. Questi eventi attras sero “pellegrini” in centinaia se non migliaia! A distanza di ventotto anni dal l’ultimo evento curato dai due architetti, Alessandro Castagnaro riporta all’attenzione il loro minuzioso lavoro nel libro Napoli e la cultura architettonica internazionale 1974-1991. Mostre e convegni di Camillo Gubitosi e Alberto Izzo, edito dalla CLEAN. Il volume, presentato lo scorso giugno a Palazzo Gravina, sede storica della Facoltà di Architettura di Napoli, si divide essenzialmente in tre parti: la prima introduttiva in cui sono presenti,
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insieme ai contributi istituzionali del Rettore Gaetano Manfredi e del Direttore del DiArc Mario Losasso, i saggi di Renato De Fusco, Joseph Rykwert e Pasquale Belfiore; la seconda dedicata ad un’interessante intervista condotta dall’autore a Camillo Gubitosi ed Alberto Izzo; la terza parte, infine, intitolata “Antologia”, racconta una ad una le mostre organizzate dai due docenti riportando all’interno del testo, oltre le locandine originali dei singoli eventi, le immagini corrispondenti esattamente a quelle esposte in occasione delle mostre. Gubitosi e Izzo curarono in totale circa quindici mostre portando a Napoli non solo, come accennato all’inizio, la conoscenza della cultura europea e d’oltreoceano dei grandi Maestri del Movimento Moderno, ma anche testimonianze in scritti e interviste degli stessi protagonisti, rendendosi così autori, citando lo stesso Castagnaro, di un’istantanea sul fermento culturale del tempo, sulla passione e l’interesse che alimentava il dibattito architet tonico. Certo, non è possibile affermare che alla metà del Novecento non si conoscesse in Italia quanto si era prodotto all’estero, né che a Napoli fosse mancata una scuola razionalista, basti pensare, infatti, al lavoro svolto da architetti quali Luigi Cosenza, Carlo Cocchia e Giulio De Luca, rappresentanti di un momento cruciale della storia dell’architettura partenopea; era mancata sicuramente, però, la testimonianza tangibile dei progettisti stranieri, come era invece avvenuto per pittori e scultori provenienti da scuole estere con sede a Napoli. Le mostre ebbero come ogget-
to, quindi, argomenti diversi: dai grandi Maestri del Movimento Moderno (Le Corbusier, Walter Gropius, James Stirling, Louis Kahn, Frank Lloyd Wright), ad importanti temi della cultura americana (Cento anni di architettura a Chicago, Evoluzione dei grattacieli di Chicago, Five Architects di New York); dall’attività di personaggi olandesi (Van den Broek e Bakema), a quella di architetti apparentemente minori e quasi del tutto trascurati dalla storiografia contemporanea (Pietro Belluschi e Eduardo Fernando Catalano). Ma, precorritrice di questi eventi napoletani, fu la mostra “Naples & its region” tenutasi a Boston nel 1972 e curata da Camillo Gubitosi e Alberto Izzo i quali, in quegli anni, prima del loro ritorno alla città natale, frequentavano l’ambiente lavorativo americano. L’intento della mostra era portare l’architettura, la pittura, la scultura, la musica e il teatro napoletani in America e, come raccontato dagli stessi artefici, il pubblico americano fu colpito dal clima culturale generale che Napoli e il suo territorio espri mevano in quel momento: un clima estremamente dinamico, che scaturiva dal fermento e dalla vivacità che attraversava no la città e che coinvolgeva tutti i linguaggi artistici. Fu così quindi che, sulla scia del successo della mostra bostoniana, si innescò, a distanza di pochi anni, l’organizzazione dei successivi eventi napoletani apprezzati a tal punto che, come osservato da Renato De Fusco, Na poli divenne il centro della cul tura architettonica d’Italia e Palazzo Gravina divenne l’ago
rà per l’incontro internazionale di chi professava o semplice mente amava la nostra arte. A beneficiare, tra gli altri, del fermento che venne a crearsi intorno alle mostre e ai loro artefici, furono sicuramente gli studenti della Facoltà di Architettura i quali, non solo vissero l’ascesa di Napoli nel mondo culturale e architettonico italiano, ma parteciparono attivamente anche all’allestimento e alla preparazione degli eventi per volere degli stessi docenti. Come racconta Alberto Izzo nell’intervista contenuta nel volume: Ci rendevamo conto, tuttavia, che i nostri studenti non avevano tutti quel bagaglio di conoscenze che era necessa rio per comprendere e valutare il fenomeno del Moderno nella complessità dei suoi aspetti. L’i dea delle Mostre, quindi, è nata da questa esigenza di documen tare – attraverso l’opera di pro tagonisti di primo piano della vicenda del Movimento Moder no – il processo di sviluppo di un modo di concepire l’archi tettura che ha avuto profonde ricadute sulla forma della città del Novecento; avevamo l’ur genza di allargare il più possibi le per i nostri studenti – ma an che per tanti colleghi nostri coe tanei o più giovani – le possibi lità e gli strumenti per com prendere la portata di questioni di così grande rilievo per l’ar chitettura in quel particolare momento storico. Affiancati, quindi, dagli studenti dei loro corsi, Gubitosi e Izzo coordinarono l’intera organizzazione delle mostre curandone ogni aspetto, dal reperimento del materiale da esporre, compiendo viaggi, prendendo contatti con i personaggi
protagonisti delle mostre o con i responsabili delle Fondazioni, alla realizzazione dei cataloghi, che possiamo dire rappresentino una testimonianza tangibile e duratura nel tempo; dalla scelta delle caratteristiche e delle dimensione dei pannelli espositivi alla loro sistemazione all’interno degli spazi dedicati al l’allestimento. Per quanto riguarda la scelta delle sedi di svolgimento delle mostre, furono messi a disposizione dal Comune e dalla Soprintendenza spazi monumentali della zona centrale della città, come il Castel Nuovo, il Convento di Santa Chiara, Villa Pignatelli e il Palazzo Reale, mantenendo sempre Palazzo Gravina come punto di riferimento. Sempre a proposito dell’organizzazione, bisogna porre l’accento sul fatto che, al di là delle mostre e della ripercussione che queste ebbero nel mondo accademico e culturale della Napoli degli anni Settanta, l’importanza del lavoro di Gubitosi e Izzo si riscontrò anche nel ruolo che ebbero gli eventi per la società civile. Infatti, il supporto economico dato dall’Azienda del Turismo di Napoli e il coinvolgimento degli istituti di cultura e delle istituzioni politiche, portò ad una partecipazione anche dei non addetti ai lavori sanando il grande divario che si era venuto a creare in quegli anni tra architettura e società. Grande fu quindi la risonanza in città di questi eventi durante i quali, inoltre, importanti critici italiani ed internazionali presero parte attivamente alle mostre e ai dibattiti che ne seguivano accompagnando le stesse con interventi e studi preparati ad hoc; tra questi ricordiamo Manfredo Tafuri,
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Paolo Portoghesi, Joseph Ryk wert, Bruno Zevi, Renato De Fusco, Roberto Mango e Filippo Alison per citarne solo alcuni. Il volume Napoli e la cultura architettonica internazionale 1974-1991. Mostre e convegni di Camillo Gubitosi e Alberto Izzo fornisce una testimonianza di quanto accadde a Napoli in questi quasi venti anni che hanno segnato la cultura architettonica partenopea. Alessandro Castagnaro ha curato la ricerca storiografica fin nei minimi dettagli, reperendo il materiale originale delle mostre, le testimonianze e gli aneddoti degli stessi artefici, firmando un volume che ci permette di rivivere quegli anni offrendo anche alle nuove generazioni, che ovviamente non li hanno vissuti, la possibilità di conoscere un passato importante della Facoltà di Architettura di Napoli e della città stessa, il lavoro di due eccelsi docenti quali Camillo Gubitosi e Alberto Izzo e, non ultimo, lo spunto per interessanti riflessioni. Come afferma lo stesso Alberto Izzo, infatti, se vi so no giovani architetti e studenti che hanno la curiosità intellet tuale per indagare e compren dere il clima di una fase impor tante nello sviluppo della cultu ra architettonica italiana, allo ra i nostri testi possono fornire una testimonianza utile. R. R. I. Forino, La cucina. Storia culturale di un luogo domestico, Einaudi, Torino 2019.
