ISSN 0030-3305
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numero 167
Smart Cities - Fenomenologia della nostalgia - Olivetti in Messico: 1949-2002 - Donne e architettura: il Woman’s Pavilion di Chicago - L’opera, l’immagine digitale e il Digital Storytelling 2.0 - Sulle tracce dell’opera d’arte. Video-recording e XXI secolo - Incoming/ Outgoing. Flussi trans e multiculturali nel design contemporaneo - Libri, riviste e mostre Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli
Grafica Elettronica
Selezione della critica d’arte contemporanea
rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Comitato scientifico Philippe Daverio Kenneth Frampton Vittorio Gregotti Juan Miguel Hernández León Aldo Masullo Vanni Pasca Franco Purini Joseph Rykwert
Comitato redazionale Roberta Amirante Pasquale Belfiore Alessandro Castagnaro Imma Forino Francesca Rinaldi Livio Sacchi Alberto Terminio Segretaria di redazione Emma Labruna
Website e digitalizzazione Ermes Multimedia digital design per la cultura Concept: Renato Piccirillo Sviluppo: Riccardo Marotta, Valeria Pazzanese Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 info: +39 081 7690783 - fax: +39 081 7705654 e-mail: rendefus@unina.it - elabruna@unina.it Amministrazione: 80128 Napoli, Via B. Cavallino, 35/G info: +39 081 5595114 - +39 081 5597681 e-mail: info@graficaelettronica.it Abbonamento annuale: Italia e 50,00 - Estero e 70,00 Un fascicolo separato: Italia e 18,00 - Estero e 25,00 Un fascicolo arretrato: Italia e 20,00 - Estero e 27,00 Grafica Elettronica
All’indirizzo www.opcit.it è disponibile l’intera collezione della rivista dal numero 1 del settembre 1964 ad oggi
L. Sacchi R. De Fusco, V. Pagnini P.P. Peruccio R. Sessa
Smart Cities 5 Fenomenologia della nostalgia 12 Olivetti in Messico: 1949-2002 22 Donne e architettura: il Woman’s Pavilion di Chicago 33 O. Scotto Di Vettimo L’opera, l’immagine digitale e il Digital Storytelling 2.0 42 A.L. De Simone Sulle tracce dell’opera d’arte. Video-recording e XXI secolo 51 C. Martino, I. Caruso, Incoming/Outgoing. Flussi trans V. Maselli e multiculturali nel design contemporaneo 61 Libri, riviste e mostre 76
Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Greta Allegretti, Luca Buoninconti, Carola D’Ambros, Anna Luigia De Simone, Federica Marchetti, Francesca Pirozzi, Roberta Ruggiero, Giuseppe Vaccaro.
Smart Cities LIVIO SACCHI
La parola smart, o il termine intelligente, si riferisce a ogni tecnologia digitale impiegata in un determinato contesto urbano con l’intento di produrre nuove risorse, di ottimizzare quelle esistenti, di modificare il comportamento dell’utente o di garantire altri miglioramenti prospettici in termini di flessibilità, sicurezza e sostenibilità [F. Bria, E. Morozov, Ripensare la smart city, Codice, Torino 2018, p. 9]. Progettazione e gestione si avvalgono di un “gemello” digitale (alla scala urbana o di quartiere, infrastrutturale come del singolo edificio), una piattaforma su cui lavorano progettisti, fruitori, investitori, fornitori ecc. I sistemi urbani smart sono ormai una realtà in Europa, Nord America, Cina, Giappone e Corea del Sud, come in altri Paesi. Ma dietro tale generalizzata etichetta c’è una realtà articolata che, a seconda degli autori, dalla fine degli anni Novanta in poi ha assunto aggettivazioni diverse: città cablate o networked (Castells, 2001), techno cities (Downey e McGuigan, 1999), cyber cities (Graham e Marvin, 1999), creative cities (Florida, 2005), e-cities (Fusero, 2008), digital cities (Komninos, 2009), ma anche u-cities o ubiquitous cities ecc. Naturalmente le città smart sono parte di un universo smart, fatto di smart economy, smart mobility, smart living, smart governance, smart environment ecc. Le smart grids sono reti intelligenti in grado di ottimizzare i consumi senza perdere in qualità o sicurezza dei servizi. Ricordiamo inoltre, com’è stato più volte osservato, che le smart cities sono tali nella misura in cui i cittadini che le abitano adottano compor-
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tamenti sociali smart. Il loro successo dipende dunque da un complessivo processo di maturazione, se non da una vera e propria mutazione culturale. Le città intelligenti costituiscono insomma uno dei principali ambiti d’intervento delle tecnoscienze contemporanee, che ha come obiettivo il miglioramento della qualità della vita agendo, specificamente, in settori diversi: dall’energia alla mobilità, dall’acqua alle comunicazioni. In una città smart la sfera analogica, cioè fisica, coesiste con quella digitale: ne deriva una spazialità ibrida, frutto di una originale addizione, Internet + IoT, Internet of Things. Tecnologia, quest’ultima, che investe ogni cosa: uno smartphone o un computer, un frigorifero o un paio di scarpe, una volta connessi, funzionano come generatori di dati. Esemplificando in maniera non esaustiva, ne restano coinvolti: la smart home, o casa intelligente; la logistica; il settore cosiddetto automotive, cioè automobilistico in senso lato; lo smart metering, le misurazioni intelligenti; il retail, le vendite al dettaglio; l’edilizia intelligente con il monitoraggio dei consumi e della sicurezza, anche sismica. Da uno studio condotto dalla statunitense EMC Research, emerge che entro il 2020 gli abitanti del pianeta saranno più di 7 miliardi, ma i dispositivi elettronici connessi in rete saranno più di 30 miliardi, non senza conseguenze evidenti. Saremo tutti interattivi e connessi e i nostri comportamenti tenderanno a modificare costantemente le città in cui viviamo; queste ultime saranno più reattive, cioè capaci di adattarsi a chi le abita, più efficienti e – si spera – più piacevoli. Il business che ne deriva ha dimensioni gigantesche: secondo le principali società di consulenza, il mercato delle smart cities raggiungerà i 3.000 miliardi di dollari entro il 2025, superando ogni altro settore imprenditoriale tradizionale. Il McKinsey Global Institute, per esempio, ha stimato che il potenziale economico dei prodotti e della applicazioni della nuova IoT (…) va dai 3.900 agli 11.100 miliardi di dollari [Ivi, p. 18]. Non è un caso, dunque, se le maggiori multinazionali sono al lavoro per progettare, costruire e programmare smart cities: IBM con la strategia Smarter Planet e il suo IOC, Intelligent Operations Center; Cisco con i programmi per le Smart + Connected Communities e il suo Command and Control Center; Philips con i sistemi di illuminazione LED e di controllo
alla scala urbana interconnessi City Touch; Siemens con una piattaforma di building management come Desigo CC; Microsoft con il programma CityNext dedicato alla sicurezza; Google con la sua City Unit; ma anche HP e molte altre. Il tutto all’interno di un orizzonte pressoché esclusivamente neo-liberista, fortemente influenzato dalle classifiche della competitività compilate, a livello globale, da agenzie quali Moody’s o Standard & Poor’s che “costringono”, come sappiamo, molte amministrazioni municipali e statali a lavorare per raggiungere punteggi accettabili, indispensabili a garantire investimenti e prestiti. Ma le cose sono in evoluzione: il dibattito internazionale sull’utilità del Pil come strumento di misurazione è aperto, in considerazione del fatto che non basta tener conto della crescita economica quando si dovrebbe ragionare sulla prosperità delle città. La “provocazione” è allora un ragionamento sull’energia: economica, cinetica – con le sue derivazioni in trasporto pubblico, traffico aeroportuale, accesso a internet, congestionamento urbanosociale (diseguaglianza economica, disoccupazione giovanile, partecipazione femminile), attrattiva (apertura al business, copertura medica, livello di istruzione) e ambientale (concentrazione PM 10, emissioni inquinanti, riciclo rifiuti) [Cfr. E. Pasquini, www.ppan.it, 2019]. Molti Paesi hanno dedicato ingenti risorse alla digitalizzazione dei servizi. Il Regno Unito nel 2011 ha istituito il GDS, Government Digital Service e lanciato un sito web unificato con l’obiettivo – che per noi italiani suona come mission impossible – di semplificare la vita ai cittadini, determinando fra l’altro significativi risparmi. Il governo britannico ha inoltre incentivato almeno una trentina di amministrazioni municipali a sviluppare strategie smart attraverso un concorso chiamato Future Cities Demonstrator. Alcune città nordamericane, come New York e Chicago, hanno creato ex novo ruoli di consulenti per le strategie digitali. Il governo di un piccolo ma innovativo Paese come l’Estonia – fra i primi a sperimentare soluzioni digitali per una serie di servizi diversi, dal voto alla sanità – sta esportando con successo tali esperienze in almeno una quarantina di Paesi. Nel 2014 Singapore ha varato la Smart Nation Vision: sono stati installati 1.000 sensori in grado di attivare una capillare raccolta di dati
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significativi per la gestione della città. La sperimentazione di nuove soluzioni, anche in questo caso, è andata di pari passo con la loro esportazione, generando una sorta di colonialismo digitale: politica per la quale Singapore si segnala non senza una certa mercantile aggressività. L’agenzia governativa responsabile per circa l’80% del patrimonio residenziale della città-stato asiatica, ha elaborato una serie di tecnologie digitali in almeno quattro settori strategici: Smart Planning, Smart Environment, Smart Estate e Smart Living. I risultati sono stati molto interessanti negli ambiti più diversi, dal risparmio energetico alla gestione dei rifiuti fino all’assistenza ad anziani e disabili. In Australia, il governo Turnbull ha istituito il nuovo Digital Transformation Office e, nel 2015 (seguendo ciò che aveva fatto il Regno Unito nel 2011), il Ministero per le infrastrutture urbane e le città. De Blasio, negli anni in cui è stato sindaco di New York, ha promosso una serie di programmi educativi sul tema della digitalizzazione in collaborazione con Google, Microsoft e Facebook. Nel 2015 la presidenza Obama ha lanciato la Smart Cities Initiative, investendo fondi federali per dare supporto alle amministrazioni locali: più di venti città e università presero parte al MetroLab Network con l’obiettivo di saldare ricerca e prassi operativa e il risultato di dare il via a oltre sessanta progetti di smart cities a partire dal 2016. Il governo indiano, attraverso la Smart Cities Mission, ha varato la costruzione di cento smart cities: uno dei programmi più ambiziosi a scala mondiale. Il progetto ha prevedibilmente suscitato l’interesse delle aziende del settore, che vi hanno visto un’ottima occasione per fare affari, e le simmetriche proteste di attivisti e intellettuali che considerano una simile operazione rivolta pressoché esclusivamente alle élites (non a caso: si tratta di insediamenti pensati per le classi agiate), avanzando dubbi sulla priorità di tale scelta strategica. Da una parte, in termini di progettazione l’ovvia domanda è perché un paese come l’India – con una popolazione che non ha acqua potabile, nessun sistema fognario e nessun ambulatorio a livello di quartiere – cerca di seguire questa strada destinata al fallimento progettando 100 smart cities nuove di zecca [R. Sennett, Costruire e abitare, Etica per la città, Feltrinelli, Milano 2018, p. 185]. Dall’altra va detto che si tratta di una nazione in cui i miliardari e le grandi
aziende costruiscono già i propri centri urbani completamente privatizzati, come Lavasa o Gurgaon, quindi la costruzione di oltre cento smart cities nell’arco di pochi anni potrebbe avere un effetto non così straniante per gli indiani [F. Bria, E. Morozov, op. cit., p. 27]. Nell’area metropolitana di Seoul, nei pressi dell’aeroporto di Incheon, sorge il Songdo International Business District, probabilmente la smart city più avanzata al mondo, un vero e proprio hub dell’high tech. Fra gli esempi notevoli di progettazione dal nulla di nuove città, digitalizzata e ipertecnologica, Songdo è stata realizzata, a partire dal 2000, su 610 ha sottratti al mare: con una popolazione di 200.000 abitanti, il nuovo insediamento è collegato da un viadotto al terminal aeroportuale intercontinentale e, in quanto International Business District, è parte integrante della Incheon Free Economic Zone, istituita per attirare investimenti dall’estero. Il progetto prevede fra l’altro, oltre a molte nuove torri, una serie di repliche: dal Central Park di New York ai sempre richiesti canali veneziani. Ma ciò che stupisce è l’innovativo approccio gestionale: Il centro di controllo della smart city di Songdo è una località che sprigiona una calma irreale. È chiamata ‘cabina di pilotaggio’, che in coreano non suona facile, ma rappresenta l’aspirazione dei progettisti di Songdo di creare un modello per altre località, basato sull’idea di guidare una città come se si pilotasse un aereo. La ‘cabina di pilotaggio’ esisteva sin dall’inizio. Una serie impressionante di schermi giganti mostra ciò che succede in città, in termini di qualità dell’aria, utilizzo dell’elettricità, flusso del traffico. I tecnici sono seduti su sedie girevoli, osservano gli schermi, notano qualcosa, fanno una correzione, ma non parlano molto. Non ce n’è bisogno. Le formule che fanno funzionare le macchine che governano la città sono perfette (…) Le sembianze amene di Songdo tradiscono il fatto che il verde, i laghetti, il terreno ondulato, sono tutti calcolati in funzione dell’efficienza e del risparmio ambientali. Indicando una mappa nella ‘cabina di pilotaggio’, un tecnico conosce la quantità esatta di assorbimento di CO2 in un dato parco (…) C’è un flusso a senso unico dal comando centrale al sensore o allo smartphone portatile; il sensore, regolato manualmente o automatico,
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registra le informazioni, ma il centro di controllo ne interpreta il significato e stabilisce come deve regolarsi il palmare. È il modo in cui funziona Google Maps e altri noti programmi, ma l’obiettivo di controllo di Songdo è infinitamente più vasto. Una centralina registra dove si trovano i dipendenti controllando l’uso degli smartphone. In un uso della tecnologia meno improntato al Grande Fratello, come la regolazione dei semafori, un’intera città, anche se piccola, funziona in base agli ordini della ‘cabina di pilotaggio’ – o più precisamente su ordine della colletta di dati, di algoritmi interpretativi o monitoraggio di apparecchi visivamente disponibili nella stanza [R. Sennett, op. cit., pp. 182-183]. Tuttavia molte torri sono vuote: a causa della crisi, che ha colpito la pur laboriosa e ricca Corea del Sud, ma anche perché molti preferiscono vivere dove magari l’efficienza è minore ma è possibile ritrovare quella disordinata diversità che è un requisito indispensabile per la stessa idea di città. Prevedibilmente orientata al futuro, essendo promossa e in gran parte finanziata da Bill Gates assieme ad alcuni imprenditori locali, è poi Belmont in Arizona, a circa 40 miglia a ovest di Phoenix. Cascade Investments, gruppo privato che fa appunto capo a Gates, vi ha già investito 80 milioni di dollari: su di un territorio di circa 25.000 acri per una popolazione di quasi 200.000 abitanti, sono previste reti digitali ad alta velocità, veicoli senza pilota, centri di raccolta dati, istituti dedicati alle alte tecnologie e nuovi modelli di distribuzione. Il sole, garantito tutto l’anno, costituisce la principale fonte di energia. Ma la sfida più grande è legata all’acqua, in uno stato che ne ha poca e che, al pari di California e Nevada, dipende unicamente dal fiume Colorado: Belmont dovrà sviluppare una inedita cultura degli approvvigionamenti idrici. Nonostante la sua indiscutibile sperimentalità, ha attirato diverse critiche. Molti ne contestano l’artificialità (rischia di diventare più simile alla Epcot di Walt Disney che non a una vera città). Altri la vedono come un progetto che spaccia per innovativo un approccio sostanzialmente vecchio, che sottrae estese superfici alla natura per costruirvi a bassa densità. A Dubai, infine, si terrà la prossima Expo 2020 il cui titolotema è: Connecting minds, creating the future. Si prevede la rea-
lizzazione di una nuova torre disegnata da Santiago Calatrava, un “ago” retto da uno spettacolare fascio di stralli d’acciaio; di un nuovo aeroporto, Dubai World Central, pensato per 240 milioni di passeggeri l’anno; di nuove città, da Aladdin City a Dubai South. Per l’occasione entrerà in funzione il primo impianto Hyperloop, il sistema di trasporto ad altissima velocità all’interno di tubi con capsule spinte da motori a induzione e compressori d’aria. La città si sta insomma preparando a una ulteriore espansione demografica e fisica. All’interno dell’Expo tutto sarà digitalizzato, dagli ingressi ai cancelli fino agli ordini nei caffè e nei ristoranti, con l’obiettivo di evitare le code (uno dei problemi dell’Expo milanese), ma anche personalizzare le richieste ed evitare sprechi energetici e di cibo. Dubai intende proporsi come il luogo più smart del pianeta: la connessione 5G renderà possibili una serie di novità, dai veicoli driverless all’automazione industriale fino al citato Internet of Things. La tecnologia sarà invisibile e user friendly, per apparire come qualcosa cui tutti sono istintivamente abituati. I comportamenti dei visitatori – 150.000 al giorno – saranno discretamente rilevati e analizzati affinché tutto funzioni; 30.000 volontari saranno dotati di dispositivi digitali per agevolare la riuscita dell’evento. Dalla gestione energetica a quella degli edifici, dagli impianti d’illuminazione all’irrigazione del verde, dai consumi idrici ai cestini dei rifiuti, tutto sarà smart, connesso e sotto il controllo di un’unica piattaforma IoT resa possibile dalla collaborazione fra Accenture, Cisco, Etisalat, SAP e Siemens: una vera e propria prova generale di futuro.
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Fenomenologia della nostalgia RENATO DE FUSCO, VALERIA PAGNINI
Introduzione
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Come in precedenti studi, non vogliamo dare una definizione dell’oggetto in esame, la nostalgia, perché questo termine, e l’altro ad esso associato di «melancolia», hanno molteplici significati, benché riducibili a pochi concetti, grazie ai quali si rende meno arbitrario il discuterne. Donde il ricorso, nel nostro saggio, alla più inclusiva e, in pari tempo, fertile espressione della loro fenomenologia, servendoci, laddove è possibile, di citazioni pertinenti. Quest’ultima, non seguendo gli eventi e i processi, va costruita come un artificio storiografico. George Kubler, che tratta tutt’altra materia – la storia e il tempo –, a questo proposito sostiene: Possiamo cogliere l’universo soltanto semplificandolo con idee di identità distinte in classi, tipi e categorie e riordinando l’infinita continuità di eventi non identici in un sistema finito di similitudini. È nella natura dell’essere che nessun evento possa mai ripetersi, ma è nella natura del nostro pensiero che noi possiamo intendere gli eventi soltanto per mezzo di identità che immaginiamo esistere tra loro [G. Kubler, La forma del tempo, Einaudi, Torino 1976, p. 83]. Il nostro artificio si fonda su alcune categorie, entro le quali rientrano i molteplici aspetti sia della nostalgia che della melanconia. Queste sono: A) la psicologia; B) la filosofia; C) l’arte; D) la storia; E) la religione. Il pensiero, la memoria, il ricordo e il sentimento – la materia, per così dire, della nostra ricerca – sono i fattori basilari della
nostalgia e della melanconia, i cui processi sono accomunati e caratterizzati da un’invariante, ossia dal senso della mancanza di qualcosa. Prima di procedere oltre, precisiamo che «nostalgia» e «melanconia» sono due sentimenti diversi. Il primo denota l’agire del ricordo, il secondo il disappunto che quest’ultimo produce in noi. La psicologia L’incipit della ricerca può essere la definizione del termine «nostalgia» quale gli fu attribuita dal medico alsaziano Johannes Hofer, il quale nel 1688 coniò la parola «nostalgia» utilizzando l’etimo greco di νόστος (nostos, ritorno) e άλγος (algos, dolore) per indicare una malattia di cui soffrivano i mercenari svizzeri che si trovavano lontani da casa. Benché evochi due parole antiche, la nostalgia è quindi un’espressione moderna, che traduce il francese «mal du pays» e il tedesco «Heimweh» per indicare il dolore dovuto alla lontananza da casa. Kant parla della nostalgia quando prova a definire l’«irreversibile»: Gli svizzeri […] sono colti da una grande nostalgia per il loro paese quando sono costretti a vivere in altri; essa è prodotta dal ritorno delle immagini della spensieratezza e delle liete compagnie della giovinezza, che li spingono verso i luoghi in cui godettero le gioie semplici della vita. Se però fanno ritorno in quei luoghi, se ne restano delusi e quindi guariti: credono che ciò dipenda dal fatto che in quei luoghi tutto è cambiato, ma in realtà è perché non vi trovano più la loro giovinezza [I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico (1798), trad. it. in P. Chiodi (a cura di), Scritti morali, Utet, Torino 1970]. A partire dalla fine del XVIII secolo, e
soprattutto nella prima metà del secolo successivo, la nostalgia si allontana gradualmente dalla psicologia e si connota di numerosi significati, liberandosi dal riferimento a luoghi precisi o al passato infantile, per assurgere a condizione di desiderio indefinito. Anche la parola «melanconia» trae origine dalla disciplina medica: il primo a formulare una teoria al riguardo è Ippocrate, che definisce l’atteggiamento melanconico come un riflesso negativo dello squilibrio degli umori fisici che si trovano all’interno del corpo umano. Nella Grecia antica, infatti, vigeva la teoria dei
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quattro umori (sangue, bile gialla, flegma e bile nera), la cui maggiore o minore prevalenza nel corpo umano determinava quattro diversi tipi psicofisici fondamentali, o caratteri; nel melanconico, dunque, la complessione fisica (e psichica) era determinata dalla bile (cholé) nera (mélas). Aristotele nel Problema XXX sviluppa le caratteristiche di questo malessere attribuendolo agli uomini eccezionali: Perché coloro che sono stati fuori dell’ordinario in filosofia, in politica, nella poesia e nelle varie arti sono stati tutti, a quanto pare, dei melancolici […]? Tale fu Eracle, secondo quanto si dice nei miti eroici […] e sembra che molti altri eroi siano stati affetti in modo simile, come anche, in tempi più recenti, Empedocle, Platone, Socrate e molte altre celebrità. Così anche la maggior parte dei poeti (Problema XXX, I, 935, 10-30). Ancora pertinente il campo della psicologia è il legame della nostalgia e/o della malinconia con la dicotomia coscienza/inconscio. Chiameremo “cosciente” […] soltanto la rappresentazione che è presente nella nostra coscienza e che viviamo intuibilmente; invece le rappresentazioni latenti, quando abbiamo motivo di ritenere che continuino ad esserci nella vita psichica – come è il caso della memoria –, dovranno essere indicate col termine “inconscio”. Una rappresentazione inconscia è perciò una rappresentazione che non avvertiamo, ma alla quale siamo disposti ad attribuire un’esistenza in base ad indizi e prove di altro genere [S. Freud, Inconscio, in C.L. Musatti, Freud, Boringhieri, Torino 1963, pp. 77-85]. Basilare nella teoria freudiana è il fenomeno della «rimozione», intesa come un processo che avviene in due tempi, di cui il primo è inconoscibile, ma è per così dire evocato dal secondo. Si tratta di una sorta di affezione differita che comporta «un rapporto rovesciato tra esperienza reale e ricordo». Un’affezione cioè che diventa esperienza vissuta soprattutto attraverso il ricordo nostalgico. L’esperienza presente mobilita il ricordo del passato che diventa “rimozione della cosa rimossa”. Tale rimozione se appartiene all’ordine della nostalgia si configura come un problema di conoscenza; al contrario, se appartiene all’ordine della melancolia si configura come sintomo nevrotico.
La filosofia La cultura greca non diede soltanto i termini del nostro tema, ma lo coinvolse in ragionamenti filosofici. Il filosofo della nostalgia può dirsi Plotino, che, riprendendo Platone, eresse un pensiero incentrato sull’impulso dell’anima a ricongiungersi all’Uno da cui è sgorgata, parlando quindi di nostalgia nei confronti di una condizione preesistenziale: In virtù dell’Uno – egli dice – tutti gli esseri sono quello che sono: infatti, che cosa sarebbe un essere se non fosse uno? […] In ogni cosa c’è un’unità alla quale si deve risalire e tutto si deve ricondurre all’unità che è antecedente, finché di grado in grado si giunge all’Uno assoluto che non ci riconduce ad altro (Enneadi, VI, 9, 1). La nostalgia dell’unità perduta col tutto viene ripresa dalla filosofia moderna. Friedrich Hölderlin scrive: Essere uno col tutto, questa è vita divina, questo è il paradiso dell’uomo [Iperione o l’eremita in Grecia, trad. a cura di G. Scimonello, Pordenone 1995, p. 9]. Tale bisogno arriva a spiegare, nelle parole di Novalis, l’impul-
so filosofico: La filosofia è propriamente nostalgia, desiderio di sentirsi ovunque a casa propria [Novalis, Opera filosofica a cura di F. Desideri e G. Moretti, Einaudi 1993, 2 voll., p. 466]. La nostalgia viene dunque indicata dal poeta come lo stato d’animo d’inquietudine che accompagna l’esercizio della filosofia, intesa come aspirazione romantica a uscire dalla finitezza della realtà, che genera un indefinito malessere, per tornare all’infinito, origine e casa comune dell’umanità [cfr. I. Berlin, Le radici del Romanticismo, trad. it. di G. Ferrara degli Uberti, Adelphi, Milano 2001, p. 165]. L’arte La nostalgia è il sentimento originario che ha mosso l’arte, il pensiero e la grande letteratura di ogni tempo. Il sentimento della nostalgia è presente nella letteratura greca, come testimonia l’Odissea, dove troviamo lemmi, quali νέεσθαι (“partire”), νοστήσας (“tornato”), ecc. che fanno riferimento al tema del ritorno dell’eroe sofferente per nostalgia. Questo tema ha origini arcaiche e viene espresso in varie radici linguistiche indoeuropee, e attestato in diverse culture e mitologie, dalla Gre-
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cia all’India, a dimostrazione della sua costituzione ad archetipo [M. Ruggirello, L’eterno Ulisse, n. 1, 17 luglio 2012]. La casistica delle nostalgie trova nel campo dell’arte una vasta gamma non sempre dolorosa. Tutto il Rinascimento può vedersi come una nostalgia, questa volta attiva, del mondo antico. Con la stagione umanistico-rinascimentale, la nostalgia assume una forma nuova, ad un tempo gioiosa e malinconica: il celeberrimo verso di Lorenzo de’ Medici, «Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! chi vuol esser lieto, sia: di doman non v’è certezza», si riferisce alla giovinezza allegra ma anche effimera, in quanto solo di passaggio. La tematica del trascorrere del tempo e delle gioie passeggere della vita è tipica della tradizione classica: si pensi, ad esempio, all’ode 1,11 di Orazio, e in particolare al famoso verso carpe diem quam minimum credula postero. Del tutto originale e tipica del Rinascimento è, però, la vivacità con cui si esprime questo amaro sentimento, che può essere dimenticato solo grazie alla festa spensierata e alla gioia di vivere. Il caso di Palladio, definito con contraddizione ora un classico ora un manierista, si spiega dicendo che, con le sue opere, egli abbia reso classico un sentimento romantico come la nostalgia: non è casuale che una delle sue ville sia stata ricordata come «La Malcontenta». Peraltro, è proprio nel Rinascimento che la malinconia conosce una graduale rivalutazione, i cui prodromi stanno in un cambio di paradigma legato a una violenta polemica contro la Scolastica e la sua concezione della dialettica, del diritto, delle scienze naturali. Nel Medioevo, la melanconia è associata al peccato mortale dell’accidia: un nesso che l’età nuova progressivamente dissolve. È paradigmatico in tal senso l’atteggiamento nei confronti della vita manifestato dal Petrarca ancora nel tardo Trecento. Il poeta riconosce come accidia la propria malinconia e la combatte come vizio rovinoso; ma, al tempo stesso, riconosce nella propria condizione di isolamento e nella libertà dello spirito indagatore un atteggiamento per guadagnare il giusto modo di rapportarsi agli uomini e perfino a Dio. In tal senso, vi coglie una disposizione che consente all’intellettuale di produrre quelle copiose e misteriose fantasie che attingono al sublime [E. Filippi, Inesauribile Melencolia. Chiavi e ricchezza del capolavoro düreriano, Marsilio, Venezia 2018, p. 14].
Dal canto suo, Marsilio Ficino nel Quattrocento definiva la melanconia come un «singolare e divino dono» e la collegava alla nozione platonica di «mania», dando prova dell’accezione sempre più positiva che stava acquisendo questo termine: è probabile, ad esempio, che nella Stanza della Segnatura Raffaello abbia dipinto Michelangelo come melanconico. Questa stessa posizione è assunta dall’incisione Melancholia I di Dürer, opera considerata da Panofsky e Saxl, per primi, emblematica di questa nuova concezione più fattiva della melanconia. Rudolf Wittkower a questo proposito scrive: L’opera del Ficino fu più d’ogni altra l’antesignana di un nuovo modo di concepire il talento. […] Nel Cinquecento una vera ondata di “tendenza alla melanconia” travolse l’Europa intera. Le qualità di carattere associate alla melanconia, come l’irritabilità, la variabilità d’umore, l’amore della solitudine e l’eccentricità vennero di moda, e la loro esibizione acquistò un certo valore snobistico, analogamente al Weltschmerz dei romantici o all’acredine dei nostri Giovani Arrabbiati. Non c’è da meravigliarsi che la melanconia sia un motivo costante delle Vite del Vasari. […] Possiamo adesso fare più luce anche sulla “pazzia” e “melanconia” di Michelangelo. […] L’associazione fra “pazzia” platonica e “melanconia” aristotelica postulata dal Ficino è riecheggiata nell’uso fatto da Michelangelo di questi termini; e c’è ragione di presumere che più d’un artista del Rinascimento giudicasse tale associazione essenziale per la propria creatività [R. e M. Wittkower, Nati sotto Saturno, Einaudi, Torino 1968, pp. 118-119]. Notevole apporto alla problematica che studiamo viene da Alberto Savinio, che della malinconia scrive: Afflizione dell’anima affine alla tristezza, ma questa affligge più vivamente (più materialisticamente). Anche se cupa e profonda, la malinconia trova ancora sorgenti di tenerezza. Si direbbe che essa ha per carattere la dolcezza. La tristezza è disperata, la malinconia viene nelle “soste” della speranza. Se tanta malinconia è negli antichi, è perché l’immortalità, quell’immortalità “terrestre” cui essi erano destinati (o “condannati”) esclude la speranza. Arte vera è spesso malinconica, ma triste mai. In fondo, la differenza fra tristezza e malinconia è questa, che la
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tristezza esclude il pensiero, la malinconia se ne alimenta. Guardate come “pensa” la Malinconia di Dürer [A. Savinio, voce «malinconia», in Nuova Enciclopedia, Biblioteca Adelphi, Milano 1977, p. 246].
