OSSOLA.it n10 autunno/inverno 2011

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La rivista turistica delle Valli dell’Ossola anno IV - numero 10 - 2011

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Riale 1740 mt.

Sottofrua

Valle Formazza

Formazza 1300 mt.

Fondovalle Chioso

1720 mt. Passo

Alpe Devero 1630 mt.

Goglio

Parco Nat. Veglia Devero

Esigo Osso

Alpe Veglia 1750 mt.

Cadarese Ausone Croveo

Premia 750 mt.

Baceno

San Domenico Foppiano

Crego

700 mt.

1420 mt.

Verampio

Cravegna Viceno Mozzio

Trasquera 1100 mt.

Briga

Crodo

Iselle

Oira

Varzo

Passo del Sempione

800 mt.

550 mt.

San Bernardo 1600 mt.

Locarno

Montecrestese Altoggio

Crevoladossola

Gomba

830 mt. Masera

Coimo 880 mt.

Fonti

600 mt.

Domodossola

Alpe Lusentino 1060 mt.

Malesco

Cannobina

Trontano Cosasca

Calvario

1500 mt.

Craveggia Ville調e Re 750 mt.

Druogno Santa Maria M.

Monteossolano

Bognanco

Toceno

Tappia

Cheggio

Beura

Villadossola

Montescheno

Antrona 920 mt.

Seppiana

Cardezza

Viganella

Cuzzego

Pallanzeno Prata

Parco Nat. Valle Antrona

Cimamulera

Castiglione Calasca

San Carlo Vanzone Pecetto Macugnaga 1300 mt.

Staffa

Borca

Pestarena

Borgone

Ceppo Morelli 800 mt.

Pontegrande

Bannio

Anzino

Piedimulera Fomarco Vogogna Colloro Pieve Premosello Vergonte Cuzzago 250 mt.

Anzola

Candoglia

Migiandone

Ornavasso

Mergozzo

Boden

Verbania

Baveno

Lago Maggiore

Stresa

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Anno IV - N. 10 - 2011

Sede e redazione Via Madonna di Loreto, 7 28805 Vogogna (VB) Tel/Fax 0324 88665 info@ossola.it Direttore Responsabile Massimo Parma

Sommario NATURA DA TUTELARE: LAGO DI ANTILLONE 5 ARTISTI MILANESI A CATTAGNA

10

CASE D’OSSOLA: VARZO

14

IL PANE

18

TRA CENTOVALLI E VALLE VIGEZZO

23

MACUGNAGA: RELIGIOSITÀ

28

Coordinamento grafico e impaginazione Eleonora Fiumara - eleonora@ossola.com

IL ROSA

32

Collaboratori Aurora Video, Stefano De Luca, Tonino Galmarini, Davide Iardella, Simona Lavazza, Felice Jerich, Anna Proletti, Diovuole Proletti, Paola Rovelli, Massimo Sartoretti, Maria Antonia Sironi Diemberger, Carlo Solfrini, Marco Valsesia.

OLTRE L’ORIZZONTE: VALLE STRONA

34

TRAVERSATA DEVERO - FORMAZZA

40

GASTROFILOSOFIA: SUL FORMAGGIO

46

IL CASTAGNO

52

IL TORCHIO DI CROVEO

58

MUSEO ARCHEOLOGICO A MALESCO

64

IL QUARTERO

68

LE ERBE MEDICINALI

70

IL SALAME DI TROTA

74

Direttore Editoriale Riccardo Faggiana Capo Redattore Claudio Zella Geddo Redattori Paolo Crosa Lenz, Rosella Favino, Giulio Frangioni, Uberto Gandolfi, Cecilia Marone, Adriano Migliorati, Marilena Panziera, Massimo Parma, Paolo Pirocchi, Giuseppe Possa, Fabio Pizzicoli, Michela Zucca.

Hanno collaborato a questo numero Daniela Bonanno, Laura Grillo, Samuel Piana, Gioxe e Patricia De Micheli Fotografia Riccardo Faggiana, Fabio Contardi, Adriano Migliorati, Paolo Pirocchi. Video Editing Aurora Video Traduzioni Chiara Cane, Cristian Veldman Stampa REGGIANI S.p.A. - Gavirate (VA) Ossola.it è un periodico registrato presso il Tribunale di Verbania in data 10/04/08 con il n. 3/08.

© 2011: É vietata la riproduzione anche parziale di foto, testi e cartine senza il consenso dell’editore. Tutti i diritti sono riservati.

Editore Riccardo Faggiana Tel. 329 2259589

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di Paolo Pirocchi

Natura da tutelare.

Il lago di Antillone:

“un occhio azzurro� cerca di riaccendersi...

5 - ossola.it


I

l piccolo lago di Antillone, in Valle Formazza, è un luogo ben noto a molti appassionati di escursionismo nella Valle Formazza. E’ un appuntamento quasi immancabile per molti di noi al risveglio della primavera o in autunno, lungo il sentiero che collega Formazza con l’Alpe Vova e Salecchio. Pochi minuti a piedi separano Fondovalle da Antillone (“Punejga” per i Walser), un piccolo raggruppamento di case un tempo abitate tutto l’anno ed oggi perlopiù luogo di villeggiatura. Il paese è stato edificato su un ampio e morbido terrazzo glaciale, che ha permesso di ricavare ideali superfici prative e di pascolo in posizione assolata e rialzata rispetto al fondovalle. Su un piccolo rilievo sorge l’Oratorio della Visitazione, edificato nella forma attuale nel 1644 (la data è incisa sull’architrave del portale dell’ingresso), probabilmente ricostruito su un edificio preesistente. Custodisce un affresco che raffigura la tradizionale processione annuale degli uomini di Formazza all’oratorio di S. Gottardo (al Passo di S. Gottardo). Accanto al paese, contro montagna, è adagiato il lago, in cui si riflettono i boschi di faggio e abete rosso che ammantano il versante e le betulle che circondano le rive. Percorrendo il sentiero che qui ci porta da Fondovalle, entriamo nella Zona di Protezione Speciale (ZPS) Alpi Veglia Devero e Monte Giove, istituita nell’anno 2006 con ampliamento della ZPS dell’Alpe Veglia Alpe Devero all’area del Monte Giove. Si tratta una grande area di tutela a livello europeo, che è stata oggetto di recenti studi e dell’elaborazione di una proposta di Piano di Gestione da parte dell’Ente delle Aree Protette dell’Ossola. Il lago, per le sue peculiarità naturali, è stato inoltre incluso nell’elenco regionale dei Siti di Importanza Regionale (SIR) ossola.it - 6

nati con riferimento alla legge regionale n. 47 del 3 aprile 1995 “Norme per la tutela dei biotopi” (oggi non più in vigore). Ma l’attenzione per questo piccolo lago è tutt ’altro che recente, tanto che già dalla seconda metà dell’Ottocento quella dei naturalisti si era focalizzata su questo biotopo, individuando elementi di straordinaria importanza biologica,


sul piano faunistico e botanico. Un piccolo e antico abitante del lago ci evoca il ricordo di alcuni ricercatori naturalisti italiani di grande levatura. Nel 1861, un grande biologo italiano, Filippo De Filippi (1814 - 1867) raccoglieva alcune osservazioni in merito a particolari popolazioni di un tipico anfibio alpino, il Tritone alpestre (Triturus alpestris)

in alcune località, tra cui Antillone, che mostravano il carattere neotenico (adulti con caratteristiche tipicamente larvali, cioè con le branchie, e quindi necessariamente legati all’ambiente acquatico, diversamente dal normale sviluppo polmonare). Studioso di grande fama, De Filippi fu un convinto evoluzionista, uno dei primi sostenitori delle teorie di Charles Darwin. Rimase celebre una lezione pubblica da lui tenuta nel 1864 dal titolo emblematico: “L’uomo e le scimie”, che suscitò un prevedibile scalpore in quei tempi. I tritoni neotenici di Antillone furono oggetto dell’attenzione nel 1893 anche di Lorenzo Camerano (1856-1917), importante biologo italiano, direttore del Museo di Scienze Naturali di Torino, anche lui forte sostenitore e divulgatore delle teorie evoluzionistiche. La caratteristica della neotenia sembra oggi trovare una corrispondenza nel chimismo delle acque. Sembra infatti

Immagini storiche del lago 7 - ossola.it


che condizioni di bassa mineralizzazione possano costituire un fattore in grado di favorire il fenomeno. In accordo con queste affermazioni, le acque del lago di Antillone, un tempo abitato da tritoni neotenici, sono all’origine caratterizzate da basse concentrazioni di soluti e buona ossigenazione delle acque, condizioni generalmente tipiche di laghi di alta quota. Risalgono alle osservazioni di fine Ottocento anche le segnalazioni di alcune specie particolarmente pregiate. Prima tra tutte, testimoniata anche da alcune belle fotografie d’epoca di inizio Novecento, la Ninfea comune (Nymphaea alba), oggi da considerare estinta a livello provinciale. Ma anche il Licopodio inondato Lepidotis inundata, piccola pteridofita presente un tempo in prossimità del lago in grandi quantità ed oggi non più ritrovato, o la Rosolida a foglie allungate Drosera anglica, specie insettivora di grande rarità a livello alpino. E ancora la Carice della fanghiglia (Carex limosa), oggi rarissima a livello piemontese. Ma tutto questo è ormai storia di un secolo fa. Il lago ha subito conseguenze molto pesanti con le trasformazioni del territorio durante l’industrializzazione. Rischiò addirittura di scomparire per sempre, ma non senza suscitare molto “rumore”, e già allora in sua difesa si alzarono molte voci. Nel 1910, a seguito dei lavori di costruzione di una galleria per il passaggio di una condotta sotterranea di alimentazione alla centrale idroelettrica di Cadarese, le acque del lago, intercettate dallo scavo sotterraneo, si svuotarono, riducendo il lago ad una misera pozza stagnante. Nel 1913 Il Prof. Emilio Chiovenda, grande botanico italiano, originario di Premosello Chiovenda, chiedeva addirittura al Presidente della ossola.it - 8

Società Botanica Italiana un intervento per la salvaguardia del lago seriamente minacciato, scrivendo: “Questo bellissimo gioiello dell'Ossola superiore nonostante le condizioni imposte dal Prefetto di Novara nel suo decreto, mi si informa che è scomparso, e che in luogo del bel laghetto si sprofonda in una forra fangosa e morta...". Ma ancora più toccanti le parole di Lorenzo (Renzo) Boccardi, nel 1913, nella rivista del TCI, nell’articolo “Un occhio azzurro si spegne”, racconta, su questa rivista di prestigio a livello nazionale, di come il lago subì forti perdite a causa di “falle” apertesi sul fondo del bacino. Questo avvenimento fu veramente vissuto con profondo coinvolgimento da parte non solo di studiosi, ma anche dei nuovi frequentatori che comparivano nelle valli ossolane; erano i tempi dell’affermazione del turismo. Successivamente in alcune annotazioni limnologiche (Landini, 1929, Cenni di limnologia ossolana) il lago fu descritto come “quasi completamente scomparso”. Rosario Mosello, ricercatore del CNR di Pallanza, in un articolo su Oscellana (1979), ripercorre e ricostruisce alcune importanti fasi successive. Vittorio e Livia Tonolli (ricercatori limnologi e successivamente direttori dell’Istituto Idrobiologico di Pallanza), sulla base di osservazioni compiute nel 1947 (appunti non pubblicati), definivano il lago come una sorta di pantano e rilevavano, all’estremità orientale del lago, una fessura nel terreno in cui scomparivano le acque in eccesso. Negli anni successivi furono eseguiti lavori di impermeabilizzazione del fondo mediante iniezioni di cemento, e furono canalizzate le acque del Rio Antillone, deviandole nel lago, al fine di incrementare la portata dell’unico piccolo immissario. Nel 1949, in un secondo sopralluogo, Vittorio e Livia Tonolli riscontravano che le acque ave-


vano raggiunto un livello normale. Tutto questo rappresenta uno storico intervento di recupero di un habitat naturale! Oggi possiamo godere ancora della bellezza di questo lago e degli splendidi ambienti da cui è incorniciato. Ma se nella prima metà del Novecento si comprese la necessità di procedere al recupero di questo ambiente naturale, forse oggi, ancora di più occorre realmente tutelarlo e destinarlo ad attenzioni maggiori. Il lago è, per così dire, malato... E responsabili della sua malattia siamo in parte anche noi tutti, la nostra superficialità, la difficoltà a comprendere che gli equilibri naturali, come ci spiegavano a scuola, sono complessi. In questo piccolo lago i Tritoni difficilmente potranno tornare a vivere e a riprodursi a costituire le popolazioni numericamente ricche di allora, a causa

delle recenti immissioni di pesci, trote in particolare, predatori che ne impediscono la riproduzione e che compromettono pesantemente le comunità di invertebrati. Le acque sono inoltre da qualche anno intorbidite da una notevole quantità di sedimenti sottilissimi (la cui provenienza dovrebbe essere verificata), che restano sospesi a lungo nelle acque, modificandone le condizioni chimico-fisiche con ripercussioni sulla catena trofica. Basterebbe poco per riportare questo lago a condizioni migliori, rispettando maggiormente gli equilibri ecologici. Uomini delle generazioni scorse hanno riacceso “l’occhio azzurro”, sta a noi, uomini del terzo millennio, dimostrare la sensibilità di ricondurre per quanto possibile questo meraviglioso lago alla sua natura.