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Nonostante siano passati almeno quarant’anni da quando il
concetto di «dispositivo» ha fatto la sua comparsa all’interno del dibattito architettonico – da quando, cioè, nel 1977, Franco Rella, Manfredo Tafuri, George Teyssot e Massimo Cacciari gli hanno dedicato un seminario allo Iuav –, oggi risulta ancora difficile misurarne l’operatività concettuale in relazione allo spazio domestico. Un po’ perché la spazializzazione originaria effettuata da Michel Foucault ha indirettamente appiattito la ricerca attorno a carceri e ospedali; e un po’ perché la casa è sempre stata considerata come la materializzazione di un principio di autodeterminazione sostanzialmente immune alla sua presa. Probabilmente, il primo ad associare i due termini è stato Giorgio Agamben, in un breve saggio del 2006 dal titolo Che cos’è un dispostivo?, all’interno, però, di una ricerca genealogica di stampo etimologico. Tutto inizia, secondo l’autore, tra il secondo e sesto secolo, con l’adozione all’interno della dottrina patristica del termine oikonomia – l’amministrazione, appunto, della casa – per indicare la provvidenza, ovvero il governo divino delle cose del mondo, al di là della sua essenza trascendente. È in questo contesto, infatti, che si attua una prima traduzione del termine greco con il latino dispositio, per indicare quell’insieme di prassi il cui scopo è di controllare e orientare i comportamenti umani. Ed è sempre in quest’ambito che si troverebbero i fondamenti della concezione foucaultiana di dispositivo, come corpus eterogeneo di discorsi, istituzioni, strutture, architettoniche, decisioni rego lative, leggi, misure ammini
strative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche […] che implica […] un intervento razionale e concertato nei rapporti di forza … per orientarli in una certa direzione (Michel Foucault, Dits et écrits, vol. III, 1994, pp. 299300). Secondo Agamben, in altre parole, dispositivo e oikonomia, si troverebbero a coincidere in quella pura attività di governo senza fondamento ontologico, che si dà come capillare processo di soggettivazione. Certo, poi la sua analisi prende un’altra strada, ma è comunque interessante notare come anche la casa, dal punto di vista teorico, possa entrare nel novero dei dispositivi di soggettivazione sociale; o almeno, che non c’è nulla che lo impedisca al di là di una consuetudine analitica sedimentata. Ed è proprio contro questa consuetudine che si sviluppa la storia culturale della cucina pubblicata da Imma Forino per Einaudi, all’interno di un discorso che interpreta lo spazio domestico come uno dei vari dispositivi «attraverso cui le istituzioni e le politiche sociali sorvegliano e regolano la vita privata» (p. 92). Questo perché ogni casa, attraversata com’è da una precisa gerarchia sociale e sessuata, rappresenta la prima delle tante materializzazioni delle relazioni di genere e ceto che strutturano la società; e la cucina, storicamente, rappresenta uno degli apici di quest’ordine spaziale, il nucleo primo e indivisibile di ogni spazio abitato. Per questa ragione, lo studio dell’autrice – in misura ancora maggiore rispetto al suo precedente Uffici, sempre edito da Einaudi – non
costituisce solo una storia culturale di un determinato luogo, ma anche una storia culturale più ampia attraverso quello stesso luogo. Una storia del suo pro getto in area occidentale […] [attraverso] contributi prove nienti dall’architettura, dal de sign e dalle arti visive, […] dal la storia sociale e dal pensiero manageriale, dalla storia dell’a limentazione e dalla letteratura gastronomica, per delineare immagini e stereotipi culturali della «mentalità di un’epoca» ovvero i suoi costumi sociali, economici, alimentari (p. XXVI). Non solo la storia di uno spazio, cioè, ma soprattutto la decodifica fenomenologica della spazializzazione e della reificazione di una serie di rapporti di potere, colti nella loro conformazione «microfisica» e quotidiana. Il tutto in una rigorosa scansione cronologica in cinque capitoli che, però, nulla toglie alla forza della costruzione narrativa. A questo proposito, d’altronde, occorre chiarire che né l’impostazione critica, né l’ampiezza e la profondità di analisi, né l’imponente bibliografia a corredo del testo tradiscono mai un’ansia argomentativa. I diversi contributi alla costruzione del discorso vengono semplicemente accostati fra loro, riducendo al minimo i nessi causali e lasciando che i fatti emergano dalle relazioni e dalle storie – talvolta banali talvolta straordinarie – che si intrecciano in questo luogo. Non solo, cioè, – a differenza di molti studi di genere – manca un esplicito intento dimostrativo di fondo, ma la scrittura si apre spesso al piacere del racconto, sia che si tratti di dettagli di design o che si indulga
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su preparazioni da haute cuisine. Il soggetto occulto, comunque, – o meglio il deuteragonista – è sempre ben a fuoco, almeno a partire dal secondo capitolo; ed è il ruolo femminile nella società occidentale, raccontato attraverso i semplici dispositivi quotidiani con i quali ha preso corpo, posizione e significato. Il primo, infatti, dedicato agli ambienti tradizionali, è ancora polarizzato sulla descrizione della divaricazione fra la cucina popolare, che attiene più alle scienze antropologiche, e quella nobiliare, che invece si nutre prima delle fantasie e poi dei dettami dell’arte culinaria. E qui a comandare sono sempre gli uomini, con il loro vocabolario guerresco, la loro gerarchia chiusa e la loro specializzazione funzionale. Dal secondo, invece, che si apre attorno alla metà del XVIII secolo, la centralità del suo ruolo inizia a emergere con più forza – anche quando in senso puramente strumentale – con il consolidamento della mentalità borghese e di un’etica essenzialmente puritana. Dapprima in senso oggettuale, con l’ipocrisia della morale vittoriana usata come strumento di segregazione e placido sfruttamento nei confronti sia delle donne sia dei servi, poi in un’ottica maggiormente soggettuale, con i primi movimenti statunitensi di liberazione ed emancipazione dall’oppressione familiare. E in mezzo, tra la costruzione, cioè, e lo smascheramento di una mitologia femminile – e spaziale – intesa come mezzo di asservimento, trovano spazio la nascita dell’economia domestica e i progressi della meccanizzazione, la diffusione del cottage e quella dei pat-
tern books, personaggi antitetici come Isabella Beeton o Charlotte Perkins Gilman, accompagnati da veloci puntate nel progetto, attraverso il lavoro di Catharine Beecher e Harriet Stowe. Al contrario, il tema del progetto – nella scala minuta di uno sguardo ravvicinato – non solo è molto più presente, ma è addirittura centrale nei successivi capitoli, che indagano ulteriori mitologie domestiche di epoca prebellica, più o meno consciamente strumentali. La prima è quella del funzionalismo, o meglio del l’organizzazione scientifica del lavoro domestico, colta nell’affinità fra lo sviluppo americano dell’eredità taylorista, la nuova politica economica sovietica e il primo razionalismo europeo; per cui, ai principi del kitchen management, del domestic engineering e dei progetti chiavi in mano di Sears, Roebuck and Co., si susseguono le sperimentazioni sulla Frankfurt Küche di Margarete Schütte-Lihotzky e quelle sulla cellula tipo del Narkomfin di Moisej Ginzburg. La seconda, invece, è quella del consumismo di natura essenzialmente pubblicitaria, che apre alla polverizzazione e alla contemporanea omologazione degli stili di vita della seconda metà del Novecento, tra sformando il principio di autodeterminazione identitaria da possibilità a obbligo. Gli ultimi due capitoli, infatti, come dimostra la loro struttura quasi «cartografica», non accennano nemmeno a un tentativo sintetico di messa a sistema. Se si pensa, d’altronde, che il quarto copre l’arco temporale che va dalla Ricostruzione ai primi anni Settanta, è facile comprendere come sia del tutto im-
possibile evidenziare in un’unica linea di sviluppo l’avvicendamento di un così alto numero di indirizzi politici, movimenti sociali e tendenze architettoniche. Così, come in un caleidoscopio, da Simone de Beauvoir si passa ad Alfred Kinsey, da Le Corbusier a George Nelson, da Marco Zanuso a IKEA, dallo sviluppo del laminato plastico a quello del monoblocco attrezzato; il tutto per terminare alla Triennale de Il grande numero (1968) e alla mostra Italy: The New Domestic Landscape (1972) e coltivare un’ul tima volta «quel sogno di libertà che nel decennio successivo si trasformerà in disinganno» (p. 297). Perché in pochi anni, fra impegno e riflusso, austerity e rampantismo, minimalismo e high-tech, a una variabilità delle strategie modali con cui prende forma il progetto dell’abitare domestico fa da contraltare un sostanziale appiattimento delle strategie finali, che ormai sono date per scontate; e mentre per gli uomini assurge a nuovo set di un’autogratificazione disimpegnata, per le donne la cucina rimane il simbolo concreto di un ruolo in cui il dover essere, oggi, non si dà come esclusione, ma come sovraccarico di compiti e aspettative il più delle volte irrealizzabili. Ancora una volta, però, non sono tanto né l’indubbio merito né la sorprendente tempestività con cui il libro solleva il tema della condizione femminile a colpire, quanto la capacità del l’autrice di «lavorare» un numero così notevole di contributi eterogenei, per comporre un testo aperto a molteplici livelli di lettura. Primo fra tutti, dal punto di