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Il nostro rapporto con l’arte comporta altre distinzioni. Generalmente, non proviamo nostalgia per le opere del passato, rese forti sia per la loro qualità che per la loro durata nel tempo; esse non danno luogo al sentimento di cui parliamo, bensì all’ammirazione e all’incanto. Al contrario, la gran parte dell’arte contemporanea, così fragile, discutibile, incerta, eccetera, produce vari tipi di nostalgia. Pensiamo a quella espressa nelle opere di Chagall, che rievocano la lontana Russia ebraica; ai dipinti di Giorgio Morandi, a quelle nature morte, così dolcemente intonate quasi a un solo colore, composte da oggetti polverosi, abbandonati da qualcuno che in precedenza li aveva usati; alla metafisica di De Chirico, che è improntata alla nostalgia di luoghi e personaggi al punto da deformarli, come le piazze d’Italia o i manichini; altro tipo di nostalgia si prova di fronte all’avanguardia russa, così attiva e volenterosa, mentre veniva bloccata nei suoi programmi dalla burocrazia amministrativa e politica. Non sorprenda la presenza della nostalgia e malinconia in tutte le concezioni artistiche citate, sia classiche che romantiche: d’altronde, come sostiene Panofsky, la stessa distinzione tra classico e romantico non è così profonda come si ritiene. Non si può dire, infatti, che il classico pertenga alla ragione mentre il «romantico» sia esclusivamente appannaggio del sentimento. Il sentimento del classico e della classicità si sviluppa proprio nell’età romantica e senza separatezza fra sentimento e ragione, valga per tutti il caso di Goethe. Come la valenza classica si può attribuire a ogni età dell’arte, così quella romantica si può riscontrare anche nel mondo antico, nel quale Nietzsche vede sia lo spirito apollineo che quello dionisiaco. Nietzsche aveva ragione affermando che l’anima greca, lungi dall’essere tutta “nobile semplicità e quieta grandezza”, è dominata da un conflitto tra il “dionisiaco” e l’“apollineo”. Ma nell’arte greca questi due principi non sono avversi e nemmeno separati. In essa non c’è bellezza senza movimento né pathos senza moderazione, l’“apollineo”, si potrebbe dire, è “dionisiaco” in potenza,
mentre il “dionisiaco” è “apollineo” in acto [E. Panofsky, Il significato delle arti visive, Einaudi, Torino 1962, p. 254]. La storia Nel nostro artificio di aver suddiviso la fenomenologia della nostalgia in categorie, occupiamoci ora di quella riguardante la storia, e muoviamo dal posto che Giovanni Gentile le assegna. Secondo il filosofo, la storia dell’uomo è storia solo come atto pensante e il passato, il trascorso, l’altro sono sussunti dall’io pensante, in un presente assoluto che non tramonta e non precipita nel suo opposto [G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, 1917, II, 41, 6, § 2]. Croce, in polemica con Gentile, in un appunto, intitolato Unità e diversità di storia e storiografia, contesta l’identità tra questi due termini. Il testo crociano assume storia e storiografia unificate e distinte insieme, e mette in guardia contro il concetto dell’unità di questi due termini, circolante nella letteratura filosofica italiana, poiché […] offre una superficiale somiglianza con l’altro della “contemporaneità” di ogni storiografia, ossia con la tesi che la storiografia nasca da un interesse o bisogno della vita pratica e perciò l’historia rerum gestarum dalle res gestae o, almeno, dalle res gerendae [B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari (1916), ed. cit. 1954, pp. 307-8]. La concezione della storia di Giovanni Gentile, secondo cui non esiste storia al di fuori del pensiero, cioè la storia coincide con la storiografia, ci permette di proporre un parallelismo con ciò che riguarda la nostalgia, fenomeno meramente mentale. Entrambe appartengono all’ambito del pensiero, ed entrambe rappresentano il tornare alla mente di persone e cose che non si collocano nel presente. Una differenza fondamentale fra la storia e la nostalgia sta in ciò che mentre la prima può raccontare anche eventi non vissuti in prima persona, l’altra è esclusivamente frutto dell’elaborazione individuale. Storia e nostalgia, inoltre, hanno una relazione particolare con il tempo: assumendo il pensiero come principale fattore ‘storiografico’, entrambe sono dipendenti o legate alla contemporaneità, poiché, come sosteneva Croce, ogni storia è storia contemporanea, e allo stesso modo si può dire che ogni nostalgia si attui nella
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contemporaneità. In Teoria e storia della storiografia, Croce affronta il problema della nascita della storia, che inizia in un dato momento, cioè quando si fa più vivo, in quel punto, il nostro interesse nell’investigarne il corso. La storia, come la filosofia, non ha un inizio storico, ma solo ideale e metafisico, in quanto attività del pensiero che è fuori dal tempo; e, storicamente parlando, è ben chiaro che prima di Erodoto, prima dei logografi, anzi prima di Esiodo e di Omero, la storia già c’era, perché non è dato concepire uomini che non pensino e non narrino in qualche modo le cose loro [Ivi, pp. 173-5]. Analogamente, anche la nostalgia è legata al tempo e viene avvertita solo nel momento in cui si fa più vivo in noi l’interesse a rivivere il ricordo. In conclusione, storia e nostalgia esistono entrambe nell’ambito del pensiero, ma con diversi effetti. Se è vero, infatti, che la storia non si ripete e che non è «maestra di vita» – come comunemente si ritiene –, lo stesso non può dirsi per la nostalgia, che si ripete e nel ripetersi può valere anche come guida per il presente. Peraltro, attraverso il ricordo ciò che non è più presente viene richiamato come sentimento concreto ed esperienza diretta, rendendo possibile consultare il passato e interrogarlo. Lo sosteneva già Platone, che, attraverso la dottrina dell’anamnesi, individuava un nesso tra la verità, la memoria, il ricercare e l’apprendere: concetti tutti riconducibili alla fondamentale attività del ricordare. Cosicché, paradossalmente, la debole nostalgia può indirizzarci di più che la forte storia. La religione
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Il primo sentimento religioso è espresso dal passo del Vangelo di Giovanni: In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum (I, 1). A nostro avviso, tale passo può intendersi come nostalgia di Dio, che apre tutta una teoria di nostalgie di cose non tangibili, giusta la definizione della fede di San Paolo: Est fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium (Eb XI, 1). Che la fede sia oggetto di nostalgia è provato dalla diversa età di chi la professa, poiché ogni stagione della vita la avverte in maniera differente, e spesso ogni età è nostalgica rispetto alla
precedente: esemplificando, può esistere non solo una nostalgia nella giovinezza, ma anche una nostalgia per la fede provata durante la giovinezza. La nostalgia va intesa anche come quella di un intero popolo, come racconta il caso della cattività babilonese, la deportazione a Babilonia dei Giudei di Gerusalemme e del Regno di Giuda al tempo di Nabucodonosor II, tra il VII e il VI a.C. L’importanza dell’Esilio nella Bibbia è, però, molto più grande: alcuni studiosi oggi pensano che tutta la Bibbia sia stata messa per iscritto, o almeno ritoccata per le sue parti più antiche, al tempo dell’Esilio e in sua funzione. L’Esilio sarebbe stato, quindi, un grande trauma per gli esiliati, che avrebbero dovuto reinterpretare la loro identità e la loro religione senza tempio, senza re e senza terra: per questo e altro, la nostalgia è stata il sentimento dominante per gli ebrei fino ai nostri giorni. Avviandoci ad una conclusione di un argomento evidentemente degno di essere ripreso, prendiamo in esame il tema della nostalgia del presente, sulla scorta della nota poesia di Borges, nella quale il desiderio nostalgico coincide con la realtà: In quel preciso momento l’uomo disse:/che cosa non darei per la gioia/di stare al tuo fianco in Islanda/sotto il gran giorno immobile/e condividerlo adesso/come si condivide la musica/o il sapore di un frutto./In quel preciso momento/l’uomo le stava accanto in Islanda [J.L. Borges, Nostalgia del presente, in La cifra, Alianza Editorial, Madrid 1981, p. 1207]. Com’è stato osservato a questo proposito, la nostalgia del presente appare quasi uno scippo di vitalità alla pienezza del tempo in atto, un’emorragia vitale o una schizofrenia mentale, che conduce a proiettarsi altrove, fuori dal momento in corso, al contrario del carpe diem. È la percezione di non vivere abbastanza il presente, di non trattenere alcuna traccia di quel che sta accadendo, come se finisse prima che se ne prenda pieno possesso. […] È il timore e il dolore di veder sfiorire le situazioni presenti. La fotografia è una forma tecno-pratica di nostalgia del presente: immortalare il momento o il luogo, fermarlo, antologizzarlo nell’archivio di una mitologia personale o familiare [M. Veneziani, Alla luce del mito. Guardare il mondo con altri occhi, Marsilio, Venezia 2017, ed. digitale].
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Olivetti in Messico: 1949-2002 PIER PAOLO PERUCCIO
Premessa Nel 1949 prende forma a Città del Messico un embrione di punto vendita Olivetti; nel 2002 si chiude ufficialmente l’ultima fabbrica Olivetti in Messico. In questo arco di tempo il 1968, che vede l’organizzazione a Città del Messico della XIX edizione dei Giochi Olimpici con le sale stampa per i giornalisti allestite dalla società Olivetti, rappresenta il momento di maggior visibilità del marchio in America Latina. La premiazione dei 200 metri del 16 ottobre del 1968 con i due velocisti afroamericani sul podio, il braccio alzato, il guanto nero, i piedi scalzi e la testa bassa, gesto simbolico e politico al tempo stesso, diventa una delle immagini icona del XX secolo e argomento centrale di discussione nei Centri de Prensa Olivetti. In quell’anno, infatti, la Olivetti raggiunge il vertice della notorietà in Messico, l’acme di un percorso continuo di crescita in termini di fatturato e di penetrazione dei prodotti di scrittura e di calcolo in un paese molto esteso, accessibile dal punto di vista culturale e linguistico, ma estremamente difficile da un punto di vista commerciale perché a forte protezione doganale. Verso il Sudamerica
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Esiste un’ampia letteratura sulle policy e sulle modalità di internazionalizzazione delle imprese1. In particolare due sono le
strategie adottate dalla Olivetti negli anni del secondo dopoguerra [Cfr. A. Castagnoli, Essere impresa nel mondo. L’espansione internazionale dell’Olivetti dalle origini agli anni Sessanta, Il Mulino, Bologna 2012]: da una parte, si decide di agire attraverso investimenti
diretti in paesi esteri per conquistare nuove aree di mercato (market seeking) avvicinandosi, maggiormente, a nuovi potenziali consumatori, come è accaduto ad esempio in Messico o in Giappone; dall’altra, con un approccio knowledge seeking, paragonabile a una metodologia field research, ci si avvicina alle fonti di conoscenza per osservare i competitor, si studiano le nuove tecnologie e i nuovi segmenti di mercato (anche strategic asset seeking): è il caso, ad esempio, dell’osservatorio creato nel Connecticut presso New Canaan nel 1952 per seguire i progressi nel calcolo elettronico. Queste due modalità possono affiancarsi, l’una può precedere l’altra ed eventualmente sovrapporsi moltiplicandone anche gli esiti. Il processo di penetrazione della Olivetti in America Latina segue uno schema lineare market seeking già applicato in altri paesi. Esso coincide con l’apertura di un primo nucleo per la vendita di prodotti importati dall’Italia, che successivamente si amplia fino a diventare un’officina di assemblaggio (plantas armadoras) di componenti provenienti dalle fabbriche europee, ed infine questo avamposto diviene autentico luogo di fabbricazione e vendita di macchine da scrivere e da calcolo. Già all’inizio degli anni venti Camillo Olivetti apre una rete di punti vendita in Argentina, Uruguay e Paraguay, aree geografiche strategiche sia per la presenza di una comunità italiana ben radicata, sia per la reale possibilità di incrementare i volumi di vendita della macchina per scrivere M20, fiore all’occhiello della produzione Olivetti di quegli anni. Nel 1932 si costituisce così la società Argentina Olivetti e nel 1937 la consociata Olivetti do Brasil S.A. Ma è nel secondo dopoguerra che si rafforza la presenza in Sudamerica: seguendo sempre lo stesso schema di ingresso e di consolidamento nei mercati internazionali, nel 1953 si costituisce la Olivetti Colombiana S.A. a Bogotà dedita, in particolare, alla vendita e, dal 1958, anche al montaggio.
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Mentre in Argentina la Olivetti consolida il proprio percorso di crescita: nel 1951 a Buenos Aires si configura il nucleo di uno stabilimento per il montaggio di macchine per scrivere con componenti provenienti dall’Italia, e tre anni dopo, nel 1954, a Merlo, vicino a Buenos Aires, Marco Zanuso avvia la costruzione della fabbrica da lui progettata. Si tratta di una fabbrica modulabile e ampliabile, ben documentata nelle riviste d’architettura dell’epoca, contenente le officine, il montaggio e gli uffici, e contraddistinta dall’elemento tecnico della condotta dell’aria: cifra stilistica dell’intero complesso. Le lunghe superfici dello stabilimento sono interrotte da travi parallele a sezione ovoidale: elemento che, insieme al dettaglio tecnologico sul fronte dell’edificio, è ampiamente fotografato e pubblicato. Zanuso stesso firma anche un secondo stabilimento inaugurato nel 1959 vicino a São Paulo. In questo caso la fabbrica è organizzata per un ciclo produttivo completo (officina, montaggi e servizi) arrivando a coprire una superficie di 35.000 mq. La struttura rimane sempre modulabile e, per l’area destinata alle lavorazioni di officina, è previsto un sistema di cupole a pianta triangolare che posano su colonne cave, all’interno delle quali sono collocate le apparecchiature per il condizionamento dell’aria. La Olivetti Mexicana A Città del Messico la consociata Olivetti Mexicana SA viene costituita nel 19492. Si tratta inizialmente di un ufficio per la vendita di macchine da scrivere e da calcolo prodotte in Italia. Nonostante i prodotti riscontrino un notevole successo la vendita subisce continui rallentamenti in seguito alla mancanza di scorte e ai lunghi tempi di consegna dei prodotti. Se una «spedizione [è] fortunata», come si legge nei documenti d’archivio, la merce imbarcata a Genova raggiunge il porto di Veracruz dopo circa 30 giorni di navigazione, e considerando poi tutte le altre fasi, dal trasporto via terra allo sdoganamento merce in Messico, si devono attendere «solo» due mesi per ricevere una macchina per scrivere in centro città [G. Trossarelli, Dattiloscritto del 25/07/1955, Fondo Presidenza, Do-
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cumentazione, Documentazione Ufficio Presidenza anni ’30-’70 (CON-
SOCIATE), Faldone 30, fascicolo 174, foglio n. 5, Associazione Archivio Storico Olivetti].
Nel caso invece di «spedizione disgraziata» il cliente deve attendere anche quattro mesi [Ibidem]. Diventa quindi necessario dotarsi di un magazzino e, successivamente, avviare in loco le fasi di assemblaggio di componenti per superare gli ostacoli dovuti alle restrizioni delle importazioni di prodotti finiti. La politica di espansione industriale attuata in Messico, pertanto, è in linea con quanto avvenuto negli altri paesi dell’America Latina. Nel novembre del 1960, presso la Colonia Industrial Vallejo si iniziano ad assemblare componenti di macchine, che formano prodotti finiti Olivetti venduti a partire già dal 1961, con uno scarto temporale minimo rispetto al Brasile e all’Argentina già avviate a un tipo di produzione a ciclo completo. A partire dal 1962 si decide di costruire la prima fabbrica Olivetti in Messico. La zona scelta è lo stesso quartiere, ovvero la Colonia Industrial Vallejo dove è già presente un magazzino per l’assemblaggio. La società Cubiertas Ala dell’architetto Felix Candela firma il progetto e la fabbrica viene inaugurata il 18 ottobre 1965. Lo stabilimento si compone di tre edifici: la fabbrica vera e propria, circa 11.000 mq, per la produzione dei componenti; la zona per l’assemblaggio di 5.000 mq; poi altri 5.000 mq per gli uffici, i magazzini, il centro di formazione e il Servizio Tecnico di Assistenza ai Clienti (STAC). In questo stabilimento vengono prodotte negli anni sessanta la Diaspron 82 (Marcello Nizzoli e Giuseppe Beccio, 1959), prima macchina di fabbricazione nazionale impiegata principalmente per il lavoro in ufficio, la portatile Lettera 22 (ancora Nizzoli e Beccio, 1950), la semiportatile Studio 44 (sempre Nizzoli e Beccio, 1952), la macchina da calcolo Summa 20 (Nizzoli e Natale Cappellaro, 1960) e successivamente la macchina da scrivere elettrica Tekne (Ettore Sottsass Jr e Hans Von Klier, 1965). A metà degli anni sessanta la distribuzione dei prodotti Olivetti nel mercato interno avviene attraverso 8 succursali dirette in città come Guadalajara, Monterrey e Puebla, e circa 90 concessionarie distribuite sul territorio nazionale. A ciò si associa la crescita esponenziale dei dipendenti della Olivetti Mexicana,
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passati dai 17 nel 1950 agli 895 nel 1957 fino a toccare i 1.500 nel 1967. Nel 1968 il nuovo piano di espansione della Olivetti in Messico prevede la costruzione di uno stabilimento produttivo a meno di 50 km a nord di Città del Messico. Il terreno individuato si trova a Cuatitlán, un’area agricola di 400.000 mq vicino all’autostrada che collega Città del Messico allo stato di Querétaro. Dopo un’attenta analisi si decide di affidare il progetto architettonico a Ricardo Legorreta e la costruzione dello stabilimento all’impresa Bufete Industrial. Nonostante non sia mai stato realizzato per gli alti costi dell’operazione e per il cambiamento tecnologico allora in atto – dalla meccanica all’elettronica – i cui effetti si manifestano tanto nello sviluppo dei nuovi prodotti quanto nella riorganizzazione dei processi industriali, il progetto di Legorreta rappresenta l’archetipo del disegno industriale olivettiano. E non è un caso se ancora oggi, riguardando le immagini di quel modello, ritornino più che mai attuali le parole che Goethe fece pronunciare al Faust nella scena prima dell’opera omonima, riprese successivamente anche da Sigmund Freud nel Compendio di Psicanalisi: Was du ererbt von deinen Vätern hast, / Erwirb es, um es zu besitzen! ovvero Ciò che hai ereditato dai padri riconquistalo se vuoi possederlo davvero [S. Freud, C.L. Musatti, Compendio di psicoanalisi, in C.L. Musatti (a cura di), Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. XI, p. 634]. Analogamente all’atto dell’ereditare
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che implica un movimento di soggettivazione del debito, il progetto si articola in tre volumi regolari collegati tra loro da passerelle coperte: quello più grande per le officine, l’area del montaggio e il magazzino; uno più piccolo per gli impianti di verniciatura, pressofusione ed iniezione della plastica; e il terzo, di chiara matrice olivettiana, in ossequio ai principi di Corporate Social Responsability, che si connota non solo come stabilimento produttivo, ma anche come luogo di socializzazione e cultura. Si riconoscono infatti i servizi sociali, come la mensa, la biblioteca, l’asilo nido e l’infermeria coerenti agli schemi e ai modelli applicati in altre fabbriche Olivetti in Italia, come a Ivrea o a Pozzuoli. Infine, campi da calcio, e spazi verdi per lo svago dei dipendenti. E un volume ortogonale, rosso, contenente la cisterna dell’acqua, si eleva segnando l’ingresso alla palazzina per uffici simil-
mente ad un landmark. Tutto l’insieme, come spiega l’architetto Legorreta nella relazione descrittiva del progetto, stabilisce una connessione con il verde circostante valorizzando i luoghi della produzione e del lavoro. Provando a replicare modelli positivi di relazione tra azienda e società, anche sulla scorta dell’esperienza già maturata in Italia, la Olivetti propone l’apertura di un Centro Culturale a Città del Messico. Verso la fine degli anni settanta si inaugura infatti il Centro Cultural Mexico-Italia «Adriano Olivetti» presso la Torre del Reloj nel quartiere centrale di Polanco a Città del Messico. Questa Torre, il cui progetto degli interni è affidato al designer H. Von Klier, diventa luogo di incontri e di mostre, perpetuando, almeno idealmente, quella visione di responsabilità sociale e culturale che ha contraddistinto la società Olivetti lungo tutta la sua storia, tanto da costituirne un’autentica legacy. Portatili per tutti Le macchine da scrivere portatili diventano, fin da subito, il prodotto di punta della Olivetti in Messico. Il loro successo commerciale è dovuto a una serie di fattori: in primis alla capillare attività di promozione «porta a porta», a partire dal 1953, di giovani venditori neoassunti quale risultato di una politica di espansione coraggiosa e di una nuova organizzazione di vendita voluta dal nuovo direttore commerciale Ugo Galassi. Tra questi giovani si distingue Julio A. Millá Bojalil, divenuto negli anni ottanta e novanta figura di spicco della Olivetti in Messico e azionista di maggioranza di due società collegate alla società italiana: Entré a Olivetti a punto de cumplir 19 años […]. Como vendedor iba de casa en casa con una máquina Lettera 22 colgando del hombro. La gente creía que vedía espaguetis o galletas, pues el nombre italiano les sugería eso, de modo que, sin saber qué tipo de productos ofrecía, su reacción inmediata era decir «no, gracias». Tampoco faltaba quien simplemente no respondía, o los que después de abrir sus puertas las cerraban de inmediato al notar que era un raro vendedor de máquinas de escribir. Sin embargo, persistí y alcancé buenos récords de venta. Al año de trabajar en la em-
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presa, en 1956, fu nombrado jefe de ventas, capo di vendite. Me planteé retos dificiles para ascender y seguir creciendo. Por ejemplo, si el equipo que dirigía vendía 300 máquinas en un mes, proponía que al siguiente buscáramos colocar 1000 más. Aumentar de esa forma el porcentaje de ventas parecía imposible; no obstante, merced al trabajo constante, organizado y creativo, la motivación adecuada de los vendedores y el buen trato a los clientes, se consiguió3 [J.A. Millán Bojalil, La fuerza de la imaginación, Conecta-Penguin Random House Grupo Editorial, Spagna 2016, pp. 91-92]. Altro fattore importante e moltipli-
catore di vendite è attribuibile all’efficace politica di marketing del management Olivetti per vendere le proprie portatili all’interno del mercato della scuola, con ricadute positive non solo in termini commerciali, ma anche di diffusione di un prodotto poco conosciuto e, allora, ad alto contenuto tecnologico [Tra i modelli più utilizzati: la Escolar, Lettera 25, Lettera 35, Dora, Lettera 32 e Lettera 22].
Un ulteriore incremento delle vendite delle portatili deriva da uno specifico Accordo di Complementazione per i prodotti d’ufficio avvenuto nel 1968 nell’ambito degli accordi ALALC (Associazione Latino Americana di Libero Commercio). Questo accordo da un lato garantisce alla Olivetti flussi bilanciati tra i paesi dell’America Latina, dall’altro favorisce la specializzazione di una sola linea di prodotto: al Messico viene assegnato il mercato delle portatili per l’intera America Latina, all’Argentina le macchine da calcolo e al Brasile le macchine per scrivere professionali. Nel 1979 lo sviluppo del mercato della portatile rende necessario decentrare i montaggi in due nuove sedi, ad Apizaco, nello stato di Tlaxcala, e a Tepeaca, nello stato di Puebla. Si costituiscono così due società, rispettivamente la Ensambladora Tlaxcalteca SA (ETSA) e la Armadora Tepeaca SA (ETSA) entrambe controllate da un gruppo di azionisti messicani. La promozione dell’immagine aziendale
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È il 7 dicembre 1962 quando il Messico decide di inviare la propria candidatura per ospitare i Giochi della XIX Olimpiade da svolgersi sei anni dopo, nel 1968.
Per convincere il Comitato Olimpico Internazionale (IOC) viene prodotto un documento di 180 pagine, in tre lingue, con tutte le informazioni dettagliate su ogni fattore utile a rafforzare la candidatura di Città del Messico come luogo ideale ad ospitare la manifestazione. Il documento si compone della descrizione delle strutture sportive già presenti in Messico, l’elenco degli eventi sportivi ospitati in precedenza, la previsione di spesa (business plan), una sintesi della storia e della cultura messicana fino alle condizioni meteo, alle temperature e alcuni pareri di medici su possibili effetti dell’altitudine sulla prestazione e sulla salute degli atleti. Dopo il mese di ottobre del 1963, quando Città del Messico è selezionata per ospitare i Giochi superando le proposte di Detroit, Lione e Buenos Aires, si costituisce formalmente il Comitato Organizzatore dei Giochi Olimpici. Ai due dipartimenti di Publications e Urban Design, riuniti in un solo team con quasi 400 professionisti (redattori, editori, traduttori, artisti, designer, architetti, fotografi, editori e stampatori), spetta il compito di progettare e organizzare l’intero programma di Identità visiva dell’evento4. La XIX edizione dei Giochi Olimpici rappresenta – fino a quel momento – l’evento con la miglior copertura mediatica della storia delle Olimpiadi moderne ed è sostenuto da ingenti finanziamenti per il lavoro dei 3.000 addetti stampa impegnati dal 12 al 27 ottobre 1968. Sulla scorta dell’esperienza maturata nelle due edizioni precedenti dei Giochi Olimpici di Roma, nel 1960, e Tokyo, nel 1964, la Olivetti si occupa dell’allestimento dell’intero sistema mediatico dell’evento: dalla progettazione, a cura di Egidio Bonfante e Silvana Bellino, delle sale stampa, degli arredi e degli accessori per questi luoghi, alla fornitura di macchine per scrivere con tastiere per oltre 30 alfabeti [R. Marchi, I giochi della diciannovesima olimpiade: Messico 1968, Ing. C. Olivetti & S.p.A., Ivrea 1969]. La convenzione viene firmata all’inizio del 1967 dal Presi-
dente del Comitato Organizzatore dei Giochi, Pedro Ramírez Vázquez, e l’ingegner Sergio Orlando, direttore della consociata messicana [Fondo DCUS, Direzione Comunicazioni Ufficio, Comunicato stampa n. 127 del 29/10/1968, Stampa, Comunicati Stampa, Faldo-
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ne 1, fascicolo 127, Associazione Archivio Storico Olivetti]. Questo lavoro viene ampiamente celebrato dalla stampa dell’epoca: (esso) rappresenta il più autentico trionfo dell’Italia in questo agitato Messico 1968 – si legge in un articolo apparso su «Il Giorno» del 25 ottobre 1968 – e bisogna darne il merito alla nostra Olivetti o più esattamente, per rispettare le sfumature, alla società la cui ragione sociale è Olivetti Mexicana SA. Vincendo aspre rivalità e una concorrenza poderosa, questa figliola messicana della casa di Ivrea firmò nel 1966 [sic] un convenio col Comitato Organizzatore dei Giochi della XIX Olimpiade per progettare, realizzare e organizzare i centri stampa e la rete di comunicazione per trasmettere i servizi dei risultati delle gare [Il Giorno, 25 ottobre 1968]. Le sale stampa predisposte nei campi di gara (stadi, arene, piste di atletica, piscine ecc.) sono postazioni di lavoro complete dotate anche di servizi come telefono, telegrafo e telex. Il Centro de Prensa si configura sovente come un ampio spazio organizzato in postazioni segnate da partizioni, come nel caso del centro Libertador Miguel Hidalgo allestito presso il Villaggio Olimpico. Si tratta di un ampio open space organizzato in postazioni segnate da una partizione con il marchio O, di colore azzurro, di Olivetti disegnato da Marcello Nizzoli e disposte a inframezzare gruppi di isole. La pavimentazione è rivestita con moquette color vinaccia, alle pareti un tessuto con impresso il logo «Olivetti Press Centre» nelle tre lingue: elemento portante dell’identità visiva complessiva dei centri stampa Olivetti. Ciascuna sede – scrive Rolly Marchi – aveva una sua caratteristica, un colore moderno per le tappezzerie, uno sorprendente e diverso anche per i mobili. Scrivanie, poltrone, sedie, simboli erano stati disegnati e fabbricati in Italia e poi portati al Messico su una nave. Così i regali. Oltre a preparare un ambiente gradevole – estremamente importante per chi lavora in tensione – la Olivetti ha pensato di rallegrare qualche attimo delle nostre giornate con doni che sono stati molto apprezzati. […] a cominciare dalla borsa di colore bianco [R. Marchi, I giochi della diciannovesima olimpiade: Messico 1968, Ing. C. Olivetti & S.p.A., Ivrea 1969]. I materiali promozionali distribuiti ai giornalisti sono progettati da
Milton Glaser (Push Pin Studio) e da Giorgio Soavi. L’oggetto più rappresentativo è la maschera in cartoncino fustellato, in due versioni, una a fondo giallo e una a fondo blu, con spesse linee di contorno e l’utilizzo di colori vivaci. Si tratta di un oggetto ludico e profondamente legato alla cultura messicana, adoperato durante i riti e in occasione di alcune festività come nel Día de los Muertos. La maggior parte di questi prodotti regalo deriva da una forma circolare: l’idea di quelle cose rotonde – spiega ancora Marchi – è venuta al grafico americano Milton Glaser. Pensando ai Giochi, Glaser ha immaginato la sovrapposizione della O di Olimpia e della O di Olivetti e ne ha fatto il motivo di base per tutti i disegni [Ivi].
1 Cfr. J.H. Dunnning, S.M. Lundan, Multinational Enterprises and the Global Economy, Edward Elgar, Cheltenham, UK 2008; S.H.