Un’attenta ristrutturazione di un’antica locanda, un ambiente tradizionale, caldo e accogliente, camere che sorprendono per la dotazione ed il comfort. Una gestione familiare attenta e mai invadente, queste le caratteristiche della locanda Walser di Riale in Val Formazza.

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di Giuseppe Possa

ARTISTI MILANESI A CATTAGNA E DINTORNI

A

Varzo, in località Cattagna, tra abitazioni addossate che sembrano conservare una dimensione d’altri tempi, c’è una casa, le cui origini risalgono alla fine del Cinquecento: essa conserva ancora antiche strutture (alcune tipiche dei walser) e fu acquistata, nei primi anni Ottanta, da uno dei più noti pittori lombardi: Gioxe De Micheli. Conosco da anni questo interessante artista, le cui opere, ricche di poesia, sono suggestive, a tratti lievemente inquietanti, per il loro suggerire situazioni immaginarie, con uomini e ossola.it - 10


personaggi immersi in atmosfere “sospese”. Ci s’incontrava nelle gallerie di Milano, dove nebbia e smog fanno sì sognare l’aria pura di luoghi incontaminati, ma nulla in Gioxe, così “cittadino”, mi faceva pensare a una sua passione per la montagna. Poi un giorno, conversando con suo padre (Mario: uno dei maggiori

accelerando il personale processo creativo”. Sono qui con lui (ho accompagnato la “troupe” di Ossola.it) accanto al vecchio camino in sasso e centellinando un caffè gli chiedo come mai ha scelto la Val d’Ossola. “Mia moglie” racconta De Micheli, “è la nipote della Maddalena, un personaggio noto qui a Varzo, e ci veniva

storici dell’arte, critico e saggista, morto nel 2004), vengo a sapere di questa casa del figlio, nel verde valdivedrino, tra montagne, boschi e meravigliose passeggiate. Per Gioxe De Micheli, tale dimora di fine settimana, come l’ermo colle leopardiano, pare ormai essere un rifugio, un “sempre caro” luogo di pace nel quale, come lui stesso sostiene: “Ho il tempo di pensare e meditare. Vedi, in simili vallate si ha maggiormente l’opportunità per riflettere e concentrarsi, tant’è che le idee si definiscono in modo più naturale,

in vacanza fin da piccola. Questa località ci piaceva molto, perciò una trentina di anni fa abbiamo deciso di cercare un’abitazione per trascorrere i week-end e le vacanze, a contatto con la natura, con il paesaggio e i ritmi tranquilli dei piccoli paesi alpini. Per noi è importante tornare a Milano, al lavoro, carichi d’energie, per riaffrontare la realtà urbana. Così abbiamo acquistato questo edificio che ha una struttura molto caratteristica, oltre a un fascino particolare”. La moglie è Patricia Roaldi, traduttrice e scrittrice, ma soprattutto appassionata 11 - ossola.it


di cucina, avendo dato alle stampe alcuni libri, tra cui “Facile come il pane” e “Ricette (quasi) dimenticate”, con cui cucinare pane di ogni qualità, compreso il “pan biava” (una tipica specialità della Val d’Ossola, come il “pane nero di Coimo”) e squisiti piatti della tradizione italiana salvati dall’oblio, ma anche alcune

attualmente impegnata nella serie televisiva su Canale 5, “Cento vetrine”, dove interpreta Carol Grimani e che spesso viene a rilassarsi tra queste montagne) hanno trovato anche un quadernetto ben ordinato di ricette locali, scritte a mano. Lo scorso anno i due coniugi, sempre in

nostre ricette, come i “gnocchi all’ossolana”. L'autrice, in questi suoi ricettari, mette generosamente a disposizione tutti i trucchi e i segreti scovati in tanti anni di “esperimenti”, e guida i lettori, passo dopo passo, dalla ricetta più semplice a quelle apparentemente più complicate, per il pranzo di Capodanno oppure di Natale e Pasqua o per festeggiare qualche anniversario importante. Nella loro antica casa di Varzo, Patricia e Gioxe (che sono i genitori di Marianna, attrice teatrale e cinematografica,

questa loro dimora, hanno restaurato la “cianva” (la cantina). Si tratta di una costruzione con antiche strutture, abitata sin dal Cinquecento da una famiglia di piccoli possidenti locali, che si contraddistinse per aver espresso nel tempo un gran numero di parroci e notai. Nella cantina spaziosa - di una decisa "nobiltà" architettonica e dominata da una colonna centrale con quattro rustiche "vele" - la pietra regna sovrana, mentre il tutto è avvolto da un "che" di misterioso e arcaico di grande fascino. E' grazie alle caratteristiche descritte che è nata, a Gio-

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xe e alla moglie Patricia, l'idea di utilizzare questo locale, per piccoli eventi culturali. All’inaugurazione, è stato presentato il libro di Giorgio da Valeggia: “La mia ombra ed io sul cammino di Santiago”; a novembre 2010, Gioxe ha esposto al pubblico il suo “Polittico della maternità”: un tema classico, ma da lui affrontato con spirito laico ed emotività tutta contemporanea. Di recente c’è stata una serata in cui si è parlato del libro illustrato di Roberto Innocenti, presentato da Rossana Dedola, docente universitaria alla Normale di Pisa. Pure lei ha acquistato una vecchia casa proprio tra queste bellezze della natura valdivedrina. Inoltre, qualche casa sotto a Cattagna, c’è la frazione Altreggiolo, unite da un sentiero nel bosco, dove abita un amico dei De Micheli, Gilberto Salvi pure lui di Milano che ha restaurato un’altra vecchia casa del Cinquecento, riportando casualmente alla luce un affresco di quel

periodo, alcune vecchie strutture architettoniche e un camino in pietra che erano stati coperti in precedenti ristrutturazioni. Gilberto, ora che è in pensione e che può trascorrere nella sua dimora tra le montagne ossolane gran parte delle sue settimane, dà una mano al figlio a dirigere una casa editrice on-line, la Mnàmon per la vendita di e-book e non solo. In più, trasforma gli scritti degli autori in e-book, libri immateriali che i lettori possono scaricare dal sito e leggersi sul proprio PC o su un e-reader. A tale proposito, già alcuni ossolani hanno inserito in questo nuovo “tipo” di pubblicazione i loro libri, come Giorgio Quaglia, Umberto De Petri, Luciana Rigoni, Lisanna Cuccini, Piero Frattoni o le loro opere pittoriche nella periodica “Vetrina dell’artista”, come Giorgio da Valeggia, Graff fio (Bruno Andrea Margherita), Giulio Adobati.

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CASE d’OSSOLA di Cecilia Marone

Va rz o Cenni storici V

arzo, paese dalle origini antichissime, i cui primi insediamenti risalgono presumibilmente ad un arco temporale tra i 2000 e i 1500 anni a.C, deve il suo nome alla caratteristica morfologica che lo contraddistingue: il termine è un’ italianizzazione della parola celtica “vargo”che indica un varco, un luogo che si distende ampio nella magnifica valle Divedro. Nella lunga storia di questo paese, passato più e più volte a causa della posizione strategica sotto la protezione di molti popoli differenti, come i romani o i franchi, troviamo momenti bui - l’invasione altomedievale dei saraceni - e momenti di grande respiro mitteleuropeo come la costruzione dell’attuale strada di collegamento internazionale voluta da Napoleone Bonaparte.

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Foto: antico rosario ossolano utilizzato durante l’erogazione


O

ggi Varzo è un comune di 2200 abitanti, dislocato in diverse frazioni e località, che vanta una posizione ancora strategica, per i collegamenti economici e turistici e gode di un paesaggio davvero invidiabile che ha conservato nella struttura architettonica dei suoi edifici, laici e religiosi, la caratteristica unica di una fusione culturale millenaria. L’abitazione di cui ci occupiamo in questo numero autunnale di “ossola.it” si trova nella frazione varzese di Cattagna, nella bella valle Divedro. È una casa complessa e articolata che sebbene conservi alcune caratteristiche tipiche delle case alpine, trasuda l’eleganza gentile che le deriva dall’ubicazione storico - geografica e dalle influenze locali e internazionali che hanno subito i committenti durante la costruzione e i successivi ampliamenti. Il corpo originario della casa, risalente al 1500, è costituito da una struttura perfettamente conservata dagli attuali proprietari, che hanno rilevato la proprietà negli anni ottanta, per avere un luogo

tutto loro nel quale rigenerarsi tra le valli incontaminate dell’Ossola. Spettacolare è il piano interrato oggi utilizzato come spazio culturale e artistico, interamente in pietra autoctona, dalla pavimentazione ai soffitti a volta, dalla colonna centrale, alle sedute, all’ampia nicchia scoperta durante il restauro. Le inferriate sono originali, l’unico intervento riguarda la pavimentazione, prima in terra battuta, realizzata con antiche piode da pavimento bocciardate, reperite da un raccoglitore della zona. Interventi diversi sono stati adottati per ciò che riguarda la conservazione della parte lignea della casa che oggi, dopo cinque secoli deve essere preservata con cura. Sono quattro i piani che formano questo edificio, esternamente ricco di facciate movimentate ed elaborate, mai uguali nella disposizione degli elementi architettonici: la facciata, dove si trova l’entrata principale, affrescata e ampia con la terrazza ricca di sedute scolpite, usuale nelle case padronali di una bor-

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ghesia già ricca; o la facciata contrapposta, dove una ripida scala e un possente architrave, richiamano invece l’unicità della casa contadina caratterizzante le vallate a sud delle Alpi. Quando gli attuali proprietari ne sono entrati in possesso si poteva accedere ai diversi piani della casa anche attraver-

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so delle botole che richiamavano l’dea della torre, oggi eliminate per ragioni di praticità, coibentazione e di un restauro forzato a causa del danneggiamento di molte parti della pavimentazione lignea. Pochissimi e mirati gli interventi che Gioxe e Patricia, noto pittore lui, scrittrice affermata lei, hanno dovuto affron-


tare per rendere agibile la loro casa. Oltre ai lavori del piano interrato si è resa necessaria la sostituzione di alcune parti lignee danneggiate dai secoli, come due pavimenti e qualche rivestimento; un lungo e faticoso lavoro di pulitura della boiserie dallo scellerato uso di vernici “preventive” che era in voga nel Novecento, secondo la mentalità corrente de “la preservazione, l’igiene e l’abbellimento delle case vecchie”. Una coppia di proprietari talmente rispettosi della loro casa e delle tradizioni che da secoli la accompagnano, che hanno deciso perfino di lasciare un rosario settecentesco, di legno e metallo, dove lo hanno trovato: su una delle inferriate dove era stato posto come pegno votivo oltre tre secoli orsono da don Antonio Del Frate Alvazzi, membro della famiglia proprietaria di questo e di altri immobili a Varzo. Una casa conserva addirittura un tesoro nel tesoro: un archivio notarile settecentesco, perfettamente conservato, alcune lettere scritte in latino risalenti al 1500 e cinque faldoni di musica antica, che sono stati catalogati dagli archivisti della sezione “Fondi musicali“ della Biblioteca Braidense di Milano. Reperto che suscita frequenti richieste di consultazione, a livello mondiale, per l’unicità del patrimonio musicale che comprende fra l’altro lo spartito di uno dei figli di J.S. Bach. Nella stanza più calda dell’edificio troneggia un altro tesoro: una tabella di lettura originale, ottimamente conservata, bene etnologico raro, che uno degli uomini di chiesa della

famiglia proprietaria dell’immobile utilizzava per insegnare a leggere a volenterosi scolari di fine ottocento. È Varzo signori: paese crocevia, paese di storia e cultura senza limiti geografici o storici definiti, piccolo villaggio montano dal respiro europeo, agente unificatore di architettura ed economia che supera le barriere nazionali: come la meraviglia che Gioxe e Patricia hanno avuto la perseveranza e l’illuminazione di conservare.

Angolo del Casaro. Tabella di lettura, porta inchiostro e bacchetta da maestro.

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IL PANE

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di Patricia Roaldi


Già, il pane.

Il pane tradizionale in Ossola era, come in tutto l’arco alpino, quello nero fatto con farina di segale integrale. Più raramente si potevano trovare pani fatti con farina di miglio, panico, orzo o mais. Queste soluzioni alternative erano riservate ai periodi di carestia e di mancanza di segale a sufficienza. In tali periodi si usava anche un pane detto “di mistura” perchè in esso finiva qualunque cereale disponibile magari con l’aggiunta di farine diverse da quelle di cereali (legumi, patate, castagne, faggiole o anche ghiande, vinaccioli, bacche di sorbo). “Una volta con mia sorella sono andata a prendere il frutto dei faggi a Sutsass. Erano buoni da mangiare.” (T. Valsesia Valgrande ultimo paradiso). Il Giavinelli testimonia inoltre che durante la carestia del 1629 ad Antrona si ricorreva a “... giande dei fayci per far farina”. Il forno utilizzato dai Walser per cuocere il pane era costituito da una tipica costruzione in pietra, dotata di un avantetto e di un davanzale sporgente dall’im-

boccatura. La bocca era chiusa da una lastra di pietra per conservare il calore del forno. Il forno era “comunitario” in quanto veniva usato da tutta la frazione. Il riscaldamento avveniva fino al raggiungimento di 200/300 gradi, mentre la comunità procurava la legna necessaria in ragione della quantità di pane che intendeva cuocere. Il raccolto delle granaglie che i Walser riuscivano ad effettuare copriva spesso a malapena un quarto del fabbisogno vitale; il rimanente doveva essere acquistato dalle popolazioni delle valli. Il costo di questo alimento era reso ancor più caro in quanto l’accensione del forno per la cottura del pane, data la bassissima temperatura ambientale, richiedeva una grande spesa di legna ed energie. Per questo motivo i Walser cuocevano una sola volta all’anno il pane necessario al villaggio. Il pane, lasciato raffermare e diventato ormai duro come la pietra, veniva spezzettato con un coltello a leva fissato in uno speciale tagliere e poi ammorbidito in brodo o latte.