vista architettonico, quello di ricongiungere per un attimo la presunta contraddizione fra politica ed economia, fra piazza e abitazione, che attraversa il dibattito contemporaneo (Pier Vittorio Aureli, The Possibility of an Absolute Architecture, 2011), dimostrando come – parafrasando uno slogan del 1968 – niente sia più pubblico del privato; e che, a differenza di quanto scriveva Hannah Arendt (The Human Con dition, 1958), la casa rappresenta un dispositivo destinato non solo alla produzione e riproduzione dell’esistenza materiale, ma anche al consolidamento e alla propagazione di un ordine sociale. J. L. At Home: Progetti per l’abitare contemporaneo, MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma, 17 aprile 2019 - 22 marzo 2020, a cura di Margherita Guccione e Pippo Ciorra. Come scriveva Terence Riley a corredo di una mostra del MoMA del 1999 (Un-private House), il progetto domestico ha sempre rappresentato un soggetto di indagine privilegiato per provare a tracciare un quadro evolutivo delle tendenze architettoniche contemporanee. E non solo in virtù del fatto che la casa ha rappresentato il tema «eroico» del Movimento Moderno, ma soprattutto perché, a differenza di progetti di maggiore scala che normalmente richiedono un più ampio consenso, l’abitazione privata è sempre riuscita a esprimere la visione dell’architetto senza
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troppi compromessi. Così, negli ultimi vent’anni si sono talmente moltiplicate mostre e letture sul tema che, oggi, è possibile allargare una possibile prospettiva critica al riguardo a una dimensione comparativa di ampia scala. Perché se l’analisi di una casa può rivelare molto dell’idea di architettura del suo progettista, allo stesso modo l’analisi della sua lettura lascia sempre emergere la particolare ottica del suo interprete. La casa, in altre parole, è il soggetto ideale, non solo per sondare lo stato di salute dell’architettura contemporanea, ma anche per evidenziare le diverse tendenze critiche correnti e le politiche delle istituzioni culturali che le sostengono. Per questo motivo, ogni lettura sul tema rappresenta uno specifico saggio che dice più del suo autore che del suo contenuto. L’ultima di queste, curata da Margherita Guccione e Pippo Ciorra per il MAXXI di Roma, aggiunge a questo mosaico un ulteriore tassello, sostanzialmente omogeneo, ma dall’identità ben precisa, benché vincolato all’esposizione di materiale già presente nella collezione del museo. Il tema, certo, è sempre lo stesso; la descrizione, cioè, dell’evoluzione degli spazi domestici dal dopoguerra a oggi, attraverso alcune delle risposte che gli architetti hanno dato a certe questioni. E anche l’intento è quello canonico di mettere in luce attraver so […] [una] differenziata casi stica di progetti vari e comples si, la varietà e la complessità dell’abitare contemporaneo (Margherita Guccione e Pippo Ciorra, introduzione alla mostra). Lo svolgimento, invece, è classi-
co e libero insieme, impostato com’è su un confronto, con assonanze tutte da trovare, tra coppie di opere distanti – talvolta nel tempo, talvolta nello spazio, più spesso in entrambi –, a sua volta in aperto dialogo con il complesso progetto di allestimento che segna il passo della mostra. Tutto parte proprio da qui, infatti, dal l’ingresso alla galleria completamente occupato da una gigantesca struttura su due piani, in legno dipinto, progettata dallo studio norvegese Rintala Eggertsson e costruita sul modello di un’insula romana. Al suo interno, in una teoria di stanze scabre, piccoli scrittoi e semplici sedute si aprono al panorama della mostra attraverso tagli regolari, mentre all’esterno un piccolo porticato conduce a una prima serie di dialoghi architettonici, in questo caso fra opere del Novecento e progetti più recenti, impostati sulla base di differenti analogie. La sequenza si apre con un motivo classico dell’abitare «transitivo», che riguarda il rapporto con il paesaggio, interpretato da due opere formalmente simili come la Casa Malaparte di Adalberto Libera (1938-40) e il nuovo bivacco fratelli Fanton dello studio Demogo, ancora in costruzione. E, ancora una volta, è all’allestimento che viene affidato il compito di segnarne le distanze, con una struttura appesa, in acciaio e tessuto, per il secondo, che richiama l’approccio costruttivo di Demogo, e una semplice esposizione a parete per il primo, che interpreta il rapporto con il suolo di Casa Malaparte. Da qui, l’accenno elementarista di due stanze aperte in legno colorato introduce a due scale op-
poste del progetto, materializzate da altre due coppie di opere, che hanno ancora un forte legame con il paesaggio. La prima, che associa, pur nella diversità di forme, la Casa Veritti di Carlo Scarpa (1955-61) e la casa a Modica di Giuseppina Grasso Cannizzo (2016-18), parla di una passione per la piccola scala e di una cura estrema per i materiali e i dettagli costruttivi. La seconda, invece, fra l’Ambasciata d’Italia a Brasilia di Pier Luigi Nervi (1969-79) e la Pitch House di Rica Studio (2012), lavora implicitamente, attraverso le foto e i disegni, sul passaggio da una concezione tettonica a una stereotomica del concetto di apertura, attraverso la sovrapposizione di due volumi a piastra. Più avanti, quindi, il discorso continua con due variazioni sul tema dell’articolazione volumetrica, da quella «costruttivista» della coppia Luigi Pellegrin e Giuseppe Perugini, a quella neobarocca di Paolo Portoghesi e Zaha Hadid, prosegue con la ricerca sui materiali di Franz Prati e Danilo Guerri, per terminare in quel campo tipologico che fa da snodo concettuale e fisico dell’intera esposizione. Nel pieno centro della sala, infatti, un colossale cilindro in legno grezzo, foderato da un mosaico colorato, ospita l’ultimo duetto fra abitazioni individuali, con il confronto tra la Villa presidenziale del Gombo di Monaco e Luccichenti (1955-60) e la Casa Guna di Pezo Von Ellrichshausen (2010-14), che declina il tema della casa a patio sospesa in un arco concettuale che va dalla delicata fenomenologia del primo al rigorismo formalista più spinto del secondo.
Da questo punto, grazie al riferimento tipologico che porta il tema dell’abitazione nel pieno dello spazio urbano, la mostra prosegue con progetti di caratura completamente differente. I primi due, che interpretano il tema in senso più storico, vanno dal facciatismo ludico di Aldo Rossi per l’edificio berlinese di Schüt zenstrasse (1992-95), alla reinterpretazione asemantica dei tradizionali hakka cinesi di Urbanus Architects a Guangzhou (2005-08). Poi, il discorso sull’abitare collettivo prosegue con una chiara biforcazione concettuale, che oppone il tema sociale a quello borghese. Uno illustrato indirettamente dal confronto fra il progetto agreste di Giancarlo De Carlo per Ca’ Romanino (1967) e quello ultra-urbano di David Adja ye per Sugar Hill a New York (2015), inserito in una sorta di stanza a tre lati disegnata sul modello di quest’ultimo. L’altro introdotto dal celebre Villino in Via dei Colli della Farnesina di Francesco Berarducci (1969), che apre, con un prototipo ideale, il primo approfondimento tematico dedicato alla palazzina romana, esemplificato, in seguito, dai progetti per la Casa il Girasole di Luigi Moretti (1948) – raccontata in mostra dalle fotografie di Gabriele Basilico – e per la Palazzina Federici di Monaco e Luccichenti (195052). Ed è qui che, probabilmente, la mostra ha il suo unico sbandamento concettuale. Dal dialogo spesso reticente fra opere simili ma culturalmente distanti, infatti, i curatori passano a due approfondimenti tematici esclusivi e di natura marcatamente locale. Il primo, più in linea con il resto
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della mostra, tratta del piano INA-Casa attraverso i progetti di Enrico Del Debbio, Mario Ridolfi e Ludovico Quaroni. Il secondo, invece, più eccentrico, fa il punto sullo stato del Corviale di Mario Fiorentino (1971-77), come esempio delle strategie di trasformazione dei grandi edifici di edilizia residenziale pubblica, attraverso i progetti di riqualificazione dei suoi spazi di relazione, presentati in due diverse occasioni da Laura Peretti e Guendalina Salimei. Tutto, però, torna a ricomporsi nell’ultima sala, come in una sorta di composizione ad anello. Il rapporto con la natura e con la città, l’abitare individuale, lo studio tipologico e lo sviluppo formale riappaiono, infatti, nell’ultimo confronto della mostra che, in un certo senso, riassume tutti i temi affrontati per declinarli nella più viva contemporaneità. Nella sezione terminale della galleria, trasformata per l’occasione in una spaziosissima black box, si fronteggiano, da un lato, la proiezione a grande scala di un documentario sul proprietario della Casa Moriyama, progettata da Ryue Nishizawa (2002-05), dall’altro, su un piccolo schermo, un altro documentario, questa volta sul Bosco verticale di Stefano Boeri (2009-14). Da un lato, cioè, si sviluppa in senso narrativo il ritratto di una casa, pensata a sua volta come il ritratto di un singolo abitante; e dall’altro si compone, strato dopo strato, albero dopo albero, una nuova idea di città, replicabile ed esportabile, nel corpo di un solo edificio. Unicità contro replicabilità, orizzontale contro verticale, individuale contro collettivo, fram-
mentato contro compatto, edificio-città contro città-edificio, tutto sembra polarizzare i termini della discussione affrontata, per riassumere, attraverso l’esplicitazione dei suoi estremi, il ventaglio di temi affrontati e la loro portata. Il tutto, ribadendo ancora una volta il valore del confronto parallelo come strategia comparativa non vincolata, aperta al l’accumulo e alla stratificazione di significato, in un processo che, finalmente, scava in profondità alla ricerca di quei legami che strutturano davvero la relazione fra architettura e abitare. Altrove nella mostra, infatti, dell’idea di abitare come costrutto antropologico, o anche solo come espressione culturale, ci sono poche tracce e prevalentemente indirette. L’abitare piuttosto, secondo una prospettiva critica ben consolidata in ambito architettonico, è inteso soprattutto come una specie di tipologia insediativa di cui valutare attentamente la materializzazione progettuale nei suoi risvolti compositivi. Al di là di questo, però, c’è anche un’altra idea di abitare che emerge dalla mostra e che in qualche modo diverge dalle due precedenti. La convinzione, cioè, che l’atto di abitare non abbia solo a che fare con le pratiche d’uso della vita quotidiana e con tutta la mitologia minima che questo porta con sé, ma che rappresenti principalmente un’idea dello stare al mondo, confrontandosi con i suoi fenomeni; una presa di posizione di cui, è inutile nasconderselo, l’architettura, intesa nel suo senso più alto, è il mezzo espressivo ideale. J. L.