Hymer, The International Operations of National Firms, a study of direct foreign investment, The Mit Press, Cambridge Mass. 1960; J.H. Dunnning, S.M. Lundan, Multinational Enterprises and the Global Economy, Addison-Wesley, New York 1993. 2 A. Colombo, P.P. Peruccio, Olivetti in Messico. Ovvero la qualità come sistema, in M.M. Checa-Artasu, O. Niglio (a cura di), Italianos en México Arquitectos, ingenieros, artistas entre los siglos XIX e XX, Aracne Editrice, Roma 2019 pp. 268-282; G. De Witt, Due anni con il guerriero giaguaro. Storie di vita e di lavoro negli stabilimenti Olivetti in Messico, Associazione Archivio Storico Olivetti, Ivrea 2001. 3 «Sono entrato alla Olivetti prima di compiere 19 anni. Come venditore giravo di casa in casa con una macchina Lettera 22 sulla spalla. La gente credeva che vendessi spaghetti o biscotti perché il nome italiano suggeriva quello, così senza sapere che prodotti offrivo la loro prima reazione era di dire «no grazie». Non mancava chi semplicemente non rispondeva o coloro che dopo aver aperto la porta la chiudevano immediatamente quando notavano che ero uno strano venditore di macchine da scrivere. Tuttavia sono stato perseverante e ho raggiunto buoni record di vendite. Un anno dopo esser entrato in azienda, nel 1956, fui nominato capo vendite. Mi sono posto obiettivi difficili in modo tale da far carriera e crescere. Per esempio, se il team che dirigevo vendeva 300 macchine in un mese, io proponevo che il mese successivo cercassimo di venderne 1000 in più. Aumentare in questo modo la percentuale di vendite sembrava impossibile; ciononostante, grazie al lavoro costante, organizzato e creativo, la motivazione adeguata dei venditori e la gentilezza verso i clienti, lo abbiamo ottenuto» (traduzione dell’autore). 4 Il logotipo «Mexico 68» è il risultato di un lavoro di un team formato dall’americano Lance Wyman, dall’artista e designer messicano Eduardo Terrazas e dall’architetto Pedro Ramírez Vázquez, presidente del Comitato Olimpico Messicano: i disegni della tradizione messicana Huichol e le geo-
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metrie dell’Optical Art scardinano la rappresentazione iconica dei cinque cerchi olimpici proponendo infinite varianti cromatiche del segno grafico. Queste linee concentriche e i colori della tradizione messicana trovano applicazione anche a scala urbana segnando ad esempio la pavimentazione della Piazza dello Stadio Olimpico, le architetture olimpiche e le strade principali. La comunicazione riguarda anche i pittogrammi relativi alle varie discipline olimpiche con in evidenza i dettagli della figura umana e delle attrezzature per lo sport. Elementi nuovi e insoliti nel programma di Urban Design sono invece i grandi palloni gonfiabili collocati nelle piazze, nelle strade principali, alle fermate dei mezzi di trasporto o sospesi in prossimità dei luoghi di gara, e le gigantesche sculture in fibra di vetro, veri landmark raffiguranti gli atleti olimpici, ispirate ai tradizionali «Judas» messicani in cartapesta. Cfr. The Official Report of the Organizing Committee of the Games of the XIX Olympiad Mexico 1968 - volume 2: The Organization, 1968, pp. 297-360.
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Donne e architettura: il Woman’s Pavilion di Chicago ROSA SESSA
La storia della parità di genere nel mondo dell’architettura vede un’evoluzione tutt’altro che graduale: se fosse un racconto, presenterebbe una narrazione frammentaria e disorientante, scandita da importanti vicende progressiste a cui fanno seguito sleali battute d’arresto, momenti di sorprendente coinvolgimento e responsabilità seguiti dalla deliberata esclusione delle donne architetto da progetti, premi e riconoscimenti. Gli estremi di questo difficile e ancora irrisolto percorso verso l’uguaglianza – ovvero, da una parte la più piena partecipazione, dall’altra la più bieca discriminazione – vanno di pari passo nelle vicende che accompagnano l’inserimento delle donne nella professione: questo squilibrio scandisce la storia dell’architettura fin dalla metà del l’Ottocento e raggiunge senza grandi trasformazioni la nostra contemporaneità, basti pensare alla clamorosa esclusione di Denise Scott Brown dal Pritzker Prize del 1991, premio conferito al solo Robert Venturi nonostante i due collaborassero già dagli anni Sessanta. È per questo procedere discontinuo e instabile che guardare agli episodi del passato è più che mai utile per la ricerca contemporanea sul contributo delle donne nel mondo dell’architettura. La storia del primo padiglione di un’esposizione universale completamente progettato da una donna alla fine dell’Ottocento esplora temi e suggerisce riflessioni valide ancora oggi nella teoria e pratica della nostra disciplina.
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La White City La World’s Columbian Exposition di Chicago del 1893 certamente detiene un posto preminente tra le esposizioni universali che hanno ispirato repentini cambiamenti non solo nella storia architettonica e artistica di una nazione, ma in generale nelle condizioni culturali di un’intera epoca. Salutata dalla stampa statunitense come la più grande tra le fiere mondiali [citazione del «New York World», 2 maggio 1893, in J. Dobrow, Pioneers of Promotion: How Press Agents for Buffalo Bill, P.T. Barnum, and the World’s Columbian Exposition Created Modern Marketing, University of Oklahoma Press, Norman 2018, p. 264. Tutte le traduzioni dall’inglese sono dell’Autrice], occasione di celebrazione dell’indomita energia e intraprendenza americana [citazione del «Chicago Herald», 2 maggio 1893, in Ivi, p. 265], l’esposizione
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colombiana commemora i quattrocento anni della scoperta del continente americano da parte di Cristoforo Colombo. Inaugurata il primo maggio, nei sei mesi di apertura la fiera vede la presenza di 13 milioni di visitatori statunitensi e di più di 14 milioni provenienti da altre quarantacinque nazioni: numeri che non eguagliano i 32 milioni di visitatori della precedente esposizione universale tenutasi a Parigi nel 1889, ma che invece quasi triplicano le presenze della prima esposizione organizzata nel nuovo continente, ovvero la Centennial Exhibition di Philadelphia del 1876, dando quindi la misura di un crescente interesse da parte del resto del mondo per le vicende statunitensi. Per ospitare l’evento fu scelta una zona d’espansione di circa 700 ettari a sud di Chicago, lungo il lago Michigan. Per trasformare quest’area periferica in quella che sarà celebrata come la White City, sono designati come direttori dei lavori Daniel Burnham e John Root, architetti e soci di uno degli studi più prolifici di Chicago. Come molti altri architetti operanti in città, accomunati dalla storiografia sotto il nome di Chicago School, dopo il devastante incendio dell’ottobre 1871 Burnham e Root sono chiamati non solo a ricostruire il downtown distrutto, ma anche a realizzare in pietra la visione di una città moderna ed efficiente, all’avanguardia dal punto di vista urbano e architettonico.
Simbolo di questa rinascita è il grattacielo, tipologia edilizia innovativa dal punto di vista ingegneristico e tecnologico, le cui facciate diventano terreno privilegiato per una battaglia non solo stilistica, ma anche ideologica: per l’edificio americano per eccellenza gli architetti di Chicago si impegnano nell’elaborazione di disegni decorativi propriamente autoctoni, privi di ogni influenza di gusto europeo, in grado di rispecchiare e comunicare fino in fondo non solo lo spirito americano, ma anche l’acquisita identità artistica e culturale dell’ancor giovane nazione. Anche Burnham e Root sono impegnati in prima linea in questa ricerca, salvo poi tradirla nel momento in cui questa avrebbe dovuto essere difesa e anzi celebrata, ovvero durante la Columbian Exposition. Diventato l’unico direttore dei lavori dopo la morte del collega Root, Daniel Burnham impone uno stile formale e accademico ai padiglioni principali dell’esposizione, così come a quelli nazionali statunitensi: ogni progetto deve essere approvato dall’inflessibile architetto che revisiona con attenzione ogni proposta, correggendo le deviazioni dal canone classico così come le frequenti derive vernacolari. Se il primo disegno del padiglione del Delaware viene rifiutato per il suo carattere troppo domestico [lettera di Burnham a Thomas Smith del 1891, citata in T. Hines, Burnham of Chicago. Architect and Planner, Oxford University Press, New York 1974, p. 96], non rispettoso della formula classica, nonché
della dignità degli edifici circostanti, quello del Sud Dakota viene drasticamente modificato: Burnham rifiuta il tetto a forma di tenda Sioux per suggerirne, ancora una volta, uno in armonia con l’architettura che lo circonda [lettera di Burnham a Richard Kinney del 1891, pp. 96-97]. Per le linee guida della Columbian Exposition Burnham si rifà a un classicismo francese d’importazione, chiamando a collaborare quei colleghi che proprio all’École des Beaux-Arts di Parigi hanno perfezionato il proprio gusto. Il Transportation Building di Sullivan, con l’imponente portale dorato e le decorazioni ispirate alla mitologia dei nativi americani, resta l’unico avamposto a difesa dello spirito della Chicago School all’interno dell’esposizione.
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Il Woman’s Pavilion: il padiglione di celebrazione del lavoro delle donne Quello che più sorprende, quando si considera l’impatto culturale dell’evento, è il gran numero di narrazioni e nuove simbologie in gioco alla Columbian Exposition. L’evento non solo deve rappresentare la rinascita di Chicago dopo il grande incendio, ma è organizzato con l’obiettivo principale di esprimere a livello internazionale quei primati di modernità raggiunti dall’intera nazione, finalmente pronta a mostrare un’acquisita maturità e consapevolezza della propria indipendenza politica, tecnica e soprattutto culturale. Ancor più che la fiera centennale di Philadelphia, è quindi con l’esposizione colombiana di Chicago che gli Stati Uniti si presentano al mondo, pretendendo da quel momento non solo di inserirsi, ma anche di avere un posto d’onore nelle vicende culturali internazionali1. È in questo clima di fiducia nelle capacità del popolo americano di dettare una nuova via per il progresso dell’umanità che si inserisce il progetto per il Woman’s Pavilion, il primo padiglione di un’esposizione universale costruito per celebrare il lavoro delle donne e il loro contributo alla società. In realtà non è questa la prima volta che uno spazio espositivo per le donne viene realizzato in occasione di un evento internazionale: già nell’esposizione di Vienna del 1873 è presente il Pavillion der Frauenarbeiten, progettato da Carl von Hasenauer; tre anni dopo a Philadelphia viene eretto il Women’s Pavilion su progetto del direttore della fiera Hermann Schwartzmann. Lungi dall’essere spazi di emancipazione delle donne, entrambi questi padiglioni celebrano però il contributo femminile limitandolo alla sfera privata in cui la donna ricopre i ruoli tradizionali di moglie e madre. Il lavoro delle donne mostrato a Vienna e Philadelphia non entra quindi in conflitto con l’immagine più rassicurante della donna dell’età vittoriana, servendo anzi a rinforzare quei simboli legati agli ideali femminili borghesi [M. Pepchinski, The Woman’s Building and the World Exhibitions: Exhibition, Architecture and Conflicting Feminine Ideals at European and American World Exhibitions, 1873-1915, in «Wolkenkuckucksheim», 5, 1, 2000].
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Se ogni forma di critica sembra assente dalle vicende legate
al padiglione viennese, il Women’s Pavilion di Philadelphia riceve al contrario aspri commenti, soprattutto riguardo la scelta di affidare il progetto dell’edificio a un uomo e non a un architetto donna2. Infatti, se in Europa lo studio dell’architettura sarà concesso alle donne solo nell’ultimo decennio dell’Ottocento, negli Stati Uniti simili corsi di formazione vedono l’iscrizione di studenti d’ambo i sessi già a partire dalla loro fondazione a metà del secolo. Per questo motivo, sebbene la professione dell’architettura fosse in uno stato nascente negli Stati Uniti al tempo del Centennale, l’omissione delle donne è quanto di più eclatante dato che queste ricoprivano già allora un ruolo piccolo ma significativo come progettiste di edifici residenziali [Paine, op. cit., p. 55]. Ancora deluse dall’occasione mancata di Philadelphia, le donne di Chicago, in contemporanea all’elezione della propria città a sede dell’esposizione colombiana, si uniscono in diverse associazioni [W. Corn, Women Building History. Public Art at the 1893 Columbian Exposition, University of California Press, Berkeley/ Los Angeles 2011]: lo scopo di queste organizzazioni è quello di
vedere rappresentato il contributo delle donne oltre la sfera domestica, riconoscendo il loro lavoro in ogni campo e attività. Per comunicare questi obiettivi in modo chiaro ed efficace ogni dettaglio del padiglione gioca un ruolo fondamentale, dai gruppi scultorei esterni alle allegorie degli affreschi interni, fino a quella che è, a tutti gli effetti, la decisione più importante: l’affidamento del progetto del padiglione a un architetto donna. La commissione denominata Board of Lady Managers, presieduta dalla ricca e potente mecenate di Chicago Bertha Palmer, propone già nel 1890 al direttore Burnham il bando di un concorso aperto a sole progettiste per la realizzazione del Woman’s Pavilion. È questa una richiesta non salutata con entusiasmo dai membri della commissione generale della Columbian Exposition: per Palmer la maggiore difficoltà è convincere gli organizzatori della fiera che una donna possa essere in grado di sostenere da sola l’intero processo di progettazione e costruzione di un edificio pubblico, considerato che la resistenza del corpo femminile era continuamente messa in discussione alla fine del diciannovesimo secolo, e la sua presunta “debolezza” era usa-
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ta per spiegare perché così poche donne frequentassero le scuole di architettura [Ivi, p. 85]. Nonostante la Commissione colombiana volesse affidare il progetto del Woman’s Pavilion al noto architetto Richard Morris Hunt, la richiesta di Bertha Palmer riceve l’approvazione finale di Burnham, al quale è in ogni caso riservata l’ultima parola sul progetto vincitore. Alla competizione per il Woman’s Pavilion, bandita il primo febbraio 1891, partecipano tredici proposte. Il progetto vincitore risulta essere quello della ventitreenne Sophia Hayden, prima laureata donna della scuola di architettura del MIT di Boston, che si ritrova con il suo padiglione per Chicago ad affrontare la sua prima esperienza professionale. Il progetto presentato per l’area a ridosso della così detta “laguna” consiste in un padiglione organizzato su tre piani in stile neorinascimentale. La perfetta simmetria sia della pianta rettangolare che delle facciate risponde a un chiaro schema classico. Gli ingressi sui quattro lati sono indicati da portali monumentali coronati da timpani, mentre il corpo centrale dei lati maggiori è alleggerito dal ritmo delle bucature (arcate a tutto sesto per le logge a pian terreno, balconate e finestrature al piano superiore). La copertura dei due corpi pieni laterali offre infine due terrazze da cui i visitatori possono godere di un’ampia vista sulla fiera e sul lago. L’interno si organizza intorno alla grande sala a doppia altezza con copertura vetrata, detta rotunda, in cui vengono disposti dipinti, statue e vetrinette espositive. Le stanze dedicate alle esposizioni nazionali affacciano sulla rotunda sia dal piano terra che dal piano superiore: alla Francia, all’Inghilterra e alla Germania sono dedicati gli ambienti maggiori (all’Italia è dedicato uno spazio che è circa un terzo di quello riservato a queste nazioni). Le esposizioni presenti nel Women’s Pavilion non sono solo divise per nazionalità, ma anche per temi: al piano terra troviamo quindi gli ambienti dedicati alle scienze, all’istruzione e alle “invenzioni” delle donne, mentre al piano superiore trova posto la biblioteca per settemila volumi e l’auditorium progettato per ospitare oltre mille persone. Il fitto programma di eventi vede presentazioni e dibattiti sul tema del giusto riconoscimento del lavoro delle donne; risultano invece assenti i temi politici più ra-
dicali, come ad esempio gli argomenti legati al suffragio universale, perché considerati non necessari, e anzi inopportuni, dalla direttrice Palmer. Il programma decorativo, completamente affidato ad artiste donne, deve rispondere ad una chiara simbologia femminista: le sculture dei prospetti sono affidate all’artista Alice Rideout, mentre i murali più importanti realizzati per la rotunda sono opera di Mary MacMonnies (che dipinge l’allegoria della donna primitiva) e Mary Cassat (che realizza il murale dedicato ai successi raggiunti dalla donna moderna). Nella sua composizione e disegno decorativo, l’edificio del Woman’s Pavilion è un progetto in perfetta sintonia con le linee classiciste dettate da Daniel Burnham per l’architettura dell’esposizione, anche se, ispirandosi a modelli rinascimentali italiani invece che al più riccamente decorato neoclassicismo francese seguito dagli altri padiglioni maggiori, questo risulta l’edificio stilisticamente più sobrio e raffinato della fiera. La scrittrice Maud Howe Elliott così descrive il Woman’s Pavilion nella guida ufficiale: Il nostro edificio ha un carattere essenzialmente femminile. Presenta le qualità di discrezione, delicatezza e raffinatezza. […] Noi riconosciamo che più è femminile il lavoro delle donne, maggiore sarà la sua forza. [M. Howe Elliott, The Building and Its Decoration, in M. Howe Elliott (a cura di), Art and Handicraft in the Woman’s Building of the World’s Columbian Exposition, Chicago, 1893, Goupil & Co., Paris/New York 1893, pp. 25-26].
Lo stile letterario adottato per questo testo è stato definito come retorica ultrafemminile [W. Corn, op. cit., p. 169] a causa della sua insistenza sul concetto di femminilità del padiglione che risulta, in ultima analisi, ambiguamente difensivo e quasi giustificatorio dell’architettura dell’edificio. La celebrazione della “gentilezza” del Woman’s Pavilion da parte di Howe Elliott non salverà il padiglione dal divenire bersaglio di dure critiche che, partendo proprio dalla presunta eccessiva delicatezza del disegno, arriveranno ad attaccare direttamente Sophia Hayden, di cui viene messo in dubbio il talento perché troppo ingenua, inesperta e, ovviamente, donna. A un passo dal completamento del cantiere, Hayden, sopraffatta dal clima di scetticismo montato intorno a lei e al suo progetto, soffrirà di un
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grave esaurimento nervoso che le impedirà di presenziare all’inaugurazione del padiglione. I giornali dell’epoca approfittano della malattia della giovane progettista per rimarcare l’inadeguatezza della professione dell’architettura per le donne, scrivendo: Sembra una questione ancora aperta se una donna con i suoi limiti fisici possa impegnarsi con successo in […] una professione così logorante. Il fatto che l’edificio di cui le donne sembrano andare così fiere abbia segnato la rovina fisica del suo architetto, è una prova contro l’assennatezza delle donne di far parte di questa speciale professione molto più convincente di qualsiasi altro argomento [«American Architect and Building News», 28, November 1892, p. 134, in Paine, op. cit., p. 210]. Conclusioni
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Il Woman’s Pavilion della Columbian Exhibition di Chicago è considerato il più straordinario e influente evento del secolo per le donne architetto [Ivi, p. 57] e questo nonostante il crollo psicologico della sua progettista, o forse anche grazie a questo: la nevrosi di Sophia Hayden – pur concretizzando i timori di Bertha Palmer così come i sospetti della Commissione colombiana e della stampa – verrà usato dalle colleghe americane come una potente arma per smascherare il feroce scetticismo di una società maschilista nei confronti delle progettiste donne, nonostante queste rivestissero ormai un ruolo non più secondario negli studi di progettazione del paese. A seguito dell’esposizione colombiana le giovani professioniste si legano allora alle battaglie del primo movimento femminista americano, guadagnando un maggiore riconoscimento sia nelle aule universitarie che nel mondo del lavoro. Nonostante i veloci progressi raggiunti alla fine dell’Ottocento, la storia degli architetti donna non segue un’evoluzione lineare: il fatto che dopo il Woman’s Pavilion di Chicago non verranno più costruiti padiglioni dedicati al dibattito sul ruolo sociale e professionale delle donne vede come conseguenza nelle successive esposizioni universali la limitazione della figura femminile al ruolo di hostess sorridente o di acquirente soddisfatta dei prodotti esposti in fiera3. Questo sarà particolarmente evidente nel l’iconografia ufficiale della World’s Fair di New York del 1939,
che in qualche modo anticipa quell’estetica – tanto accattivante quanto pericolosa – legata alla figura della donna come moglie e madre impeccabile sponsorizzata dai poster pubblicitari americani degli anni Cinquanta. Non è un caso allora che proprio negli anni Cinquanta la presenza delle donne architetto nella professione subisca una drammatica battuta d’arresto negli Stati Uniti: se nel 1939 si contano nel paese 379 architetti donna con abilitazione alla professione, nel 1960 questo numero scende ad appena 260 [D. Stratigakos, Where Are the Women Architects?, Princeton University Press, Princeton 2016, p. 15], numeri destinati a risalire solo grazie alle batta-
glie portate avanti durante la seconda ondata del movimento femminista degli anni Sessanta e Settanta. La storia del Woman’s Pavilion del 1893 e della sua eredità mostra quanto sia lungo e insidioso il percorso verso l’uguaglianza di genere in architettura, e quanto anche grandi successi guadagnati gradualmente e faticosamente possano essere invece velocemente persi. In questo senso, allora, la rilettura delle vicende legata al Woman’s Pavilion di Chicago è ancora oggi rilevante: la storia del padiglione sembra suggerire la necessità di un costante dibattito sul tema della parità e del giusto riconoscimento del lavoro delle donne nella professione che, numeri alla mano [cfr. ad esempio i sondaggi condotti dal Cresme e dall’AIA], è ancora oggi lontano dall’esser risolto.
1 Diretta conseguenza dell’esposizione di Chicago è la fondazione promossa da Charles McKim dell’American Academy in Rome, prima accademia statunitense in Europa, cfr. A. Valentine, L. Valentine, The American Academy in Rome. 1894-1969, University Press of Virginia, Charlottesville 1973. 2 L’affidamento del progetto del Women’s Pavilion a un architetto uomo è tanto più sorprendente se si considera che nella stessa esposizione è in mostra il prototipo di una casa in mattoni a incastro progettato da Mary Nolan, in J. Paine, Pioneer Women Architects, in S. Torre (a cura di), Women in American Architecture: A Historic and Contemporary Perspective, The Architecture League of New York, New York 1977, p. 55. 3 Cfr. T. Boisseau, A. Markwyn (a cura di), Gendering the Fair: Histories of Women and Gender at World’s Fairs, University of Illinois, Chicago 2010; M. Boussahba-Bravard, Women in International and Universal Exhibitions, 1876-1937, Routledge, New York 2018.
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L’opera, l’immagine digitale e il Digital Storytelling 2.0 OLGA SCOTTO DI VETTIMO
Conducendo una riflessione sul rapporto tra dinamiche di produzione sociale e media contemporanei, nel 1996 Manuel Castells ne La nascita della società in rete sviluppa un’analisi degli effetti della tecnologia digitale sulla società contemporanea, affermando che il dilemma del determinismo tecnologico è probabilmente un falso problema, in quanto la tecnologia è la società, e non è possibile comprendere o rappresentare la società senza i suoi strumenti tecnologici1 [M. Castells, La nascita della società in rete, trad. it., Università Bocconi Editore, Milano 2002, p. 5; ed. or. 1996]. Il mutamento del sistema capitalistico è
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prodotto, secondo lo studioso, dall’“informazionalismo” (digitale), espressione che riprende (e supera) il concetto di età dell’informazione (elettronica) descritto da Marshall McLuhan. Il paradigma tecnologico della Network Society – oggi trasformatasi in Social Network Society – sostituisce per il sociologo spagnolo la nozione di “spazio dei luoghi” (dell’Età moderna) con quella di “spazio dei flussi”, determinando un mutamento delle caratteristiche proprie del tempo, il quale, perdendo di linea rità, continuità (quindi sequenzialità) e misurabilità (quindi limitatezza), si dà come “tempo senza tempo” (eterno ed effimero), che usa la tecnologia per sfuggire ai contesti della sua esistenza e per appropriarsi in modo selettivo di qualsiasi valore ciascun contesto possa offrire al sempre-presente [Ivi, p. 495]. Parafrasando il titolo del noto studio del 1962 del canadese, ancora Castells nel 2001 pubblica Galassia Internet in cui chiarisce che
l’inevitabile divario tra l’accelerazione dello sviluppo tecnologico e quello sociale, dovrà essere superato attraverso un auspicabile processo di democratizzazione2, che sembrerebbe trovare nell’“accademia della Rete” un suo concreto modello3 proposto nel 2001 in Etica hacker di Pekka Himanen (con i contributi del l’informatico Linus Torvalds e dello stesso Castells), in cui viene rappresentato un utilizzo sociale della Rete, fondato sull’impegno appassionato, sulla difesa della privacy, sullo scambio e sulla condivisione gratuita del sapere. La Rete degli hacker è, dunque, il luogo della difesa dei valori, in cui si pratica l’emancipazione dall’etica “protestante”, quindi dagli schemi fordisti che inficiano il lavoro, l’economia e la società. Le riflessioni teoriche sulle affinità/derivazioni/distinzioni tra età elettronica ed età digitale (o post elettronica) hanno determinato un ampio dibattito che mette a confronto mondo analogico e mondo digitale, coinvolgendo diversi campi del sapere e investendo inevitabilmente il rapporto arte-scienza-tecnologia, quindi l’estetica e i temi della rappresentazione e della visione/percezione dell’immagine. Mentre provocatoriamente Nicholas Negroponte nel 1995 individuava la differenza tra bit ed atomo affermando icasticamente che il primo non ha colore, dimensioni o peso e può viaggiare alla velocità della luce. È il più piccolo elemento atomico del DNA dell’informazione [N. Negroponte, Esseri digitali, trad. it., Sperling & Kupfer, Milano 1995, p. 3; ed. or. 1995], rappresentandone solo le caratteristiche tecnologiche; altri
studiosi, invece, hanno prediletto un approccio di tipo culturologico, recuperando, tra gli altri, le suggestioni contenute negli studi massmediatici di McLuhan. Secondo alcuni interpreti della società contemporanea, infatti, l’uomo ha sempre rinnovato i suoi strumenti di mediazione con il mondo e, pertanto, la rivoluzione digitale non ha implicato un processo di cannibalizzazione dell’analogico, bensì una ri-mediazione dell’elettronico senza sostituirlo [Su questi temi si veda P. Granata, Arte, Estetica e Nuove Media. “Sei lezioni sul mondo digitale”, Fausto Lupetti Editore, Bologna 2009]. I sociologi statunitensi Jay David Bolter e Richard
Grusin in Remediation. Understanding Media, partendo dall’affermazione di McLuhan che il “contenuto” di un medium è sempre un altro medium4, utilizzano il termine remediation, per
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individuare la caratteristica distintiva del mondo digitale, che si costruisce sulla doppia logica della rimediazione, quindi su logiche contraddittorie in cui sono co-presenti l’immediatezza (immediacy) e l’ipermediazione (hypermediacy), la trasparenza e l’opacità. La cultura contemporanea vuole allo stesso tempo moltiplicare i propri media ed eliminare ogni traccia di mediazione: idealmente vorrebbe cancellare i propri media nel momento stesso in cui li moltiplica, affermano i due studiosi, chiarendo che un medium rimedia, cioè si appropria di tecniche, forme e significato sociali di altri media e cerca di competere con loro o di rimodellarli nel nome del reale [J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, trad. it., Guarini, Milano 2002, p. 29; 93; ed or. 1999]5.
L’approccio teorico che affronta i nodi della rimediazione si è anche occupato in ambito semiotico di indagare il trattamento dei media e delle immagini, quindi di capire com’è cambiata la cognizione del medium, come cambia il concetto di immagine e come cambiano, perché tutt’uno con essi, esperienza e interpretazione del mondo [T. Migliore, Introduzione. Interfaccia-Contenuto, in T. Migliore (a cura di), Rimediazioni. Immagini interattive, to. I, Aracne editrice, Roma 2016, p. 11], di comprendere come l’e-
sperienza sia stata modificata dalla rimediazione. Pertanto il ragionamento di alcuni studiosi si è concentrato su che cosa sia l’immagine e su che cosa sia il medium, distinguendo l’immagine dal supporto (hardware /o software) in cui essa stessa appare. Immagini e media, che sono la retina esterna, nel mondo, dei cambiamenti storici della percezione, non hanno mai viaggiato su piani paralleli. Prima dell’avvento dei media digitali, il medium era in subordine o soggiacente all’immagine. Oggi non è più così. Con la digitalizzazione assistiamo al formarsi di una figuratività sub specie tecnologica [Ivi, p. 16]. Tale dichiarazione suggerisce l’intenzione di distinguere tra dispositivo/ interfaccia e contenuto/immagine e negare sia che “il medium è messaggio” (McLuhan) sia che “il messaggio è il medium” (Castells) [T. Rantanen, The message is the medium. An interview with Manuel Castells, Global Media and Communication and London School of Economics and Political Science, 2005].
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La questione appare più complessa quando la discussione in-
veste lo statuto epistemologico dell’opera nel caso della riproduzione digitale della stessa. Un tema, naturalmente ampio e complesso almeno quanto quello della sua riproduzione meccanica, sviluppato significativamente da Walter Benjamin in poi (1936), ma che oggi obbliga il sistema tradizionale dell’arte a rivisitare la propria identità a interrogarsi sui ruoli e sulle competenze, rinegoziandoli costantemente nell’ambito della Social Network Society. Se si riflette sulle potenzialità della tecnologia di riproduzione (analogica o digitale) come strumento di ri-attivazione della comunicabilità dell’opera, non si può prescindere dalle conseguenze che l’inevitabile passaggio del medium comporta, e quindi dall’acquisizione da parte dell’opera rimediata di alcune caratteristiche strutturali del nuovo supporto [D. Radetic,; Ai confini tra tecnologia, arte e storia dell’arte: alcuni esempi di visualizzazione e interazione, in “Manthicora”, n. 1, dicembre 2011, p. 622].
Il tema consente qui agevolmente di ritornare alla questione del rapporto tra immagine e media digitali, svincolando, però, l’opera d’arte dalla preoccupazione autentico-disautentico, per ragionare, invece, sui temi più specifici del simulacro e del feticcio che investono l’opera quando, tradotta in immagine digitale, è destinata a veicolare un diverso valore afferente ai campi dell’informazione e della comunicazione. Il sistema di simulazione, privo di referenza al reale, preannunciato in età postmoderna con questioni teoriche fondamentali – tra cui la trasformazione in “società dei simulacri” (Perniola 1980), “l’estetica della sparizione” (Virilio 1980), l’Iperreale e la sparizione dell’arte (Baudrillard 1988) – ha reso l’opera d’arte significante ipertrofico a cui corrispondono significati plurali, complessi, mutevoli e in costante via di definizione. L’intenzione, tuttavia, non è qui orientata a suggerire una riflessione sul cambiamento dello statuto epistemologico dell’arte nell’età della (Social) Network Society, bensì a problematizzare il tema dell’immagine digitale (non più solo riprodotta, ma anche condivisa, social) dell’opera, della funzione e dell’uso possibile dell’immagine stessa, rifacendosi alle suggestioni tratte da un caso specifico, ma di particolare pregnanza per la portata globale del fenomeno, per le implicazioni culturali e sociali che esprime, per l’impatto sulla conoscenza.