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Pan e di c as tagn e

• Biga 85 g farina 60 g acqua 1 g lievito • Ingredienti 145 g biga (tutta quella preparata) 300 g farina di castagne 250 g farina Manitoba 20 g lievito 5 g zucchero 320 g acqua 20 g olio 10 g sale • Quantità 1 pagnotta • Lievitazione 1 ora e 35 minuti + 12 ore biga • Cottura 200 °C; 30 minuti La ricetta me l’ha ‘raccontata’ un’anziana signora maremmana. Questo pane, bello e buono, ha il sapore antico delle castagne ed è ottimo per accompagnare i salumi e certi formaggi delicati come, per esempio, la ricotta. Biga Impastate gli ingredienti, formate una palla e mettetela a lievitare coperta per circa 12 ore. Impasto Ammorbidite la biga con parte dell’acqua, quindi aggiungete nell’ordine gli altri ingredienti. Lavorate l’impasto, che sarà un po’ appiccicoso, infarinando spesso le mani, e mettetelo a lievitare per 1 ora. Riprendete l’impasto e formate la pagnotta, sistematela sulla placca e lasciatela lievitare per 30 minuti. Fate un paio di tagli paralleli e aspettate ancora 5 minuti prima di infornare a 200 °C per 30 minuti.

Ricette di PATRICIA ROALDI tratte da ossola.it - 20


• Quantità 1 pagnotta • Lievitazione 2 ore-2 ore e 30 minuti • Cottura 230-200 °C (con vapore); 50 minuti Grazie a Denis, grande chef di Crodo, sono riuscita a preparare questo fantastico pane. Il più famoso tra i pani ossolani è quello di Coimo, paesino arroccato sulle montagne dell’Ossola; nessuno ne conosce la ricetta (che è segreta) e ogni pagnotta porta impressa la parola Coimo a garantirne la provenienza: chi lo ha assaggiato non lo dimentica più... però questo gli somiglia. Mettete a bagno l’uvetta in acqua tiepida per almeno 30 minuti, poi scolatela. Mescolate tutti gli ingredienti meno uvetta e noci, che vanno aggiunte all’ultimo, poco prima di smettere di impastare. Lavorate l’impasto un po’ meno del solito, 7-8 minuti, e infarinando spesso le mani dato che è molto appiccicoso. Lasciate lievitare per 1 ora, coperto. Riprendete l’impasto, preparate la pagnotta, quindi mettetela a lievitare ben infarinata e coperta (va bene anche con una bacinella) per 1 ora-1 ora e 1/2. 5 minuti prima di infornare mettete sul fondo del forno una teglia con acqua bollente, quindi infornate a 230 °C spruzzando acqua sulle pareti del forno. Dopo 15 minuti togliete la teglia con l’acqua e abbassate a 200 °C. Fate cuocere ancora per 35-40 minuti.

Pan e oss o lan o

• Ingredienti 200 g farina bianca forte (Manitoba o quella per la ciabatta) 270 g farina di segale 20 g lievito 10 g malto 260-270 g acqua 20 g olio 15 g sale 40 g miele 120 g uvette 120 g noci spezzettate

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Pas t e p a t à rus t ì ossola.it - 22

• Ingredienti per 4 persone 250 g patate 150 g pasta (lumaconi rigati o rigatoni) 250 g bagiane (dette anche taccole o piattoni) 30 g burro (sarebbe perfetto il burro cotto) 2 cucchiai olio 2 pizzichi cannella 1 cipolla 30 g parmigiano o grana padano 1 pizzico pepe Questo era un piatto dei giorni di festa e ad Albina, mentre me lo descriveva, brillavano gli occhi di gioia. Proviene da Vano, paese ai confini con la Svizzera, dove vive la signora Albina, preziosa custode di gran parte delle tradizioni locali. È una delle poche persone rimaste a conoscere ancora un po' dell'antico dialetto, il 'dvarun', stranissima e interessantissima 'lingua' di cui è difficile individuare bene l'origine. Mettere a bollire in abbondante acqua salata le patate tagliate a pezzi, e 10 minuti prima di fine cottura aggiungere le bagiane spezzettate o tagliate a metà. Dopo qualche minuto unire la pasta corta; scolarla molto al dente. Nel frattempo soffriggere in olio e burro la cipolla, scolare bene pasta, patate e bagiane e versarle nella padella con il soffritto. Aggiungere la cannella e il pepe, e rosolare a fuoco alto. Girare e rosolare ancora, aggiungere il parmigiano e dare un'ultima 'arrostita'. Servire caldo. Se si è preparato il burro cotto, si possono usare i 'friciulin' (si veda la ricetta della 'Cuchela'), che vanno aggiunti nella padella prima di versarvi la pasta.


Tra CENTOVALLI e VALLE VIGEZZO

di Claudio Zella Geddo

Natura, arte, emozioni...

U

na natura incontaminata, boschi estesi, un paesaggio che è pura emozione, arte disegnata a pieno colore fra i tanti borghi. Questi gli ingredienti di un viaggio, di un percorso che dalle pittoresche e misteriose Centovalli consegna al viaggiatore sensazioni che difficilmente scorderà fino al solare altipiano della Valle Vigezzo. La formula magica per accedere, in ogni stagione, a questo paradiso? Semplice il Lago Maggiore Express, un itinerario di grande successo turistico, che collega il Lago Maggiore alla Val d’Ossola, lambendo il Parco Nazionale Val Grande, attraverso Piemonte e Canton Ticino in Svizzera.

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Battello, della Navigazione Lago Maggiore e Lago di Como, e ferrovia Vigezzina sono i moderni strumenti che permettono questo itinerario favoloso che conduce dal clima mite e temperato di Locarno alla possanza medievale di Domodossola e delle sette valli ossolane. Prima d’inoltrarci tra le meraviglie, non solo naturali, del percorso poniamo in risalto l’importanza, la bellezza e l’utilità di un’opera ingegneristica considerevole come la ferrovia a scartamento ridotto (1 metro) chiamata in Italia Vigezzina e in Svizzera Centovallina L’arteria di ferro corre per 52 km tra Locarno e Domodossola ( 32 in Italia, quasi 20 in Svizzera) con una pendenza massima del 60%, un raggio di curvata minimo di 50 m., attraversando 31 gallerie, 83 tra ponti e viadotti, costeggiando 34 fra stazioni e fer-

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mate, raggiungendo l’altezza massima di 836 m. a Santa Maria Maggiore. Da sempre la ferrovia, inaugurata nel 1923, è stata ritenuta il collegamento più veloce dal Canton Ticino alla Svizzera romanda e alla capitale Berna attraverso il passo del Sempione. In circa un’ora e trenta il visitatore potrà gustare, con il treno panoramico, precipizi, spaventevoli dirupi, salti di roccia, languide cascate e il corso a volte lieve del Melezzo tra pozze e anse color verde smeraldo. Un paesaggio che è soprattutto, in ogni stagione e con ogni tempo atmosferico, compendio di una certa idea di mondo alpino. Ecco allora vigneti, castagni, campi coltivati, ponti medievali e costruzioni in pietra, tutti collegati da una fitta rete di


percorsi tra cui il celeberrimo Sentiero del Mercato da Domodossola a Camedo e quindi a Locarno. Allora, al momento dei primi avventurosi viaggi, come adesso chi prenderà questo gioiello meccanico delle alpi s’accorgerà come il restauro, la manutenzione delle piccole stazioni sia stato rispettoso di una sorta di continuum architettonico tra tutti gli edifici. Uno dei tanti motivi che hanno portato oltre 523.000 turisti, nella stagione 2009, fra le balze e i ripiani del tracciato ferroviario.

Le Centovalli, valle poverissima per secoli, negli ultimi anni hanno saputo trovare una precisa identità turistica che le hanno fatte scegliere come buen retiro da molti villeggianti d’oltralpe. Anche i giovani possono però trovare motivi per una visita grazie ad esempio al Centovalli Challenge, tra canyoning, bungy jumping, arrampicata e trekking o le delizie tradizionali dell’agriturismo di Corte di Sotto.

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Di rilievo anche i molti tesori artistici come il Museo d’Intragna, gli affreschi del ’400 di Antonio da Tradate di Palagnedra o le rovine del Castelliere di Tegna. Oltre la dogana di Camedo si apre sorridente la Valle Vigezzo, la valle dei pittori per antonomasia e patria di ruscà, e di Gian Paolo Feminis, inventore dell’acqua di colonia e del Salati, il primo che, dopo Waterloo, attraversò a nuoto il canale della Manica. Subito lo sguardo, dopo l’appollaiata e stregonesca Olgia, si sazia dell’imponente basilica della Madonna del Sangue di Re; si prosegue quindi fino a Santa Maria Maggiore, cuore della valle. Santa Maria accoglie il visitatore con il suo colorato centro storico, la riposante atmosfera della pineta tra ciclabili, cavalli e sentieri. Qui non perdete la possibilità di visitare il Museo multimediale degli Spazzacamini o l’Accademia delle Belle Arti ove ammirerete tele della tradizione pittorica vigezzina. ossola.it - 26


Poco sopra Craveggia è sorpresa per lo sguardo, con il suo sontuoso sagrato, i bellissimi tetti in pietra, gli svettanti camini e il tesoro della chiesa che risale all’epoca luminosa del re Sole. Dal finestrino rapido scorre il paesaggio che regala al viaggiatore l’ordine pittorico di Coimo, borgo conosciuto per il pane nero, l’incanto solitario e abbandonato di Marone. con il piccolo e gotico cimitero e il vasto orizzonte di Trontano. Un luogo dell’anima con il suo ampio complesso religioso, i mulini sul rio Graglia, attraversati da un adrenalinico viadotto, i segni apotropaici incisi sugli architravi e il grande bosco che lo avvolge e protegge. Bosco solcato fino a Marone

da un single track da provare con la bicicletta o a piedi. Ora il nastro di ferro si getta verso la piana ossolana e dopo la torre detta di frà Dolcino, accede all’ampia tessitura dei vigneti che da sempre concedono al palato un vino rosso carico e verace. Il binario, con studiata lentezza, ora ci porta nella stazione di Domodossola affiancando il corso sinuoso della Toce, stazione che dal 1906 incanta per le esatte proporzioni art noveau dei suoi leggeri e sognanti disegni architettonici. Anticipo della bellezza raccolta che il capoluogo ossolana concede a chi sa cercarla tra portici, piazze, altorilievi medievali, quadri e cappelle.

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Autunno tempo di colori, di sapori, di reli

Macugnaga

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giosita’.

acugnaga, terra di grandi coloM ri, di squisiti sapori e di antiche leggende, tramandate oralmente e di Cecilia Marone

quindi differenti da famiglia a famiglia, che sviluppano semplici trame e temi macabri, intrisi sempre di profonda spiritualità. Ossola.it ne racconta due delle più incredibili ai propri lettori... <Macugnaga. Il primo giorno di novembre i defunti hanno la possibilità di tornare tra i vivi per pochi momenti e di recarsi a visitare i luoghi dove trascorsero la vita terrena. I defunti che hanno ricevuto questa grazia, prima di tornare a rivedere i luoghi cari, si uniscono ai fedeli viventi, raccolti in preghiera a Chiesa Vecchia e al cimitero del Dorf, per partecipare alle funzioni pomeridiane e serali in suffragio di coloro che ci hanno lasciato. Quando le celebrazioni sono terminate e la gente è tornata alle proprie abitazioni, è uso dei defunti rimanere ancora all’interno della chiesa di Macugnaga per contare le persone che moriranno nell’anno seguente: é la famosa e terrificante “conta dei morti”. Un giorno un uomo poco scaltro e troppo curioso, decise di nascondersi dietro l’altare della chiesa, attendendo la fine delle celebrazioni liturgiche, per ascoltare i nomi di chi sarebbe trapassato. Quando l’edificio fu vuoto e il cimitero deserto, i morti si misero ad elencare i nomi dei macugnaghesi che sarebbero presto morti. L’uomo, non avendo udito il proprio nome ne fu felicissimo, anche perché aveva sentito elencare il nome della moglie, con la quale da qualche tempo litigava giornalmente. Improvvisamente, un defunto disse: “Anche tu, che origli la nostra conta dovrai venire con noi e sarai il primo dell’anno”. E invero, questo avvenne>. 29 - ossola.it


Nei primi due giorni di novembre accaddero nel corso dei secoli, a Macugnaga e in valle Anzasca, così tante manifestazioni dell’aldilà che non basterebbe questo numero di Ossola.it per raccontarle tutte. Eccone un’altra, gelida come un soffio di vento da nord.