L. Mingardi, Sono geloso di que sta città. Giancarlo De Carlo e Urbino, Quodlibet, Macerata 2018. Il libro, pubblicato nella collana “Città e paesaggio” della sezione “Quodlibet Studio”, costituisce la rielaborazione della tesi di dottorato condotta presso l’Università Iuav di Venezia. Nelle sedi della stessa università, Lorenzo Mingardi ha curato le mostre Giancarlo De Carlo. Moltiplicare la narrazione (2015) e Forme di corrispondenza. Disegni e fotografie (2016) che, unitamente ai numerosi articoli volti all’approfondimento di aspetti particolari della vicenda teorica e professionale dell’architetto genovese, ne dimostrano non soltanto una profonda conoscenza, ma una sorta di “affinità elettiva” che caratterizza il suo panorama di ricerca. Questo testo concorre a delineare la crescente attenzione che, dagli inizi del nuovo millennio, ha interessato la figura di De Carlo attraverso pubblicazioni monografiche e contributi su riviste di rilievo nazionale e internazionale. A questo proposito, va considerato il ruolo del fondo De Carlo che, formatosi dal 1950 nei locali del suo studio milanese, è stato trasferito presso l’Archivio Progetti dello Iuav a partire dal 1998. Tale operazione ha consentito l’ordinamento di tutto il materiale ad opera di Francesco Samassa, autore peraltro della pubblicazione dell’inventario analitico dell’archivio (Il Poligrafo, 2004). Sulla scorta di una necessaria distanza critica e grazie alla consultazione di documenti inediti,
il libro in esame mette a fuoco una delle tappe più significative dell’excursus professionale di De Carlo. Si tratta dei progetti di ampliamento dell’Università di Urbino, rientranti in un più vasto programma di rilancio economico della città imperniato, appunto, sulle potenzialità di carattere culturale, urbanistico e architettonico della rinnovata istituzione universitaria. Tale storia investe un arco temporale di oltre un ventennio, dall’inizio degli anni ’50, ovvero da quando De Carlo viene chiamato ad Urbino dal rettore Carlo Bo, alla metà degli anni ’70, durante i quali si concludono i lavori per la realizzazione della Facoltà di Magistero. In particolare, nel 1953 prende avvio quel complesso iter procedurale che condurrà alla redazione di un PRG «pensato e predisposto in funzione dell’Università», mentre nel 1968, lo stesso anno in cui De Carlo scrive La piramide rovesciata, la fase di ideazione della Facoltà di Magistero è già terminata. La struttura del testo si articola in tre capitoli che trattano, rispettivamente, la fase di costruzione del PRG e delle scelte a grande scala, il progetto del Collegio del Colle e l’altro della Facoltà di Magistero. Così, la trattazione evolve attraverso una scansione lineare che segue cronologicamente l’evoluzione della vicenda, riuscendo, tuttavia, a recuperare opportunamente quelle esperienze che, in anni diversi, hanno assunto un ruolo determinante nelle scelte compiute ad Urbino. Il riferimento riguarda, principalmente, alcune esperienze che hanno segnato la formazione di De Carlo, il suo coinvol-
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gimento nell’organizzazione dei CIAM – peraltro proprio negli stessi anni di avvio della vicenda urbinate – e, più tardi, nel gruppo del Team 10, fino alla sua posizione manifestata durante la temperie culturale del Sessantotto. A questo proposito, è opportuno evidenziare l’intreccio che si realizza nella poetica di De Carlo tra ideologia politica e architettura messo in luce da Mingardi in riferimento al progetto del Magistero: Per De Carlo, il rinnova mento dell’università italiana deve avvenire non solo attra verso la possibilità concessa agli studenti di scegliere il pro prio percorso di studi con il massimo vantaggio culturale […], ma anche grazie a delle strutture prive di una configu razione planimetrica rigida, senza perciò alcun elemento che possa rimandare a un con trollo sociale calato dall’alto. La complessità di questa lunga vicenda, dettagliatamente tratteggiata all’interno del saggio, trova nella capacità di sintesi, di selezione dei dati, nella semplicità del linguaggio e nella coerenza dell’impalcato teorico, gli strumenti fondamentali di una narrazione efficace, che non rinuncia alla dovizia di particolari. Una narrazione che, grazie alla costante presenza di specifici riferimenti temporali, consente un orientamento agevole tra le pagine del testo. Una narrazione, infine, in cui l’A. cerca, induttivamente, di ricavare dalla specificità di un caso emblematico alcuni temi ricorrenti nella cifra architettonica di De Carlo, proponendo delle chiavi di lettura utili all’inquadramento non soltanto del caso trattato, ma anche di al-
tre esperienze che in esso hanno trovato un solido punto di riferimento. Infatti, la vicenda urbinate include una tale quantità di eventi, riguardanti sia gli aspetti autonomi che quelli eteronomi del fare architettonico, da rappresentare nell’excursus dell’architetto quella che potremmo definire una vera e propria “esperienza totale”. Qui De Carlo non è “soltanto” il progettista responsabile della realizzazione delle strutture universitarie, o l’urbanista a capo della redazione del PRG, ma una sorta di demiurgo capace di veicolare le scelte dell’amministrazione locale, di proporre all’attenzione del sindaco e del rettore le idee che saranno determinanti per l’assetto futuro della città: se in partenza il progetto politico di rendere Urbino una cittàcampus è di Carlo Bo […], è poi De Carlo, di fatto, a guidar ne gli sviluppi. È lui che sceglie le aree dove costruire, è lui che sceglie quali palazzi storici tra sformare in Facoltà universita rie. Ed è lui che, spesso, muove come pedine i membri del Con siglio Comunale per consolida re la propria autonomia e im porre così la sua architettura della città. In altre parole, a Urbino De Carlo ha l’opportunità di spingersi oltre la scala dell’architettura, sperimentando un’idea di città perseguita attraverso i vari strumenti politici, urbanistici e architettonici a disposizione e riuscendo, inoltre, a condensare tale idea in due opere paradigmatiche della sua produzione: il Collegio del Colle e la Facoltà di Magistero. Da questi progetti emerge una concezione dell’architettura come un organismo spaziale capace di alludere conti-
nuamente al funzionamento della struttura urbana, di stabilire un dialogo con l’ambiente circostante: ci sono tre criteri per af frontare il problema dell’inseri mento di un edificio nel paesag gio: uno è dominare il paesag gio, l’altro di assoggettarsi completamente, il terzo è di cercare un equilibrio tra le due posizioni. La mia strada è la terza. Come spiega Mingardi, il ricorso alla similitudine del tessuto della città storica come strumento progettuale rappresenta uno dei tratti caratteristici della metodologia d’intervento di De Carlo. Proseguendo nella ricerca di alcuni punti nodali che possono dedursi dalla vicenda urbinate, emerge il binomio tradizione-innovazione quale polarità costitutiva del modus operandi dell’architetto genovese. Anche in questo caso, si riscontra un equilibrio tra gli aspetti tradizionali, legati alle sue radici nazionali ed assunti attraverso gli studi condotti nell’ambito dei contesti storici delle città italiane, e quelli innovativi, alimentati soprattutto dalla sua proiezione internazionale maturata, segnatamente, a contatto con gli altri esponenti del Team 10. Infatti, la frequentazione di architetti quali Bakema, Candilis, Woods, gli Smithson, e in particolare Van Eyck, consente a De Carlo di ampliare il suo vocabolario architettonico, come dimostrano le articolazioni del progetto per il Collegio: Le rela zioni che De Carlo instaura dal 1959 con gli architetti interna zionali fanno sì che i suoi pro getti si arricchiscano di nuove ipotesi non solo dal punto di vista dell’impianto, ma anche
dal punto di vista dei materiali. Al rapporto tra De Carlo e il Team 10 sono stati dedicati due paragrafi – il primo sul CIAM di Otterlo del 1959, l’altro sul Team 10 meeting di Urbino del 1966 – che mettono in evidenza non solo le influenze che potevano essere elaborate a Urbino, ma, simmetricamente, anche il ruolo che quei progetti universitari hanno assunto nell’ambito delle dinamiche del gruppo. Inoltre, il caso-studio consente all’A. di analizzare non soltanto le peculiarità del De Carlo progettista, ma, in virtù delle preesistenze rientranti nel programma di rinnovamento della città, di dare risalto al suo orientamento nel campo della conservazione dei centri storici e quindi, più in generale, del restauro: Conser vazione vuol dire trasformazio ne. Le pietre non si conservano da sole: bisogna dare loro una ragione contemporanea – eco nomica e sociale – perché la conservazione delle configura zioni fisiche dotate di valori storici avvenga attraverso la conservazione dell’interesse della collettività a continuare ad abitarli. In realtà, sullo sfondo di questa considerazione della conservazione quale atto di modificazione necessaria giace, nel caso di Urbino, una volontà di progettazione diffusa e di controllo delle trasformazioni urbane – come emerso, in particolare, dalle norme tecniche di attuazione predisposte dallo stesso De Carlo – che giustifica il titolo del testo. In conclusione, il valore e l’utilità del libro di Lorenzo Mingardi risiedono, oltre che nei contenuti specifici relativi al caso