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Google Arts & Culture è una piattaforma digitale nata nel 2011, inizialmente con il nome di Google Art Project, che consente la visita virtuale a musei, fondazioni, mostre, collezioni, archivi, monumenti, opere di street art, siti e luoghi di interesse (A tale scopo viene i utilizza la tecnologia di Google Street View che consente di fare tour virtuali all’aperto). Il progetto del Google Cultural Institute è uno strumento offerto gratuitamente6 alle istituzioni culturali per promuovere e valorizzare il patrimonio artistico, fornendo all’impresa culturale uno spazio virtuale illimitato popolato di contenuti multimediali personalizzati (file audio, video, di immagine e di testo). Le informazioni sono rese universalmente accessibili, disponibili e condivisibili. In tal modo la piattaforma di Google si propone come uno strumento di democratizzazione della fruizione e di valorizzazione del patrimonio culturale di migliaia di istituzioni [Per i soli musei si contano circa 15mila istituzioni di oltre 70 paesi e più oltre 6 milioni di immagini di opere d’arte]. Dal 2016, utilizzando la tecnologia di Google
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Art Camera, è possibile ottenere immagini in gigapixel, quindi anche straordinari ingrandimenti di dettagli, consentendo l’individuazione, in tal modo, di particolari della tecnica artistica non sempre percepibili e offrendo nuovi possibili spunti per gli studi. Le immagini possono essere presentate in collezioni statiche, possono dare origine a ricostruzioni in 3D o a AR (Augmented Reality), costruire tour virtuali a mostre, collezioni, luoghi, produrre mostre virtuali e immersive fruibili mediante Google Cardboard. L’utente può creare la propria galleria di immagini personalizzata, mettendo a confronto opere dello stesso autore o di periodi storici diversi, condividerla, realizzare video conversazioni online con i curatori delle mostre. Utilizzando le App (sistemi operativi iOS e Android) gli utenti possono condividere sui social network i contenuti nel segno di una costante interattività. Inoltre l’App Art Selfie, diffusa dal 2018, consente di abbinare il viso dell’utente a un’opera d’arte, individuando all’interno dei milioni di immagini caricate sulla piattaforma quella più somigliante al proprio selfie. Google Arts & Culture, dunque, si propone come servizio gratuito e tecnologico, non come un mero database digitale, ma come partner imprescindibile per le prestazioni, i prodotti e i ser-
vizi di numerose e prestigiose istituzioni culturali diffuse nel mondo. Il ruolo che svolge, inoltre, non è solo di potenziamento delle funzioni di valorizzazione-promozione-fruizione di esse, bensì sembrerebbe rideterminare la funzione stessa e il funzionamento di tali soggetti: ripensa il museo e il pubblico, modifica (se non delegittima) il significato delle esposizioni tradizionali, contribuisce a problematizzare quello di opera d’arte. Inoltre soddisfa pienamente le esigenze di una nuova preoccupazione narrativa, il Digital Storytelling museale, senza il quale l’istituzione oggi non potrebbe auto-rappresentarsi né presentarsi. Tuttavia con il Web 2.0 il Digital Storytelling trasforma gli utenti stessi in co-autori di una forma narrativa in cui il documento multimediale prevede partecipazione, quindi coinvolgimento e condivisione. Occorre domandarsi, dunque, non quale sia il valore, bensì la valenza dell’immagine digitale, archiviata, fruita e condivisa e, quindi, che cosa essa produca nel rapporto con l’opera e, particolarmente, nel rapporto museo-opera-fruitore (specie se quest’ultimo è divenuto “utente”); che cosa determini nell’ambito esperienziale-culturale e, in particolare, nella fruizione dell’opera; che cosa e come trasformi il ruolo del museo, del pubblico e l’opera stessa (monumento o documento?); quale sia la funzione (archivio, museo, mostra virtuali e digitali?); che cosa attivi (valorizzazione e conoscenza?); quindi, in definitiva, quale sia la funzione dei media in questo specifico contesto: strumenti di comunicazione o apparati della memoria?7. Tali questioni investono radicalmente il sistema tradizionale dell’arte, obbligano a ripensamenti di ruoli, posizioni, specificità, equilibri, indirizzi, responsabilità, mission, aspettative. A tal scopo potrebbero rivelarsi pertinenti alcuni spunti offerti dagli studi sul tema del consumo di immagini all’interno della cultura visiva (Digital Visual Culture) e, nello specifico, sulla distinzione tra immagine simulacro e immagine feticcio. La prima, secondo quanto formulato da Baudrillard determina la fine del principio di realtà, la sparizione dell’originale (del prototipo), e confonde la realtà con la rappresentazione (“copia senza originale”, Baudrillard 1976): dal momento in cui il prototipo e la copia diventano autonomi e quasi indistinguibili l’un l’altra, viene a mancare ciò che differenzia la realtà dall’apparenza,
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giacché nulla è davvero reale, se non in quanto istanza simulacrale o tutt’al più esperibile sotto forma di ossimoro [P. Granata, L’immagine contemporanea nell’epoca della sua riproducibilità digitale, in S. Grandi (a cura di), Il Contemporaneo. I linguaggi del video nella sperimentazione artistica, Logo Fausto Lupetti Editore, Bologna 2012, p. 106]8; diversamente, la seconda è una vera e propria
sostituzione del prototipo, è presentazione (e non rappresentazione) dell’originale ed è invece il risultato di un processo di reificazione, un’immagine-cosa, un progetto e un’esperienza di “cosalità” (Perniola 1994) [Ivi, p. 109]. Secondo tale ragionamento, nella neorealtà costituitasi, che non implica la derealizzazione del reale (il simulacro), l’immagine è una presenza autonoma che agisce per seduzione piuttosto che per rappresentazione [Ivi, p. 111], pertanto, cede la propria essenza alle procedure della comunicazione e scompare in quanto tale [M. Costa, Dimenticare l’arte. Nuovi orientamenti nella teoria e nella sperimentazione estetica, Franco Angeli, Milano 2005, p. 110]. L’immagine digitale, dunque, è feticcio e non simu-
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lacro. Il museo (come l’archivio) che si estende nella Rete non racchiude più storie di storie, ma si presta ad essere una narrazione social, multimediale e crossmediale, che produce uno storytelling in cui traduce e promuove opere in immagini, suoni, percezioni che sono reali tanto quanto l’opera e il museo, quindi sono vere e assumono nuovi significati. Raccontare storie attraverso le immagini in Rete significa sempre costruire significati, operare manipolazioni, fondare nuovi miti e credenze, intravedere orizzonti e scenari, creare diverse identità, produrre memoria, sviluppare funzioni, individuare soggetti, applicare nuovi codici linguistici e simbolici, espandere la conoscenza, trasmettere saperi, elaborare inaspettate strategie, connettere e fare rete, quindi calare la nuova narrazione interattiva – il Digital Storytelling 2.0 – nella neorealtà e renderla non più solo ipernarrazione9. Indagare lo statuto dell’immagine digitale (non solo d’archivio), richiede, dunque, un’attenzione alle mutate condizioni di relazione e scambio previste dalle piattaforme interattive, che hanno prodotto la cultura partecipativa della rete. È in questo nuovo habitat che l’immagine continua a svolgere funzioni cru-
ciali poiché si presta ad attivare processi di interazione che modificano lo statuto e la funzione di tutti i soggetti che interagiscono con essa [Si veda ancora A. Maiello, L’immagine d’archivio nell’epoca della partecipazione interattiva, cit.].
1 E si veda ancora: “La tecnologia non determina la società, la incarna. Nemmeno la società, però, determina l’innovazione tecnologica, la
usa”. Ibidem. 2 La democratizzazione della Network Society, così come auspicata da Castells, viene messa in discussione da Tomás Maldonado (Critica della ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1997), secondo il quale la comunicazione diretta, la partecipazione, il libero accesso all’informazione produrrebbero una “forma più sofisticata di controllo sociale” (p. 90) e, inoltre, il sovraccarico informativo potrebbe creare disinteresse per l’informazione stessa. 3 “Quando un hacker controlla le fonti di informazione divulgate in Rete, spesso aggiunge informazioni utili desunte dalla propria esperienza. Intorno ai vari problemi si sviluppa una discussione continua, critica, evolutiva. La ricompensa per la partecipazione a questa discussione è il riconoscimento dei pari. Il modello di apprendimento aperto degli hacker può essere definito come ‘accademia della Rete’”. Inoltre: “Ancora una volta questo modello hacker tende ad assomigliare all’Accademia di Platone, in cui gli studenti venivano non considerati obiettivi per la trasmissione di conoscenza ma compagni di apprendimento (syntheis)”. P. Himanen, L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione, trad. it., Feltrinelli, Milano 2003, pp. 6364; ed. or. 2001. 4 La rimediazione è un concetto che deriva da quello di ibridazione di McLuhan: «Il contenuto di un medium è sempre un altro medium. Il contenuto della scrittura è il discorso, così come la parola scritta è il contenuto della stampa e la stampa quello del telegrafo». (M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1967, p. 16; ed orig. 1964). I nuovi media, dunque, non dispongono di propri contenuti, ma assorbono quelli dei media precedenti con cui interagiscono. 5 I due studiosi individuano, inoltre, diversi tipi di rimediazione (trasparente, traslucida, aggressiva), riferendosi alle possibilità che hanno i nuovi media di migliorare, potenziare e ampliare le funzioni svolte dai precedenti media o crearne di nuove. 6 Google non chiede i diritti sui materiali prodotti e le immagini in HD sono di proprietà dei singoli partner; il materiale ospitato nei settori del Google Cultural Institute può essere gestito, utilizzando la tecnologia Google, su altre piattaforme e può essere incorporato nel sito istituzionale dei partner, condiviso attraverso una mobile app, diventare una nuova scheda su Google Chrome con l’estensione Art Project Tab, approdare in tv con Chromecast Backdrop. Inoltre l’App Art & Culture non è un’applicazione Google per soli Android. 7 Su questo tema si veda A. Maiello, L’immagine d’archivio nell’epo-
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ca della partecipazione interattiva, in “Rivista di estetica”, n. 63, 2016, pp. 87-98; l’autrice afferma: “I nuovi media non sono meri strumenti della comunicazione, ma apparati della memoria, dispositivi di distanziamento e riappropriazione, registrazione e rielaborazione di materiale mediale, visivo e audiovisivo, sistemi per lo sviluppo di nuove pratiche di elaborazione individuale e collettiva della memoria”. 8 E ancora: “Nel contesto appena descritto, non resta che celebrare il requiem per l’immagine-simulacro, l’immagine intesa come rappresentazione funzionante secondo il principio dell’icona, “copia di una copia”. A dominare la scena contemporanea è oggi l’immagine-feticcio, il paradigma visivo della presentazione, la feticizzazione dell’esperienza visiva: gli indici prevalgono sulle icone, le tracce hanno la meglio sui segni, la seduzione inibisce l’interpretazione, i significanti occultano i significati. È l’epifania del feticcio nell’epoca della riproducibilità digitale. Ed è come dire, ancora una volta, che il medium ha frantumato il messaggio, trasformandolo in un feticcio”. Ivi, p. 115. 9 “Questa formulazione colloca la contrapposizione tra database e narrativa in una prospettiva nuova, e ridefinisce così il nostro concetto di narrativa. “L’utente” della narrazione attraversa un database seguendo i link secondo il percorso definito dal creatore del database. Una narrazione interattiva (che potremmo anche definire ipernarrazione in analogia con l’ipertesto) si può quindi intendere come la sommatoria di più traiettorie che attraversano un database. Una narrazione lineare tradizionale è solo una delle tante traiettorie possibili, cioè una scelta particolare effettuata all’interno di una ipernarrazione”. L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Edizioni Olivares, Milano 2002, p. 283; ed orig. 2001.
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Sulle tracce dell’opera d’arte. Video-recording e XXI secolo ANNA LUIGIA DE SIMONE
L’unica cosa che si conserverà sarà solo ciò che si potrà rifare Serge Daney
Nel volume In the Flow, Boris Groys sostiene che, nel XXI secolo, la mediasfera ha sostituito l’antica aspirazione all’assoluto degli artisti. Secondo il filosofo dell’arte tedesco, in molti casi, l’arte sembra aver rinunciato a vincere l’eternità aderendo al flusso dei fenomeni con capolavori “imperfetti”, frammentari e transitori che invadono la totalità del mondo [B. Groys, In the Flow (2016), postmedia books, Milano 2018, p. 9]. A caratterizzare il nostro tempo sarebbero eventi artistici, performance o esposizioni temporanee, che mostrano il carattere effimero dello stato attuale e di quei dettami che regolano gli odierni comportamenti sociali [Ibidem]. Pratiche figlie di una cultura partecipativa e performativa, incapaci di creare opere tradizionali, ma solo opere complesse, disseminate e dispiegate in temporalità molteplici che assorbono, nella propria estensione, tasselli eterogenei esito della convergenza di numerosi media [B. Groys, La curatela nell’era Post-Internet (2018), in G. Romano (a cura di), Become a Curator, postmedia books, Milano 2019, p. 75].
Siamo dinanzi a una costellazione d’interventi impossibili da isolare, preservare e contemplare in uno stato di perfezione. Organismi instabili che necessitano di essere raccordati, documentati, moltiplicati, ampliati e riattivati a ogni stadio del loro essere.
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Lavori riconducibili a una qualche unità – e, dunque, leggibili, archiviabili e rinnovabili – solo nella registrazione delle fasi processuali ed espositive. Così, oggi, è quasi scontato che un’azione, una performance, il processo creativo di un’installazione o lo svolgimento di un evento si affidino al supporto video. Pur su ricerche distanti, tanti artisti del nuovo millennio condividono tale scelta di videoregistrare e di videoregistrarsi. Eredi delle riflessioni di fine Novecento sull’ammissibilità della sostituzione dell’arte con la sua documentazione, si avvalgono di tecniche user-friendly e apparentemente neutrali come il video-recording e l’auto-video-recording. Che, per un verso, consentono di mettere in sicurezza le tracce […] nella speranza di rendere qualsiasi cosa controllabile e reversibile. Per l’altro, finiscono con l’elevare la dispersione dell’opera in una serie di filmati, considerati frammenti preparatori, arti inseparabili di un corpo multicodico e fondamento di una sua ulteriore declinazione [B. Groys, In the Flow, cit., pp. 23-24]. A seconda delle istanze perseguite dal rituale del video-recording (indipendentemente dalla tecnologia e dal dispositivo), lo spazio al quale sono destinati questi audiovisivi assume le coordinate del museo o della rete. A volte, alla registrazione è richiesto di accompagnare i momenti che precedono l’elaborazione. Di funzionare da taccuino, utile a fissare le suggestioni di un sopralluogo. O da schizzo di studio [N. Bourriaud, Estetica relazionale (1998), postmedia books, Milano 2010, p. 81]. Altre volte, a essere filmata è la realizzazione. Accade per opere destinate a una forma predeterminata, anche se non definitiva (installazioni, murales), e per happening, performance, eventi; dando origine a una collezione di clip in progress potenzialmente infinita e generando una significativa moltiplicazione dei punti di vista. Altre volte ancora, nelle intenzioni dell’artista, il videorecording coincide con l’opera o con un suo capitolo: in sondaggi d’inchiesta, in video di sorveglianza o in archiviazioni d’immagini. Infine, la videoregistrazione viene utilizzata per connettere, testimoniare e comunicare opere di grande scala (Earth works e mostre) restituendone ampie prospettive e la messa in evidenza di legami e relazioni tra elementi e pubblico.
Vale per tutti la possibilità di riproduzione e di riattivazione (reenactment). Il vero cambiamento che i videotape innescano, infatti, sta nelle categorie di spazio e tempo. Per lo più, il video diventa necessario perché significa e prova la realtà, la concretezza di una pratica talvolta troppo dispersa ed eclatante per esser appresa direttamente, ha osservato Nicolas Bourriaud. Che ritiene costituisca il concentrato dell’opera, suscettibile di vedersi diluito in contesti eterogenei d’esposizione [Ivi, pp. 21, 83]. Ma l’atto del videoregistrare consente [anche] di formalizzare azioni e interventi artistici che si ritrovano unificati all’interno del video per fornire modelli di situazioni comunicazionali [Ivi, p. 52]. Così, la documentazione sistematica predisposta non ha come orizzonte solo il visivo, ma l’interazione presente e futura con l’osservatore (durante una proiezione, un re-enactment o una semplice visualizzazione sullo schermo di un telefonino). L’opera d’arte non si pone, dunque, come segno di un’azione passata, ma come l’annuncio di un prossimo evento dove l’evento si presenta come durata materiale da rivivere proprio grazie alla riproduzione in un ulteriore stadio della sua esistenza [Ivi, p. 82]. La registrazione non si limita, allora, a testimoniare che l’opera sia esistita (già il largo ricorso fattone dalla Land Art non significava che la mediazione offrisse la stessa esperienza dal vivo o facesse sparire del tutto l’“opera”). Piuttosto indica che l’identità o il suo significato non può essere completamente realizzato senza di essa [P. Kaiser, M. Kwon, Ends of the Earth and Back, in Id. (a cura di), Ends of the Earth. Land Art to 1974, The Museum of Contemporary Art, Los Angeles-Haus der Kunst, Prestel, Munich-Los Angeles-New York 2012, p. 27. Trad. mia].
Nell’era Post-Internet, secondo Groys, l’arte contemporanea è diventata il mezzo per eccellenza per indagare l’ontologia degli eventi […], la loro relazione con la documentazione e l’archivio e le modalità intellettuali ed emozionali della nostra relazione con la documentazione. Il suo prodotto sarebbero le “informazioni sugli eventi artistici” e non più oggetti estratti dal loro contesto per essere musealizzati (ricorda Groys: Walter Benjamin aveva descritto questo fenomeno come ‘perdita dell’aura’). Materiali digitali, documenti, archivi e registrazioni
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di quando l’opera era posta nel flusso della vita sarebbero gli unici dati atti a suscitare la nostalgia di rivederla accadere e, insieme, di sopperire a tale perdita rendendone possibile il reenactment, un tentativo di riempire il vuoto che sorge nel cuore stesso dell’aura [B. Groys, In the Flow, cit., pp. 9-10]. L’arte dopo il videotape L’unità elementare dell’arte oggi non è più l’opera d’arte in quanto oggetto, ma uno spazio dell’arte in cui sono esposti alcuni oggetti, lo spazio di una mostra, di un’installazione, ha affermato Groys [B. Groys, Art Power (2008), postmedia books, Milano 2012, p. 106]. In questo senso, per il teorico ciò che le registrazioni ci offrono è qualcosa di ovviamente incommensurabile rispetto all’esperienza personale, in quanto la nostra prospettiva, la nostra visione, è asimmetrica rispetto a quella di una macchina da presa […]. La nostalgia evocata da un evento artistico registrato ci fa desiderare un re-enactment dell’evento così come ‘accadde realmente’ [B. Groys, In the Flow, cit., p. 23]. Dopo l’estetica del concettuale, la documentazione dell’arte, pur non essendo arte, spesso, ne ha preso il posto in mostre dove la fruizione dell’opera, dematerializzata o inaccessibile, avveniva attraverso una mediazione tesa a instaurare relazioni mentali, in “assenza”, a consentirne la pensabilità o a certificarne e comunicarne l’esistenza [A. Alberro, P. Norwell (a cura di), Recording Conceptual Art, University of California Press, Berkley-Los Angeles-London 2001]. Così gli artisti si sono impegnati perché le pro-
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duzioni effimere fossero conservate a futura memoria, facendo degli archivi – fotografie, film, video – “macchine per trasportare il presente nel futuro” [B. Groys, In the Flow, cit., p. 166]. E, spesso, hanno scelto la videoregistrazione stessa come soggetto artistico o ne hanno fatto uso per archiviare la realtà (tra gli altri, si pensi alle video-performance di Bruce Nauman e agli Screen Tests di Andy Warhol). Mostre come Prospect 68 (1968), Conception/Konzeption (1969), When Attitudes Become Form (1969) e Information (1970), che esponevano opere in forma di documentazione, evi-
denziano la nascente attenzione per la documentazione [C. Moseley, A History of an Infrastructure, in Id. (a cura di), Conception. Conceptual Documents 1968 to 1972, Norwich Gallery, Norwich 2001, pp. 154-155]. Nel 1979, Renato Barilli è tra i primi in Italia ad analizzare il video-recording d’artista. È un procedimento di acquisizione “poco ingombrante”, “neutrale” – scrive – che riduce al minimo “complicazioni concettuali” come montaggio e regia. A distinguerlo dal film, un rapporto di specularità perfetta: perché la registrazione è immediatamente visibile su un monitor, nello stesso momento in cui si dipana l’azione reale. Vive di una stretta omologia con l’azione vissuta e reale, respingendo anche il disturbante intervento di un operatore intermedio investito del compito di regista. Lasciando sia l’attore a risolvere i problemi di angolatura dando precise indicazioni in merito prima dell’‘azione’, o affidandosi alla normale perizia tecnica di chi effettua la registrazione [R. Barilli, Il “video-recording” (1970), in Id., Informale Oggetto Comportamento. La ricerca artistica negli anni ’70, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 87-88, 94].
Ed è la maneggevolezza, la neutralità e la capacità di trasmissione diretta delle sequenze su un monitor, poi, in televisione, adesso, on line, a consentire al video-recording di partecipare alla democratizzazione del processo di produzione d’immagini. Caratteristica che ha conservato nel tempo, anche con il superamento della tecnologia originaria. Mantenendo, ancora oggi e attraverso ogni device, quel carattere di docilità a fissare il flusso di vita in una sorta di eterno presente [Ivi, p. 87]. Dai “vecchi” video-nastri alle infinite modalità di videoregistrazione attuali (videocamera, smartphone, tablet, App, action cam GoPro), il video-recording dimostra la sua forza nell’oggettivare la fluidità del comportamento anche laddove è l’autore a imporre al flusso della ripresa di essere mimetico nei confronti della realtà (come nelle operazioni chirurgiche guidate da Orlan e negli show orchestrati da Hermann Nitsch) [R. Barilli, Opera o comportamento? (1972), in Id., Informale Oggetto Comportamento, cit., p. 97]. E facilita la lettura delle componenti diacroniche di
opere composte da elementi oggettuali (dagli interventi di Minimal Art e Land Art alle installazioni dell’Arte relazionale, dalle
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incursioni di Street Art alle time-based exhibitions curate da Philippe Parreno e Pierre Huyghe). Diviene assai più comodo apprezzare quelle estensioni vedendole registrate da qualche mezzo tecnologico, anche in ragione della loro precarietà, afferma Barilli. Per l’autore di Una mappa delle arti nell’epoca digitale, è l’ultima tappa nella conquista della diacronia da parte delle cosiddette arti dello spazio: la cui quintessenza, nella tradizione lessinghiana, sarebbe la sincronia [R. Barilli, Una mappa delle arti nell’epoca digitale. Per un nuovo Laocoonte, Marietti 1820, Bologna 2019, p. 52].
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Anche Bourriaud ha individuato alcuni cambiamenti significativi innescati da tale tecnologia. Per lui: L’umanoide ordinario abita l’arte in video […]. La videocamera diventa uno strumento per intervistare […]. Il video riveste lo stesso ruolo didattico che aveva lo schizzo nel XIX secolo […] accompagna gli artisti. […] Informa anche sul processo di lavoro […]. La maneggevolezza del video ci può indurre anche a considerarlo il sostituto dislocato di una presenza. […] Però influisce anche sulla nostra vita quotidiana grazie alla diffusione della telesorveglianza [N. Bourriaud, Estetica relazionale, cit., pp. 82-83]. Il critico d’arte francese ne ha analizzato gli effetti sulle facoltà mentali riconoscendo alla diffusione delle immagini in movimento e del piano-sequenza (la ripresa priva di montaggio che avvicina il film alla videoregistrazione) il merito di averci alfabetizzati a tenere insieme elementi separati in un corpo durevole [Ivi, p. 21]. Rispetto al cinema, però, il video-recording, servendosi di immagini “sporche”, grezze o solo minimamente editate, tutela una maggiore trasparenza del mezzo e si avvicina a restitui re la vita dell’opera: dall’idea alla realizzazione, dal primo incontro con il pubblico alle eventuali riattivazioni, proponendosi come elemento integrale e propulsivo del suo accadere. L’attitudine a temporalizzare gli spazi nello sguardo, a cui accenna Bourriaud, ha agevolato l’attuale nomadizzazione e “flui dificazione” delle forme, insegnandoci a osservare installazioni e mostre come formazioni unitarie (quasi sequenze filmiche) date dall’accostamento di frammenti. Per estensione, ci ha permesso di concepire e riconoscere le opere d’arte del XXI secolo: costellazioni deterritorializzate; concatenamenti spezzati da tra-
sformazioni; piani su cui si intersecano e si stratificano dimensioni diverse; territori privi di prospettive centrali, attraversati da immagini e da forme che seguono moti trasversali, senza un inizio né una fine [V. Trione, L’opera interminabile. Arte e XXI secolo, Einaudi, Torino 2019, p. 501]. Interventi multimediali, intermediali, transmediali e crossmediali dalle identità multiple, dilatati nel tempo e nello spazio [Si rimanda a A. Pinotti, A. Somaini, Cultura visuale. Immagini, sguardi, media, dispositivi, Einaudi, Torino 2016, pp. 137-192]. Opere che “rinunciano a ogni ricomposi-
zione”, per le quali Vincenzo Trione ha, di recente, proposto la definizione di “opere interminabili” [V. Trione, L’opera interminabile, cit., p. 501]. Video-recording e XXI secolo Le operazioni più comuni su un dispositivo che funge da videocamera (rec, rewind, play, fast forward, pausa, stop, zoom in/ out) fanno parte del bagaglio di conoscenze di qualunque artista e di chiunque di noi (grazie ai nuovi device: computer, telefonini, tablet). Protagoniste di opere, installazioni, mostre, siti web e profili Social, dove si rivolgono al pubblico quasi senza mediazione, le videoregistrazioni svelano il divenire delle forme. Fenomeno che incide sul principio di compresenza tra oggetti, immagini, ambienti, gesti, azioni, relazioni in un’unica dimensione mediale. Mentre supporta l’autoglobalizzazione dell’arte e collabora alla definizione dell’opera del nuovo millennio. Lungo quest’orizzonte nel quale anche le casistiche sembrano infinite potremmo provare a individuare alcune traiettorie ricorrenti nel video-recording contemporaneo che provino a prescindere dalla fase di utilizzo (gli artisti tendono, oramai, a servirsene prima, durante e dopo la realizzazione dell’opera o come suo elemento interno) e non si limitino a considerarla l’aggiornamento di strumenti “tradizionali” (taccuino, schizzo, fotocamera, cinepresa). Approcci che non ne fanno solo una prova a carico della realtà, ma una traccia distintiva dell’identità complessa dell’opera. Suo principio di riattivazione e trasformazione infinite. Uno spazio per l’aura?
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– Storage Memory: l’occhio e l’archivio La videocamera, lungi dal porsi come in passato quale dispositivo disincarnato di telesorveglianza da contrastare, incarna l’occhio dell’artista in opere come Rachel, Monique (2006) di Sophie Calle (solita a pratiche di tipo archivistico e a tecniche di pedinamento e sorveglianza). Un lavoro complesso e un work in progress (costituito da performance, foto, installazioni), che accoglie la registrazione degli ultimi momenti di vita di Monique. La videocamera fissa davanti al letto, costringendo l’artista al capezzale della madre, acquisisce e può riprodurre all’infinito l’esperienza vissuta. Per lunghe sessioni, restituisce lo sguardo della figlia. Sostituendolo quando assente. Afferma Calle: In fondo, la videocamera ero io stessa. Attraverso di essa, io c’ero sempre: anche quando non potevo esserci [S. Calle, in V. Trione, Ho filmato mia madre sino alla fine, in “La Lettura - Corriere della Sera”, 19 ottobre 2014]. Nella sua estenuante durata, la videoregistra-
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zione funziona come terapia tesa ad attenuare l’angoscia della perdita e del tempo che passa. Anche se, ricorda l’artista, in alcune giornate, ero ossessionata, più che dall’imminente fine di mia madre, dai minuti che mancavano alla fine delle cassette per registrare [Ibidem]. Come se la possibilità di archiviare quelle ore fosse divenuto più importante che viverle. Quasi che poterle rivivere, rendendo presente quell’assenza incolmabile a ogni riproduzione, fosse più accettabile del cedere, impotente, a una fine. La videocamera incarna l’occhio del pubblico, spia l’artista in The Life of C.B., progetto al quale Christian Boltanski si dedica dal 2010 sviluppando tematiche come archivio, sorveglianza, esibizionismo, da quando ha venduto le riprese dei suoi ultimi anni di vita a un collezionista. In cambio di uno stipendio mensile, quattro telecamere registrano senza interruzione la sua esistenza realizzando una sorta di autoritratto nel tempo. Archiviano e trasmettono le immagini raccolte su monitor posti in un museo in Tasmania, perché possano essere osservate e, dopo la sua morte, vendute [V. Codeluppi, Ipermondo. Dieci chiavi per capire il presente, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 127]. L’artista francese, che ha dedicato tutta l’attività artistica e filmica a indagare l’archetipo dell’archivio, considera questo la-
voro il modello per uno successivo dal titolo Storage Memory: una serie di brevi filmati, “cartoline della sua vita”, da inviare a chi si abbona al suo servizio Internet. – Milieu: il medium ambiente Strumento privilegiato nel restituire eventi, manifestazioni, conferenze, dispositivo di riproduzione che allunga e disloca le azioni riprese, corpo tecnologico capace di accogliere e riattivare codici e gesti, il video-recording diviene interfaccia mediale di un ambiente pluridimensionale per coloro che condividono l’idea dell’opera come durata non abbracciabile con un unico sguardo e del pubblico come interlocutore del processo creativo. Orientamento tipico del panorama dell’Arte relazionale e del Post-human, accentuato dopo il 2000 dall’incremento delle modalità di rete e delle pratiche collettivistiche. Per i primi, l’evento affida alla relazione instaurata con i partecipanti e al dispositivo il germe capace di generare la sua stessa prosecuzione [N. Bourriaud, Estetica relazionale, cit., p. 82]. Tra gli esempi, Parreno che nelle sue mostre smonta e ricolloca registrazioni precedenti. Per i “reduci” del Post-human, il video-recording (che equipara ogni dato immagazzinato – umano, animale, artificiale – in un corpo-ambiente tecnologico-mediatico dilatabile, reversibile e rinnovabile) afferma la compresenza tra alterità in un’unica dimensione mediale – un milieu capace di tenere insieme la totale instabilità del sistema [J. Rancière, Ce que “medium” peut vouloir dire: l’exem ple de la photographie, in “Appareil”, n. 1, 2008, p. 135] – atta a inseguire la dinamica evolutiva di tutte le estensioni dell’umano nell’altro da sé. Nella videoregistrazione finisce per incarnarsi l’opera stessa in una forma fluida, soglia d’ibridazione tra l’io e l’altro, tra l’uscita dal proprio io-corpo e la contaminazione con l’estraneo; pronta ad attivate tutte le estensioni relazionali, nella riproposizione video, nella partecipazione collettiva verso future metamorfosi (si pensi alle riprese delle performance di Orlan, di FranKo B, di Marcel. Lì Antunez che tramite proiezioni live dei video instaurano una relazione tattile, per dirla con Marshall McLuhan, con gli spettatori chiamati a integrare l’opera a ogni riproduzione).