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< Accade il due novembre, quando nella chiesa del Dorf i fedeli si radunano (ancor’oggi) alle cinque della mattina per le funzioni in suffragio dei defunti. Una donna di Testa, che aveva ritardato l’uscita di casa, colta da improvvisa paura per tutte le storie sui morti che le avevano narrato da bambina, percorreva veloce il sentiero che porta al cimitero, quando una folata di un gelido vento che soffia dal Passo del Moro, spense la piccola candela che si trovava all’interno della lanterna, usata dalla timorosa donna per illuminare la strada in cerca qualche defunto, spirito maligno o diavolo. Il panico invase il poco coraggioso animo della macugnaghese che alzando la testa verso la sua destinazione vide con sollievo un gruppo di persone in processione, che avanzava alla luce di molti lumi. In poco tempo la processione passò accanto alla donna che timidamente chiese in prestito del fuoco per riaccendere la propria candela e qualcuno le passò un moccolo ardente. La donna lo usò per il suo lume, ma non fece in tempo a restituirlo al proprietario, che se ne era già andato. Per cui lo spense, se lo infilò in tasca e si recò rinfrancata a messa. Il giorno dopo vestendosi con gli stessi abiti, si ricordò di avere ancora in tasca la candela e la estrasse per riporla accanto al focolare. Quando la vide la gettò tremante per terra: non era una candela, bensì un dito che apparteneva a qualche defunto! La donna si era imbattuta nella processione dei morti e ne era uscita miracolosamente viva>.


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di Paolo Crosa Lenz

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dal 1962... D

al 1962 “Il Rosa” è il giornale di Macugnaga e della Valle Anzasca, mezzo di comunicazione che ha permesso di costruire (e in cui si riconosce) l’identità territoriale di una valle alpina. Temi del giornale non sono tanto la cronaca (la cadenza quadrimestrale non lo permetterebbe!) quanto l’approfondimento culturale, la riscoperta delle tradizioni, le storie di vita che costituiscono il tessuto connettivo di una società sparsa e “rarefatta” come quella di montagna. Le peculiarità de “Il Rosa”, stampato su carta rosa come il Monte Rosa all’alba (anche come la “Gazzetta dello Sport”), sono due: è un “giornale”, organo di informazione e luogo di confronto e dibattito, non bollettino turistico; è il mezzo che permette sia agli anzaschini emigrati, che ai frequentatori della valle che vivono lontano di mantenere un legame forte con Macugnaga e la Valle Anzasca. Alcune caratteristiche fanno de “Il Rosa” un caso unico sulle Alpi. Il giornale non viene venduto, ma inviato ad “abbonati” che hanno versato liberamente una quota di contributo oppure solamente hanno segnalato l’indirizzo. Forse il primo caso di free press sulle Alpi. E’ un giornale indipendente, frutto di un’iniziativa non imprenditoriale e non istituzionale. Redazione e collaboratori forniscono il proprio impegno a titolo gratuito e volontario, mossi da un’adesione profonda e non effimera ai valori della cultura alpina. “Il Rosa” nasce nel dicembre 1962, in

concomitanza con l’inaugurazione della funivia Alpe Bill - Passo del Moro. Nasce come mensile, edito dall’allora Azienda Autonoma di Soggiorno di Macugnaga, presieduta da Carlo Ravasio e inizialmente sostenuto dall’Associazione “Amici di Macugnaga”, presieduta da Renato Dolfin. Dopo la scomparsa di Ravasio e Dolfin, subentra un nuovo gruppo dirigente. Nasce la “Cooperativa Editoriale IL ROSA”. Presidente viene eletto Renato Meregalli, responsabile amministrativo Roberto Cinquini di Gravellona Toce, direttore responsabile Piero Sandonnini, luminosa figura di sportivo e amante della montagna. Dal 1997 la direzione de Il Rosa é assunta da Paolo Crosa Lenz (in redazione Walter Bettoni, “storico” redattore capo, Davide Rabbogliatti, Marco Sonzogni, Maria Cristina Tomola e Alessandro Zanni). Si avvale inoltre della preziosa collaborazione di Teresio Valsesia, Renato Cresta e Rosangela Pirazzi Cresta. Nel 2010 la testata, a causa dei sempre più ingordi costi postali e della crisi economica, passa dalla cadenza trimestrale a quella quadrimestrale aumentando il numero delle pagine. Dopo la presidenza di Enzo Bacchetta, l’impegno grande di tre uomini d’Anzasca (Fulvio Longa, Fausto e Dario Caffoni) permette di traghettare la testata nel Terzo Millennio. Il prossimo anno la testata festeggerà il 50° di fondazione. Mezzo secolo di vita e di strenua e accorata difesa dei valori e delle genti di montagna meritano degne celebrazioni. 33 - ossola.it


OLTRE L’ORIZZONTE di Claudio Zella Geddo e Samuel Piana

LA VALLE STRONA

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N

el percorrere il curvo corso della Toce lungo l’Ossola Inferiore, da Ornavasso al capoluogo, non può sfuggire allo sguardo la prossimità di cime, monti e passi che come una quinta teatrale serrano sulla destra idrografica il panorama: è la Valle Strona, al di là del Massone e dell’incombente e affascinante Mazza dell’Inferno. La Valle Strona, secondo l’Amoretti dal celtico strema, è una sorta di lama boscosa da Omegna a Campello Monti, contornata da Valsesia e valle Anzasca. Un ambiente sorprendente ed intatto, ricco di tesori minerali e ipogei, leggende walser antichissime, intraprendenza e modernità. Valle che trovò pagine ne The Italian valley of the Pennine Alps (1858) dell’inglese viaggiatore e scrittore Samuel Williams King, ove si riportano pittoresche impressioni sulla selvaggità e la forza sovraumana degli abitanti della montagna. Basta attraversarla per ammirare, ancor’oggi, donne che orgogliosamente indossano il costume tradizionale o percepire il timbro secco dei gratagamul, gli artigiani del legno tra utensili, torni e il celebre pinocchio osservabile anche a grandezza naturale. In termini squisitamente geografici alla testata della valle si trovano i circhi glaciali, i fornali e nella parte più a valle versanti ripidi boscosi, profondamente incisi dalla forza primigenia del torrente Strona, ricco di trote, che nasce, appunto, tra le praterie d’alta quota del Lago Capezzone. 35 - ossola.it


Molti i paesi, gli alpeggi che si profilano arroccati sui fianchi vallivi ed alla fine dei vasti valloni che li sovrastano; un antropizzazione che ha sfruttato al massimo grado, rubando spazio al cielo per le costruzioni poste su vertiginosi versanti (Sambughetto), le magre risorse del territorio dalla pastorizia alle miniere. Anche la geologia in Valle Strona riserva sorprese ed occasioni di studio infatti la valle risulta essere divisa in due sezioni; a Campello Monti la Linea Insubrica ovvero la faglia lungo la quale è accaduto lo scontro tra le placche continentale ed africana, a sud invece la linea subalpina. Questo è uno dei motivi per cui si possono osservare vene di marmo (Luzzogno, Sambughetto) e soprattutto giacimenti metalliferi tra cui rame (Luzzogno), ferro (Chesio, Campello Monti, Forno) nichel (Campello Monti) ed oro (Massiola e Forno), pirite aurifera (Campello Monti). A proposito della cultura metallifera sottolineiamo come Forno e Fornero, traggano nome dai forni che nei secoli trascorsi venivano utilizzati per fondere il ferro e separare la calce. Di rilievo anche la rara presenza delle stronaliti, rocce metamorfiche, compatte più dure dello gneiss, scoperte lungo il corso dello Strona ai primi del ‘900 dai due studiosi Artini e Melzi. Non mancano poi elementi che legano, coniugano il territorio a forme di religiosità protostorica come nel caso delle incisioni rupestri, le coppelle, di cui la Valle è florida lungo tutto il proprio asse da Chesio (alpe Loccia) a Luzzogno (alpe Vartasca), Forno (alpe Piumera) a Campello Monti (Capezzone, Fornale), una sorta di ricamo di pietra che è mappa di un pensiero, di una sensibilità, che marca un’appartenenza culturale, un’affinità con una weltanschauung alpina. Anche da punto di vista paleontologico ossola.it - 36


la valle presenta elementi di interesse come nella Caverna delle Streghe di Sambughetto (Böcc dij Faaij), un complesso ipogeo, da frequentare solo se accompagnati da guide speleologiche, che ha conservato fossili tra cui il Felix Pardus (una sorta di felino) e l’Ursus Spelaeus, riprova delle eccellenze ambientali del territorio anche nelle ere più remote. Attraversandola il primo paese che si incontra o meglio, che si raggiunge, è Germagno da cui parte la strada per la panoramica Alpe Quaggione e soprattutto verso la comunità monastica benedettina dei SS. Pietro e Paolo, vero luogo di meditazione mistica che abbraccia con lo sguardo Val Strona, Mottarone, Omegna e a sud il piccolo scrigno del lago d’Orta. Segue Chesio, patria dei soldati/briganti Cane, famosi per le scorrerie in Valle Anzasca, sito che affascina per i balconi e la meditata geometria del borgo, è frazione di Loreglia, borgo dell’ottocentesca Guardia Nazionale. Ecco poi Massiola

con il lazzareto del XVII° secolo e l’industriosa frazione Marmo, dove lungo il fiume Strona e accanto alla vecchia cava di marmo sorgeva, a partire dal 1859, una tornitura di pregio, in cui si fabbricavano, dapprima in faggio e poi anche in tek e mogano, spole e rocchetti per la tessitura e la lavorazione della seta. La ruota ad acqua - si può ancora notare - è interna con l’albero nel locale mentre all’esterno un turbina provvedeva ad erogare circa 25 cavalli vapore effettivi. Alla fine degli anni ’30 - ci racconta Valentino Martinoli, assieme al fratello Mario, ultimi depositari di questa tradizione artigianale - vi lavoravano undici persone alternate la cui unità operativa era formata da: una finestra, una banchela (banco da lavoro) e un tornio secondo una logica imprenditoriale efficace. Sorprende scorrere i libri paga e i documenti di lavoro, tutt ’ora conservati, che risalgono fin’anche al 1912.

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Oggi la torneria, grazie alla Comunità Montana Due Laghi, Cusio-Mottarone e Val Strona assieme all’Ecomuseo del Lago d’Orta e Mottarone, è diventata il “Museo etnografico e dell’artigianato valstronese” e raccoglie la tradizione artigianale più antica con una sala etnografica dedicata alla baita tipica montanara e un locale destinato alla speleologia. La struttura è visitabile nei mesi estivi con visite guidate gratuite oppure su prenotazione da effettuare telefonando all’Ecomuseo. E pensare che tutto iniziò in Val Foglia, sopra Fornero, tra mulini a due piani con ruota esterna e condotta di captazione lungo il rio Freddo e altri piccoli affluenti dello Strona. Comune baricentro della valle è Valstrona, nato nel 1928 dall’aggregazione di Strona, Luzzogno paese solatìo e teatro della processione della Madonna della Colletta (ogni tre anni) vero e proprio documento etnografico della civiltà alpina, Fornero, Piana di Fornero, Sambughetto, Forno, Piana di Forno, fino al piccolo regno walser di Campello Monti. Forno borgo di circa 300 abitanti, privilegiato dal sole tutto l’anno, risulta meta frequentata da trekker soprattutto germanici che percorrono la GTA sia per l’amenità del paesaggio che per l’autenticità della natura circostante. Tradizionali prelibatezze si possono assaporare al ristorante albergo Leone, dal 1827 antica osteria del paese, un piccolo mondo antico, che già piacque a Piero Chiara ed Ettore Mo, ancor oggi in grado di attrarre i turisti che frequentano il Lago Maggiore ed Orta. Forno ospita anche un caratteristico museo dell’artigianato tipico che in una sorta di laboratorio/officina governato da Guerrino Piana, detto il Barba Guèra, illustra la storia della Valle con una racossola.it - 38


colta di fotografie, miniature e cimeli di prima e seconda guerra mondiale e altresì presenta torni, attrezzi e utensili della lavorazione del legno. Strumenti utilizzati nei secoli per ottenere manici in nocciolo per lime cacciaviti ecc. strumenti che si giovavano della forza dell’acqua, dei mulini per ottenere energia. Forno offre anche la possibilità di visitare una prea sora. Una sorta di frigorifero naturale per carni, salumi in cui l’aria costante mantiene sempre la temperatura sui 4 gradi centigradi, senza alcun uso di ghiaccio come in altra aree alpine. Proseguendo verso la testata della valle, in località Cerani, si noti sulla sinistra la struttura per la pesca sportiva con area pic-nic zona di passaggio anche della Strà vègia, antica via di collegamento tra i vari paesi della valle. Da ultimo nel nostro viaggio fino alle più antiche radici, i più genuini lasciti del

tempo giungiamo a Campello Monti, alpeggio germanico della gente di Rimella in Valsesia, da cui passa la Grande Traversata delle Alpi (GTA) e il Gratagamul Trekking, il cammino dei tornitori del legno. Nella bella stagione il borgo si rianima e accoglie turisti e vecchi proprietari di case catturandoli con l’esatta proporzione dei suoi tetti in piode, i bei portali in marmo del secolo XVIII° e il ricordo del suo ultimo abitante Augusto Riolo, mentre durante l’inverno è approdo di escursioni sci alpinistiche e con le racchette da neve lungo i boschi da Grande Nord che impreziosiscono, come una coorte di divinità, la valle. Un mondo a sé quello della Valle Strona, crocevia di genti e percorsi, da Rimella, dai Molini di Calasca, da Sabbia, da Rumianca, da Ornavasso fin su ai pascoli alti lungo le linee sempre tese dell’umano trascorrere.