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trattato, nella sua capacità di offrire spunti che travalicano le peculiarità della vicenda urbinate; di proporre chiavi di lettura che danno accesso alla complessità della sfera concettuale dell’architetto, nonché ad altre opere progettate prima e dopo Urbino; di calare l’architettura nel suo contesto storico, economico e sociale, dando corpo alla sua dimensione eteronoma, in linea con la propensione di De Carlo e degli altri esponenti del Team 10; in definitiva, di costituire un punto di vista chiaro e documentato sul ruolo di Giancarlo De Carlo nel panorama architettonico del l’Italia del secondo Novecento. A. T. M. Maiorino, Il dispositivo Morandi. Arte e critica d’arte 1934-2018, Quodlibet, Macerata 2019.
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L’autore, citando il filosofo francese Gilles Deleuze, richiama l’idea per cui «(il dispositi vo) è innanzitutto una matassa, un insieme multilineare, com posto di linee di natura diversa. Queste linee nel dispositivo non delimitano né circoscrivono si stemi di per sé omogenei, ma seguono direzioni, tracciano processi in perenne disequili brio; talvolta si avvicinano, tal volta si allontanano le une dalle altre» (G. Deleuze, Che cos’è un dispositivo?, trad. it., Edizioni Cronopio, Napoli 2010, p. 11). Maiorino individua nel Tempo un tema centrale dell’opera di Morandi, più esattamente il tempo della quotidianità – non a caso ricorda che nel 2008 l’artista bo-
lognese veniva esposto a New York insieme a Josef Albers, Andrei Grassie, On Kawara e Roman Opalka alla mostra Sculpting Time curata da Steven Holmes. Cosicché, l’interesse per l’opera di Morandi si rinnova costantemente, facendo sì che essa si ponga come opera eterna «non perché impone un senso unico a uomini diversi ma per ché suggerisce sensi diversi a un uomo unico, che parla sem pre la stessa lingua simbolica attraverso una pluralità di tem pi: l’opera propone, l’uomo di spone» (R. Barthes, Critica e ve rità, Einaudi, Torino 1969, p. 45). L’attenzione di Maiorino è infatti tutta volta a quella matassa di cui parla Deleuze, le cui linee di natura diversa sono tracciate, proprio da quei numerosi critici e teorici dell’arte che non poche parole hanno speso sull’opera di Giorgio Morandi. Più precisamente l’autore indaga la tesi secondo cui l’analisi dell’opera dell’artista bolognese abbia costituito il punto di partenza per la definizione di alcune delle più importanti teorie della storia dell’arte del Novecento. La domanda di ricerca muove Massimo Maiorino a un’attenta e puntuale disamina della storia della critica morandiana, strutturata in due parti, di cui la prima intitolata 1934-1964: un artista conteso affronta gli anni precedenti alla scomparsa del bolognese e la seconda dal titolo, 1964-2018: Morandi dopo Morandi tratta del periodo dalla morte dell’artista ai giorni nostri. Con maggiore precisione, la prima sezione è articolata nei capitoli: Un lampo longhiano; La Quadriennale del ’39 e la mono-
grafia di Brandi; Longhi e Venturi: convergenza su Morandi; Oscillazioni critiche e successi espositivi; Ragghianti o dell’architettura di Morandi; Il controdiscorso di Arcangeli. La seconda invece: Exit Morandi; Poi la pittura scompare; Morandi nella costellazione artistica degli anni Ottanta; L’eredità di Morandi nella fotografia italiana; Processi d’istituzionalizzazione: museo atelier, esposizioni; Il cerchio non si chiude. Per ognuno di questi capitoli Maiorino individua e analizza il contributo dei maggiori storici e teorici dell’arte del primo Novecento che si sono interessati all’opera di Morandi mettendo in luce le relazioni tra il momento esegetico e la formulazione delle personali teorie dell’arte. In Un lampo longhiano infatti l’autore, ripercorrendo le vicende de Il nodo Longhi-Morandi, come lo definì Caroli, ricorda lo scritto del ’34 Momenti della pittura bolognese come seminale di tale rapporto; qui Longhi infatti legge nell’opera del l’artista l’influenza degli antichi maestri ma ne coglie anche una vitalità contemporanea e dichiara, come cita Maiorino, che «uno dei migliori pittori viventi d’I talia, Giorgio Morandi, ancora oggi, pur navigando nelle sec che più perigliose della pittura moderna, abbia però saputo orientare il suo viaggio con una lentezza mediata, con un’affet tuosa studiosità, da parere quella di un nuovo incammina mento». L’autore ripercorrendo gli studi longhiani, da una parte segnati dal Rinascimento e Piero della Francesca, e dall’altra da I Quesiti caravaggeschi, pone in risalto come da un lato la lettura
longhiana di Morandi, vicina alla linea purovisibilista, è stata influenzata dall’impostazione rinascimentale classica di stampo formalistico, dall’altro lato anche gli studi caraveggeschi dell’analisi della pittura tonale sono stati per il critico necessari alla comprensione di alcuni aspetti del l’arte di Morandi. In conclusione Maiorino insiste su un’ulteriore considerazione che vede il linearismo della teoria longhiana deviare attraverso lo studio dell’opera del bolognese: «Longhi, at traverso il suo lavoro critico anche se non strettamente cen trato su Morandi, ma influen zato e a sua volta influenzando la poetica dell’artista, ha com preso la presenza nel percorso di Morandi di elementi etero dossi, che deviano il suo postu lato linearismo, e ha fornito gli strumenti per produrre letture divergenti della sua opera» (Ivi, p. 43). In La Quadriennale del ’39 e la monografia di Brandi l’autore, ripercorrendo le vicende dell’esposizione romana del l’Italia fascistissima degli anni Trenta, analizza l’opera teorica di un altro grande storico e critico dell’arte del Novecento italiano, il senese Cesare Brandi. Que st’ultimo passa da un’imposta zione idealista ancora memore del Croce a una metodologia che lui stesso, nella ristampa del Carmine o della Pittura nel 1962, definisce “fenomenologia della creazione artistica”. La fenomenologia di Brandi, al contrario dell’idealismo crocia no, è orientata verso la genesi dell’opera d’arte; laddove Cro ce analizzava una riuscita, e non una ricerca, Brandi ricono sce al processo artistico una di
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namicità scandita da due mo menti: la costruzione dell’og getto e la formulazione dell’im magine» (Ivi, p. 51). Con filologica accuratezza Maiorino pone in luce come molti elementi della teoria brandiana, tra cui “il colore di posizione”, siano stati modellati per la prima volta su Morandi e poi estesi alla teoria generale dell’arte. Altro teorico dell’arte coinvolto nel “dispositivo Morandi” è Carlo Ludovico Ragghianti, tra gli storici del primo Novecento che maggiormente hanno esteso il campo dell’arte contemporanea, soffermandosi sul cinema e sull’architettura. Ed è infatti strettamente legata a queste due arti l’interpretazione innovativa e completamente avulsa dalle precedenti che Ragghianti offre del l’opera morandiana. Il critico contempla una visione in piano sequenza degli oggetti, delle bottiglie, delle nature morte e dei paesaggi, interpretati come volumi che nei loro rapporti ritmici e proporzionali, attentamente studiati, rivelano la loro natura architettonica. Ripercorrendo e analizzando i saggi del ’52, ’54 e ’66 su Morandi, Maiorino infine giunge ad affermare che l’inno vativo e aggressivo saggio di Ragghianti squaderna tutti gli interessi che lo studioso andava coltivando in quell’arco tempo rale, dall’amore viscerale per l’architettura di Wright all’in teresse sistematico per i proble mi della visione cinematografi ca fino al flaubertiano distacco dalla superficialità del tempo presente, facendone strumenti attivi di studio e comprensione dell’opera di Morandi. Non bi sogna tralasciare tuttavia la
non affatto marginale funzione e partecipazione del dispositivo Morandi nella definizione di questa costellazione critica, tanto che lo studioso scrisse al l’artista che “la sua arte, è stata per la mia vita interiore uno dei problemi maggiori e più pro duttivi di chiarimento e di pro gresso. (Ivi, p. 91). Andando avanti nella trattazione del suo testo, Maiorino indaga e scioglie molti altri nodi critici affrontando il rapporto di Morandi con, tra gli altri, Francesco Arcangeli, Lionello Venturi, Lamberto Vitali ed anche con la “costellazione artistica” del secondo Novecento. Attraverso la sua narrazione l’autore ci induce a riflettere, attraverso un discorso severamente filologico e in modo singolare, sulla potenza dell’opera d’arte, sulla sua capacità di generare pensiero critico in grado di flettere gli schemi precedentemente assunti – nella storia dell’arte come nell’arte e nell’eterno quotidiano – per guardare con sguardo lucido alla propria contemporaneità. F. D. Plastic Field, esposizione della collezione Memphis, Palazzo Franchetti, Venezia, a cura di Adriano Berengo e Jean Blanchaert. All’interno delle manifestazioni espositive della Biennale di Venezia, a Palazzo Franchetti, Plastic field ha proposto la più estesa selezione mai presentata in un palazzo pubblico di opere disegnate dal gruppo Memphis dal 1981 al 1987, una rara occa-