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– Trailer: globalizzazione e fiction Interrogandosi sul corso dell’arte nel XXI secolo, Bourriaud individua il delinearsi di quello che chiama “effetto trailer”. Afferma che il trailer è il “segno dell’evento” capace di sostituirsi all’evento. Una traccia di tipo “promozionale” che rinvia ad uno spazio e ad un tempo assenti dal nostro campo visivo [N. Bourriaud, L’effetto trailer, in “Flash Art”, n. 156, giugno-luglio, 1990]. Continua: Fra le riprese e il film, fra le immagini a venire e le immagini già realizzate, fra l’opera e la sua diffusione, si situa il campo effettivo dell’arte odierna, fatto di immagini che sopravvengono fra le immagini: oggetti da intervallo, punti di sutura per un reale disgregato [Ibidem]. A questo “effetto” sembrano richiamarsi autori distanti (tra gli altri: Ai Weiwei, Cindy Sherman, Vhils, JR) che affidano ai Social immagini e registrazioni in progress rivolgendosi al pubblico senza mediazione in un processo aperto a condivisioni e libere alterazioni. Ma anche i profili di dubbia ufficialità di artisti che giocano tra fiction e post-verità (si pensi a Banksy e a Maurizio Cattelan) [V. Trione, Quanto è social (e democratico) l’artista d’oggi, in “La Lettura-Corriere della Sera”, 29 luglio 2018]. E, off line, un artista come Damien Hirst, che nella mostra Treasures from the Wreck of the Unbelievable (2017) delega a un finto video-recording, un filmato tra il “promo” e il documentario, la prova della veridicità del ritrovamento del tesoro esposto. A essere caricati su Instagram, nel caso di Ai Wiwei, sono riprese video che testimoniano il suo impegno da attivista, fanno da sostegno e cassa di risonanza alle cause a cui tiene e alle quali dedica i suoi lavori. Dichiara una complessa poetica multimediale l’esperienza dell’Urban artist Vhils. Che sceglie di posporre l’intervento fisico a una vasta ricognizione operata con la videocamera e postata sui Social. Così, i segni “graffiati” sui muri diventano tracce effimere, fermoimmagine, dell’atto (registrato) che le ha prodotte. Men tre i video si fanno parte integrante dell’opera, di cui anticipano e determinano lo stato più riconoscibile (il ritratto a parete), e veicolo di trasmissione della sua forma materiale nel flusso globale.
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Incoming/Outgoing. Flussi trans e multiculturali nel design contemporaneo CARLO MARTINO, IVO CARUSO, VINCENZO MASELLI*
Sta avvenendo uno strano fenomeno: culture lontane e arcaiche, mondi indigeni e legati ad altre logiche che non fossero quelle della ‘società dei consumi’ si trasferiscono qui da noi, nelle nostre città [F. La Cecla, Progetto creolo. Memory Containers, in L’oggetto dell’equilibrio; The balanced object Centro Studi Alessi 1990-1996, Electa Editore, Milano 1996, p. 109]. Due decadi
orsono, Franco La Cecla definiva i termini di una crisi sistemica che dagli anni settanta del Novecento ha caratterizzato la cultura contemporanea su scale diverse. La globalizzazione delle produzioni e dei mercati ha generato una rete di comunicazioni che non ha precedenti nella storia, contribuendo a integrare le economie, le mode e le narrazioni di quasi tutte le aree geografiche del pianeta. Secondo il sociologo e filosofo francese Edgar Morin oggi l’umanità si trova a dover dare risposta ad una necessità di rigenerazione del pensiero e a delineare una concreta strategia planetaria di cambiamento. Una mondializzazione democratica che definisce la nascita di un nuovo modello di società futura: la società-mondo, capace di caratterizzarsi per una “nuova originalità” simbolica, espressiva, sociale, progettuale, artistica culturale e filosofica e con una nuova attenzione alle questioni etiche e relative alle sostenibilità. Meticciati, ibridazioni, personalità cosmopolite o biculturali – scrive Morin – arricchiscono inces* Carlo Martino è l’autore del paragrafo introduttivo. È di Ivo Caruso il paragrafo Outgoing mentre di Vincenzo Maselli quello sull’Incoming.
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santemente questa vita transculturale [E. Morin, Quale altra mondializzazione, in Rivista del Mauss. Movimento Anti Utilitarista delle Scienze Sociali, n. 2, 2004].
Oggi quindi risultano modificati i concetti stessi di luogo, di flusso, di tipicità e di etnia in funzione di scenari contemporanei quanto mai frammentati, ibridi, “aperti”, “liquidi” e globalizzati. Per la cultura del design contemporaneo, tale scenario definisce una nuova possibile attività di ricerca “aperta”, inclusiva, orientata alla contaminazione e all’acquisizione di patrimoni tradizionali e locali “altri”, “esotici”, all’accoglienza di linguaggi, orizzonti progettuali nuovi, che rendono i prodotti che ne derivano sia emblemi di questo bisogno di una nuova identità mondiale, sia tentativi di recupero di racconti e legami con il luogo che li ha ideati. Eredità, tradizione, genius loci, diversificazione, autenticità, e contemporaneità sono termini sempre più ibridati nell’orizzonte progettuale dell’occidente postmoderno. Aperto alla complessità e alla collaborazione sinergica di istanze diverse, quindi, il design esibisce la capacità di sconfinamento temporale, geografico, linguistico e culturale su più fronti, nella caratterizzazione degli attributi sia morfologici e funzionali, sia emotivi. Il design esprime e ricrea connessioni e identità, e diventa tramite per trasferire un patrimonio di oggetti del mondo materiale di [altre] culture [F. La Cecla, op. cit., 1996, p. 109]. Come suggerisce Barbara Spinelli introducendo il tema del multiculturalismo: Grazie allo straniero siamo portati a chiederci, forse per la prima volta, chi siamo, che cosa vogliamo, da dove veniamo. E per effetto di questa domanda siamo portati a trasformarci [B. Spinelli, Ricordati che eri straniero, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2005, p. 14]. Il designer contemporaneo, affascinato dall’unicità, incuriosito dalla diversità, entusiasta, industrioso, e tormentato da una sete d’infinito [M. Maffesoli, Icone d’Oggi, Sellerio Editore, Palermo 2009, p. 138. Edizione originale, Iconologies: Nos idolâtries postmodernes, Éditions Albin Michel, Parigi 2009], si trasforma rileggendo e trasferendo orizzonti pro-
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gettuali, innerva tradizioni a suggestioni “altre” con un proprio know-how, senza snaturarle, e valorizza (…) le risorse del territorio, inserendolo in una rete mondiale [V. Pasca, Il design oggi, in Op. cit., n. 131, Napoli 2008]. I luoghi, le comunità, le identità
locali e l’artigianato diventano strumenti di diversificazione, di creazione di valore e quindi di attuazione di (…) un modello culturale, operativo e politico fondato sull’inclusione e sull’attivazione sociale ed in cui lo sviluppo e la competitività si fondano sulla divulgazione e sulla “messa a sistema” del sapere, delle informazioni, delle pratiche orientate alla ricerca e all’innovazione [I. Caruso, Models of dialogue between local manufacturing cultures and design, in I. Caruso, V. Cristallo, Historical heritages and new practices. Modern connections between design and craftsmanship in the “knowledge society”. Gangemi editore, Roma, p. 196]. Per il designer la ricerca “geografica” è un forte stimolo
per un tipo di innovazione, spesso etica e “slow”, che punta alla mescolanza ed alla sovrapposizione di mondi e, a volte, alla salvezza di queste tipicità da una estinzione dovuta all’incapacità di aggiornamento in un mutato e sempre più mutevole scenario contemporaneo. Tale aspirazione trova piena realizzazione nelle ricerche dello storico statunitense Victor Margolin, recentemente scomparso che, a partire dagli anni Settanta, propone una visione ampia e consapevole della storia delle pratiche progettuali e delle innovazioni tecnologiche, attraverso una lettura storica inclusiva e plurale, funzionale a comprendere il ruolo e l’impatto che esse hanno avuto nelle differenti culture. Secondo Margolin, solo l’atteggiamento di apertura, la disponibilità alla comprensione e la volontà di superare le riduttive partizioni e categorie con cui il design è stato raccontato nelle narrazioni maggiori, può consentire di definire il futuro di questa pratica, a fronte di sfide sociali, tecnologiche e ambientali sempre più complesse e ampie [M. Dalla Mura, Victor Margolin, “world history of design”, recensione, in AisDesign: Storia e Ricerche, n. 10, web magazine - www.aisdesign. org, dicembre 2017].
Come anticipato, le istanze trans e multiculturali della contemporaneità affondano le radici in un contesto multiculturale globalizzato su più ampia scala. L’apertura all’“alterità” e il conseguente meticciato, rappresentano, secondo il sociologo francese Michel Maffesoli, un elemento cardine della mitologia postmoderna [M. Maffesoli, op. cit., 2009, p. 87], e permettono di individuare una caratterizzazione “multiculturale” anche alla cultura del progetto. La diffusione del termine “multiculturale” as-
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sociato alla cultura del progetto in occidente risale ad un periodo storico di grande apertura nei confronti delle tradizioni culturali e progettuali orientali, soprattutto nipponiche. Un periodo caratterizzato da eventi concomitanti: l’interesse dell’occidente per apparati produttivi, suggestioni visive e tradizioni estetiche diverse; la ricerca, da parte di alcuni paesi orientali, di mercati internazionali in cui riversare i propri prodotti e valori. Nello scenario produttivo occidentale una cultura sincretica, originale e dalla forte identità e tradizione, come quella giapponese, si prestava perfettamente ad essere luogo di scambi, mescolanze, alternanza di prestiti e sintesi [C. Lévi-Strauss, L’altra faccia della luna. Scritti sul Giappone, Bompiani, Milano 2015, p. 33. Edizione originale, L’Autre Face de la luna. Ècrits sur le Japon, Editions du Seuil, 2011].
L’apertura verso tradizioni visive, morfologiche e materiche orientali e l’ibridazione multiculturale, perciò, hanno radici tipicamente postmoderne e sono visceralmente legate ad un orizzonte progettuale target-oriented. Oggi – scrive Stefano Micelli – esiste un consumatore disposto a riconoscere il valore della varietà e della differenza [S. Micelli, Fare è innovare. Il nuovo lavoro artigiano, Il Mulino, Bologna 2016, p. 11], e accanto al consumatore consapevole c’è un pubblico per il quale la diversità è un merito, perché rifugio e scappatoia da una società pericolosamente omologata. Il pubblico post-moderno è, secondo il sociologo Kiyomitsu Yui, continuamente stimolato a mettere in discussione se stesso e la realtà che lo circonda, e per questo attratto da tradizioni e apparati segnici “altri”. Questo bisogno di evasione è stato avallato dall’arrivo di internet e dalla conseguente riformulazione dei concetti di spazio e tempo, e dagli anni ’80 ha aperto la strada ad estetiche nuove, straniere e a piccole narrazioni portatrici di fragranze esotiche [Y. Kiyomitsu, Japanese Animation and Glocalization of Sociology, in Sociologisk Forskning vol. 47, 2010, p. 46], ignote e conturbanti. Una vera estetizzazione della vita quotidiana [Ibidem] che non poteva risparmiare la cultura
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del progetto. E dunque, dalla diffusione delle Ceramiche Jomon, all’ispirazione estetica e filosofica portata dalla poetica del WabiSabi, all’invasione dei prodotti audiovisivi nipponici nell’Europa di fine anni settanta, alle collezioni sviluppate nel settore della
moda, da sempre a caccia di ispirazioni, e all’automotive (basti pensare all’impatto delle auto giapponesi e coreane negli anni Ottanta e Novanta); le “incursioni”, i meticciati e le ibridazioni multiculturali sono una realtà dinamica, che influenza momenti diversi e spesso convergenti del percorso progettuale e che investe, oggi, i settori più disparati: dalla grafica alle arti, dalla comunicazione multimediale al product design. Apertura dinamica, mescolanza, incontro e contaminazione sono i vocaboli che delineano una situazione chiara e interessante: da un lato, la cultura del progetto occidentale non saccheggia più culture lontane, rendendone gli esiti e i processi delle estensioni della propria identità, ma le indaga, le sfiora e le racconta cambiandone gli scenari di consumo e valorizzandone i paradigmi progettuali; dall’altro i progettisti di culture “altre” firmano prodotti e progetti che arrivano all’occidente globalizzato e dialogano con i processi e le tradizioni autoctone. Una modalità che non ammette più una supremazia dell’occidente ma si fonda su un “reciproco riconoscimento” e con un conseguente “sostegno dell’alterità” [C. Martino, Orienti Mitici, in MIXDESIGN, web magazine - www.mixdesign.it, aprile 2010, www.mixdesign.it/Orienti-mitici_think_x_4186.html]. Oggi, dunque, la conta-
minazione è reciproca e sinergica, e L’identità – scrive Remo Bodei – deve articolarsi [anche in base] a differenze: deve accettare, al suo interno e all’esterno, l’esistenza di pluralità di voci altre, (…) promuovere inoltre la creatività dei ceti più legati ad un orizzonte locale, e, in genere, infittire la conversazione tra queste voci, la capacità di comunicare, offrendo e ricevendo esperienze su un piano di pari dignità [R. Bodei, Identità italiana e multiculturalismo, in Atti del Convegno - Identità Italiana tra Europa e Società Multiculturale, Fondazione Intercultura 2009, p. 204]. Gli artefatti progettati secondo istanze topiche, pur
nascendo da un incontro e una fusione tra culture diverse, non devono, perciò, abbandonarsi né ad un approccio ‘differenzialistico’, tutelando le diversità in maniera chiusa, senza quindi accettare i flussi e gli scambi tra identità, né ad un ibridismo indiscriminato, liberando totalmente tali flussi senza valorizzare le singole identità. In questo senso l’orizzonte progettuale multiculturale riprende gli stessi parametri normativi e descrittivi del
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multiculturalismo inteso come apertura all’interazione tra culture differenti che convivono mantenendo ognuna la propria identità [L. Bhaskaran, Giapponismo, in Il Tempo Design, Edzioni Logos, Modena 2006, p. 38]. L’ibridazione multiculturale e la sinergia identitaria fin qui delineate tassonomicamente e storicamente, trovano un riscontro in numerosi progetti e prodotti del panorama contemporaneo. In questa sede si propone di farli confluire in due macro categorie: progetti e prodotti incoming di autori di culture “altre” che arrivano all’occidente globalizzato portando suggestioni progettuali; esperienze progettuali outgoing di designer occidentali che sperimentano traiettorie di inclusione e risemantizzazione di culture straniere. Incoming _ prodotti e progetti che arrivano all’occidente globalizzato Nella sua interpretazione semiotica di unità minimale nel processo di comunicazione e significazione secondo prospettive semantiche, sintattiche e pragmatiche [Per approfondire si suggerisce la consultazione del volume Segno, di Umberto Eco (1973), Editore Isedi, Milano], il patrimonio segnico è l’enciclopedia dei
rimandi culturali, dei collegamenti metaforici, e delle suggestioni visuali dell’ambiente culturale nel quale tali segni si vengono a creare. Il rapporto generato tra forma e significato, però, non si esaurisce nella definizione del segno, ma apre la strada ad un’altra serie di rinvii significativi, (…) per la creazione, attraverso giustapposizione, inclusione o sovrapposizione con altri segni, di segni complessi [M. Marazzi, Le relazioni fra lingua e scrittura nelle civiltà dello spazio iscritto, in Actes Semiotiques n. 119, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli 2006, p. 17]. L’insie-
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me di progetti e prodotti generati da tradizioni segniche radicate in altri contesti geografici e culturali costituisce il bacino di discussione di questa prima categoria di progetti/prodotti multiculturali. La designer libanese Nada Debs, per esempio, valorizza la qualità, le forme pure e le contaminazioni cromatiche tipiche della “grammatica” mediorientale, e le introduce al gusto interna-
zionale. Dai componenti d’arredo ai gioielli, Nada Debs racconta “storie tattili” [N. Debs, What are Nada’s values?, in Nada Debs Official Website, www.nadadebs.com/en/vision] attraverso geometrie semplici che rimandano a filosofie complesse. Vissuta in Giappone fino all’adolescenza, in alcuni progetti persegue minimalismo e linearità delle forme. Questo accade, per esempio, nei tavolini Tatami del 2017, che nascono dal dialogo fra tradizioni segniche differenti: le facce dei volumi richiamano le texture dei pavimenti giapponesi in tatami, gli intarsi lungo gli spigoli, invece, sono tipicamente libanesi. La Debs commenta il progetto in questo modo: Queste sono due serie tradizioni artigianali in due culture che fanno parte del mio cuore. Quando li riunisci diventano qualcosa d’altro, qualcosa di intrigante e bellissimo ma con una nota giocosa [L. Zeitoun, Nada Debs shapes color-gradient tatami tables with eastern flair, in Designboom, web magazine www.designboom.com, marzo 2017; www.designboom.com/design/ nada-debs-tatami-tables-03-27-2017/].
Di tutt’altra tradizione segnica e culturale i riferimenti morfologici dei due designers Adriaan Hugo e Katy Taplin (Dokter and Misses studio), un industrial e una graphic designer di Johannesburg, Sudafrica, i cui mobili e oggetti innovativi, non hanno solo catturato l’immaginazione degli appassionati di interior design sudafricani, ma anche quella dei collezionisti internazionali [Dokter and Misses, official website - About us, www.dokterandmisses.com/editions/about]. I due designers reinterpretano con un gusto contemporaneo i tradizionali modelli africani. Il mobile bar LALA, ad esempio, riprende le geometrie e le forme tipiche degli oggetti della tribù dei Basotho, ma le reinterpreta con una chiara ispirazione Art Deco. O ancora, gli oggetti della serie limitata Kassena del 2012 hanno una morfologia e una decorazione di chiara ispirazione autoctona che riprende le scritture a mano della tribù dei Kassena del Ghana del nord. Se nella cultura del progetto “il tipo” è l’insieme dei caratteri riferibili ad una forma o, come scriveva Carlos Martì Artis, il luogo dove risiede la forma [C. Martì Arìs, Le variazioni dell’identità. Il tipo in architettura, CittàStudi editore, Milano 1996], in una prospettiva fenomenologica, teoretica e funzionale, il multiculturalismo tipologico evidenzia un altro attributo del tipo, il suo carattere
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locale e culturale. Il tipo identifica sincreticamente attributi morfologici, funzionali e tecnologici che sono all’origine di un manufatto, e la convergenza di soluzioni tipologiche in una dimensione multiculturale comporta la genesi di oggetti dall’ontologia inedita in un contesto culturale diverso da quello d’origine. Il saccheggio di soluzioni morfologiche funzionali è alla base della cultura del progetto, ma risulta interessante rilevare, in questa sede, che la contemporaneità ha adottato questo atteggiamento come strumento di conoscenza, inclusione e arricchimento tipologico più che come semplice soluzione funzionale. Tra i numerosi esempi, il radiatore Kangeri, disegnato dall’indiano Satyendra Pakhalé per l’azienda italiana Tubes che nella sua concezione di oggetto scaldante nomade trae chiara ispirazione tipologica dagli scaldini delle popolazioni indigene dell’India: Il nome si riferisce, infatti, agli scaldini personali Kanger usati per secoli dai nomadi dell’india settentrionale. (…) un recipiente contenente delle braci, usato dalla gente originaria della regione del Kashmir, sotto le loro vesti tradizionali per mantenere caldo il proprio corpo. È un oggetto di grande importanza culturale per la relazione speciale che esiste tra un Kashmiri e il suo Kanger e viene spesso considerato come un’opera d’arte [L. Calligari, Kangeri Nomadic Radiator, in Arredativo, web magazine - www.arredativo.it, giugno 2014; https://www. arredativo.it/news/kangeri-nomadic-radiator/].
Sempre dalla cultura materiale ed estetica dell’India derivano i progetti dello studio Doshi-Levien, tra i quali ricordiamo l’emblematico sofà My Beatiful Backside, disegnato per l’azienda Moroso, che trova la sua forte caratterizzazione proprio nella rilettura del classico cuscino arrotondato della tradizione indiana. Per lo studio anglo-indiano è fondamentale non dissipare il cosiddetto capitale culturale di un Paese; non distruggere ma conservare il genius loci. È la grande risorsa per innovare il design, specie nei luoghi i cui valori e aspirazioni devono poter tradursi in un linguaggio contemporaneo [F. Diwan, Io parlo anglo-indiano, in Corriere della Sera/Tendenze/Design, web magazine - living.corriere.it, dicembre 2011; living.corriere.it/tendenze/design/ doshi-levien-30433960196/].
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Nel progetto “Zhuang” per Poltrona Frau, gli architetti Lyn-
don Neri e Rossana HU dello studio italo-cinese Neri&Hu, hanno ripreso i vassoi impilabili tipicamente orientali come espediente morfologico per creare un sistema di scatole impilabili di forma circolare e ovale racchiuse da un coperchio in cuoio. Ogni scrigno conta quattro vassoi sovrapposti, sfilabili uno a uno e tenuti insieme dalla base in alluminio satinato color ottone [Gli Oggetti - Zhuang, in Poltrona Frau, official website - www.poltronafrau.com/it/gli-oggetti-zhuang]. Il richiamo tipologico ai contenitori orientali è evidente, come indicato anche dal nome, che in cinese vuol dire “dote”, e apre a una ritualità domestica contaminata e inedita nel panorama occidentale, frutto di una progettualità multiculturale. Sulla filologica rilettura delle tipologie di arredi cinesi è infine impostato l’intero catalogo del marchio Dimensione Chi Wing Lo, dell’architetto e designer Chi Wing Lo, e prodotto da Maroni. Il designer cinese aveva avuto modo di contaminare il mondo dell’arredo negli anni Novanta con segni e tipologie di chiara derivazione orientale, disegnando cassettiere, contenitori e sedute per il marchio di ebanisteria Giorgetti. Tale esperienza ha fatto poi maturare l’idea di un marchio specifico in grado di trasferire la cultura ebanistica e l’attenzione per il dettaglio dell’autore in un nuovo progetto imprenditoriale. Il riferimento a tradizioni tecniche e scelte materiche “altre” unisce sperimentazione e tradizione con l’obiettivo di rivalutare processi artigianali dal particolare valore culturale ed emozionale e legittimarne l’applicabilità in chiave estetica, morfologica e fenomenologica. Ancora una volta la designer Nada Debs, nella collezione di tappeti YOU & I realizza un progetto per la Fatima Bint Mohammed Initiative (FBMI) che promuove l’artigianato locale afghano. I grandi tappeti in lana, dalle geometrie semplici e giocose e dai colori naturali, sono stati, infatti, realizzati da tessitrici locali e riprendono una tradizione tramandata di madre in figlia. Morfologicamente l’accostamento di pattern geometrici ed evoluzioni organiche, di design tradizionale e moderno all’interno dello stesso pezzo, evoca una dualità che è compresenza armoniosa più che sintesi. Mi piacerebbe – afferma la designer – pensare a loro come storie d’amore tra due trame, forme e colori [She calls her approach: handmade and heartmade, in
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DesignWanted, web magazine - designwanted.com, marzo 2018; designwanted.com/design/nada-debs-heartmade/]. E aggiunge, per con-
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solidare il valore culturale della tradizione tecnica sfruttata dal progetto: è una storia che si traduce in qualsiasi cultura: le donne con cui abbiamo lavorato erano tutte entusiaste dell’idea [Ibidem]. Il progetto appena descritto, forte di una tradizione tecnica, materica, ma anche di un universo tipologico di appartenenza e di un patrimonio segnico ben definito, mette in luce un aspetto importante della categorizzazione sviluppata sino ad ora: patrimoni segnici, tipologici e tecnici di ogni cultura inevitabilmente si sovrappongono e si armonizzano in uno stesso progetto/prodotto. Un caso studio emblematico per la sua capacità di far convivere in uno scenario globale ricerca, etica, progetto e imprenditoria è il lavoro del designer afroamericano Stephen Burks. Il suo progetto Man Made nasce dall’aspirazione di far dialogare culture manifatturiere tipiche dei Paesi in via di sviluppo, produzione industriale, mercato globale e design contemporaneo. Burks negli anni è stato incaricato da molti dei più riconosciuti marchi di design del mondo di sviluppare collezioni che impegnano le produzioni artigianali come strategia di innovazione, produzione e commercio equi. Tra questi vi sono BD Barcelona Design, Bolon, Cappellini, Calligaris, Dedar, Dedon, Estée Lauder, Harry Winston, Living Divani, Luceplan, Missoni, Moroso, Roche Bobois e Swarovski. In maniera indipendente o in taluni casi grazie alla collaborazione con diverse associazioni no profit (tra cui Aid to Artisans, Artesanías de Colombia, Clinton Global Initiative, Design Network Africa e Nature Conservancy), La “rete” operativa Man Made oggi riesce ad operare in diversi Paesi come Australia, Colombia, Ghana, Haiti, India, Indonesia, Kenya, Messico, Perù, Filippine, Ruanda, Sudafrica e Senegal. Trasferimenti tecnici e ibridazioni materiche in chiave ecosostenibile si inseriscono in un flusso di prodotti e progetti che alimentano un linguaggio estetico universale, eco di patrimoni segnici, tipologici e materici stranieri, accomunati da qualità sempre più importanti nel design contemporaneo: forme semplici, uso di materiali naturali, dedizione artigianale e collaborazione.
Outgoing _ prodotti e progetti che traggono ispirazione dagli orienti mitici Nel settore dell’arredamento esistono esperienze emblematiche di questa tendenza alla collaborazione tra cultura del design, multiculturalismo e saperi locali. Sono esperienze che consapevolmente superano la proclamazione dell’era multiculturale intesa da Bauman come una dichiarazione della ‘onnivora insaziabilità culturale’ dell’elite globale che ci porterebbe a trattare il mondo come un gigantesco grande magazzino con scaffali colmi delle offerte più svariate (…) [B. Vecchi (a cura di), Zygmunt Bauman. Intervista sull’identità, Giuseppe Laterza & Figli, Bari, 2003].
Si pensi ad esempio alla ormai storica collaborazione tra il brand Edra e i fratelli Fernando e Humberto Campana che ha inaugurato un interesse europeo per una brazilian way dell’ambiente domestico; alle ricerche progettuali su decori, tessuti e intrecci di Paola Navone; o al lavoro condotto a partire dal 2009 dall’azienda italiana Moroso che ha negli anni coinvolto designer come Tord Boontje, Patricia Urquiola, Stephen Burks, Federica Capitani, Sebastian Herkner, Ron Arad, Martino Gamper, Concetta Giannangeli, Dominique Petot, David Weeks e Birsel+Seck per il progetto M’Afrique. La produzione, al fine di rappresentare un reale esempio di fair trade, è dislocata a Dakar (Senegal) e gli arredi che ne derivano operano una rilettura dei decori, delle cromie, dei materiali (prevalentemente metalli, cordami e filati per reti da pesca) e degli intrecci tipici africani. In merito a questo progetto Patrizia Moroso ha dichiarato: Il Senegal, in particolar modo, è cresciuto per merito di governi saggi e investimenti intelligenti, volti a salvaguardare il patrimonio di conoscenze delle sue genti. M’Afrique ha avuto origine proprio osservando i manufatti di pregio che alcuni tessitori di Dakar realizzavano annodando a semplici strutture di plastica o ferro dei grossi cavi, che Salam mi spiegò essere gli stessi che i pescatori usavano per realizzare le reti d’alto mare. Abbiamo pensato di mettere in contatto queste realtà produttive con alcuni designer con cui collaboravamo, offrendo a quest’ultimi la possibilità di lavorare insieme agli artigiani nei laboratori africa-
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ni, attivando uno scambio culturale virtuoso che poteva contribuire a tenere in vita abilità manuali dalle origini antiche [A. Pincini, Trame d’Africa firmate Moroso, in Icon Design, web magazine - icondesign.it; https://icondesign.it/storytelling/moroso-dakar-mafrique/].