LA FIERA PER LE TUE VACANZE DA SOGNO

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di Adriano Migliorati

Traversata DEVERO-FORMAZZA ossola.it - 40


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di Ldellaap azona rtenza nostra escursione è l’alpe Devero, più precisamente il paesino di Goglio (frazione di Baceno) mentre il punto di arrivo sarà Riale di Formazza. Ques t a tr a versata è una valida alternativa alla classica che, partendo da Devero prosegue per Crampiolo, Lago di Pianboglio, Alpe Forno, Scatta Minoia, Vannino e scende a Canza oppure a Valdo. Ho voluto crearne una con maggior sviluppo planimetrico, e dislivello, con la quale si possono ammirare, a parere mio gli angoli più affascinanti e meno antropizzati di questo paradiso ossolano, senza nulla togliere alla classica, ugualmente suggesti va, che oltretutto comprende il lago di Devero, un autentico gioiello della natura. Escursione consigliata esclusivamente a persone molto allenate, in caso contrario si consiglia di dividere la gita in due giorni, partendo da Devero: 1 giorno Devero / Vannino (rif. Margaroli); 2 giorno Vannino (rif. Margaroli) / Riale. Descrizione: Parcheggiare a Goglio nello spiazzo antistante il ponte che attraversa il torrente Devero, sulla sinistra si stacca la bella mulattiera che conduce a Devero. Giunti all’alpe si oltrepassa il ponticello e deviando a destra si entra nel bosco ossola.it - 42

in direzione Crampiolo. A Corte d’Ardui si volge a destra e si sale all’alpe Sangiatto, dietro una fontanella si segue la traccia che permette di salire alla bocchetta di Scarpia, da cui si scende all’alpe Pojala. In direzione nord/est si attraversa il prato acquitrinoso su labile traccia puntando all’evidente risalto che sale al lago di Pojala, dove il sentiero ritorna evidente. Lasciato il lago, si sale alla sella ben visibile, dove seguendo i paletti infissi nel terreno si percorre un breve tratto, dopo di che attraversata una vallettina, fare attenzione all’indicazione che invita a salire alla bocchetta della Valle (2574 m.). Dalla stessa si scende al lago Busin superiore e costeggiando la sponda sinistra si prosegue verso il lago Busin inferiore, inizialmente si seguono le tracce di vernice rossa sui sassi poi a metà discesa circa, si abbandonano per seguire gli ometti che contrassegnano il sentierino che volge a sinistra, con il quale si guadagna il passo Busin con una risalita di soli 20 m., altrimenti si può scendere alla casa dei guardiani e risalire al passo dalla sponda opposta ma con maggiore risalita. Lasciata la bocchetta si scende alla baita dell’alpe Cortenova (lago Vannino), rimanendo sulla sponda destra fino al rifugio Margaroli. Si sconsiglia la percorrenza del sentiero alto sopra il lago per alcuni tratti esposti, considerando i chilometri accumulati nelle gambe. Dietro il rifugio riparte il



sentiero che sale al lago Sruer, percorrerlo per pochi minuti, poi all’indicazione sbiadita su di un sasso (Passo del Nefelgiù) deviare a destra e risalire l’evidente canalone fino al suo culmine (2583 m.), possibilità di trovare lingue di neve fino a stagione inoltrata. Scendere dalla parte opposta, seguendo i segnavia fino alla seminascosta alpe Nefelgiù da cui, attraverso la strada sterrata, si arriva a Riale.

Esistono principalmente tre tipologie di difficoltà, sono stilate da Comitato Alpino Italiano e sono le seguenti:

Lunghezza itinerario: 30 Km Dislivello: 2150 m. Difficoltà: E/EE

Turistico (T) Itinerari su stradine, mulattiere o larghi sentieri, con percorsi non lunghi, ben evidenti e che non pongono incertezze o problemi di orientamento. Si svolgono di solito sotto i 2000 metri, hanno un dislivello massimo di 400/500 m., con durata massima di 2/3 ore di cammino. Sono escursioni che non richiedono particolare esperienza o preparazione fisica

Q u a n d o vo g l i a m o i nt ra p re n d e re un’escursione in montagna è opportuno valutare la difficoltà della gita, questo è un parametro importante che ci può fare capire il contenuto tecnico, rapportandolo poi alle nostre capacità potremmo capire se l’escursione è adatta a noi oppure no.

Escursionistico (E) Itinerari che si volgono quasi sempre su sentieri, oppure su tracce di passaggio in terreno vario (pascoli, detriti, pietraie), di solito con segnalazioni. Richiedono un certo senso di orientamento, come pure una certa esperienza e conoscenza del territorio montagnoso, allenamento alla camminata, oltre a calzature ed equipag-

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giamento adeguati Normalmente il dislivello è compreso tra i 500 e i 1000 m. e costituiscono la grande maggioranza dei percorsi escursionistici sulle montagne italiane. Escursionisti Esperti (EE) Itinerari non sempre segnalati e che richiedono una buona capacità di muoversi sui vari terreni di montagna. Possono essere sentieri o anche labili tracce che si snodano su terreno impervio o scosceso, con pendii ripidi e scivolosi, ghiaioni e brevi nevai superabili senza l’uso di attrezzatura alpinistica. Necessitano di una buona esperienza di montagna, passo sicuro, fermezza di piede, assenza di vertigini e una buona preparazione fisica. Occorre inoltre avere un equipaggiamento ed attrezzatura adeguati, oltre ad un buon senso d’orientamento. Normalmente il dislivello è superiore ai 1000 m.

Esiste poi una classificazione riguardante il percorso preso in considerazione, solitamente il tracciato è uguale sia per l’andata che per il ritorno, mentre quando è possibile si pianifica un circuito ad anello, che consiste nell’utilizzare un sentiero di salita diverso da quello di discesa, rendendo più interessante la gita. La terza soluzione riguarda la traversata, ovvero punto di partenza diverso da quello d’arrivo, purtroppo questa scelta risulta piuttosto scomoda a livello logistico, in quanto comporta la predisposizione di un’auto o quando è possibile di un mezzo pubblico all’arrivo per poi recuperare il mezzo di trasporto iniziale. In questa uscita editoriale autunnale prenderemo in considerazione una traversata, con valutazione tecnica E/EE.

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Riflessioni gastronomiche sul formaggio:

perchè le produzioni a latte crudo possono essere apprezz a cura di “Pizzico Da Chef”

u questo numero di ossola.it acS cenneremo soltanto agli aspetti gastrofilosofici che riguardano questo alimento importantissimo, sotto il profilo storico, culturale ed alimentare per tutto il genere umano. Il formaggio rappresenta il derivato del latte più importante dal punto di vista economico. Le fasi della lavorazione così come gli ingredienti sono comuni a quasi tutti i formaggi conosciuti: riscaldamento del latte, coagulazione del latte (cagliatura), rottura della cagliata, sgocciolamento, pressatura e messa in forma, salatura, maturazione. Risulta assolutamente affascinante quanto misterioso il fatto che da soli tre semplici ingredienti: latte sale e caglio, (come riportato sulle etichette di vendita delle decine di migliaia di formaggi prodotti e venduti in tutto il mondo), si riescano ad ottenere infinite varianti di forma, profumo, gusto e consistenza... Come è possibile tutto questo? La qualità del latte, il microclima del luogo di produzione e la sapiente tecnica ossola.it - 46


ate anche in senso verticale?

di lavorazione, determinano le variabili principali. Gli ingredienti sono sempre e solo gli stessi: • Il latte è l’elemento principale più importante; • Il sale è l’ingrediente che consente al formaggio di conservarsi anche molto a lungo oltre che donare il giusto grado di sapidità al prodotto; • Il caglio o presame, è l’ingrediente che genera il processo di coagulazione della caseina (proteina del latte) e l’espulsione dell’acqua dalle molecole di grasso contenute nel latte. Da circa un secolo il caglio si ricava industrialmente dal quarto stomaco del vitello da latte, ma esistono e si possono utilizzare altre tipologie di caglio di origine animale e vegetale. Riflettiamo allora: • Il formaggio nasce migliaia di anni fa dalla evidente necessità di conservare a lungo un alimento importantissimo per l’organismo umano quale il latte, prodotto primario dell’allevamento di bestiame;

• Il sale è l’elemento conservante naturale più utilizzato nella storia degli alimenti umani; • Il caglio è un ingrediente determinante nella produzione del formaggio, seppur non direttamente destinato all’alimentazione umana, agisce quasi fosse un trucco di magia; • Ogni luogo ove sia possibile l’allevamento di animali da latte, presenta una propria tipologia di formaggio tradizionale; • Il lavoro del casaro è una forma di espressione artistica. Personalmente, piuttosto che descrivere le varie tecniche di produzione, che consentono a tre semplici ingredienti di dare origine a migliaia di tipologie casearie, vorrei soffermarmi su un aspetto gastronomico di base, che nell’era moderna, appare quasi dimenticata o insignificante al consumatore qualunque:

la diversità tra formaggi a latte crudo e formaggi a latte pastorizzato. Per cominciare possiamo affermare che i formaggi a latte crudo presentano caratteristiche tridimensionali della loro qualità soggette all’influenza di innumerevoli variabili (sono entusiasmanti, non è possibile riprodurli in serie, con quantitativi di tipo industriale) mentre quelli a latte pastorizzato, seppure molto buoni al gusto, risultano standardizzati. E’ più facile replicare all’infinito e con precisione il gusto di ogni singolo formaggio, limitando drasticamente la possibilità di valutarli in senso verticale. Latte crudo significa che il latte non ha subito alcun trattamento termico finalizzato alla riduzione della carica batterica in esso naturalmente presente, fatto salvo ovviamente il riscaldamento necessario alla cagliata. Sono proprio i batteri che influenzano le caratteristiche dei formaggi. Come tutti sappiamo i batteri sono in 47 - ossola.it


grado di danneggiare il profumo, il gusto e la consistenza degli alimenti, oltre a rappresentare un pericolo per la salute dell’organismo umano. Alcune tipologie di batteri, però, soprattutto se non raggiungono concentrazioni elevate, sono in grado di donare al formaggio caratteristiche gastronomiche, non solo innocue per l’essere umano, ma addirittura sorprendentemente eccellenti e caratterizzanti, rendendo unico il

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formaggio prodotto, quasi fosse un’opera d’arte. Essendo il latte alimento prodotto dagli animali, esso presenterà caratteristiche diverse, a seconda dell’alimentazione dell’animale stesso. Ogni periodo dell’anno, ogni luogo di produzione, ogni erbaggio ingerito, donerà al latte appena munto caratteristiche di gusto diverse, che saranno inevitabilmente trasferite al formaggio ottenuto dalla lavorazione del

latte stesso. La pastorizzazione del latte, invece, da un lato assicura l’azzeramento delle cariche batteriche dannose all’organismo umano, ma dall’altro, tende a standardizzare il gusto ed il profumo del latte stesso, e di conseguenza del formaggio ottenuto. Se il latte crudo utilizzato per la caseificazione presenta cariche batteriche non idonee, le forme di formaggio, tenderanno da subito, ad evidenziare difetti, nel profumo nel gusto e nella consistenza. Con la stagionatura conseguente al processo di salatura delle forme, la carica batterica tende ad esaurirsi in modo naturale, pertanto l’assenza di difetti sulle forme di formaggio a latte crudo stagionato, rappresenta una sorta di garanzia circa la salubrità e la bontà del latte crudo utilizzato. In ogni caso la pastorizzazione del latte è un obbligo imposto dalla legge alle aziende di produzione casearia, le quali non possono correre il rischio di perdere anche in parte la produzione ottenuta, oltre che dover garantire l’assoluta assenza di batteri dannosi. La produzione di formaggio con latte crudo è oramai prerogativa quasi esclusiva dei piccoli produttori, il cui casaro segue in maniera pressochè diretta tutte le fasi della produzione, dall’alimentazione dell’animale alla sua mungitura, dalla tecnica di cagliata alla sua lavorazione, dalla stagionatura delle forme fino al consumo o alla rivendita. Egli è costantemente in grado di verificare che il latte utilizzato per la caseificazione sia di altissima qualità gastronomica, e che non subisca aumento della contaminazione batterica. Come è facile comprendere, dunque, affrontare la produzione di formaggio, senza la pastorizzazione del latte, significa porre particolare attenzione prima di tutto alla salute degli animali che lo 49 - ossola.it


producono, alla loro alimentazione e alle procedure igienico sanitarie in fase di lavorazione. Di sicuro rende il lavoro del produttore che intende ottenere un prodotto ad alto contenuto gastronomico, molto più complesso. Sotto il profilo gastrofilosofico i formaggi a latte crudo sono in grado di esaltare le sfumature di gusto dovute alle numerose variabili sopra descritte. L’allevatore-casaro, rappresenta, in questo contesto, un vero e proprio creatore di bontà... un artista in grado di donare al latte forme e consistenze naturali dalle infinite sfumature. Gli “strumenti” a sua disposizione spaziano dalla tipologia di bestiame utilizzato, al luogo di allevamento, dalla tecnica di cagliata, al luogo di stagionatura... Le differenze tra formaggi a latte crudo e formaggi a latte pastorizzato, tendono ad evidenziarsi in maniera netta quando si parla di formaggi d’alpeggio.