sione per vedere più di centodieci prodotti disegnati dal gruppo: mobili – librerie, credenze, letti e armadi, contenitori e cassettiere, consolle e divani, tavoli e tavolini, poltrone e sedie – orologi e lampade, uno specchio, ceramiche, vetri, argenti, tappeti e tessuti. Il nome Memphis appare scritto per la prima volta su un quaderno di appunti di Michele De Lucchi, scribacchiato in alto sulla prima pagina accanto a una data, 11 dicembre 1980. La seconda e la terza pagina sono datate 12 dicembre in pizzeria e 14 dicembre in via San Galdi no, che è poi l’indirizzo di Etto re Sottsass, come racconta Barbara Radice, dall’inizio coordinatrice delle iniziative e autrice delle comunicazioni del gruppo. Ad incontrarsi in quei giorni, oltre a Sottsass e Radice, Marco Zanini, Aldo Cibic, Matteo Thun, Martine Bedin, Renzo Brugola, ebanista e amico di Sottsass e futuro realizzatore dei mobili, con George J. Sowden e Nathalie Du Pasquier, assenti in tale occasione, già sodali al gruppo, e con Andrea Branzi e Christopher Radl, responsabile della grafica, partecipi alla prima selezione dei più di cento disegni il 9 febbraio dell’anno seguente. Oltre ai loro, disegni di Michael Graves, Hans Hollein, Arata Isozaki, Shiro Kuramata, Xavier Mariscal, Alessandro Mendini, Paola Navone, Peter Shire, Alchimia-Bruno Gregori, Masanori Umeda, che si uniscono all’iniziativa. Nasce per una scelta di rottura di Sottsass che con fermezza vuole allontanarsi dal virus critico e negativo di Alessandro Mendini. Già l’anno prima le esperienze Alchimia
e radicali erano state messe in sospensione con la mostra Catalogue for decorative furniture in modern Style. 1978-1980, e i mobili anticipavano scelte e idee che saranno presenti anche in quelli disegnati per Memphis. È una “avventura” che si materializza allo show room Arc ’74 a Milano il 18 settembre 1981, con cin quantacinque pezzi, trentun mobili, tre orologi, dieci lampa de e undici ceramiche, e duemi lacinquecento persone, un successo strepitoso e immediato nel bel mezzo di un Salone del Mobile stanco e affaticato. Anche in questa occasione i mobili disegnati dal nume tutelare dell’intera impresa – Carlton, Casablanca, Beverly, la libreria Suvretta, il tavolo Mandarin – sono grandi e pesanti, con zoccoli e basamen ti. Non stanno quasi da nessuna parte e comunque non «lega no», non possono neanche pro durre coordinati. Stanno sol tanto da soli come i monumenti nelle piazze, e non riescono ne anche a fare stile. Il gruppo nasce con la particolarità di non presentarsi come movimento omogeneo, di tendenza, ma di essere invece omogeneo nell’at teggiamento che è ottimista nei riguardi del progetto, della sua collocazione e dei suoi sviluppi. Tutti i progetti di Memphis so no gesti propositivi positivi, non critici, come invece era av venuto per le poetiche radicali e concettuali, che pure hanno funzionato da incubatrici a queste nuove proposte. Il gruppo aggredisce con disinvoltura e felicità il concetto di omogeneo e sobrio, di “armonico” e coordinato, non c’è un’identità, ma più identità e questo confonde, sobil-
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la, agita le acque e fa saltare il tappo. Possiamo fare – quasi – qualunque cosa dirà Sottsass, ci è passata la paura che ci man da il passato e anche quella an cora più aggressiva che ci man da il futuro. Nella collezione nessun materiale nobile, i mobili sono realizzati con manufatti industriali come il laminato, la lamiera, il tubo d’acciaio verniciato o cromato, legno, cristallo; niente verniciatura, i colori sono in laminato Abet Print HPL Finitura 6 e, cancellando d’un sol colpo la convenzione dei colori caldi o freddi, stanno tutti insieme e tutti quei colori spenti e sbiaditi di un tempo vengono sostituiti da colori accesi e acidi, mescolati a formare fianchi, frontali, ante e spessori; le superfici sono decorate, non nel senso che il superfluo orna il funzionale, qui il decoro non si giustappone, si pone, è lì su tutta la superficie fino a diventare volume. La decorazione, salvo nel mobile bar Cipriani di Mendini, nel mobile toilette di Graves e nei mobili di Kuramata, è ovunque, a partire dall’uso dei laminati Batterio e Spugnato – ideati per la Abet Print nel 1978 – usati rispettivamente per la base del mobile Carlton, del mobile a torre Casablanca e della lampada Tahiti, cui si aggiungono i laminati in bianco e nero di De Lucchi, Fantastic, Micidial e Terrific e i tessuti disegnati da Du Pasquier anche per rivestire la poltrona Oberoi e il letto Chelsea di George J. Sowden e i suoi orologi Acapulco, American, Excelsior, le ceramiche Nefertiti in giallo e nero di Thun; le geometrie sono semplici, secche ed elementari, come nel caso della libreria Gritti di
Branzi, del divano Dublin di Zanini e del tavolo Brazil di Shire; si usano pattern in diagonale come nell’armadio Pacific di De Lucchi e nel tavolo Pierre di Sowden, piani a sbalzo e obliqui come nel mobile da soggiorno Beverly di Sottsass, con le ante in laminato Serpente verde, e in sommità una semplice lampadina rossa; gli oggetti diventano animali domestici come le lampade Tahiti di Sottsass e Terminus di Bedin che in Super, trasforma una lampada in un giocattolo colorato su ruote. Se l’Italia viveva le sue stragi – omicidio Mattarella, Bachelet, Tobagi, l’esplosione alla Stazione Centrale di Bologna, il terremoto in Irpinia cui fa seguito qualche mese dopo, l’inizio della presidenza di Reagan, con l’elezione di Mitterand e l’attentato al Papa – Memphis è un lampo che accende gli anni Ottanta. Inizia sull’onda di una situazione che vede un tasso d’inflazione del 21,1%, pur vivendo una sorta di mini-boom che sarà l’inizio di un periodo espansivo nel quale l’Italia riacquisterà una posizione di interesse per il mondo. La Fiat presenta a Cape Canaveral la Fiat Uno, inizia la lenta uscita dagli anni del terrorismo e il desiderio di lasciarsi alle spalle anni bui e dolorosi, la crescita del sistema moda italiano e di alcuni comparti industriali, la concomitanza di vari eventi espositivi e concorsuali, contribuiscono a creare un clima di ottimismo che accoglie il linguaggio Memphis con sorpresa ed entusiasmo. La collezione, coerentemente con la scelta del nome, “Blues, Tennessee, rock and roll, periferia americana e poi l’Egitto, la capitale dei Fa-
raoni, la città sacra del Dio Ptah”, include il diverso e l’opposto. La semplicità minimalista dei mobili di Kuramata, la ridondanza segnica dei “mobili che fanno la ruota”, i mobili ermafroditi Fuji di Isozaki, il divano Ring di Umeda, protagonista del ritratto ufficiale dell’intero gruppo accomodato al suo interno, perseguono l’intento comune di promuovere il nuovo, ciò che porterà Memphis ad essere involontaria partecipe alle polemiche innescate l’anno precedente alla prima Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale veneziana La presenza del passato. Memphis nelle diatribe sul progetto post-moderno, neo-modern o late-modern, entra in un vocabolario internazionale, sollecita la curiosità e l’interesse di un vasto pubblico. Charles Jencks, nella sua recensione della collezione su Domus, la definisce “una bouillabaisse o un bollito misto”, si parlerà inoltre di kitsch e anarchia compositiva, le etichette abbondano. Nonostante tutto, il gruppo continuerà ad agire compatto, con la temporanea partecipazione di Thomas Bley, Arquitectonica e Gerard Taylor, e le new entries Massimo Iosa Ghini, Marco Zanuso jr., editando anno dopo anno sempre nuovi prodotti, fino alle dismissioni di Sottsass che nel 1986 disegna l’ultima collezione di vetri, contemporaneamente alla presentazione di nuovi designers, i “Dodici nuovi”, fra i quali Beppe Caturegli, Dante Donegani, James Evanson, Massimo Iosa Ghini, Ferruccio Laviani, James Irvine, Giovanni Levanti. Gettando una nuova luce sugli orizzonti del progetto, ha ge-
nerato onde lunghe di ribellione nei confronti dell’ortodossia progettuale e profondi cambiamenti nel modo di intendere il progetto, imponendo una riflessione sui compiti e limiti del designer nei confronti della produzione industriale e sulla necessità di un nuovo modo di produrre e commercializzare, vedendo nel frattempo nascere una nuova figura di progettista quale il “giovane designer” e il sorgere del l’esigenza di una nuova didattica, che si svilupperà a partire dalla Domus Academy. Nel 1987 chiude i battenti, presentando, a cura di Barbara Radice, oltre al mobile libreria Max di Sottsass, disegni di fumettisti quali Giorgio Carpinteri, Daniele Brolli, Massimo Iosa Ghini, Massimo Giacon, Lorenzo Mattotti, Ugo Tuveri. È l’atto conclusivo di un progetto nato come un’idea culturale che è anche un’impresa con una distribuzione commerciale, con Ernesto Gismondi prima principale azionista, poi proprietario del marchio e dei prodotti fino al 1996. Anche in questo stava la novità; non erano prototipi, ma prodotti e il mercato avrebbe deciso la loro sorte. Questa scommessa – soli sette mesi per passare da un disegno al prodotto – favorirà nel corso degli anni successivi il coraggio di intraprendere nuove strade produttive, dalla costruzione ex novo di un’azienda sulla base di un project e business plan, a nuove forme di produzione che sconfineranno in un nuovo artigianato, all’autoproduzione e a una concezione sinestetica del design, tutte esperienze che entreranno a far parte del nuovo design italiano. A testimonianza
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di quanto la collezione sia ancora vitale e quanto ancora profonda ed attuale sia la capacità di corrompere qualunque unità stilistica, dei pezzi Memphis pensati come unità scoordinate a destinazione libera, duecentoventi sono ancora in catalogo e delle dieci lampade presentate all’esordio, con l’attuale riedizione della lampada da terra Cavalieri di Sottsass, ne sono in