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Nel 2019 Patrizia Moroso accompagna Ron Arad a Dakar per lavorare alcuni giorni a stretto contatto con gli artigiani del progetto M’Afrique. Il viaggio è documentato nel libro Three days in Dakar - a sentimental journey. Elena Commessatti, redattrice di questo affascinante reportage, sintetizzando un approccio che si fonda sull’ispirazione rispettosa e sullo scambio culturale e non su una forma di “saccheggio segnico” o di nuovo colonialismo, scrive: La valorizzazione dell’umano […] porta anche in questo racconto i segni della relazione. Gli operai a Dakar costruiscono prodotti per l’Europa e per il mondo e diventano responsabili del nuovo linguaggio M’Afrique. I designer, quando pensano a un prodotto per la collezione e arrivano in Africa, assorbono lo spirito della terra e lo vedono tradotto così. Sono le mani a intrecciare, a saldare, a curvare, a verniciare: a mettere in relazione mondi apparentemente lontani [E. Commessatti in P. Moroso (a cura di), Three days in Dakar - a sentimental journey, Nava Press, Milano 2019, p. 35]. La collaborazione tra Moroso e Patricia Urquiola per il reperimento e la rilettura di patrimoni segnici e tecniche tradizionali può essere riscontrata anche nella collezione di tappeti Sardinian Rugs. Grandi superfici in pura lana in cui gli apparati grafico-simbolici sardi vengono selezionati, campionati, ingigantiti, destrutturati, ricolorati e, così, proiettati in contesti domestici contemporanei. I grandi tappeti sono prodotti manualmente in Sardegna mediante l’ausilio di antichi telai in legno con la tecnica locale dei “Pibiones”. Con analogo spirito di riscoperta, ri-lettura e salvaguardia di una specifica cultura materiale, nel 2012 Cappellini presenta la collezione Superheroes disegnata da Studio Glimpt e realizzata secondo una tecnica di intreccio tipica del Vietnam. Francesca Lanzavecchia e Hunn Way nel 2011 presentano la ricerca Leone Series; una collezione di lampade realizzate artigianalmente in bamboo e carta di riso secondo la metodologia costruttiva delle maschere danzanti orientali. Lo studio italo-sin-
gaporiano ha creato questi grandi volumi grazie alla collaborazione con l’ultimo artista specializzato nella lavorazione delle maschere rituali per la tradizionale danza del leone. Le buone pratiche di ricerca sul design di arredo a prodotto e per un’imprenditoria transculturale e mondializzata possono quindi rivelarsi varie ed a volte localizzate secondo flussi e in luoghi inaspettati. Gli imprenditori svedesi Inga-Lill e Pa Ovin, ad esempio, a partire dal 2006 riportano in vita la produzione delle piastrelle a encausto tipiche del Maghreb grazie a un laboratorio artigianale alle porte di Marrakech per realizzare le collezioni di rivestimenti per l’architettura per il brand Marrakech Design. Altro esempio emblematico dell’emancipazione e del l’interesse contemporaneo verso un nuovo concetto di African style è l’azienda Mabeo. Un marchio di arredi e complementi con sede in Botswana ma che, a partire dal 2006, è riuscita ad allargare la propria rete distributiva su scala globale grazie anche ad un forte know-how pregresso e alle nuove collaborazioni con alcuni tra i designer più attenti al tema della rigenerazione dei linguaggi e dei caratteri di topicità e tipicità nell’arredo contemporaneo. Si legge nel manifesto identitario dell’azienda: L’obiettivo del marchio è quello di rendere il lavoro degli artigiani africani disponibili al mondo in modo ponderato, per riflettere alcune qualità: una semplicità essenziale della forma, un’idea di purezza, l’uso coscienzioso e la manipolazione di materiali naturali, la dedizione degli artigiani e delle donne e la sensibilità del designer collaboratore con rispetto per il ricco patrimonio estetico dell’Africa1. Nel fervente scenario sudamericano, è interessante citare l’iniziativa A Gente Trasforma che ha portato alcuni tra i migliori designer brasiliani (Nada Se Leva, Fetiche Design, Marcelo Rosenbaum) a collaborare con le tribù di etnia Yawanawà per la rea lizzazione di lampade che reinterpretano forme, archetipi, materiali e tecniche costruttive indigene. Un ulteriore caso studio di ricerca in design in cui l’innovazione è guidata dalla ricerca di un processo manifatturiero tradizionale, locale e “antico” è il progetto Polvere di Vicky Katrin. Ne parlano Valentina Coraglia e Caterina De Giorgi: Vicky Katrin, designer e fotografa formatasi tra Design Academy di Eindhoven e Politecnico di Tori-
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no, propone il suo laboratorio di ceramica, Polvere, come real tà itinerante tra l’Europa e il Sud America: ovunque si trovi, reperisce sul posto quanto necessario (l’acqua e l’argilla innanzitutto, e quindi trucioli, fogliame, pietre raccolte in loco) per realizzare manufatti ceramici dalle forme archetipe, sempre diversi, che catturano lo spirito del luogo e che lei poi spedisce per il mondo tramite il suo sito web. Amante della ricerca, Katrin ha riscoperto un antico metodo vichingo per la produzione delle ceramiche (che lei utilizza aggiornandolo con tecniche contemporanee) che prevede la seconda cottura all’interno di una cavità scavata nel terreno: il fuoco, imprigionato dalle pietre, induce caratterizzazioni cromatiche differenti a seconda degli elementi raccolti, che riflettono il territorio che momentaneamente la ospita nel rispetto dei suoi ritmi e delle sue risorse [V. Coraglia, C. De Giorgi, Fare design e artigianato. Nuovi approcci, comunità e territori, in MD Journal, n. 7, Media MD, Ferrara 2019, p. 38].
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Dall’analisi di questi casi studio è possibile dedurre che la convivenza culturale e operativa tra design e culture materiali identitarie è innanzitutto un’attività di ricerca orientata alla sostenibilità sociale, occupazionale e territoriale; un dialogo possibile tra persone provenienti da luoghi e background diversi che accettano la risemantizzazione di linguaggi, metodi produttivi, contesti, artefatti e simboli e, nel rispetto delle identità e delle istanze sociali, stratificano idee, esperienze e nuove possibilità. Queste pratiche sono oggi al centro di una peculiare fenomenologia e di un rinnovato dibattito che attribuisce al design un ruolo di “impollinazione”, di “garanzia sociale”, di narrazione e rigenerazione di tecniche, influenze e materiali; caratteri identificativi di un modello evoluto di produzione capace di ri-concepire l’idea di “prodotto tipico” secondo un’ottica di inclusione, di democrazia, di apertura, di interdisciplinarietà e secondo nuovi modi di “vedere” le tradizioni, le tecnologie, i processi, le culture e i territori. Queste nuove competenze, le strategie di disseminazione ed evoluzione di capacità di apprendimento e abilità pratiche “aggiornate”, nell’analisi dei nuovi processi di produzione e di reinterpretazione della tradizione risultano essere oggi risorse sociali fondamentali. I risultati di queste sperimentazioni si collocano in
quelli che Eleonora Fiorani definisce (…) luoghi astratti, immaginari, “sospesi” che si sovrappongono ai luoghi reali e anche li trasformano, facendo apparire in essi una nuova presenza. (…) Gli oggetti di questi paesaggi presentano, mescolati e sovrapposti, i caratteri di entrambi i mondi”. Oggetti “sospesi tra l’imitazione di un’origine e l’effetto fiera-mondo” [E. Fiorani, Il mondo degli oggetti, Lupetti Editori, Milano 2001, p. 163].
1 “The aim of the brand is to make the work of African artisans available to the world in a considered way, to reflect certain qualities – an essential simplicity of form, an idea of purity, the conscientious use and handling of natural materials, the dedication of the craftsmen and women, and the sensitivity of the collaborating designer with a reverence to the rich aesthetic heritage of Africa”. https://www.mabeofurniture.com/about/ Retrieved on December 2019.
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Libri, riviste e mostre
R. Capozzi (a cura di), Il contributo e l’eredità di Salvatore Bisogni, Festival Architettura Edizioni, Parma 2019.
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Il 25 settembre 2018 si è spento Salvatore Bisogni, architetto napoletano docente di Composizione Architettonica presso la Facoltà di Architettura Federico II. Quattro mesi dopo, il 17 gennaio 2019, presso l’aula Gioffredo di Palazzo Gravina, storica sede della facoltà di architettura di Napoli, si è svolta una giornata di studi in sua memoria, intitolata Il contributo e l’eredità di Salvatore Bisogni, nel corso della quale è stata anche inaugurata una mostra di suoi disegni. Il volume in oggetto, curato attentamente da Renato Capozzi, allievo e assistente per molti anni di Salvatore Bisogni, raccoglie tutte le testimonianze degli amici e dei colleghi che presero parte a quella giornata commemorativa, riprendendo il titolo del convegno stesso, ed inaugura la collana FAM Quaderni, collana editoriale della rivista scientifica internazionale FAMagazine. Seguendo il filo conduttore della giornata di studi, il volume si suddi-
vide in sei sezioni corrispondenti alle sessioni del convegno tenutosi a Palazzo Gravina. La prima si intitola “Presentazioni” e si compone degli interventi istituzionali di Mario Losasso, delegato alla Terza Missione UNINA, del Direttore del DiARC Michelangelo Russo, di Leonardo Di Mauro, attualmente Presidente dell’Ordine degli Architetti di Napoli, dell’Assessore ai Beni comuni e all’Urbanistica della città Carmine Piscopo e di Carlo De Luca, Presidente In/Arch Campania. Il capitolo si chiude con l’intervento dell’architetto Anna Buonaiuto la quale, in qualità di collega ma soprattutto moglie dell’architetto napoletano, ci presenta il marito nel suo intervento dal titolo “Chi è Salvatore Bisogni”. Conosciuto a livello nazionale prima di tutto per la sua tesi di laurea sull’architettura ed il paesaggio a Napoli, redatta insieme ad Agostino Renna nel 1965, Salvatore Bisogni va ricordato non solo per la sua carriera di architetto, appassionato soprattutto al tema del rapporto tra architettura, natura e paesaggio, ma anche per l’intensa attività didattica, politica e di ricerca. Infatti, gli anni universitari furono segnati, tra l’al-
tro, da un’attiva partecipazione alla politica studentesca, segnata dall’adesione al Partito Comunista Italiano, abbandonato rigorosamente e con intransigenza intellettuale negli anni ’80. Allievo e collaboratore prima di Luigi Cosenza, indiscusso riferimento e amico, e, successivamente a Roma, di Ludovico Quaroni, fu sicuramente influenzato dai loro insegnamenti che ne hanno determinato la propensione al progetto architettonico della città. Il suo primo incarico universitario fu quello di docente di Composizione Architettonica presso la Facoltà di Architettura di Palermo, dove ha avuto la possibilità di collaborare con Vittorio Gregotti ad alcuni importanti progetti, tra cui il quartiere Zen di Palermo e il concorso per il centro direzionale di Vienna. In seguito a Napoli diventa professore ordinario della stessa disciplina. Proprio a Napoli, in parallelo alla docenza, Bisogni avvia la sua attività privata prima aprendo uno studio con Attilio Belli, Aldo Capasso e Vanni Pesca, in seguito appoggiandosi ad uno studio in vico Santa Teresella degli Spagnoli, dividendo gli spazi con Agostino Renna e altri amici, per poi trasferirsi definitivamente in vico Latilla, dove, proprio insieme alla moglie, dà vita ad un vero e proprio laboratorio, più che ad un tradizionale studio di architettura, inclusivo anche di uno spazio per la falegnameria utilizzato per lavorare ai modelli sfruttando la sua grande manualità acquisita in gioventù nel periodo passato alla bottega del nonno, artigiano del marmo. Nei suddetti studi ha iniziato a lavorare al progetto per il quartiere di Montecalvario e a quello per il mercatino e il centro sociale a S. Anna di Palazzo, tra i suoi lavori più rilevanti. A caratterizzare la sua carrie-
ra, come i suoi progetti, però, fu prima di ogni cosa l’attenzione per la ricerca, ritenuta strumento indispensabile per l’architettura e per l’arte. Di questa idea è testimone Rai mondo Consolante, allievo e successivamente collaboratore di Bisogni, il quale, ricordando le parole del maestro di una calda serata estiva di ritorno dallo studio in vico Latilla, riporta che per lui l’architetto lo si può fare in contesti molto diversi, quello dell’attività professionale, degli uffici tecnici, del l’industria, delle soprintendenze e dell’università. Ma in nessuno di questi contesti, pur molto diversi tra loro, è lecito dimenticare che l’architettura è innanzitutto ricerca, altrimenti non è. La sezione successiva del volume si intitola “Memoria/scambi/affinità” e, attraverso le testimonianze di amici e colleghi, si pone l’obiettivo di configurare, seppur mettendola dialetticamente in discussione, l’eredità del pensiero di Salvatore Bisogni, un’eredità che diventa tradizione da assimilare e trasmettere. Nel capitolo, dopo l’introduzione di Renato Capozzi, si susseguono interventi diversi ma, comunque, tutti caratterizzati da una vena di commozione e intimità nel ricordo di quello che per molti è stato, non solo un architetto o un professore, ma un vero e proprio maestro di architettura e di vita. Antonio Monestiroli, commosso, ricorda il suo amico con il quale condivise l’ammirazione per Mies van der Rohe; Giancarlo Cosenza porta una testimonianza dell’impegno civile e politico di Bisogni per il riscatto dei nostri territori; altri ancora, poi, i contributi di coloro i quali vogliono mettere in luce le numerose ricerche dell’architetto napoletano. Il volume prosegue con le sezioni
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“L’architettura e la grande scala” e “Architettura dell’interscalarità” nel le quali vengono analizzati gli studi e i progetti di Salvatore Bisogni per Napoli e il territorio che la circonda, svolti con l’obiettivo di rafforzare l’idea di città moderna e aperta e con la capacità di attraversare le diverse scale dell’architettura, dai problemi del dettaglio a questioni urbane, partendo dal tema ricorrente, a lui caro fin dai tempi dalla tesi di laurea, dell’architettura della città. Con l’intento di dare un’idea concreta della sua teoria sul progetto della città contemporanea, Bisogni conia il concetto di “architettura della zolla”. Come egli stesso spiega nel testo Zolle. L’architettura della zolla come sintesi di edifici pubblici. Progetti per l’entroterra campano (2011), le zolle sono intese come puntuali entità costituite da alcuni edifici da collocare in un’area metropolitana che si configura come una città-territorio. […] Con la zolla si è inteso proporre nuove centralità nella dispersione e suggerire un’adeguata trasformazione volta a qualificare puntualmente talune aree insediative esistenti. […] Essa si costruisce per generare un luogo diverso e distinto dalle trame residenziali, diverso da una piazza di città, aperto al territorio e rappresentativo della dinamica metropolitana. Tutto quanto sperimentato, studiato e realizzato, è stato portato da Salvatore Bisogni anche nei suoi corsi universitari di Composizione Architettonica per introdurre gli studenti al problema dell’architettura della città e a quello del passaggio dalla città moderna alla città contemporanea. Proprio del rapporto con i suoi studenti e della sua attività come docente si occupa il capitolo successivo del volume, intitolato
“La scuola e l’insegnamento”. Molti ex allievi, oggi docenti e professionisti, ricordano l’attività didattica di Bisogni, andando oltre il racconto delle semplici informazioni curriculari, attraverso alcuni aneddoti, e rivivono l’atmosfera delle sue lezioni, i suoi insegnamenti, accademici e di vita, la sua personalità. Il volume si conclude con “Testimonianze e contributi” di Luciano Nunziante e Aldo Capasso, i quali ricordano i loro incontri e le collaborazioni con l’amico Bisogni, e, ultimo, Ugo Carughi che offre un’attenta analisi del progetto-simbolo dell’architetto par tenopeo, ovvero il Mercatino di S. Anna di Palazzo. Il volume offre così la possibilità di conoscere l’architetto Salvatore Bisogni attraverso testimonianze, racconti e analisi, accompagnati da immagini inedite fornite dall’architetto Anna Buonaiuto Bisogni e dal l’Archivio Progetti del l’Università IUAV, mettendo in luce le sue qualità non solo come architetto ma anche, e soprattutto, come maestro impegnato a trasmettere la sua passione per l’architettura e per la ricerca, nonché il suo impegno per l’architettura della città. Architetto e docente attento, distintosi per i suoi modi talvolta burberi, come ricorda l’architetto Buonaiuto, Salvatore poteva essere una persona insopportabile, ma non una persona odiosa […]. E questo alcuni lo hanno capito, hanno sorvolato, ritenendo questo suo carattere un intralcio superabile e hanno capito quelle che erano le sue qualità, la sua partecipazione con passione e impegno verso il progetto, l’intransigenza verso se stesso, sul lavoro e nell’insegnamento, la sua generosità. R. R.
Maria Lai. Tenendo per mano il sole, a cura di Bartolomeo Pietromarchi e Luigia Lonardelli, Roma, MAXXI, 19 giugno 2019 12 gennaio 2020. In occasione del centenario della nascita di Maria Lai (Ulassai, 1919 - Cardedu, 2013) il MAXXI dedica all’artista sarda la retrospettiva Tenendo per mano il sole, curata da Bartolomeo Pietromarchi e Luigia Lonardelli. Il percorso espositivo della mostra è articolato in cinque sezioni, che richiamano ciascuna una specifica idea e modalità operativa dell’artista e che prendono il nome – come la mostra, che ha il titolo della sua prima fiaba cucita – da citazioni o titoli di opere: Essere è tessere. Cucire e ricucire, L’arte è il gioco degli adulti. Giocare e raccontare, Oggetto paesaggio. Disseminare e condividere, Il viaggiatore astrale. Immaginare l’altrove, L’arte ci prende per mano. Incontrare e partecipare. Vi è poi un’ultima idea le sezione a documentare gli interventi di carattere ambientale realizzati dall’artista nell’Ogliastra, territorio nel quale principia e si conclude il cammino biografico e creativo di Lai e col quale l’artista/poetessa intrattiene un rapporto discontinuo eppure profondissimo. La sua infanzia, vissuta a contatto con le pratiche tradizionali del lavoro femminile domestico e artigianale, il paesaggio della sua terra e l’antica cultura popolare insulare permangono, infatti, immutati nella sua memoria fornendo costantemente spunti d’ispirazione alla sua poetica, al punto da configurarsi – come osserva Marcello Venturoli, curatore della personale Maria Lai alla Galleria Schneider di Roma nel 1971 – come «habitat morale di tutta una esistenza» [M. Venturoli (a
cura di), Maria Lai, Galleria Schneider, Roma 1971, p. 3].
Fin dai suoi esordi l’opera di Lai si struttura così per fasi creative che stabiliscono nessi inscindibili con le stagioni della vita, seguendone, e al tempo stesso alimentandone, il progresso e l’evoluzione in un fluire coerente e naturale che la mostra ripercorre a partire dalla fase matura degli anni Sessanta. In questo periodo Lai è a Roma, dove è docente di ruolo nella scuola secondaria di primo grado, e dove, in volontario isolamento dalla scena pubblica e artistica, coltiva rapporti di amicizia e di collaborazione creativa con lo scrittore e pittore cagliaritano Giuseppe Dessì, attraverso il quale l’artista riscopre e rivaluta la cultura folklorica della sua terra e reimposta il proprio lavoro su basi antropologiche. Accanto al disegno e alla pittura la sua produzione si arricchisce di media poveri, che denunciano il suo rifiuto e la sua presa di distanza dalla contemporaneità e dai suoi linguaggi e che sono spesso legati alla quotidianità e al lavoro manuale: terracotta, sabbia, stoffa, fili, pane, velluto, smalto e tempere, uniti a materiali di recupero accuratamente scelti e composti in schemi conformativi, concorrono a creare una personale sinfonia di materie e tecniche: quando mi sono ritrovata fuori dal mondo dell’arte, che ho rifiutato, ho ricominciato a giocare, come quando ero bambina, con tutti i materiali a portata di mano. Non si tratta, dunque, di mero sperimentalismo, bensì degli esiti di una ricerca a tutto campo orientata alla rappresentazione del mondo contadino o pastorale sardo attraverso veri e propri esercizi di creatività che Lai concepisce come altrettante occasioni di relazione con le persone e le cose a lei care. Le sculture di
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pane o di terracotta, i telai, i libri, le tele cucite esposti in questa mostra nascono infatti dal bisogno di condividere, di comunicare e di “restituire” all’altro sentimenti di gratitudine attraverso il dono e l’omaggio della citazione, da cui ad esempio la presenza di frammenti di testi e di poesie predilette nei titoli dei libri cuciti, così come la pratica di regalare le proprie opere alle persone amate. Spicca tra i lavori di questa prima sezione, in quanto paradigma di un lungo percorso sulla tessilità, oltre che per la manifesta contiguità concettuale con le coeve ricerche dell’arte contemporanea (Nouveau Réalisme, Arte Povera, Concettualismo), il telaio intitolato Oggetto pae saggio (1967), che rappresenta in qualche modo – come scrive nel catalogo Elena Pontiggia – «una dichiarazione di poetica e quasi un emblema della sua arte» [p. 55]. Durante tutto il decennio Settanta si intensifica, infatti, il lavoro sul l’arte tessile, anche stimolato dal l’incontro con Enrico Accantino, che è tra i primi e più ferventi promotori e interpreti in Italia di questo settore. Nei suoi telai – presenti in una rappresentativa selezione al MAXXI – Lai rielabora con assoluta libertà compositiva la struttura stessa della macchina, i filati e la disposizione della trama e dell’ordito, così da creare, con un linguaggio calato nel contemporaneo, uno schema di base su cui poter elaborare infinite variazioni. Si tratta naturalmente di opere inservibili sul piano funzionale, ma evocative degli antichi strumenti della tessitura, nelle quali astrazione e paesaggio, forma e colore, pensiero e materia, dimensione privata e relazione, gesto e composizione si fondono tra loro. Il suo è un omaggio al lavoro manuale, alla cura e alla pazienza della pratica
artigianale che si snoda come percorso primario nelle umili vite dei tessitori, ma al solito è anche metafora intensa e toccante di qualcosa di più, che ha a che fare con il senso della vita e con la sostanza dell’anima, perché – così come avviene nella sua esperienza esistenziale, permeata dal desiderio di stabilire legami tra elementi distanti – attraverso il filo Lai mette in scena la volontà di cucire relazioni fra il sé interiore e il mondo. Perciò d’ora in poi tessere e cucire sono azioni cardine, dal punto di vista concettuale e materiale, dell’intera sua ricerca e da esse scaturisce il filone più innovativo e longevo della sua produzione artistica: dalle tele cucite, esposte nel 1975 nella personale Tele e collages alla galleria Arte Duchamp di Cagliari di Angela Grilletti Migliavacca, alla grande azione corale di tessitura collettiva Essere è tessere, concepita nel 2008 nel borgo di Aggius. Nel 1977 Lai conosce la poetessa, artista e storica dell’arte Mirella Bentivoglio, che la presenta nella personale I Pani di Maria Lai alla galleria Il Brandale di Savona e che un anno dopo la invita alla Biennale di Venezia, nell’ambito di un suo progetto espositivo incentrato sul lavoro di artiste donne intorno al tema del linguaggio, dove Lai presenta tra l’altro il Libro Scalpo (1978), il cui titolo allude ai fili-capelli che fuoriescono dalle pagine. L’opera fa parte della serie dei libri cuciti, che l’artista avvia alla fine del decennio Settanta e nei quali si serve della macchina da cucire per ricamare sulle pagine, dapprima di carta poi di stoffa, scritture simulate dal filo colorato, nelle quali l’interpretazione del testo è lasciata al lettore. Le sue scritture asemantiche rimandano, infatti, all’immaginario della prealfabetizzazione e dell’infanzia e
invitano perciò a una riflessione sui processi di elaborazione alla base della comunicazione scritta. Come ricorda ancora Pontiggia, Alla scuola magistrale aveva avuto un maestro d’eccezione, lo scrittore Salvatore Cambosu, che le aveva messo in mano un libro di versi e le aveva detto: “Non importa se non capisci, segui il ritmo” […] un concetto parolibero futurista, su cui Maria continuerà a meditare. Sempre alla fine degli anni Settanta risalgono anche le prime opere del ciclo delle geografie, realizzate poi con continuità nei decenni successivi come espressione del bisogno dell’artista di gettare il proprio sguardo verso l’altrove. Come si vede nel corpus di opere esposte, si tratta di estese composizioni bidimensionali ottenute mediante ricami a contrasto su stoffe scure o chiare che disegnano tracciati di geografie astrali disseminate di pianeti, vaghe forme geometriche e annotazioni illeggibili. Come mappe di viaggio che illustrano universi lontani, raggiungibili solo con l’immaginazione, le geografie si legano al tema del viaggiatore astrale, la ricerca sviluppata dall’artista all’inizio degli anni Novanta nel corso della progettazione di un’azione performativa con gli alunni di una scuola di Mira. Negli anni Ottanta Lai da vita a installazioni e operazioni, effimere o permanenti, sul territorio, nelle quali coniuga istanza relazionale e memoriale. Nel 1981 realizza nel paese natale di Ulassai l’azione ambientale collettiva Legarsi alla Montagna, che rievoca una leggenda locale e attraverso la quale l’artista intende ricucire i legami interpersonali tra i membri della comunità e quelli, inconsci e ancestrali, fra genius loci e tessuto sociale. Dopo un
primo periodo di metabolizzazione degli intenti simbolico-rituali proposti dall’artista, gli abitanti del borgo aderiscono al progetto e prendono parte attivamente alla performance legando con nastri di stoffa celeste (cui sono attaccati pani pintau [Pane tipico sardo]) le porte di casa delle famiglie che si trovano in rapporti di reciproca amicizia e utilizzando invece il nastro come limite di demarcazione per segnare le relazioni di ostilità. Infine, con l’aiuto degli scalatori, i nastri che attraversano e “legano” il paese sono collegati al Monte Gedili che sovrasta l’abitato. Tutta l’azione, durata tre giorni e accompagnata dalla musica del flauto di Angelo Persichili, è documentata da foto e da un cortometraggio, frui bile in mostra. Nel 1982, a proposito dell’opera, Filiberto Menna – che è il solo a cogliere immediatamente il valore dell’esperienza, ignorata per oltre ven t’anni dalla critica – scrive: Ma poi è stato l’intero paese a ricostruire una rete di relazioni legando casa a casa, porta a porta, finestra a finestra e soprattutto persona a persona superando nell’evento estetico del Legarsi alla Montagna rancori e inimicizie e diffidenze remotissime. Forse che il grande sogno ad occhi aperti dell’arte moderna di cambiare la vita si sia realizzato, sia pure una volta soltanto, proprio qui, in questo luogo lontano dove i nomi dell’avanguardia artistica non sono altro che nomi? Credo di si: qui, l’arte è riuscita là dove religione e politica non erano riuscite a fare altrettanto» [M. Cristofano, C. Palazzetti (a cura di), Il museo verso una nuova identità, Gangemi Edi tore, Roma 2007, pp. 180181].