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Questi sono formaggi prodotti esclusivamente nei mesi estivi, quando gli animali (soprattutto le vacche, ma anche ovini e caprini) vengono portate in alta montagna. Essi si cibano di particolari erbaggi, ricchi di profumi e sapori alpestri, che è possibile ritrovare nel formaggio prodotto nella loro pienezza solo se il latte utilizzato non viene trattato termicamente. La pastorizzazione tende a ridurre sensibilmente la fragranza di sapori del latte appena munto. L’artista-allevatore-casaro diventa un vero e proprio eroe. Conduce il bestiame in alta montagna, provvede alla sua alimentazione e mungitura, trasforma il latte in opera d’arte, trasporta il formaggio ottenuto a valle e lo cura durante la delicata fase di maturazione. Egli vive 24 ore su 24 in simbiosi con le affascinanti fasi della natura ed i suoi ritmi, permettendo la produzione di formaggi gastrofilosoficamente unici al mondo. Questo aspetto ci fa facilmente com-


prendere perchè il nome degli alpeggi di produzione, accompagna spesso o sostituisce il nome del formaggio (per esempio Toma del Monscera, Toma Maccagno, Bettelmatt ): 1. L’alimentazione del bestiame, arricchisce di contenuto gastronomico il formaggio prodotto; 2. Poiché l’erbaggio di cui si alimentano gli animali varia da alpeggio ad alpeggio, è evidente che alpeggi diversi, consentano produzioni di formaggi diversi; 3. Dal nome dell’alpeggio di produzione saremo in grado di scegliere il gusto più adatto al nostro palato. Suggerirei, a questo proposito, ai commercianti di formaggi Ossolani, di accompagnare al nome dell’alpeggio anche il nome del casaro che ha “creato l’opera d’arte” e la data di casieificazione. In particolare il nome del casaro è garanzia per il consumatore circa la qualità della produzione, mentre la data di cagliatura rende facile determinare la stagione di

produzione e la durata della stagionatura. Durante il periodo primaverile ed estivo infatti gli animali vengono alimentati con foraggi freschi, e nella loro alimentazione finiscono anche erbe fresche con fioriture particolari, che inevitabilmente influenzano il gusto ed il profumo delle produzioni casearie a latte crudo. Al consumatore non resta che imparare a degustare ed apprezzare le varie tipologie di formaggi, analizzandone la qualità gastronomica anche in senso verticale, cogliendone le infinite sfumature sensoriali al palato, ovvero lo stesso tipo di formaggio, anche dello stesso produttore, ottenuto dalla lavorazione del latte prodotto dallo stesso animale, varia di gusto a seconda della stagione, del tipo di alimentazione dell’animale, del luogo e della durata della stagionatura. Imparerete col tempo a godere pienamente delle incredibili variabili di gusto di questo meraviglioso alimento.

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Il castagno:

l’albero del pane della foresta sacra

A

Maglioggio, frazione di Crodo, l’essere vivente più vecchio del circondario conta circa 350 anni, è alto press’a poco 15 m. (come una casa di 4 - 5 piani), fa 8 m. a petto d’uomo (cioè a circa 1,20 metri da terra occorrono almeno 5 ragazzi per abbracciarlo) di circonferenza toracica e alla base (cioè dove esce da terra) si allarga fino ai 9,5 metri. E’ ancora straordinariamente diritto, ben ancorato al suolo. A 9 m. di altezza si sdoppia in due rami principali. Sta a pochi metri da una chiesetta, ad una altitudine di circa 600 m.: è uno dei castagni più vecchi del Piemonte. Malgrado alcuni problemi tipici dell’età il vecchio albero essenzialmente gode di buone condizioni di salute. E’ stato necessario effettuare delle operazioni di dendrochirurgia, con l’asportazione del legno degradato nella zona basale del tronco e la successiva applicazione di mastice protettivo. Alla base del fusto sono presenti due porzioni circoscritte che hanno subito ossola.it - 52


di Michela Zucca

un incendio. Queste parti indebolite a causa del fuoco sono state colpite da carie. Per ringiovanire la pianta, stimolandone l’attività vegetativa, è stata eseguita una moderata potatura della chioma accompagnata dall’eliminazione dei rami secchi. Per il resto, continua a proiettare la sua ombra maestosa e a mormorare fra le foglie... Il castagno esiste da sempre sulle Alpi. Una volta, lo chiamavano “albero del pane” perché costituiva per i montanari una delle fonti primarie di sopravvivenza. Tracce inequivocabili della sua presenza, come specie locale, risalgono al periodo tra le glaciazioni: sono state trovate impronte di foglie, reperti di polline e di legno, allo stato fossile, utilizzato per la costruzione di palafitte. Le analisi archeologiche del suolo hanno dimostrato che, sulle Alpi, alle primitive faggete e ad altre latifoglie furono spesso sostituite essenze più utili, come il castagno. I più recenti ritrovamenti di pollini fossili di castanea sativa sono da-

tabili a prima della conquista romana e sono stati rinvenuti, oltre che in Valtellina, nell’Auvergne, nelle Alpi meridionali francesi, nello Stubai, in Austria, nel sud ovest della Svizzera, in Engadina, nei Grigioni, in Tirolo1. Forse, questa coltura fu introdotta poco prima della conquista romana, importata attraverso influssi della civiltà mediterranea penetrati nel bacino padano; o forse, l’introduzione di questa specie è ancora più antica2. In ogni caso, la possibilità che i nostri antenati, così tanto tempo fa, siano riusciti a gestire ampi disboscamenti (col fuoco?), ripiantando poi varietà non indigene, che crescevano a centinaia di chilometri di distanza, testimonia non solo la presenza di comunicazioni culturali con altri popoli, diversi per lingua e lontani dal loro territorio; ma anche un’indubbia civiltà e maestria nel signoreggiare le tecniche di selvicoltura, e una capacità pianificazione economica quanto meno trentennale, che doveva derivare da un’organizzazione sociale avanzata e complessa. Non ci troviamo certo di fronte a dei selvaggi! E, come la selva amazzonica, nel corso di questi ultimi millenni, ha subito l’influenza del lavoro degli indigeni, che hanno selezionato le varietà arboree e vegetali più adatte per le loro esigenze3, anche i boschi sono stati coltivati e curati da un tempo tanto remoto che va oltre l’immaginazione. Malgrado i tentativi romani e greci di 1. Sieg frid De Rachewiltz, La cultura del castagno, Arunda, Bolzano, p.10 2. Giacomo Doglio, Gerardo Unia, Abitare le Alpi, L’Arciere, Cuneo, 1980, p. 27. 3. Francois Correa, La selva humanizada, Editorial Presencia, Bogotà, 1993

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farli apparire barbari e incivili, esistono segni indubbi di una società già progredita. Gli abitanti delle alpi conoscevano la scrittura, tanto che uno degli alfabeti celtici catalogati è testimoniato dai ritrovamenti conservati al Museo archeologico di Locarno. Inoltre il vino era utilizzato dai Leponzi che popolavano la val d’Ossola; si diffuse a partire dal V secolo a.C.. Plinio parla del vino retico, e afferma che viene conservato non in anfore ma in botti di legno: la coltivazione della vite e la produzione del vino hanno origini antichissime. Sono già i liguri (che precedono anche i leponzi...) ad impiegare strumenti di legno (tini, botti) nella lavorazione del vino4. Non basta: sempre Plinio, che è di Como e quindi conosce bene il territorio alpino, riferisce che sono proprio i liguri ad aver inventato l’allevamento delle vacche su diversi livelli di quota, con taglio del fieno e conseguente spostamento delle mandrie ritmato dalle stagioni, per ottenere più latte e per poter produrre quegli alimenti raffinati che, ancora oggi, caratterizzano il nostro territorio: burro e formaggio. In pratica, l’alpeggio, e probabilmente anche l’estensione dei prati pascoli di montagna a valle del livello arboreo, oltre alla viticoltura, caratterizzano il paesaggio alpino già da diversi secoli prima dell’arrivo dei romani5. Ancora Plinio racconta di un grano estivo, adatto alle alte quote, e della pietra ollare, cavata in Val Chiavenna e in Val Malenco6; ma è Strabone7 che descrive le forme di formaggio dei liguri, definendole “di grandi dimensioni” (sono proprio le nostre...), e ribadisce il fatto che le popolazioni retiche scambiano miele, cera e formaggio: ovvero, praticano il commercio. ossola.it - 54


Già dalla preistoria si vede tracciato, a grandi linee se non nei particolari, quel modello di economia mista, su basi fondamentalmente agricole e pastorali, che ha sostenuto, fino a non molto tempo fa, il sistema di approvvigionamento dei gruppi umani delle Alpi8. La religione degli alberi. Ma per poter capire la vita di quegli antichi uomini, dobbiamo pensare a villaggi sparsi, infinitesimi universi isola dispersi nella foresta primigenia che ha ricoperto l’Europa per migliaia di anni. Insediamenti che d’inverno rimanevano completamente isolati dalla neve, in balia degli elementi, nel ventre di una natura estrema, causa di vita e di morte. In un ambiente come questo, gli uomini dovevano vivere in simbiosi totale con un territorio ostile, che stava “fuori dalla porta di casa”: dovevano imparare a decifrare anche il minimo segno di cambiamento di colore, di aria, di vento, per non perdere la strada, per capire quando e come uscire, per mettersi al riparo dalle valanghe e dalle frane... E’ difficile immaginarci, ora, come poteva essere il bosco immenso che avvolgeva quasi completamente le terre emerse dell’Europa delle origini. Gli scavi degli antichi villaggi su palafitte nella valle del Po hanno rivelato che, molto prima dell’ascesa e forse anche della fondazione di Roma, l’Italia settentrionale era ricoperta di un fitto mantello di olmi, noci, e specialmente querce. Fino al I° secolo dopo Cristo, la selva Ercinia partiva dal Reno estendendosi verso est, per una distanza enorme e sconosciuta; i germani, ai quali Cesare si rivolse per avere notizie più precise, avevano viaggiato per due mesi sotto quegli alberi, senza intravvederne la

fine. Un’entità senza confini precisi e conosciuti, animata, viva, pulsante, popolata di esseri e di spiriti, in cui mondo di qua e mondo di là si intrecciano, si scontrano, si sovrappongono si confondono e si dividono ogni giorno in posti diversi; spazi strani dove si entra senza accorgersene, in cui qualsiasi organismo vivente è dotato di una sua voce, di un suo carattere, di un suo potere, di una sua volontà, che vanno riconosciuti, rispettati, propiziati e, se possibile, usati per i propri scopi. Le poche radure dovevano apparire come isolotti in un oceano di foglie. Gli uomini erano solo uno degli elementi di cui era composta la selva; e dovevano cercare di vivere in armonia col “resto”: per prima cosa, imparare a non inimicarsi qualche potente signore invisibile; riconoscere i pericoli; comunicare con ogni elemento potesse insegnare qualcosa di utile: la foresta come Madre, Maestra di vita, insuperabile scuola di iniziazione ai misteri. In effetti, molti dei concetti che riteniamo “moderni”, frutto dell’ideologia ambientalista che si è sviluppata negli ultimi decenni, erano già ben noti a quegli arcaici abitanti della foresta. Dal punto di vista spirituale, la foresta primordiale era un’entità estremamente complessa e diversificata: nello stesso istante, essere senziente, pensante e divinità nella sua interezza; insieme infinito di innumerevoli entità; Grande Madre e Principio Fecondatore; dispensatrice di vita e di morte. Tempio degli dei e casa degli uomini: bene e male. Universo panteista ed animista nello stesso tempo, in cui le cose mantenevano un proprio posto e un proprio ruolo, con cui chiunque, oltre agli iniziati, sapeva comunicare, e viveva in rapporto 55 - ossola.it


di continuo scambio. Cosmo in instancabile evoluzione, per gli antichi quelle fantastiche selve oscure erano veri e propri santuari. Studiando i vocaboli teutoni che indicavano “tempio”, Grimm giunse alla conclusione che, fra gli antichi germani, i luoghi di culto più antichi erano proprio le foreste. Il bosco sterminato dell’Europa pre-storica era qualcosa di straordinario: era magico. Quelle colonne dirette verso il cielo, il sottobosco, con le sue ombre e le sue penombre, i sussurri, i rumori, gli odori; quell’infinita molteplicità di vita hanno sempre suggerito il concetto di arcano. Il culto degli alberi è documentato per tutte le grandi stirpi europee del ceppo ariano. I druidi officiavano sotto gli alberi, o nelle radure sacre, perché ritenevano oltraggioso racchiudere Dio fra quattro mura. L’uomo antico era ben consapevole del fatto che un albero, vissuto centinaia di anni assorbendo le vibrazioni della terra, del vento, della pioggia, del sole e degli animali, racchiudesse dentro di sé molta più saggezza di quanto la razza umana potesse immaginare: a lui, quindi, si rivolgeva sia nei momenti di gioia che in quelli di bisogno; sotto le piante non solo adorava le sue divinità, ma teneva consiglio e giudicava i colpevoli. La somma sapienza veniva da “certi” alberi. Come il nostro castagno. ossola.it - 56