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produzione nove. Molti sono una testimonianza di un tempo, altri, compagni di percorso, altri in quanto esemplari, non sono ancora stati superati e il tempo lo stanno segnando in attesa di essere ancora usati indifferente mente in qualsiasi ambiente di qualsiasi stile, come era volontà del gruppo. P. R.
Sommario dei fascicoli pubblicati
N. 1. Le «Nuove Iconi» e la «civiltà del consumo» - Architettura utopistica - La sociologia dell’arte dei sociologi - Esperienze della Biennale - Tecnologia e poetiche contemporanee - Nouveau roman e arti figurative - Il Gaudi di Pane (fascicolo esaurito) N. 2. Design e mass media - Gestalt prima e dopo - L’estetica neonaturalistica di Romanell - Della Pop Art e di una mostra a Vienna - La poetica urbanistica di Lynch - Semantica dell’arte - Architettura come linguaggio (fascicolo esaurito) N. 3. Architettura e cultura di massa - Alcuni temi dell’Informale - Kunstwollen e intenzionalità in E. Panofsky - Dal pragmatismo alla fenomenologia - Libri, riviste e mostre N. 4. La critica discorde - S.K. Langer, L’influenza sociale del design - T. Munro, Recenti sviluppi dell’estetica in America - G. Veronesi, Sull’architettura del secolo - L. Vinca Masini, Le mostre dell’estate ’65 - Libri, riviste e mostre N. 5. I criteri di valutazione dell’arte contemporanea - Una politica culturale per i socialisti - Il visual design - Pareri sulla IX Quadriennale - Libri, riviste e mostre N. 6. Il disegno di architettura - J.P. Hodin, Esiste un’estetica dell’arte moderna? - Alcune voci dell’urbanistica contemporanea - Breve antologia delle ultime Biennali - Libri, riviste e mostre N. 7. Note per una semiologia figurativa - W. Hofmann, Gli inizi dell’attività formale - E. Garroni, 33a Biennale di Venezia: «jeu» e «sérieux» - Libri, riviste e mostre N. 8. Artisticità dei mass media - B. Jessup, Arte e storia - Il design scientifico di Alexander - Incontri di studi urbanistici - Libri, riviste e mostre N. 9. Il pensiero estetico di Adorno - 4 artisti scelti da Barilli - A. Vivas, Filosofia della cultura, estetica e critica: alcuni problemi - Libri, riviste e mostre
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N. 10. Il premio IN/ARCH alla nostra rivista - R. Barthes, Semiologia e urbanistica - Nuove idee per la Gescal - Il metodo scientifico nella pianificazione - G. Veronesi, Su alcune mostre dell’estate italiana - Libri, riviste e mostre N. 11. G. Morpurgo-Tagliabue, L’arte è linguaggio? - Urbanistica e arti visive oggi - Valori ed obiettivi nella pianificazione - Libri, riviste e mostre N. 12. Tre contributi alla semiologia architettonica - E. Garroni, L’eterogeneità dell’oggetto estetico - V. Corbi, Questioni di estetica empirica - A. Perez, Riflessioni di uno scultore sul tema dello spazio - Libri, riviste e mostre N. 13. L’«environmental design» e il suo insegnamento - Per una teoria dell’architettura - L’estetica del «pensiero negativo» in Marcuse - Libri, riviste e mostre N. 14. La prossemica: un nuovo apporto all’architettura? - La poetica del l’arte povera - Note sull’Università e la professione - O. Ferrari, Una Biennale rimasta senza giudizio - Libri, riviste e mostre N. 15. I problemi dell’istruzione artistica - R. Segre, Presenza di Cuba nella cultura architettonica contemporanea - Architettura fra retorica e logica Libri, riviste e mostre N. 16. Significanti e significati della Rotonda palladiana - G. Dorfles, Valori iconologici e semiotici in architettura - Attualità della retorica - Libri, riviste e mostre N. 17. Il centro della città (definizioni) - M. Tafuri, Ambiguità del Guarini - Lettura storico-semiologica di Palmanova - Libri, riviste e mostre N. 18. L’architettura per l’Università - E. Garroni, Semiologia e architettura. Alcuni problemi teorico-applicativi - Recenti contributi allo studio dell’«environmental design» - Libri, riviste e mostre N. 19. Segni e simboli del tempietto di Bramante - Note sull’immaginario in Filarete - Philip Johnson: la funzione della maschera formale - Biennale/ricerca - Libri, riviste e mostre N. 20. Utilità storiografica di una dicotomia linguistica - Meaning in Architecture - La cultura di Le Corbusier - New Towns (definizioni) - Libri, riviste e mostre N. 21. Note per una epistemologia della rappresentazione visiva - G. Bonsiepe, Panorama del disegno industriale - Per una poetica del profondo: Blaue Reiter - Libri, riviste e mostre
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N. 22. Nomi, luoghi, immagini di città nella «Recherche» di Proust - U. Eco, Analisi componenziale di un segno architettonico - Percezione ed esperienza estetica - Libri, riviste e mostre
N. 23. La «riduzione» culturale - Libri, riviste e mostre N. 24. «Arquitectura, historia y teoria de los signos» - Note di terminologia semiotica - Il design: processo e fruizione - Il «silenzio» dell’architettura contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 25. Note sull’arte concettuale - L. Benevolo, La recente storiografia della città - Lo storicismo e i confini della semiologia - Città-pubblicità: sul caso Las Vegas - Libri, riviste e mostre N. 26. La «riduzione» culturale nella progettazione architettonica - R. Barilli, Le due anime del concettuale - G. Morpurgo-Tagliabue, Commento alla «riduzione» culturale - L’antidesign - Libri, riviste e mostre N. 27. Altri aspetti della «riduzione» culturale - Interventi: G. Dorfles, Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto - P. Fossati, Riduzione o trasformazione? - T. Llorens, Sul concetto di comunicazione estetica - Libri, riviste e mostre N. 28. Elementi semiotico-progettuali d’architettura - M. Krampen, Dalla semiologia della comunicazione alla logica degli strumenti - Libri, riviste e mostre N. 29. Per una lettura semiotica della prospettiva - Elementi di una tendenza dell’architettura italiana - XV Triennale - Libri, riviste e mostre N. 30. Problemi di semiotica dell’arte contemporanea - B. Zevi, Sei postille su «Il linguaggio moderno dell’architettura» - Alcune opinioni sull’iperrealismo - Libri, riviste e mostre N. 31. Elementi della progettazione scientifica - Il segno indefinito della semiologia urbanistica - Note sulla cultura a «mosaico» - Arbitrarietà e motivazione del linguaggio architettonico - Libri, riviste e mostre N. 32. L’eccentrismo, un momento della avanguardia sovietica - U. Eco, Chi ha paura del cannocchiale? - Nota sul segno urbanistico - I segni e le «figure» del Padiglione di Barcellona - Libri, riviste e mostre N. 33. Architettura come istituzione - Il «ritorno» alla pittura - Università: le parole e le cose - Libri, riviste e mostre N. 34. Dall’estetica alla semiologia - La teoria di Hjelmslev e l’architettura: alcuni problemi - Il «realismo» di Giuseppe Samonà - Libri, riviste e mostre N. 35. Attualità dell’iconologia: alcune questioni metodologiche - R. Barilli, Difficoltà di un approccio semiotico alla culturologia - L’editoria architettonica - Libri, riviste e mostre N. 36. I centri storici nella prospettiva semiologica - Le idee di teatro, oggi - Una riproposta del «multiplo» - Libri, riviste e mostre
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N. 37. Dialettica del «piacere» e identità dell’architettura - Assenza-presenza: due modelli per l’architettura - La «storia dell’arte» nelle scuole - Libri, riviste e mostre N. 38. Le ricerche di architettura più attuali ed insolite - Dalla fotografia al videotape - Analisi di un corso di laurea: il Dams - Libri, riviste e mostre N. 39. La sociologia del gusto di Jean Baudrillard - Le posizioni di […] su alcuni temi della critica architettonica in Italia - Libri, riviste e mostre N. 40. «Aforismi» sui centri storici - Note sulla simmetria in architettura Bataille e la “svolta” di «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 41. Dipartimento e «architettura» - La «rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica - La critica d’arte in «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 42. L’idea di pittura in Lévi-Strauss - Sul concetto di gusto - Alcuni contributi alla critica dell’inconscio - Libri, riviste e mostre N. 43. La post-avanguardia - Luoghi e luoghi comuni della recente critica d’arte - Narciso e «l’altro»: note sul dibattito architettonico - Libri, riviste e mostre N. 44. Architettura: la «rimozione del nuovo» - Ipotesi per il segno iconico - Storia dell’arte, storia delle cose - Libri, riviste e mostre N. 45. Topologia e architettura - La casa: norma e «deroga» - Artisti e cinema - Libri, riviste e mostre N. 46. I quindici anni della nostra rivista - L’Architettura all’Ecole des Beaux-Arts - La Storia dell’arte Einaudi - Una griglia che non sia una grata N. 47. Architetto e ingegnere - Le scuole di critica d’arte in Italia - L’immaginario nella cultura di massa - Libri, riviste e mostre N. 48. Prima e dopo il Post-Modernism - L’iconizzazione del mobile - Civiltà del ’700 a Napoli - Libri, riviste e mostre N. 49. Il restauro architettonico: ricchi apparati e povere idee - F. Menna, La Biennale di Venezia. Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti - Critica d’arte e processi produttivi - Libri, riviste e mostre N. 50. Fortuna critica della «Tendenza» - R. Bonelli, Storiografia e restauro - La fotografia: indice o icona? - Libri, riviste e mostre N. 51. Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, riviste e mostre