L’opera è il preludio a una serie di interventi che Lai realizza nel ter-
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ritorio di Ulassai a partire dall’anno successivo fino agli inizi degli anni Duemila e che confluiranno nel Museo a cielo aperto a lei dedicato. La prima di queste opere su scala ambientale riguarda il progetto di riqualificazione del lavatoio comunale nel quale coinvolge altri amici artisti (Guido Strazza, Costantino Nivola, Luigi Veronesi) e dove realizza il Telaio soffitto, mentre tra le ultime vi è la grande installazione L’arte ci prende per mano, nel piazzale della scuola elementare: un invito a sentirsi sempre accompagnati e rassicurati dalla presenza dell’arte. A quest’ultima infatti l’artista riconosce la capacità di modificare la percezione della realtà attraverso l’espansione degli orizzonti visivi e mentali e il recupero di elementi fondanti e archetipici di una espressività insita in ogni essere umano scrivono Pietromarchi e Lonardelli [p. 13]. Sempre nei primi anni Ottanta Lai progetta anche per Camerino un intervento di arte partecipata – che non sarà realizzato – a partire da una rilettura fantastica del tema araldico locale del varano, del quale sono testimonianza le grandi sagome del l’animale realizzate con vari tessuti assemblati tipo patchwork (La disfatta dei Varani, 1983) esposte al MAXXI. Inizia inoltre a lavorare alla sua prima fiaba cucita, Tenendo per mano il sole, scritta e illustrata con ago, filo e scampoli di stoffa colorata su pagine di tessuto rilegate. In essa, e nelle opere successive del medesimo filone realizzate fino agli anni Novanta in parallelo con i libri cuciti, confluiscono il suo forte interesse per la poesia e per il linguaggio e la sua fede nel potere taumaturgico della parola. Lai dispiega così, attraverso i suoi libri di fiabe – pubblicati anche in edizione carta-
cea e poi tradotti in video animazioni, concepite in collaborazione con il regista Francesco Casu –, racconti poetici che si aprono a libere interpretazioni. Attraverso la rilettura di storie della tradizione sarda o di racconti di pura invenzione, l’artista sviluppa narrazioni di percorsi iniziatici di trasformazione e di crescita che attingono a un remoto patrimonio di miti e significati archetipici nei quali l’approdo a una diversa condizione umana rappresenta la conquista di conoscenza e consapevolezza. Negli anni Novanta le sue opere ripercorrono il tracciato complessivo della sua ricerca e i vari cicli crea tivi si assemblano armonicamente l’uno con l’altro. A 74 anni torna a vivere in Sardegna, a Cardedu, e, animata dal desiderio di coinvolgere nell’opera un pubblico sempre più esteso, sperimenta per la prima volta la fusione tra esperienza teatrale e artistica nella performance collettiva L’albero del miele amaro realizzata a Siliqua. Collabora inoltre attivamente alla progettazione del Museo dell’olio della Sabina a Castelnuovo di Farfa, realizzando per la sede museale numerose opere site specific e ripetendo la modalità di collaborazione con altri artisti sperimentata nel Telaio soffitto. Nei primi anni Duemila crea alcuni giochi da tavolo pensati come opere da riprodurre in multipli, così da essere utilizzabili nella quotidianità: I luoghi dell’arte a portata di mano (2002), quattro mazzi di carte da combinare insieme senza regole d’uso prestabilite, così da generare una ridefinizione collettiva e casuale del significato della parola “arte”, e Il volo del gioco dell’oca (2003), una riedizione del tradizionale percorso figurato scandito da lanci di dadi, accompagnata da un sotto-te-
sto narrativo, una vera e propria filastrocca, ricca di significati e simbologie, che l’artista riproduce in dimensione ambientale e permanente nella piazza Barigau a Ulassai. Se il gioco è l’arte dei bambini, l’arte è il gioco degli adulti [p. 15] dice Lai. Il gioco diviene così per l’artista l’occasione per accorciare le distanze tra opera e fruitore, per arrivare – come il libro, d’altra parte – nelle mani di tutti, per aprire l’opera alla libera interpretazione del pubblico, per condividere il piacere del divertimento fine a sé stesso. Ma è anche un invito a rivedere le proprie sicurezze e a rimettersi in gioco, ad espandere il proprio pensiero sviluppando nuove possibilità creative a partire dalla percezione del limite segnato dalla regola, per sperimentare le potenzialità dell’immaginazione in quanto fondamento di ogni processo di apprendimento e conoscenza. Nel 2006 inaugura a Ulassai il Museo di Arte Contemporanea Stazione dell’Arte, che costituisce la più grande raccolta pubblica delle sue opere: oltre 150 pezzi donati alla comunità. Come dice lei stessa, infatti, la palla è fatta per essere lanciata non posseduta, come l’arte e in tal senso Maria Lai, nonostante l’indole riservata, si dimostra maestra nell’attenzione al prossimo e nel gesto del dono e generosa nel l’indicare ad altri la strada da lei scoperta. La mostra Tenendo per mano il sole evidenzia questa sua non comune e innata vocazione pedagogica e sociale, oltre alla capacità di rendere viva la memoria storica dei luoghi e delle cose, trasfigurati dal suo sguardo e dai suoi gesti d’artista, offrendo di Lai l’immagine di una “sacerdotessa” dell’arte che, come le janas – le fate arcaiche della tradizione sar-
da, da lei stessa evocate, che insegnano alle donne l’arte operosa della filatura e della tessitura –, ci insegna a riconoscere il ruolo essenziale dell’arte nella vita dell’uomo. F. P. Matteo Iannello, Carlo Scarpa in Sicilia 1952-1978, Campisano Editore, Roma 2018. Il volume di Matteo Iannello ricompone e riordina l’esperienza di Carlo Scarpa in Sicilia, individuando nei suoi momenti di più assidua frequentazione dell’isola, dal 1952 al 1956 prima e dal 1972 al 1778 poi, l’occasione per indagare e descrivere la figura dell’architetto veneziano nei suoi lati umani e professionali, dal modo di affrontare il progetto agli aspetti caratteriali più peculiari. Quelli tratteggiati dall’autore sono anni densi, scanditi in parte da interventi amati e acclamati dal pubblico e dalla critica, in parte da progetti rimasti sulla carta, o perché mai realizzati – come nel caso del l’edificio per appartamenti e negozio “La Rinascente” a Catania – o perché smantellati e, quindi, sopravvissuti solo all’interno della dimensione cartacea schizzata e disegnata dall’architetto – come è avvenuto per l’ufficio dell’Ente per il Turismo a Taormina. Ognuno dei sette progetti presentati da Iannello – in quattro diverse località siciliane (Palermo, Catania, Messina e Taormina) – si identifica attraverso la narrazione degli eventi che precedono, accompagnano e seguono l’iter progettuale, anche avvalendosi di aneddoti e brevi episodi. A corredare il racconto di questi progetti, eterogenei per scala e de-
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stinazione, per genesi e processi, viene raccolto e presentato un grande numero di fotografie, ma soprattutto di schizzi e disegni a firma dell’architetto. Sono materiali importanti per la comprensione delle opere, sia perché a volte costituiscono l’unica testimonianza rimasta, sia perché i disegni di Scarpa sono dotati di una rara, e forse unica nel suo genere, capacità comunicativa. Nei disegni proposti, infatti, dettagli progettuali definiti con chiarezza e precisione si uniscono a tratti pittorici, morbidi e colorati, e alle molte annotazioni, a volte ricche di informazione e a volte “semplici” commenti, come per esempio la brevissima nota: «luce ottima per l’Antonello», riportata dall’autore nel capitolo dedicato all’allestimento per Palazzo Abatellis. Queste poche parole condensano un pensiero diretto e una soluzione lampante che quasi con soddisfazione Scarpa appone a margine del disegno, costruendo un dialogo con il destinatario e osservatore dell’elaborato, ma forse ancora di più con la collezione oggetto dell’allestimento, con la materia luce e con “l’Antonello” stesso. Una pagina dopo l’altra, l’esperienza siciliana viene presentata come un ineludibile interlocutore al l’interno del dialogo con Scarpa e la sua architettura, radicata ed esperita prevalentemente in terra veneta. Al l’interno delle descrizioni delle opere presentate, i frequenti rimandi ad alcuni dei suoi progetti e allestimenti più famosi – come il Museo di Castelvecchio, l’ampliamento della Gip soteca Canoviana o la mostra dedicata a Henri de Toulouse-Lautrec – contribuiscono a narrare quella che può essere definita, come scrive Orietta Lanzarini nel suo contributo introduttivo, un’esperienza talvolta difficile, ma sempre fe-
conda per l’architetto, che può importare temi e modelli dalla Sicilia al Veneto e viceversa, sia in campo museografico, sia in quello architettonico. Sempre Lanzarini evidenzia come alla successione dei due periodi siciliani di Scarpa, quello degli anni Cinquanta e quello degli anni Settanta, corrisponda una sempre maggiore potenzialità di sviluppo di tre temi particolarmente importanti per l’architetto veneto quali «la modellazione della luce, la costruzione del percorso quale chiave di dialogo con l’osservatore, il culto delle materie», grazie ai quali Scarpa riesce a far più propria quella terra così diversa – per clima, paesaggio e storia – dalla sua regione natia. Dopotutto, così come si era sempre dedicato, con tempo e energia, a capire e comprendere in profondità ogni singolo elemento di una collezione e ogni particolare aspetto di un ambiente da allestire, allo stesso modo Scarpa deve aver fatto con la terra siciliana, anno dopo anno, progetto dopo progetto. Un esempio emblematico è dato dai continui e costanti studi sul controllo della potente luce della Sicilia, molto diversa da quella più tenue e soffice del nord Italia; tali sperimentazioni raggiungeranno l’a pice nell’elaborazione dei disegni per il Nuovo Museo Nazionale di Messina, suo ultimo terreno di prova nell’isola della Trinacria. In un museo, in cui non era prevista nessuna porta, ma una successione articolata di spazi in un rapporto continuo tra interno ed esterno, fra lo spazio del museo e il paesaggio, il mare dello stretto e in cui trovavano posto gruppi di opere eterogenee per tipologia (dipinti, sculture e reperti con specifiche esigenze illuminotecniche), lo studio della luce si traduce, scrive Iannello, nel
disegno di un ricchissimo repertorio di aperture e lucernari, quasi un campionario declinato di volta in volta secondo l’opportunità, in base ad orientamento, spazialità interna e opere esposte. Elementi e strumenti fondamentali per la narrazione critica dello studioso sono gli stralci di interviste e di testi di Scarpa, così come quelli di lettere e racconti dei personaggi che hanno orbitato attorno all’architetto in quegli anni: dal collega e amico Roberto Calandra al giovane architetto Fabio Lombardi, dai committenti ai rappresentanti delle varie istituzioni coinvolte nei progetti. Sono testi dai toni più diversi – a volte amichevoli e a volte scortesi, quasi minacciosi e al limite della calunnia – che, senza filtri, raccontano in modo diretto ed eloquente quali fossero i reali rapporti nell’ambito di questi progetti, spesso di lunga durata. In particolare, alcuni passaggi riescono a dare un’idea di come ragionasse Scarpa in termini progettuali: grazie al lavoro di ricerca e ricucitura delle testimonianze offerto da Iannello, il lettore si trova di fronte a una mente estremamente sensibile, che quasi si emoziona nel descrivere e raccontare come si immagina alcuni aspetti di un’opera o di un allestimento, ma anche decisamente pratica, risoluta di fronte alle più diverse problematiche e sfide progettuali. In alcuni casi le parole di Scarpa si aprono in uno sfogo, come quello nei confronti del restauro effettuato dalla Soprintendenza di Palermo su Palazzo Abatellis quando afferma ho visto rovinare uno dei più bei capolavori esistenti in Italia, a Palermo. Uno che ha fatto il restauratore da fanciullo. Sotto l’aiuto dell’aiuto, poi ha fatto il concorso, ed è diventato il restauratore uffi-
ciale della Soprintendenza di Palermo: ha distrutto un’opera d’arte capitale unica al mondo. Altre volte, invece, Scarpa racconta con semplicità e schiettezza il proprio flusso di pensieri, nonché il suo approccio pragmatico nei confronti dell’architettura e dell’allestimento, come per esempio nel contributo redatto da Scarpa per A lezione con Carlo Scarpa (pubblicato con la curatela di Franca Semi), nel quale spiega le riflessioni che lo condurranno a collocare il Trionfo della Morte, grande highlight della collezione di Palazzo Abatellis, in un piccolo ambiente la cui parete di fondo è di poco più grande dell’opera stessa. Le sue parole prima smentiscono le intenzioni del direttore del museo, che avrebbe voluto l’opera d’arte nel salone del palazzo, e poi argomentano con disinvoltura la propria scelta, chiudendo con un lapidario e vi risparmio altre cose perché potremmo discuterne tutto l’anno. Un personaggio non sempre facile, il Carlo Scarpa che si delinea in questa pubblicazione, ma senz’altro dotato di una forte consapevolezza a proposito di ciò che può essere considerato un buon progetto di architettura e un valido modo di costruire e allestire. Un’attitudine che lo condurrà ad allontanarsi da certe situazioni – saranno proprio il suo silenzio e la «sua endemica lentezza» a causare la riassegnazione del progetto per “La Rinascente” di Catania, sul quale si era già impegnato con proposte e disegni – ma, allo stesso tempo, ad avvicinarsi ad altre figure e altri incarichi. La più forte collaborazione, presentata nel volume come una vera e propria alleanza, è quella con Roberto Calandra. Una partnership che a volte assume le forme di una progettazione gomi-
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to a gomito – come viene raccontata l’esperienza di grande successo della mostra dedicata ad Antonello da Messina –, a volte quella di una consulenza – come per il Palazzo Chiaramonte (Steri) a Palermo. Sempre, comunque, i due architetti sono raffigurati uniti, complici di uno stesso modo di intendere il progetto e compatti di fronte a quelli che si configurano come degli avversari esogeni, i fautori delle modifiche che spesso, purtroppo, hanno portato allo stravolgimento dell’idea iniziale, piegata alle più varie esigenze e istanze. Iannello traccia quindi una descrizione profonda dell’architetto, un ritratto sfaccettato, avvalorato da documenti storici, tavole grafiche e altre fonti, nel quale è difficile distinguere cosa fosse Carlo Scarpa dentro e fuori il progetto. Ogni tratto caratteriale, infatti, sembra trovare collocazione nei suoi disegni e nel suo modo di comunicare il progetto; allo stesso tempo, ogni dettaglio architettonico descritto e raccontato sembra poter essere ricondotto alla sua personalità. Ad emergere sono il suo istinto naturale e la sua sensibilità unica, che definiscono un architetto che non con vero sforzo si dedica al progetto poiché, nel farlo, segue la propria indole e, soprattutto, i propri sentimenti ed emozioni nei confronti della storia, degli edifici, delle collezioni. Leitmotiv assoluto, costantemente rimarcato all’interno delle pagine del volume, è infatti la devozione di Carlo Scarpa al rapporto diretto con l’opera, che sia edificio o elemento di una collezione, e il confronto con la storia, a tutte le scale, come unico mezzo di relazione e comunicazione dell’architettura, della sua architettura.
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M. Gambaro (a cura di), Gregotti. Il mestiere di architetto, Interlinea Editrice, Novara 2019. Il libro, pubblicato nella serie Architettura promossa dall’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori delle Provincie di Novara e del Verbano Cussio Orsola, restituisce un’immagine intellettualistica, pragmatica, innovativa e talvolta turbata di uno dei protagonisti dell’architettura del secondo Novecento italiano ed europeo: Vittorio Gregotti. La suddivisione in quattro parti praticata in questo ricco e interessante, seppur piccolo libro, consente di avvicinarsi all’esperienza di Gregotti secondo un fare autobiografico (Lo stato delle cose), per approfondire l’evoluzione e il ruolo della disciplina dell’architettura nello sviluppo urbano europeo (Quantità e grandezza), fino a una contemporaneizzazione della stessa come pratica artistica (Dove va l’architettura oggi?) sottolineando, infine, la complessità o, talvolta, la riduttività del mestiere dell’architetto. Sfogliando le pagine del libro, curato da Matteo Gambaro, professore di Tecnologia dell’Architettura al Politecnico di Milano, si percepisce una crescente coscienza delle difficoltà e della continua mutazione dell’architettura che, in alcuni casi, si rende avulsa da qualsiasi rapporto con il luogo in cui si inserisce evidenziando come anche le modalità con cui viene presentata e divulgata, a volte, si configuri come una mera catalogazione di prodotti piuttosto che la presentazione di un’attività “ben fatta”. Usando le parole dello stesso Gregotti, non bisogna mai dimenticare infatti che ciò che fa dello spazio un luogo, un paesaggio dotato della riconoscibilità culturale e sociale costruita e stra-
tificata nel tempo, stabilisce anche un terreno indispensabile per la costituzione di relazioni sociali e delle loro mutazioni sovrapposte in cui si rispecchiano criticamente i soggetti anche di fronte ad ogni nuovo necessario (p. 34). Come ci ricorda Masiero in un suo scritto del 2002, il compito dell’architettura è, di fatto, produrre un’ipotesi di ordine e non quello di ritrarre il caos che ci circonda. Il progetto è, quindi, strategia, ricerca critica e rigore ovvero, semplicità, ordine, organicità, precisione in grado di contaminare positivamente il rapporto ambiente-edificio e uomo-edificio. Questi assunti rappresentano una premessa a quello che è oggi il mestiere dell’architetto spesso istituzionalizzato o addirittura frammentato in numerosi specialismi che, purtroppo, giocano a discapito della ricerca di coerenza con la sostenibilità ambientale, con la cultura del luogo, con la dialettica sociopolitica stando, tra l’altro, ad una caratterizzazione dell’ambiente con temporaneo sempre più complesso, omologato e casuale dove l’originalità […] sembra dover essere misurata, […], sulla capacità dell’immagine di accedere come “novità” alle comunicazioni materiali del globalismo mercantile (p. 19). Nel saggio Lo stato delle cose Gregotti mette in relazione le vicende storiche ed evolutive appartenenti ad una propria esperienza professionale, evidenziando le connessioni esistenti tra le correnti artistiche, filosofiche, architettoniche e l’organizzazione del progetto. È interessante il paragone tra la conoscenza, la razionalità e il ruolo dei Maestri del Movimento Moderno (tra gli altri, Le Corbusier, Van Eesteren, Gropius), nell’alimentare un dibattito sempre più acceso e costruttivo
sull’architettura, e l’attuale personalità della stessa che si riduce ad un mero aspetto formalistico che toglie spazio alla capacità degli architetti di costruire immagini dell’insieme. Nel ritratto dell’attuale disastroso stato della nostra disciplina, infatti, il ruolo stesso è compromesso sia in ambito professionale che accademico, da una tendenza a voler concepire immagini provvisoriamente originali e volontariamente indipendenti da ogni […] verità critica e […] necessità collettive (p. 20). L’architettura come pratica artistica e come disciplina in grado di stabilire relazioni con il contesto urbano, viene via via trasformata in bizzarrie provvisoriamente originali, volontariamente distanti da ogni dialettica e contesto antropogeografico. Una condizione, quest’ultima, che porta Gregotti a dubitare della sopravvivenza dell’architettura come pratica artistica o, addirittura, alla sopravvivenza di ogni pratica artistica. Il saggio dal titolo Quantità e grandezza propone più di un’occasione per riflettere su quanto fervido e complesso sia stato il dibattito internazionale sulla validità dei principi del Movimento Moderno in relazione alla storia e ai contesti dei luoghi, o quello sulla complessa varietà delle sue componenti. Evidenzia soprattutto come, nel periodo postbellico della ricostruzione, la massiva produzione edilizia abbia sì dato luogo a un welfare diffuso ma abbia anche distrutto paesaggi urbani e territori a vantaggio di interessi speculativi e di simbolismi legati, appunto, alla sovrapposizione “arbitraria” tra l’idea di sviluppo e quella di progresso, tra l’idea di “quantità” e quella di “grandezza” (p. 25). In questo scenario vengono a mancare tutti quei principi insiti nel mondo antico dove, la
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grandezza di scala e la quantità, incarnavano simbolismi precisi, forti valori collettivi ed esigenziali, di appartenenza e di riconoscibilità. Ovvero quella capacità fondamentale e consapevole di percepire nell’evoluzione del concetto di grandezza la qualità dell’essere e la nobiltà culturale che caratterizza il progetto anche dal punto di vista qualitativo e che influenza le scelte progettuali che l’architetto compie nel suo sforzo di immaginare la costruzione da realizzarsi. Scelte oggi compromesse proprio dal ruolo dell’architetto la cui attività è sempre più plagiata e trasformata in accessorio dalla presenza di intermediari i quali annullano, di fatto, la relazione diretta tra cliente e architetto, esecutore e utilizzatore. Conseguentemente viene annullata anche la dialettica che mette in relazione le varie parti della città che si delinea, sempre più, come entità generica appartenente ormai all’immensa area del globalismo. Nel saggio Dove va l’architettura oggi? si tenta di ricostruire un’identità della disciplina a partire da un’analisi critica sull’attuale figura esibizionista rappresentata, ad esempio, dai media e che, tra l’altro, sottolinea la difficoltà oggettiva nel trasmettere i valori e la poetica dell’architettura in ambito universitario e, di conseguenza, nello svolgimento della professione di architetto. Da quella “responsabilità” che accomunava i maestri della modernità, si è passati ad una sorta di anarchia stilistica del XX secolo che ha investito tutte le arti visive restituendo soluzioni che hanno il sapore di una delle tante possibili (pp. 40-41) scaturite da una incertezza approssimativa, forzata dalla volontà di andare al di là di qualsiasi specificità disciplinare. Questo quadro descrittivo, si-
curamente negativo, ma che stimola molte riflessioni atte a delineare una nuova traiettoria per la caratterizzazione espressiva e metodologica della disciplina, viene in qualche modo addolcito e arricchito dall’espressività restituita da alcuni schizzi dell’Architetto che anticipano il concetto di modello e progetto trattato nel saggio dal titolo I materiali della progettazione. Questi disegni diventano una sorta di camera di decompressione che prepara il lettore ad una trattazione più complessa con la quale si descrive la connessione tra progetto, quale modo con cui tentiamo di mettere in atto la soddisfazione di un nostro desiderio, e una materialità che va oltre l’accezione tecnologica del termine e che investe il mondo esistente, le sue cose, convinzioni, nozioni, ideologie e punti di vista (p. 61). Un approccio logico al processo risolutivo del problema durante il quale è assolutamente necessario porsi interrogativi per allargare il proprio orizzonte e trovare quindi non la risposta esatta, ma un’utile interpretazione della realtà. Realtà che influenza il preciso compito produttivo dell’architetto quale atto razionale e specifico per il controllo delle diverse fasi del progetto e la previsione dei risultati. Si passa pertanto dai metodi di rappresentazione alla soluzione dei problemi attraverso gli strumenti della razionalizzazione utili anche alla valutazione della qualità espressiva del l’oggetto. Si introduce il concetto di modello in diretta connessione con la materialità progettuale, contrapposto a quello di progetto utopico che sottende ad una realtà in un universo senza storia ma che, grazie alla sua visione circolare, trae la sua stessa carica di significato progettuale (p. 70). Queste nozioni determinano la
complessità strutturale, e talvolta inedita, della materia architettura e della tecnologia moderna, concretamente applicabili al tema dell’abitare in quanto organizzazione significativa dell’intero ambiente. Concetti legati all’azione progettuale, alla produzione dell’architettura attraverso le maestranze e alla conoscenza dei materiali che, insieme, strutturano un’immagine precisa scaturita, anche, dalla necessità di inventare in situazione. La Tendenziosa autobiografia in chiusura di questo interessante libro arricchisce l’approfondimento evolutivo di un architetto, come Vittorio Gregotti, che grazie alla sua articolata crescita formativa ed esperienza professionale riesce, oggi, a trasferire un importante know-how alle nuove leve di professionisti e non solo che, spesso, dimenticano la vera natura del “mestiere dell’architetto”, fatto di razionalità e responsabilità piuttosto che di effimere apparenze. G. V. Giampaolo Nuvolati, Interstizi della città. Rifugi del vivere quotidiano, Moretti & Vitali, Bergamo 2019. Parlare di interstizio riferendosi alla città significa indagare luoghi minuti e all’apparenza meno significativi, ma che al contempo si confrontano con la vita quotidiana urbana più vera e intima. Un cortile, un’edicola, una scalinata, l’altare votivo incassato nel muro di un edificio, tutti questi elementi possono far parte di quel patrimonio di luoghi interstiziali in cui è possibile riconoscere, nell’informalità delle loro conformazioni, un’appropriazione del luogo da parte degli abitanti
dello spazio urbano. Le qualità di questi ambiti sono strettamente legate alle persone che li fruiscono, per questo mutano a seconda delle pratiche che vengono effettuate durante le diverse ore del giorno. Negli interstizi, la presa di possesso del luogo difficilmente rispetta regole codificate, mentre l’improvvisazione rappresenta la forma più comune di azione. Spesso questi luoghi rappresentano dei contesti di continua trasformazione, in cui cambiamenti, più o meno conflittuali, sono determinati dal loro carattere incerto e provvisorio, ed ecco come una città transumante, o metaforica, s’insinua così nel testo chiaro di quella pianificata e leggibile [M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, trad. it. Edizioni Lavoro, Roma 2000, p. 146]. Allo stesso tempo, i luoghi in-
terstiziali possono rappresentare pause all’interno del ritmo frenetico della città, in cui è possibile riconoscere una realtà autentica che tiene insieme ricordo e immaginazione. Diventano quindi spazi della mente e contribuiscono a formare la personalità di ognuno, sono traccia di una memoria oppure apportano nuova linfa creativa per il futuro, stimolando azioni che possono aggiornare l’ambiente rispetto a necessità e bisogni contemporanei. In generale, arricchiscono il patrimonio urbano di simboli, tracce e segni, contribuendone a formare il carattere in modalità diverse e spesso contraddittorie, proprio per la natura non predeterminata degli usi e delle azioni che vi si svolgono. L’interstizio si lega al concetto di immagine ambientale, ovvero a una mappa mentale che può servire come uno schema di riferimento generale in seno al quale un individuo può agire, o nel quale egli può fissare le proprie conoscenze [K.
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Lynch, L’immagine della città, trad. it. Marsilio, Venezia 1982, p. 139]. Gra-
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zie a questa mappa le persone si orientano nello spazio, ma, allo stesso tempo, si connettono a elementi interiori, a una memoria personale, al senso di identità rispetto al luogo. Secondo la teoria della Gestalt, ovvero della Psicologia della forma, la percezione di uno spazio porta a una selezione schematica di ciò che viene intercettato. Ognuno dunque, costruisce una propria immagine di città che porta con sé e arricchisce o rielabora nel tempo, in rapporto a ciò che permane e ciò che muta nello spazio che lo circonda. Quando alcuni elementi di queste mappe personali iniziano a coincidere le une con le altre, ecco che si sviluppa un’identità collettiva, legata a una comunità di persone unite tra loro da simboli, valori e luoghi. Il sistema degli interstizi può quindi rappresentare un insieme di elementi che arricchiscono l’immagine di città dei suoi abitanti, andando al di là dei luoghi codificati e canonici che identificano gli spazi pubblici – la chiesa, il palazzo comunale, l’ospedale, ecc. – e legandosi a sentimenti di appartenenza, familiarità, confidenza, connessi a ritualità nuove e personali. Anche la temporalità assume connotati particolari, perché si confronta con l’indeterminatezza e la ritmicità lenta di luoghi che sono al di fuori dei tracciati urbani più frequentati e usuali. Solitamente accolgono azioni legate al riposo, al divertimento, al gioco e le caratteristiche che assumono derivano da dinamiche processuali non precostituite. Questo aspetto li rende degli spazi complessi e contraddittori, la cui lettura deve essere costantemente aggiornata e relazionata a diversi ambiti conoscitivi: l’interstizio è infatti il luogo della realizzazione
possibile, dell’esperienza positiva ed emozionante al tempo stesso, ma sa anche rivelarsi l’anfratto dove si nasconde l’inatteso, l’indesiderato se non il pericoloso (p. 104). Tale complessità viene indagata da Giampaolo Nuvolati rapportandosi a una letteratura che spazia dalla Psicologia alla Sociologia, da riferimenti provenienti dagli Studi Urbani a quelli letterari, legandola a frammenti di storie personali, rielaborati e reinterpretati a livello narrativo per coniugare la trattazione teorica alle esperienze e ai personaggi che fanno parte della vita della città. Indagare lo spazio interstiziale significa guardarlo con gli occhi del l’infanzia, quando si osservava il mondo liberi da preconcetti e come il flâneur o la flâneuse, figure che attraverso l’atto di camminare senza una meta precisa, sperimentano e interpretano il paesaggio della città con la capacità di cogliere l’essenziale di ciò che li circonda. Il flâneur è il «sognatore ozioso» descritto da Walter Benjamin: Chi cammina a lungo per le strade senza meta viene colto da un’ebbrezza. Ad ogni passo l’andatura acquista una forza crescente; la seduzione dei negozi, dei bistrot, delle donne sorridenti diminuisce sempre più e sempre più irresistibile si fa, invece, il magnetismo del prossimo angolo di strada, di una macchia lontana di foglie, del nome di una strada. Poi sopravviene la fame. Egli non vuole saper nulla dei mille modi per placarla. Come un animale ascetico si aggira per il quartiere sconosciuto, finché sfinito crolla nella sua camera, che lo accoglie estranea e fredda [W. Be njamin, I “passages” di Parigi, trad. it. Einaudi, Torino 2002, p. 466]. Questa
figura è oggi trasformata dall’avven-
to del web, per cui il cyberflâneur diventa colui che tra virtuale e reale percepisce in maniera nuova l’interstizio, interpretandone la forma intangibile, quando prova a connettersi per inviare una mail, postare un contenuto su un social network o per ricercare online un altro luogo fisico della città. In questo caso le tecnologie mobili consentono alle persone di praticare attività tradizionalmente domestiche, anche al di fuori dello spazio privato, confondendo e sovrapponendo ulteriormente il piano fisico e virtuale con quello della sfera privata e pubblica. Dunque, trattare oggi il concetto di interstizio vuol dire confrontarsi con la materialità, ma anche con l’immaterialità dei luoghi data dal l’esperienza di chi li abita, dalle proprie caratteristiche e necessità. Significa rapportarsi a una specifica sensorialità, che viene attivata da colori, profumi, esperienze tattili proprie dello spazio interstiziale. Caratteristiche che gli conferiscono quel senso di unicità che lo rendono elemento privilegiato per la memoria di chi lo vive, proprio perché in questi spazi non si trova determinismo progettuale, ma sostanziale informalità. È dalla relazione con le persone che lo attraversano, da chi lo abita e fa uso del luogo, che questo viene plasmato, e quando tale rapporto viene a mancare l’interstizio scompare e la mente deve rielaborare una nuova realtà da ricordare. Nuove immagini e sensi vengono stimolati percorrendo altri spazi della città, una condizione che porta a confrontare la figura del flâneur con i situazionisti e le loro dérive, come Guy Debord racconta nel 1956: per fare una deriva, andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a
ciò che vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta. Un modo per agevolarlo è camminare con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l’alto, in modo da portare al centro del campo visivo l’architettura e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista. Dovete percepire lo spazio come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari [G. Debord, Théorie de la dérive, in Internazionale Situationniste, tda, n. 2, dicembre 1958, pp. 1923]. Analizzare gli interstizi vuol
dire quindi farne esperienza con questa stessa attitudine di casualità e improvvisazione, ma anche essere consapevoli delle dinamiche che li producono. Riconoscere dei tratti comuni negli spazi interstiziali, significa saperli individuare all’interno del l’ambiente urbano secondo i loro specifici aspetti processuali per metterne in luce gli elementi condivisi. L’interstizio può essere legato a una riappropriazione della natura rispetto a un luogo urbanizzato sotto forma di parco, orto urbano o giardino. In altri casi, si può sviluppare attorno a un elemento storico apparentemente dimenticato dalle autorità istituzionali, cercando di riportarlo alla memoria collettiva. Ci sono, poi, gli interstizi legati ai luoghi di culto e preghiera in forma di statue e dipinti, ma anche di edicole e teche all’interno del tessuto urbano e, ancora, gli interstizi relativi alle comunità, ovvero luoghi di incontro informale come piazze, parchi, muretti e scalinate e quelli di servizio (fontanelle, panchine, pensiline degli autobus, ecc.). Infine, esistono gli interstizi situazionali delle attività commerciali temporanee, della public art e dello street food, e quel-
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li della marginalità, come gli scali ferroviari, i ponti e gli edifici abbandonati rioccupati da nuovi abitanti in maniera informale. Tutti questi ambienti sono uniti dal fatto che appaiono quale il frutto di interventi casuali, eccezionali o temporanei, ma anche dalla capacità di far convivere al proprio interno diverse culture, attività e significati. Infatti, spesso gli interstizi riescono a connettere anime differenti oppure ad accogliere gruppi di persone con uno stesso obiettivo o interesse che sia culturale, sociale o di dissenso verso un’autorità. Gli interstizi segnano il paesaggio, lo connotano rispetto a bisogni e aspettative che possono caratterizzare tutta la comunità o solo alcuni gruppi o individui (p. 111). Certamente le sovrapposizioni tra questi tipi di spazio accadono, ma la riconoscibilità di queste tipologie, identificate da Nuvolati, può rappresentare un orientamento iniziale rispetto al tema generale e alle sue molteplici sfaccettature per capire quali tratti ed elementi possono essere positivi e rilevanti per lo spazio urbano. Per la loro dimensione umana ed esperienziale, gli interstizi sono per l’autore dei beni potenziali per la città, democratici e trasversali, in cui in molti possono trovare un proprio spazio di appartenenza, anche in aree urbane particolarmente determinate e gerarchizzate. Parlare di interstizi significa rievocare in questa contemporaneità fluida e proiettata a una città intelligente, caratteri emozionali ed empatici che si rapportano alle caratteristiche più istintive e intime dei suoi abitanti. Per questo l’interstizio entra a far parte di quel sistema di «spazi inclusivi», che consentono alla città di rinascere di continuo, di mettere in connessione persone e di ibridare azioni