4. Guido Montaldo, Una costante nella storia dell’economia valtellinese: il vigneto, in Sondrio e il suo territorio, Mondo popolare in Lombardia, Silvana, Milano, 1995, p. 177 5. Fabrizio Bartaletti, Geografia e cultura delle Alpi, Milano, Franco Angeli, 2004, p. 45 6. Nemo Canetta, La pietra ollare in Valmalenco, in Sondrio e il suo territorio cit. 7. Che scrive a cavallo dell’anno 0, ma, dato che sulle Alpi non venne mai, si avvale, per la sua descrizione, di testi e di fonti più antichi, che non ci sono rimasti. 8. Guglielmo Scaramellini, Tradizioni alimentari delle Alpi lombarde con particolare riguardo alle valli dell’Adda e della Mera, in Sondrio e il suo territorio cit., p. 213


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Dal racconto di Diovuole Proletti Appunti Marika Dattrino Testo Simona Lavazza

Il torchio di

Croveo ossola.it - 58


I

n uno scorcio del paesino di Croveo, quasi nascosto agli occhi dei passanti, a pochi passi dalla strada che conduce all'Alpe Devero, possiamo ammirare una delle opere più ingegnose di un tempo il Torchio “TORC”, uno dei pochi esemplari rimasti nella zona. Il Torchio di Croveo ha origini antiche, stabilire con precisione l'anno in cui venne costruito non è semplice anzi è forse impossibile. All'interno è inciso su di un trave di legno l'anno 1776 ma secondo gli abitanti del posto si tratta solo di una data di ristrutturazione una delle tante fatte nel tempo. Uno degli ultimi proprietari pareva es-

abitanti di Croveo e non solo perchè altri venivano anche da Baceno e dalle frazioni del comune, ognuno portando i propri prodotti da trasformare. Secondo alcuni abitanti del luogo il Torchio si utilizzò fino agli anni '60 poi lentamente, date anche le condizioni in cui si trovava e probabilmente al fatto che nessuno più lo utilizzava, venne abbandonato. Negli ani '80 i proprietari della struttura, dimostrando un grande attaccamento alla loro tradizione e alle loro origini lasciarono il Torchio ormai inutilizzato alla Comunità Montana che decise di ristrutturarlo. Il lavoro di ristrutturazione fu eseguito da artigia-

sere Giuseppe Lusetti morto nel 1882 al quale successero i parenti più prossimi per eredità (in qualche documento si parla addirittura di una decina di proprietari) ma fu sempre utilizzato da tutti gli

ni di Croveo. E anche se oggi non viene più utilizzato è un piacere vederlo, è un piacere fare per un istante un tuffo nel passato, immaginando attimi di vita, di 59 - ossola.it


lavoro di un tempo, attimi che si possono toccare con mano tastando tutto ciò che è all'interno del torchio. Termine con il quale si indica oltre che l'attrezzo vero e proprio tutta la struttura dove si trovano gli oggetti che servivano: la macina di sasso, i travi di legno di castagno, la vite fatta con legno d'acero e il torchio vero e proprio. Mentre si guarda tutto l'insieme non si può fare a meno di pensare quanto l'uomo da sempre sia stato capace di utilizzare per ogni esigenza i beni materiali di cui era circondato, il Torchio ne è una grande dimostrazione. Una cosa che stupisce per esempio, fra gli attrezzi preossola.it - 60

senti è l'uso del tipo di legno diverso per ogni singolo particolare, segreti che solo buoni falegnami conoscevano. Ma a che cosa serviva davvero il Torchio? Ogni famiglia in autunno raccoglieva "piir/pir"una varietà di pere oggi pressoche scomparsa e a turno portava il proprio raccolto con la "gerla" al Torchio, dove le pere venivano trasformate in una specie di vino dolce di bassa gradazione alcolica chiamato "vign at piir". Le pere venivano prima frantumate nella macina e poi passate sotto torchio per essere pressate, la bevanda ottenuta molto torbida veniva poi lasciata fermentare nelle cantine in recipienti aperti. Per i primi 4 o 5 giorni era necessario provvedere almeno due volte al giorno a togliere le sostanze che venivano a galla. Quando il prodotto ottenuto diventava limpido allora il vign at pir era pronto! Con le vinacce qualcuno faceva anche la grappa ma naturalmente allora la si nascondeva perchè illegale Si dice che l'allora parroco viperaio Don Ruscetta e altri benestanti utilizzassero nella macinazione assieme alle pere anche le mele, mentre la maggior parte degli abitanti invece le conservava nella paglia per poterle consumare l'inverno. Questo lavoro veniva fatto nei mesi di ottobre e novembre (quando il frutto maturava). La bevanda poteva essere già bevuta dopo qualche giorno ma molti, utilizzando già allora la tecnica di pastorizzazione, la conservavano per poterla consumare la primavera successiva quando, a tempo di fieno si andava a lavorare i prati. Di questa varietà di pere ne restano pochissimi esemplari in Valle dopo che la popolazione smise di utilizzare il torchio. Le piante di pir vennero poco alla volta tagliate per legna. Il tronco duro veniva poi utilizzato per fare il ”Pialet”, la pialla un atrezzo dei falegnami.


In quei mesi autunnali quando si lavorava al torchio sia per macinare le noci dalle quali si ricava un olio per uso domestico, sia per preparare la canapa alla filatura che si svolgeva nei mesi invernali, sia per produrre il vign at pir, il torchio e l'intero paese prendevano vita. I ragazzi che aiutavano i padri a far muovere macina e torchio potevano incontrare le ragazze che a loro volta aiutavano le madri a portare i frutti da trasformare erano momenti d'incontro che si aspettavano con fervore tutto l'anno. Naturalmente in cambio della manodopera ai ragazzi venivano regalati prodotti nostrani quali il formaggio, il latte, il burro, beni che i padroni avevano a disposizione in quel periodo. E ora immaginiamo per un attimo di ritornare indietro nel tempo: immaginiamo

questo luogo con questi attrezzi, i rumori e gli odori di quei momenti... il ritrovo autunnale, la voglia di stare con tutti, il profumo dei frutti appena raccolti, l'odore delle vinacce, l'odore del legno che lavora, i momenti che erano festa e allegria, i suoni delle fisarmoniche, le voci dei canti gioiosi e allegri... Questo era il torchio di Croveo incontro, lavoro, festa.

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La Fiocca

a cura dell’Agriturismo Alpe Crampiolo

Un'antica ricetta invernale tipica della valle Antigorio e Formazza. Il nome deriva appunto dal fatto che il bianco dolce veniva immerso nella neve la vigilia natalizia per poi consumarlo il giorno di Natale. Ingredienti 4 uova 100 gr zucchero 4 cucchiai di latte 1/2 lt. Di panna 1 Bustina di vanillina 2 fogli di colla di pesce 1. Mettere a bagno nell'acqua fredda la colla di pesce 2. Montare i 4 rossi d'uovo e mischiare a zucchero e vanillina 3. Aggiungere 4 cucchiai di latte e mischiare delicatamente 4. Scaldare il tutto a bagno maria. Togliere dal fuoco ed unire alla colla di pesce. 5. Continuare a mescolare facendo intiepidire il preparato 6. Montare la panna ed aggiungerla al resto del preparato continuando a mescolare. Montare i bianchi d'uovo ed unire al tutto. 7. Amalgamare il preparato e posizionarlo in una terrina. 8. Posizionare la terrina nella neve*. I mancanza mancanz di neve utilizz utiliz utilizzare uti *In il frigo. ossola.it - 62


Agriturismo

Alpe Crampiolo Frazione Crampiolo Alpe Devero Tel. 347.8179494 www.agriturismoalpecrampiolo.it - info@agriturismoalpecrampiolo.it

Meublè Hotel Ristorante

Via Marconi, 1 BACENO (VB) - Tel./Fax 0324.62023 info@vecchioscarpone.it - www.vecchioscarpone.it

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di Daniela Bonanno

Malesco:

Museo Archeologico del Parco

Nazionale Val Grande

Reperti archeologici, strumenti da lavoro, corredi, oggetti di importazione, inquisizione e molto altro al Museo Archeologico del Parco Val Grande.

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I

l Museo della Pietra Ollare e degli Scalpellini è ospitato nel Palazzo Pretorio, che un tempo fu sede del Tribunale Vigezzino dell’Inquisizione per diventare quindi la dimora di diverse famiglie tra cui i Fucio, Cioja e Pollini. Nel 1887 l’edificio fu acquistato dal Comune che ne fece la sede della latteria del paese.

Localmente la pietra ollare è detta Laugera, leuzerie in dialetto maleschese, e i recipienti con essa realizzati sono detti laveggi. Caratteristiche peculiari della pietra sono la tenacità, la scarsa durezza, una notevole resistenza al calore e una ridotta permeabilità. Innumerevoli i suoi uti-

Il museo, dedicato alla pietra ollare e alla sua lavorazione, traccia la più antica storia dello sfruttamento di questo minerale sul territorio. Ollare deriva dal termine olla, cioè pentola ed etimologicamente fa riferimento al suo utilizzo prevalente.

lizzi a partire da tempi antichi grazie alla sua presenza sul territorio e alla facilità di lavorazione. Il percorso del museo coniuga archeologia ed etnografia attraverso una particolare lettura dei rinvenimenti archeologici che evidenzia gli strumenti del lavoro 65 - ossola.it


quotidiano e i prodotti dell’abilità degli antichi scalpellini locali. Nel cuore del museo le testimonianze, che partono dalla preistoria e si fanno particolarmente ricche per l’epoca romana, (grazie ai corredi funerari rinvenuti in diverse necropoli vigezzine), danno la misura del progressivo dominio dell’uomo sulle risorse della valle. Il museo è anche parte integrante di un percorso che si sviluppa sul territorio comunale, valorizzando tutte le “declinazioni” del tema "pietra" negli edifici di pregio del centro storico di Malesco. I primi reperti risalgono all’età del Bronzo: l’ascia di bronzo, rinvenuta a Meis, piccola frazione di Re, è datata tra il 1800 ed il 1650 a.C.; di epoca successiva, dell’età del ferro, la forma di fusione di Toceno per la realizzazione degli spilloni a capocchia globulare e la fusaiola in pietra ollare per la filatura. Tra il I° e IV° secolo a.C. i corredi si caratterizzano oltre che per i manufatti in pietra, per il numero considerevole di oggetti di pregio tra cui monili, gemme, fibule e fibbie di cintura; questi ultimi unici manufatti d’ornamento, appartenenti all’età tardoromana ed alto medievale. Non mancano oggetti di importazione; tra questi spiccano le casseruole in argento di produzione campana e gli splendidi vetri; vivida testimonianza del ruolo che la Valle ebbe in antico nei circuiti commerciali, anche a vasto raggio, di cui doveva essere motore lo sfruttamento delle risorse locali. L’artigianato in pietra ollare dovette essere un bene di scambio per il vasellame in ceramica e ciò è testimoniato dalla presenza di coppe e piatti in terra sigillata, tipica ceramica romana a vernice rossa. Nei corredi di sepoltura, oltre ai già citati manufatti in vetro, in terra sigillata, in pietra ollare e ad oggetti d’ornamento, ossola.it - 66

vennero deposti strumenti da lavoro. Alcuni di essi mostrano l’importanza riservata all’attività estrattiva, data la presenza di picconi, utilizzati da antichi scalpellini. La facilità di intaglio della pietra ollare ne ha fatto il supporto privilegiato per segni e incisioni, anche a carattere sacro, dalla più remota preistoria fino al medioevo cristiano. È stata supporto per incisioni rupestri. Come si puo’ notare in Val Vigezzo e in Val Grande sono molti i massi in pietra ollare che recano segni geometrici che paiono legati al culto delle alture e della montagna praticato dagli Antichi. Ne sono un esempio le coppelle, mentre più rari sono gli alberiformi. A Trontano una grande pietra serpentina si distingue per la presenza di quest’ultimi, che hanno fornito lo spunto per il logo del Parco Nazionale Val Grande. La pietra ollare è stata usata come ma-


teria prima per scolpire un’eccezionale testa di divinità nella tarda età del Ferro: il mascherone di Dresio che si trova a Vogogna, ed ha continuato ad essere impiegata nella decorazione di numerose chiese e luoghi di culto, nell’arte e nell’architettura nei tempi più recenti. Teste umane, fiere mostruose e semplici elementi di decoro, compaiono in molte chiese romaniche come quella di Santa Maria Maggiore e di Trontano. Numerosi sono gli esempi di utilizzo della pietra ollare per strutture destinate ad un prolungato contatto col fuoco: come il camino con coppa in pietra ollare presente nel Palazzo Pretorio. Particolarmente interessanti le stufe (pigne) e le pareti di fondo dei focolari. In ambito urbanistico, come accennato all’inizio, la pietra ollare, data la sua scarsa permeabilità, trovò ampio utilizzo nella realizzazione di fontane, lavatoi e vasche. In ultimo ne ricordiamo l’uso an-

che per tubature, condutture e tombini. Il museo archeologico si trova al primo piano del Palazzo Pretorio mentre al piano seminterrato dell’edificio si conservano le strutture di un’antica latteria turnaria istituita nel 1877. (Diverse famiglie che raccoglievano il latte per lavorarlo in comune, e ricavarne, con minor spesa, il maggior prodotto). L’organizzazione di queste strutture era semplice e sancita da un regolamento, secondo il quale al mattino e alla sera ogni famiglia che faceva parte della società vi portava il proprio latte che veniva pesato e annotato, volta per volta, su un registro e sul libretto personale del conferitore. Ciascuno aveva diritto ad un numero di turni proporzionato alla quantità di latte conferito. Tutti i prodotti e il guadagno della giornata appartenevano al socio di turno. Nel seminterrato si trova anche quel che resta di una zangola rotatoria per la produzione del burro, di cui si dotò la latteria di Malesco nel 1899. La visita all’edificio si conclude alle prigioni, due delle quali ora adibite a museo, mentre la terza sotterranea, spoglia e fredda, rimane la testimonianza concreta di quello che un tempo fu il Tribunale dell’Inquisizione.