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N. 52. L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre
N. 53. Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54. Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55. Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56. Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57. Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58. E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59. Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60. Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61. Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62. Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63. Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64. Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65. Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre N. 66. Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre N. 67. Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre
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N. 68. Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69. Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70. Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71. Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72. Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73. Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74. Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75. Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76. I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77. Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78. L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79. Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80. Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81. Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82. Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre
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N. 83. Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre
N. 84. Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85. Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86. Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87. Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88. L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89. Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90. L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91. «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92. Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93. La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94. Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95. Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96. Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97. Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98. Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99. Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre
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N. 100. Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101. Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102. Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103. Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104. La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105. L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106. Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107. Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108. Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109. Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110. Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111. Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112. Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113. Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114. L’architettura italo-europea (fascicolo monografico)
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N. 115. L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre
N. 116. Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117. Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118. Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119. L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121. La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122. L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123. Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine del l’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125. Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126. L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127. Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128. Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129. Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
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N. 131. Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132. Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133. Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134. Abitare la razionalità - Per una nuova classificazione delle arti - Il design aeronautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135. Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137. Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138. Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 139. Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
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N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Common Ground - Per il centenario di Jackson Pollock - Design: segni del tempo - Interni d’avanguardia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI N. 152. Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre N. 153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazione Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre N. 154. Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione - Ancora sul rapporto tra arte e pubblico - Design: scenari morfologici della contemporaneità - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 155. Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia - Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo - Della omologazione in architettura - Arti visive: da zona franca a fronte comune - È del designer il fin la meraviglia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 156. Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» - Modern/post: un territorio in-between - «Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradig-
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ma espositivo - Moda: sistema e processi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Campania N. 157. Editoriale - Una “ipostasi” della forma-tatuaggio - Aspetti e intenti del graffitismo d’oggi - Lebenswelt e architettura - Design vs Lebenswelt Libri, riviste e mostre N. 158. Architettura e qualità nell’età dei concorsi - La nostalgia nella cultura digitale - Conformazione e trasformazione degli spazi interni - La ricerca di una definizione di design - Libri, riviste e mostre N. 159. «Corporea» alla Città della scienza di Napoli - Mono-ha nel contesto globale. Poetiche e culture a confronto - Distruzioni e ricostruzioni a Berlino - Il tempo del tipo nello spazio del design - Libri, riviste e mostre N. 160. Il mestiere di architetto: prospettive per il futuro - Téchne e progetto d’architettura - Riflessioni sulla 57ª Biennale di Venezia e Documenta 14 a Kassel - Didattica e design, dal learning by doing al learning by design - La rivista «October»: temi e nuclei teorici - Libri, riviste e mostre N. 161. La metodologia circolare della progettazione in architettura - Aldo Rossi. Topografia urbana - Artisti italiani e realtà sociale nel secondo dopoguerra - La rivista «October»: novità metodologiche e crisi di un paradigma - Il design (morale) dell’ordine - Ernesto Basile. Dall’architettura d’interni all’industrial design - Enzo Mari. Opera, multiplo, serie - Libri, riviste e mostre N. 162. Il BIM. Un parere in evoluzione - Bruno Zevi e lo spazialismo architettonico - Semantiche del sublime architettonico - Brecht nostro contemporaneo - Il dono e l’arte, la festa e la dépense ai tempi di internet - Il “nuovo” nel modello Design-Oriented - Handmade in Italy - Libri, riviste e mostre N. 163. L’architettura è (ancora) un’arte? - Sull’unbelievable: Hirst, il fantasy, la post-verità - La Biennale d’architettura 2018 - Crossing the border: la storia dell’arte nell’epoca della globalità - La teoria in scena: Adolphe Appia - Libri, riviste e mostre N. 164. Architettura e tecnocultura “post” digitale. Verso una storia - Arte di ieri, oggi e forse anche domani - L’arte del XXI secolo - Il Teatro grottesco di Mejerchol’d - Industrialismo e archeologia industriale - Convergenze tra design e bioscienze - Ernesto Basile: dall’architettura d’interni al design Libri, riviste e mostre N. 165. Organic and mechanical - Paesaggi dell’Antropocene - Carlo Ludovico Ragghianti “architetto”. Dal dibattito al museo - Oltre il biomorfismo: l’approccio bioispirato - Libri, riviste e mostre
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Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998 ÂŤGrafica ElettronicaÂť - Via Bernardo Cavallino, 35/g - 80128 Napoli
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