differenti. Questo tipo di luoghi ha sempre la possibilità di essere considerato positivamente o meno a livello soggettivo, perché è colui che lo attraversa a prenderne le distanze o a farne parte, ad accettarne l’uso temporaneo riferito ad un’attività in cui si riconosce o che trova lontana da sé. A ogni modo, nell’ambito interstiziale le relazioni sociali e quelle spaziali entrano in contatto per generare soluzioni che invadono i luoghi intermedi riattivandoli e donandogli un nuovo carattere. Alcuni gruppi di persone saranno certamente più inclini e favoriti nell’agire all’interno di questi luoghi, ma in generale si tratta di spazi che accolgono tutti, dove anche le fasce più deboli possono trovare un posto in cui integrarsi con il resto della comunità e con la quale non sempre possono incontrarsi e confrontarsi. L’interstiziale è visto da Nuvolati nella sua accezione positiva, perché riesce a insinuarsi tra i confini funzionali prestabiliti, i sistemi e le usuali gerarchie e si rivela un luogo libero e aperto, capace di gestire le conflittualità sfruttando estro, eccezionalità, interpretazione personale dello spazio e tutte quelle caratteristiche creative che possono aggiungere qualità e favorire la vivibilità della città per i suoi abitanti. F. M. A. Giachetta, F. Novi, R. Raiteri, La costruzione dell’idea, il pensiero della materia. Riflessioni sul progetto di architettura, Franco Angeli, Milano, 2019. Quasi tutti i libri che abbiamo la fortuna di leggere da alunni e da studenti hanno un comune denominatore che è quello di trasmettere sa-
peri e conoscenze come verità oggettivamente universali. Anche gli insegnanti cercano di trasmettere certezze, esattezze, obiettività, di fornire risposte inconfutabili e autentiche. Ma tale sicurezza, che può avere le sue ragioni quando si compiono i primi passi dell’apprendimento, è legata a una forma di pensiero positivista, ottocentesco e prebellico, oggi superata sia in campo filosofico che in quello scientifico. Le certezze che hanno animato il lavoro di illustri matematici quali David Hilbert, che scommise sulla coerenza e completezza della matematica tanto da volere come epitaffio la frase «Noi dobbiamo sapere, noi sapremo», e di celebri fisici come Albert Einstein, in disaccordo con il principio di indeterminazione di Heisenberg al punto da domandare a Abraham Pais «Veramente lei è convinto che la luna esista solo se la si guarda?», sono state disattese dai teoremi di incompletezza di Gödel e dalle evidenze scientifiche integrate nella teoria delle stringhe. Lo scenario che va quindi dal pensiero forte al pensiero debole, dal Dizionario, dove verità incontrovertibili sono sintetizzate in poche righe, all’Enciclopedia, quale luogo aperto alla comprensione di più modelli divergenti ed in contrapposizione tra loro, dovrebbe essere il luogo all’interno del quale sviluppare nuove modalità di trasmissione del sapere, dove sia presente – come ha scritto Vattimo – «il rifiuto della “oggettività” come ideale della conoscenza storica (cioè il rifiuto del modello metodico delle scienze positive)». In questo quadro si inserisce il volume di Giachetta, Raiteri e Novi, professori di Tecnologia dell’Architettura, che si interrogano sulle modalità di insegnamento della Progettazione nelle Università. L’assunto
di partenza è quello di sapere che la realtà è troppo complessa per poter essere riflessa integralmente dal nostro intelletto, per cui le interpretazioni che ne diamo sono visioni parziali e necessariamente incomplete. Nel processo di semplificazione che la comprensione umana richiede, assumiamo di volta in volta un punto di osservazione privilegiato dal quale possiamo vedere solo un’immagine prospettica del problema che vogliamo risolvere, una visione anamorfica valida fino a quando non si decida di modificare la nostra posizione. Appare così evidente il motivo per cui, durante la lettura del libro, emerge sempre più chiara l’assenza di soluzioni dogmatiche, di ricette universali applicabili in ogni tempo ed in ogni luogo. Il primo tratto di notevole interesse è proprio tale consapevole atteggiamento [di pensiero] debole: esiste un nutrito, se non infinito, numero di modalità per affrontare e risolvere il medesimo problema ed è indispensabile conoscere quali siano i modi con cui altri – prima, e forse meglio di noi – lo hanno già affrontato e in un certo modo risolto. La Conoscenza non è risolutrice, ma ingrediente indispensabile per osservare qualunque fenomeno reale ed assaporare la sua sconcertante complessità. È innegabile che nelle Università esista una criticità legata alla difficoltà di insegnare la Progettazione, perché quanto si impara nelle aule non ha un’immediata ricaduta nell’esercizio della professione. A tal proposito Novi scrive: Resta da capire chi, come e quando copre lo spazio tra formazione universitaria e pratica professionale. Tutti autodidatti? (p. 157). La questione viene così articolata e sviluppata nelle pagine fornendo una matrice delle possibili soluzioni o, meglio, un albero delle
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possibilità che si sviluppa a partire da tre rami principali, costituiti dai tre saggi a firma degli autori, i cui contenuti possono essere sintetizzati in tre parole: immagine, percezione, processo. L’immagine mentale e il relativo processo di formazione che, non a caso, chiamiamo immaginazione, è uno dei principali momenti della Progettazione perché lì – forse – risiede l’atto creativo ed è, quindi, comune a tutte le Arti. Nel suo saggio dal titolo Prefigurazioni. Esercitare l’immaginazione; immaginare la materialità, Giachetta ripercorre in modo sintetico ma esaustivo, il concetto di immagine ed immaginazione nel pensiero occidentale, partendo da Platone e Aristotele, passando per Locke, Hume, Kant, Hegel, Sartre, fino all’Imagery debate che le nascenti scienze cognitive hanno sviluppato negli anni ’70 e ’80 del ’900. Il lettore è portato a ragionare sulla complessità del solo atto immaginativo, su quanto si concretizzino modi differenti di intenderlo e delle sue conseguenti ricadute sul modo di utilizzare le immagini mentali all’interno del processo progettuale. Forte è lo stimolo a riprendere argomenti studiati nel passato e non più ripresi, o ad approfondirne di nuovi: il testo apre spunti di riflessione e offre punti di osservazione diversi, interessanti e inaspettati. A titolo di esempio, quando si paragonano le capacità immersive ed inclusive nell’opera che portano ad equiparare Musica e Architettura (p. 33), sorge spontaneo il paragone con l’opposto concetto dello sviluppo triadico del reale proposto da Hegel, dove al gradino più basso si pone l’arte simbolica e, in essa, l’Architettura, in quanto si occupa di forme sensibili percepibili con la vista, e in quello più alto
l’arte romantica, ed in essa la Musica che libera il sensibile dalla forma spaziale. La ricchezza del testo consiste proprio nella capacità di spingere allo studio ulteriore per trovare nuovi passaggi, nonché scoprire punti di contatto e di divergenza nel panorama delle conoscenze. L’idea di occuparsi delle modalità con le quali è possibile insegnare nelle Università è un argomento che ha già visto Raiteri impegnata come autrice. Nel saggio qui presentato, dal titolo significativo: Percezione e architettura: riflessioni, si pone l’accento su qualcosa che suona come una tautologia: il rapporto tra Architettura e percezione, perché quest’ultima è infatti il modo con cui il nostro corpo fruisce dello spazio costruito che lo circonda. Tale apparente ridondanza oggi assume invece caratteri di urgenza da quando l’uso, o meglio l’abuso, delle tecnologie digitali sta progressivamente sostituendo l’esperienza diretta e la fruizione personale delle cose (p. 71), appiattendo la realtà vera e multidimensionale sul monitor di un personal computer o sullo schermo di uno smartphone. L’esperienza sensibile assume un ruolo di canale privilegiato nella Conoscenza. Occorre però superare l’idea – platonica prima e cristiana poi – che tutto ciò che è tangibile e reale sia corrotto e impuro, in un’ottica che conferisce alla mente-anima un primato sul corpo-realtà nel processo di costruzione del sapere. L’atteggiamento culturale di altre civiltà assume spesso paradigmi ben diversi da quello occidentale, e l’esempio del concetto di corpo, che è insito in quello Giapponese, diventa emblematico (p. 77) perché questo ha ben tre modi di essere indicato in quella lingua, in funzione del suo rapporto con lo spazio che lo circonda. L’uso
dei sensi, intesi come frontiera tra ciò che ci sta intorno e ciò che siamo, viene qui inteso come momento di conoscenza olistico, rifiutando non solo l’idea sommativa per la quale ognuno di essi procede indipendentemente dagli altri, ma anche quella per cui il processo avviene meccanicamente, senza elaborazione alcuna. Percepire, più che sentire, è un’attività complessa che coinvolge il corpo, l’esperienza, la cultura, la memoria. Il saggio propone più di un’occasione per riflettere su quanto la nostra capacità consapevole di percepire sia fondamentale nell’evoluzione del pensiero, soprattutto alla base delle scelte progettuali che l’Architetto compie nel suo sforzo di immaginare la costruzione da realizzarsi. Guidare il processo inventivo, inventare il processo, è il titolo del terzo saggio, a firma di Novi: un’interessante disamina in chiave di “processo” dell’atto di progettare, così come lo intende la Cultura Tecnologica, ovvero rilevazione e soddisfacimento delle esigenze degli utenti. La sua scomposizione in fasi vede, all’origine, l’atto creativo che porta in sé sia la difficoltà di ideare un’architettura quale opera non libera, che deve sottostare alle leggi della materia e della fisica, sia la necessità di essere tradotto in linguaggio inteso come modalità comunicativa per essere condiviso. È proprio la trattazione relativa alle modalità che possono scegliersi nella rappresentazione dell’idea progettuale, nonché alla conseguente scelta del linguaggio (p. 124 e seguenti), che apre stimolanti considerazioni, ad esempio, sulla possibilità di descrivere tale idea solo attraverso le parole, senza ricorrere alle immagini; sul processo descrittivo e su quanta parte di esso fornisca un feedback alla
sfera dell’immaginazione e contribuisca a modificare quanto già concepito; su quanto il numero pressoché infinito di stimoli visivi e di dati che la rete rende disponibile possa sembrare un aiuto, e invece rischia di annegare nella enormità delle informazioni (p. 127). E ancora: fino a che punto la Scienza può essere applicata alla progettazione? Quanto possono coadiuvarci gli strumenti resi disponibili dall’approccio logico al Progetto, dalla classica analisi esigenziale-prestazionale fino ai più sofisticati software BIM? In molti ritengono che nell’epoca dell’informazione digitale saranno proprio i computer a risolvere qualunque problema per quanto complicato esso sia, ma si ricordi quando Picasso disse: «…sono inutili. Sanno darti solo risposte». Questi tre saggi propongono una chiave di lettura forse inusuale, ma certamente utile, nel rivalutare il valore della domanda, del processo di soluzione durante il quale è assolutamente necessario porsi questioni per allargare il proprio orizzonte e trovare quindi non la risposta esatta, che probabilmente non esiste, ma piuttosto un’utile – anche se limitata – interpretazione della realtà. L. B. M.T. Feraboli, Case da sogno. Storie del paesaggio domestico 1840-2019, Bolis Edizioni, Bergamo 2019. Nell’ambito della Storia dell’Architettura, in seno al quale l’autrice, Maria Teresa Feraboli, si muove, il testo si inserisce donandone una particolare declinazione. L’enfatico titolo Case da sogno potrebbe essere tramutato in «Interni d’autore», sov-
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vertendo la logica architettonica comune che analizza la casa partendo dal suo involucro esteriore. Il testo è infatti un’analisi introspettiva dell’abitazione domestica, a partire dalla fine del XIX secolo a oggi, in qualità di specchio di un’epoca, di una cultura, di una tradizione, ma soprattutto di una società. A ben guardare, nonostante l’obiettivo primario dichiarato sia mettere a fuoco un possibile racconto dei cambiamenti dello spazio domestico […] che evidenzino gli ideali estetici di ciascun periodo, il filo conduttore di tutto il testo è lo strumento comunicativo: la trama di questa «possibile storia di interni» è per l’appunto scandita dai differenti mezzi di divulgazione propri di ciascun’epoca. Il primo capitolo esamina la dimora idealizzata attraverso «riflessioni etiche e aspirazioni artistiche», narrata in romanzi e racconti; in tale prospettiva, la casa di Edgar A. Poe diventa occasione per elaborare un ritratto critico della borghesia americana, una classe dirigente che fa mostra del raggiungimento di un nuovo status sociale attraverso la propria abitazione, tramite interni sfacciatamente dissonanti, esasperati da arredi e suppellettili malamente assortiti per qualità e stile, soffocati da tappeti che mortificano le rea li dimensioni delle camere. Sono case in cui la società trasfigura le proprie aspirazioni, i propri desideri, in una commistione di stili e gusti mal assortiti: ne sono un esempio le case idealizzate di Charles Baudelaire piuttosto che l’abitazione immaginaria di Robert Louis Stevenson, dove la dimensione onirica è ricondotta al passeggiare all’interno di «preziosi luoghi domestici». È una visione che non anticipa solamente uno spaccato della classe intellettuale di fine secolo, ma che «introduce
l’arte nella quotidianità della casa». Prende così avvio l’idea di creare una formula per la dimora dell’esteta basata sul bello e su un armonioso rapporto tra le parti. L’autrice procede quindi con una disamina di abitazioni emblematiche di questo pensiero. L’abitazione di Oscar Wilde a Chelsea rappresenta la «perfetta scena teatrale della quotidianità familiare dell’esteta», caratterizzata da pochi arredi selezionati, opere d’arte e significative soluzioni cromatiche. La dimora dipinta da Joris-Karl Huysmans è invece «un paradiso artificiale fatto di arredi, oggetti preziosi, pezzi d’arte, libri», ideata per stupire, stimolare la fantasia e fare sfoggio di un lussuoso stile di vita, così la casa immaginata da Gabriele d’Annunzio per il suo giovane eroe decadente, Andrea Sperelli. Definito un «delicato addobbatore», vive in spazi che Feraboli descrive come interni allestiti, «dando vita a una fantasmagoria di stanze traboccanti di oggetti disparati», così come frutto di un collezionismo colto è la casa di Mario Praz. Archivio stratificato delle esperienze del suo abitante, l’ambiente domestico diviene il calco dell’anima […] come un’autobiografia costruita attraverso gli oggetti. Ciò che sottolinea l’autrice è la “moda” imperante dedita a un collezionismo sfrenato, che accomuna le case idealizzate nei romanzi, e in cui non vi è alcun richiamo all’architetto o agli aspetti compositivi del progetto. A tal proposito vengono prese in esame le stanze cardine di quel periodo atte a comunicare un determinato status sociale: i salotti e gli studi. L’interno diventa quindi puro oggetto d’arredo, sottoposto alle lussuose ostentazioni estetiche di un’elite intellettuale. Dalle orfiche descrizioni dell’immaginario domestico presen-
te nei romanzi, Feraboli passa a radicare alla realtà la storia degli interni attraverso il ruolo mediatico della manualistica. L’avvento del manuale rappresenta tanto la volontà di raggiungere un pubblico più ampio e eterogeneo, quanto l’intenzione di fornire uno strumento utile a educare e istruire alla dimensione artistica e moderna dell’abitare poiché il desiderio di essere originali e di manifestare il sentimento individuale non deve esulare dalla conoscenza di alcuni principi elementari. Si fanno strada in Italia i manuali della casa editrice milanese Hoepli, promotori di un’idea di casa arredata con stile senza dover rinunciare alla funzionalità e ai propri gusti. Concetto trasmesso anche dal manuale di Alfredo Melani, L’arte in famiglia (1904), che ribadisce l’idea secondo la quale «l’utile coll’arte si dovrebbero confondere». Attraverso una serie di suggerimenti per «addobbare la casa», Melani dà indicazioni su geometrie, luci, colori, ornamenti, decorazioni, quindi suppellettili, arredi e tappezzerie, «motivandoli con ragioni di immediata comprensione, cioè buona educazione ed etichetta», pur sempre lasciando margine alla personalizzazione. Sul medesimo solco nascono i volumi di Carlo Barbiano di Belgiojoso, La nostra casa (1877) e di Lidia Morelli Dalla cucina al salotto. Enciclopedia della vita domestica (1905). Entrambi improntati su un approccio all’interno domestico basato sulla «disciplina dell’abitare». Feraboli rivolge poi la propria attenzione Oltreoceano, in particolare a due manuali che vedono protagonista il genere femminile: The Decoration of Houses (1898) di Edith Wharton e Ogden Codman jr. e The House in Good Taste (1913) di Elsie de Wolfe. Attraverso questi due volumi comincia a delinearsi
un’idea dell’interno non semplicemente relegata al decoro o all’arredo quanto più a un’impostazione architettonica e spaziale: Rooms may be decorated in two ways: by a superficial application of ornament totally independent of structure, or by means of those architectural features which are part of the organism of every house, inside as well out – scrivono Wharton e Cod man jr. Il mutamento di atteggiamento storico comporta anche un cambiamento nell’approccio da parte di Feraboli: dallo stile descrittivo che caratterizza il primo capitolo, l’autrice passa a un metodo analitico che prende in considerazione anche l’aspetto compositivo degli interni esaminati. Rapportandosi al secondo manuale di Lidia Morelli, La casa che vorrei avere (1931), Feraboli dona una nuova prospettiva alla casa incentrata verso i compiti che vi sono svolti […] dove la decorazione tornerà a svolgere il suo ruolo di abbellimento. È un primo tentativo di avvicinamento al razionalismo, che si accorda con i principî dell’Economia domestica, pur sempre discostandosi dalla totale standardizzazione, tipica dell’era industriale, a favore di un recupero dell’individualità. Feraboli considera quindi il villino di Frappoli a Torino piuttosto che alcuni significativi modelli di abitazione presentati alla IV Triennale a Monza nel 1930 (come la Casa elettrica di Luigi Figini e Gino Pollini con cucina di Piero Bottoni, la Casa di vacanza di Gio Ponti ed Emilio Lancia, la Casa del dopolavorista di Luisa Lovarini), dai quali desume mirati consigli organizzativi e importanti riflessioni compositive: cucina e bagno acquistano una propria fisionomia razionale, men tre salotto aperto sull’ingresso, sa-
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la da pranzo e studio in enfilade sono separati da tramezzi cosi sottili che sembrano preludere a una loro possibile unione. Il corridoio tende a scomparire, mentre l’ingresso mantiene importanza ma si trasforma: non è ancora un salotto […] ma è saggiamente fuso a que st’ultimo. Attraverso questa evoluzione mediatica dell’idea di interno domestico, Feraboli mostra la sottesa rivoluzione sociale: la casa bella non è più un lusso, prerogativa di una ristretta cerchia di intellettuali borghesi, bensì diventa un bene irrinunciabile anche per l’abitante del ceto medio. Trasversale a questo tema è il rilievo dato alla donna che ripercorre l’intero testo, individuata come destinataria principale delle attenzioni dei redattori dei manuali, spesso immortalata negli ambienti che più le si confanno, il salotto e la cucina. Il desiderio di fondo di diffondere l’idea di casa e dell’abitare a una platea più ampia fa sì che, con la fine della prima guerra mondiale, appaiano in Italia le prime riviste dedicate all’arredamento degli interni. Più economiche, pratiche e intuitive dei manuali, si diffondono a macchia d’olio partendo da Milano, centro catalizzatore di nuove idee e motore della rinascita. È il caso di periodici come Domus, La Casa bella, Stile: ogni testata, indirizzata a una più specifica tematica degli interni, introduce un nuovo modus operandi che trova il proprio punto di forza nel dialogo con i lettori. Nascono infatti una serie di rubriche e supplementi alle riviste che rendono il progetto degli interni e dell’arredo qualcosa di simile al ready-made, ma pur sempre mediato da una maestranza locale, che garantisce le basi per trasformare la casa ideale in casa reale. Ne sono un
esempio le rubriche Il progetto regalato, Le cartelle di Stile, Vivere meglio, nelle quali vengono dati consigli di economia domestica o sulla gestione degli spazi e proposti progetti di stanze, di mobili e di soluzioni d’arredo. In parallelo a questo boom mediatico e al nuovo rapporto che si instaura tra progettista e pubblico, Feraboli presenta i nuovi ritmi del l’abitare e della quotidianità, le trasformazioni dei costumi e del gusto, fino ad addentrarsi in questioni più tecniche che prendono in considerazione le sostanziali modifiche compositive e spaziali della casa. La vera rivoluzione che catapulta nel l’epoca contemporanea – partendo dal concetto di Carlo Pagani per il quale «casa migliore vuol dire vita migliore» e dal presupposto che l’obiettivo finale sia la «casa per tutti» – è l’avvento dell’era digitale influenzata dai fenomeni di globalizzazione e dalle nuove tecnologie. Come non citare quindi il gigante IKEA sorto sulle tracce dei vecchi opuscoli commerciali americani e sul modello delle rubriche fai-da-te. Attraverso soluzioni standardizzate ma personalizzabili, la dimora dei sogni diventa finalmente accessibile a tutti e nascono racconti di case più umani, più empatici, che arrivano dritti al cuore del lettore. Un simile approccio è quello tentato attraverso le moderne trasmissioni televisive, ultimo passo di un percorso storico che ha il suo fulcro nella comunicazione. Il risultato è però, come dichiara criticamente Feraboli, la spettacolarizzazione di progetti costruiti ad hoc come un abito su misura, privi di solide basi storiche, che rendono di fatto l’interno sempre più un mero prodotto di consumo. C. D’A.
Vincenzo Trione, L’opera interminabile. Arte e XXI secolo, Einaudi, Torino 2019. Come si guarda un’opera d’arte contemporanea? Questa, la domanda sottesa a L’opera interminabile di Vincenzo Trione. Lo rivela l’autore nelle ultime pagine del libro, richiamandosi a Come si guarda un quadro di Matteo Marangoni (1920), un classico della storiografia italiana del Novecento. Per accostarsi alle opere d’arte del XXI secolo, Trione decide di ingaggiare un corpo a corpo con la fisicità concreta e fabbrile di drammaturgie inquiete disseminate lungo cartografie instabili e restie a ogni ricomposizione alla forma finita. In sintonia con quanto ha scritto Ágnes Heller – secondo la quale l’opera d’arte non è soltanto una cosa: è anche una persona, e ha un’anima (La dignità dell’opera d’arte, 2008) –, si pone in ascolto paziente di qualcosa che c’è in quella drammaturgia – ne determina il funzionamento, ne costituisce il nucleo vitale. Ma di queste installazioni epiche, plurali, dissonanti, eterogenee, straripanti al di fuori di se stesse non si limita a ricostruire la genesi e a restituire un’approfondita analisi storico-critica, supportandola con schizzi preparatori, progetti e testimonianze dirette. Ne sceglie quindici (tutte realizzate da altrettanti artisti dopo la data-soglia del 2000) e, sulle orme di André Mal raux, allestisce un museo immaginario da leggere e da percorrere. Ad attenderci, nella sua Kunst halle impossibile, atti unici: ardite ipotesi di multimedialità, di intermedialità, di transmedialità e di crossmedialità; opere “senza generi”, avrebbe detto Ricciotto Canudo,
che fanno confluire dentro un’unica costellazione pratiche e media diversi; e opere-mondo, simili a ostinate riscritture o a variazioni a oltranza sul medesimo tema, che coincidono con la vita del loro au tore. Tra i capitoli del libro, attraverso “sale” senza pareti, siamo invitati a una flânerie. Possiamo abbandonarci a una lettura intermittente. Liberi di entrare e di uscire dalle cosmogonie disegnate dai singoli artisti. Di correre alla fine del volume e, a piacimento, di tornare indietro. Oppure si può procedere lungo la direttrice suggerita da Trione. Addentrandoci tra territori aperti, mobili e ubiqui, in cui pratiche e linguaggi lontani – pittura, scultura, fotografia, cinema, video, musica, letteratura – si intersecano e si reinventano. Sostando, nell’attesa che disegni si trasformino in spettacoli teatrali, diventino film, mostre, romanzi, concerti rock e invadano la vita reale. In apertura, I Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer, apocalittico monumento alla fine di un mondo. Denso di rimandi artistici, letterari, filosofici, mistico-religiosi, segna il passaggio all’arte del nostro millennio. Introdotte da brevi testi “curatoriali”, che ricordano anche l’esperienza espositiva di Trione, tutte le stanze sono ordinate secondo aree tematiche. Percorrendole: in Riscritture infinite, assistiamo a tre esercizi di rimediazione e di ri-locazione delle fonti letterarie (The Nose di William Kentridge, il Quijote di Mimmo Paladino e Tristanoil di Nanni Balestrini); Archivi aperti è dedicata agli accatastamenti e alle rielaborazioni memoriali rappresentate da A proposito di Ustica di Christian Boltanski e da Take Care of Yourself di Sophie Calle; Epiche
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postmoderne ci fa immergere in avventure eccessive e perturbanti nate dal dialogo con il passato (Ten Classic Paintings di Peter Greenaway, Cremaster Cycle di Matthew Barney e Treasures from the Wreck of the Unbelievable di Damien Hirst); per farci ritrovare, all’uscita, nelle eterotopie inserite in Luoghi-opere (Il museo dell’innocenza di Orhan Pamuk e Anywhere, Anywhere Out of the World di Philippe Parreno); e, infine, spingerci, in Show totale, a sperimentare il superamento di tutte le forme al cospetto delle performance dionisiache (Das Orgien Mysterien Theater) di Hermann Nitsch, del progetto multimediale Biophilia di Björk e delle ipertecnologiche scenografie di Es Devlin (U2: eXPERIENCE + iNNOCENCE Tour). Indica un possibile (forse, provvisorio) epilogo, Carne y Arena di Alejandro Iñárritu, un’installazione immersiva e smaterializzata. Dinanzi alla quale Trione si chiede: E se il futuro dell’arte fosse proprio la smaterializzazione e addirittura la sparizione dell’arte stessa, come avevano già intuito agli inizi del secolo scorso Apollinaire e Duchamp? Solo giunti al termine di questo viaggio (diverso per ognuno dei lettori-visitatori del libro, a seconda che, in ingresso, si sia accolto o meno l’invito a girovagarvi liberamente), sembra possibile riconnettere tutti i momenti. Osservando le opere interminabili “esposte” – costellazioni deterritorializzate; concatenamenti spezzati da trasformazioni; piani su cui si intersecano e si stratificano dimensioni diverse; territori privi di prospettive centrali –, possiamo riconoscervi l’essenza del nostro frammentato mondo. Siamo dinanzi a “esseri speciali”, nei quali le
pratiche tradizionali, oramai irrimediabilmente contaminate e mescolate, non sono più separabili, ma vivono di inarrestabili processi trasformativi fino a sparire l’una nell’altra. A essere rilanciato e radicalizzato, è l’ideale romantico dell’opera d’arte totale teorizzato da Wagner. Che in L’opera d’arte dell’avvenire (1849) affermava: Sarà vinta l’ostinazione delle tre arti nel voler osservare a ogni costo la propria autonomia e ciascuna si assorbirà nell’amore per l’altra […]. L’assorbimento reciproco […] sarà già di per sé la vera gioia d’arte, la cui vita è nella morte delle arti singole. […] E quest’intenzione non si raggiunge con un unico genere d’arte, ma solo con la comunità di tutte le arti. Nel tentativo di abbracciare con lo sguardo queste forme, imprendibili come principi vitali, anche il ricorso all’artificio e all’immagine del museo si chiarisce. Non una semplice metafora. Ma un metodo. Che impedisce di anteporre le teorie sull’arte alle opere e agli artisti (in linea con quanto già sostenuto da Ernst Gombrich). E incoraggia a contemplare le opere da vicino: millimetro per millimetro, tocco per tocco, colore su colore. Lentamente. Per coglierne il rumore e il silenzio. Idea difesa da Trione in un volume del 2017 (Contro le mostre, scritto con Tomaso Montanari), dove, rifacendosi alle invettive di Jean Clair contro l’abuso del medium espositivo, denunciava: Nel nostro Paese le mostre spesso sono pensate come carrellate di immagini imperiose, immediate, senza consistenza, prive di rimandi, che devono giungere a noi come benedizioni o come fulminazioni, sottraendoci al dovere di riflettere su di
esse e alla “lenta penetrazione delle parole”. Invece, aggiungeva, difendendone la capacità di rendere unica l’esperienza dell’arte: vanno pensate come media capaci di mettere in contatto elementi diversi, costruendo reti di relazioni e di opportunità, in un fecondo e aperto dialogo con l’ambiente e con il tempo in cui ci troviamo a vivere. L’opera interminabile raccoglie interventi difficili da osservare nella loro totalità e impossibili da trasferire o da esporre all’interno di una mostra, disponendoli in un libromuseo, aperto e mobile, animato dallo stesso spirito delle costruzioni artistiche che presenta. In questo luogo mentale e reale,
come accade in un libro, ci si può affidare alla meditazione lenta su ogni singolo intervento, lasciandone emergere i segreti nascosti e ricostruendone ogni stadio dell’esistenza. Come un museo, consente di muovere dalle opere, dalla materia di cui sono composte e dalle relazioni che intrecciano tra di loro, prescindendo da sovrastrutture teoriche. Con L’opera interminabile, Trione ci consegna gli strumenti per guardare e riconoscere l’opera d’arte del XXI secolo. Del resto, come ha osservato Maurice Blanchot, l’opera sola importa, ma in fondo l’opera è là soltanto per condurre alla ricerca dell’opera. A.L. D.S.
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Sommario dei fascicoli pubblicati
N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine del l’ADI
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N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
N. 150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI N. 152. Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre N. 153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazione Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre N. 154. Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione - Ancora sul rapporto tra arte e pubblico - Design: scenari morfologici della contemporaneità - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 155. Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia - Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo - Della omologazione in architettura - Arti visive: da zona franca a fronte comune - È del designer il fin la meraviglia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 156. Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» - Modern/post: un territorio in-between - «Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradigma espositivo - Moda: sistema e processi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Campania N. 157. Editoriale - Una “ipostasi” della forma-tatuaggio - Aspetti e intenti del graffitismo d’oggi - Lebenswelt e architettura - Design vs Lebenswelt Libri, riviste e mostre N. 158. Architettura e qualità nell’età dei concorsi - La nostalgia nella cultura digitale - Conformazione e trasformazione degli spazi interni - La ricerca di una definizione di design - Libri, riviste e mostre N. 159. «Corporea» alla Città della scienza di Napoli - Mono-ha nel contesto globale. Poetiche e culture a confronto - Distruzioni e ricostruzioni a Berlino - Il tempo del tipo nello spazio del design - Libri, riviste e mostre N. 160. Il mestiere di architetto: prospettive per il futuro - Téchne e progetto d’architettura - Riflessioni sulla 57ª Biennale di Venezia e Documenta 14 a Kassel - Didattica e design, dal learning by doing al learning by design - La rivista «October»: temi e nuclei teorici - Libri, riviste e mostre N. 161. La metodologia circolare della progettazione in architettura - Aldo Rossi. Topografia urbana - Artisti italiani e realtà sociale nel secondo dopoguerra - La rivista «October»: novità metodologiche e crisi di un paradigma
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- Il design (morale) dell’ordine - Ernesto Basile. Dall’architettura d’interni all’industrial design - Enzo Mari. Opera, multiplo, serie - Libri, riviste e mostre N. 162. Il BIM. Un parere in evoluzione - Bruno Zevi e lo spazialismo architettonico - Semantiche del sublime architettonico - Brecht nostro contemporaneo - Il dono e l’arte, la festa e la dépense ai tempi di internet - Il “nuovo” nel modello Design-Oriented - Handmade in Italy - Libri, riviste e mostre N. 163. L’architettura è (ancora) un’arte? - Sull’unbelievable: Hirst, il fantasy, la post-verità - La Biennale d’architettura 2018 - Crossing the border: la storia dell’arte nell’epoca della globalità - La teoria in scena: Adolphe Appia - Libri, riviste e mostre N. 165. Organic and mechanical - Paesaggi dell’Antropocene - Carlo Ludovico Ragghianti “architetto”. Dal dibattito al museo - Oltre il biomorfismo: l’approccio bioispirato - Libri, riviste e mostre N. 166. Linguistica, semiotica e architettura - Il museo nell’era del web - La poesia scenica di Gordon Craig - Fare, pensare e progettare nel tempo della app economy - Essere designer: ruoli e dinamiche al confine con l’arte - Libri, riviste e mostre
Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998 «Grafica Elettronica» - Via Bernardo Cavallino, 35/g - 80128 Napoli
ISSN 0030-3305
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gennaio 2019
numero 167
Smart Cities - Fenomenologia della nostalgia - Olivetti in Messico: 1949-2002 - Donne e architettura: il Woman’s Pavilion di Chicago - L’opera, l’immagine digitale e il Digital Storytelling 2.0 - Sulle tracce dell’opera d’arte. Video-recording e XXI secolo - Incoming/ Outgoing. Flussi trans e multiculturali nel design contemporaneo - Libri, riviste e mostre Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli
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