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Il Quartero

Tra ricerca e tradizione... di Claudio Zella Geddo

i sono luoghi che hanno il potere

Cd’evocare, avvolgere, conquistare ebbene questo è sicuramente il caso del ristorante La Meridiana che dalla fine del secolo XIX° fa bella mostra di sé lungo via Rosmini, nel cuore di Domodossola. Naturalmente vasta è la scelta di piatti, antipasti e prelibatezze del territorio come le eccellenti carni, i salumi e i formaggi d’alpe; elementi che - anche a livello internazionale - delineano la fisio-

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nomia culinaria della Valle dell’Ossola. Affianca l’aspetto decisamente alimentare una rara e felice produzione di vini rossi da tavola. La viticoltura, passione di Aldo Vicini, è stata sviluppata in quel meraviglioso angolo di Ossola, Quartero che come una traccia solare, verde conduce il visitatore verso la riserva del Sacro Monte Calvario. Territorio baciato dal sole che, grazie al continuo lavoro di Aldo Vicini, ha saputo rispondere con un vino dal piacevole bouquet fruttato, floreale che al palato si rivela morbido e rotondo. Una produzione avviata, senza che ci fossero precedenti esperienze nel campo della viticultura, dalla famiglia proprietaria de La Meridiana. Un’attività che impegna al massimo Aldo Vicini che comunque riesce sempre, anno dopo anno, a distillare un prodotto che, proprio in ragione della sua genuinità, è sempre diverso ma non per questo meno apprezzabile. Il Quartero è un vino rosso, di 12,5 gradi, nel quale predominano le note del merlot e del nebbiolo. Nell’acidità del nostro suolo e nell’esposizione particolarmente soleggiata e in quota, trova terreno fertile in oltre un ettaro di dimora delle viti. Un vino determinato e apprezzato per i suoi caldi toni unici, per i profumi e il colore rosso intenso. Perfetto nell’accompagnamento di carni, formaggi e piatti che al palato risultano decisi. Scrivendo di vini va evidenziato che William sia anche Sommelier professionista e come sia perciò in grado, grazie alle oltre 150 etichette presenti in cantina, di soddisfare ogni esigenza e trovare i giusti abbinamenti.


Casa Vacanze La Meridiana

a pochi passi dalle Terme di Cadarese con area verde attrezzata (giochi-bimbi e barbecue), posteggio privato, deposito sci e biciclette. (Sconto del 10% su tutti i trattamenti termali) ALLOGGIO SALAMANCA. Monolocale con soďŹƒtto a volte, composto da ampio soggiorno con due divani-letto matrimoniali, angolo cottura e servizio igienico. Corredato di buona utensileria da cucina e dotato di ogni confort: tv satellitare con lettore DVD, lavatrice, forno ventilato, asse e ferro da stiro, phon fisso e portatile e biancheria per la casa e la persona.

ALLOGGIO VALLADOLID. Ampio bi-locale composto da angolo conversazione con due divani-letto matrimoniali, camera matrimoniale, spazioso angolo cottura e servizio igienico. Corredato di buona utensileria da cucina e dotato di ogni confort: tv satellitare con lettore DVD, lavatrice, forno ventilato a colonna, frigo a colonna, asse e ferro da stiro, phon fisso e portatile e biancheria per la casa e la persona. ALLOGGIO LEĂ’N. Ampio bi-locale con balconata vista giardino, composto da angolo conversazione con due divaniletto matrimoniali, camera matrimoniale, angolo cottura e servizio igienico. Corredato di buona utensileria da cucina e dotato di ogni confort: tv satellitare con lettore DVD, lavatrice, forno ventilato a colonna, frigo a colonna, asse e ferro da stiro, phon fisso e portatile e biancheria per la casa e la persona. ALLOGGIO ZAMORA. Spazioso *openspace* mansardato con balconcino vista giardino, composto da angolo conversazione con due divani-letto matrimoniali, letto soppalcato matrimoniale, angolo cottura e servizio igienico. Corredato di buona utensileria da cucina e dotato di ogni confort: tv satellitare con lettore DVD, lavatrice, forno ventilato a colonna, asse e ferro da stiro, phon fisso e portatile, biancheria per la casa e la persona.

Casa Vacanze La Meridiana Frazione Cadarese, 13 28866 PREMIA (VB) 69 - ossola.it Tel. 0324.240858 Cell. 348.388.6118 info@ristorantelameridiana.it


Le erbe medicinali per la cura delle malattie invernali:

“dalla medicina popolare ossolana alle attuali conoscenze di fito-terapia” di Laura Grillo - Farmacia di Masera

C'era una volta...

L

a cura delle malattie da raffreddamento con le piante officinali ha radici antiche. Anche qui in Ossola esiste una ricca tradizione di infusi, impacchi, unguenti, preparati con le erbe, raccolte soprattutto in montagna, che venivano usati per porre rimedio alle malattie e quindi anche ai malanni dell’inverno. Le varietà botaniche più usate erano ie specie già conosciute nella Farmacopea tradizionale: tiglio, achillea, lichene islandico, viola tricolor, verbasco, arnica. La raccolta di queste erbe si poteva svolgere soltanto nei mesi estivi e quasi sempre coinvolgeva i membri della famiglia esentati dai lavori nei campi, quindi anziani e bambini. Per alcune specie la raccolta era particolarmente difficile, per esempio le radici di Genziana dovevano essere estirpate col piccone. E’ soprattutto nei villaggi delle nostre montagne che si è sviluppato l’uso delle erbe officinali. Questo fatto era dovuto proprio all’isolamento dei paesini di montagna rispetto ai centri del fondovalle, e alla necessità quindi di seguire un’economia a base assolutamente naturale, improntata il più possibile all’autoossola.it - 70

achillea millefolium


consumo. Dobbiamo immaginare, tra i primi del ‘900 e il periodo precedente la seconda guerra mondiale, le comunità montane estremamente povere, con scarsissima circolazione di moneta, dove l’agricoltura era la più diffusa fonte di sostentamento e gli alimenti più pregiati, quali il burro e il formaggio, venivano spesso usati per il baratto o la vendita. Anche i fiori e le piante di montagna seguivano questa strada. Data l’impossibilità di usufruire dei servizi sanitari disponibili solo a valle, e avendo a disposizione tutte le erbe montane, si è sviluppata una capacità assai generalizzata di utilizzare tutte queste piante per la cura delle più comuni malattie, tra queste, in particolare, per le malattie da raffreddamento. Influenze, raffreddori, febbre, bronchiti, venivano affrontate con l’aiuto di rimedi specifici:

Per la tosse. * LICHENE islandico. * Tisana di TIGLIO e miele (emolliente). * Sciroppo di RAPA, liquido ottenuto dalla liquefazione dello zucchero dentro una grossa rapa semi-svuotata della polpa. Una curiosità sul LICHENE islandico: veniva fatto sbollentare una prima volta e buttata via l’acqua che era amarissima. Si faceva poi la tisana col lichene così trattato. Effettivamente, oggi si sa, i principi attivi del Lichene vengono estratti con la seconda bollitura.

Per la febbre e i dolori reumatici * Tisana di Arnica, Timo serpillo, Verbasco, Viola tricolor (ancora oggi si usano le capsule di arnica e la crema all’arnica per i dolori reumatici).

* per la febbre: corteccia di Salice bianco seccata e ridotta in polvere, oggi sappiamo che contiene acido salicilico, nell’Aspirina è contenuto un derivato proprio di tale acido.

Per le bronchiti * Il Ginepro, una conifera comune nel nostro sottobosco, veniva usato per le affezioni delle vie respiratorie, produce falsi frutti detti coccole, neri-violacei,che venivano fatti masticare o bevuti in tisana. Effettivamente contengono un olio balsamico, con azione antisettica sia delle vie respiratorie che delle vie urinarie. * La Cipolla, “Allium Cepa” veniva cotta nella brace e mangiata con zucchero, olio e aceto. Anche oggi si usano rimedi omeopatici di cipolla per il raffreddore.

I cataplasmi I cataplasmi venivano usati in molti casi: sia per abbassare la febbre sia per scaldare alcune parti del corpo, a seconda della composizione. Si presentavano come pappine semi-liquide e venivano applicate sulle varie parti del corpo. Nella formulazione dei Cataplasmi spesso si trovava l’uso della fuliggine e dell’aceto (anche alcune ricette di Colloro ne menzionano l’uso). A questi elementi si aggiungevano, triturate, le varie erbe officinali. C’era una logica anche nell’uso di questi “veicoli”. L’aceto, per esempio, permette di miscelare gli altri componenti, ma anche di estrarre i principi attivi presenti nelle piante. La fuliggine è un ingrediente abbastanza misterioso, forse il suo contenuto di acidità e di carbonio e sali minerali ne hanno fatto un buon componente per i cataplasmi. 71 - ossola.it


Le erbe più comunemente usate erano l’Ortica, la Salvia, la Menta, il Prezzemolo.

Altri usi esterni: * Pappina calda di farina di lino (risolvente). * Grasso di gallina spalmato sul petto, per la tosse.

Ai giorni nostri... Tornando dai monti a valle e ai nostri giorni, possiamo dire che i problemi della stagione fredda sono sempre presenti, anche se ora sono affrontati con nuovi mezzi.

La prevenzione Oggi esiste il vaccino anti-influenzale, che ci difende ogni inverno da ceppi virali attivi in quel particolare anno. Il vaccino quindi cambia ogni anno e generalmente contiene i tre ceppi virali più attivi nell’anno in corso. E’ consigliato alle persone a rischio di complicanze gravi in caso di influenza, e agli anziani.

Prevenzione con fito-terapici E’ importanate sapere che, però, il numero di virus, tra quelli influenzali e i para-influenzali, è di circa 200. I virus para-influenzali sono responsabili dei tipici sintomi da raffreddamento: mal di gola, raffreddore, tosse, febbre. Il vaccino non ci protegge da questi ceppi, quindi è molto importante potenziare le difese dell’organismo con prodotti omeopatici e fitoterapici per non incorrere nell’influenza.

Prodotti omeopatici Tra i prodotti omeopatici ci aiutano in particolare due” vaccini”, essi sono preparati con sostanze naturali secondo il metodo della diluizione omeopatica e dinamizzazione e sono in grado di stimolare le capacità di auto-guarigione dell’organismo. E’ bene cominciare subito, in ottobre, perchè questi rimedi vanno assunti una volta alla settimana per almeno sei settimane. ossola.it - 72

Rimedi erboristici La prevenzione con le piante ci dà un valido aiuto: L’Echinacea La sua azione produce una stimolazione delle reazioni difensive contro le infezioni batteriche. Inoltre stimola l’interferone, così che nel complesso produce un aumento generale anche delle difese anti-virali. La Propoli Una resina prodotta dalle api, con azione antivirale e antibatterica, efficace nelle infezioni della gola e della bocca. Lo sciroppo di Poligala e mele Uno sciroppo della tradizione galenica, molto efficace per la tosse. Si può richiedere quello specifico per la tosse secca o per la tosse con catarro. Gli olii essenziali Non dimentichiamo anche gli olii essenziali di Pino e Timo, ottimi per suffumigi caldi, nei casi di raffreddore. Essi accanto all’azione balsamica esercitano anche un’azione antisettica. L’alimentazione Infine anche l’alimentazione può svolgere un’azione di prevenzione influenzale agendo sulle nostre difese. Preferiamo cibi di stagione, ricchi di vitamine. E’ bene seguire una dieta a base di cereali (orzo, riso, frumento), ottimo il consumo di brodo vegetale caldo e piccante al quale aggiungere i cereali. Tra i vegetali: carciofi, cardi, porri, cipolle con proprietà disinfettanti. Non dimenticare cavoli, cavolfiori, broccd/li, spinaci e agrumi per assicurare l’apporto di vitamine e minerali. Infine lasciate spazio alle propietà energetiche della frutta secca, castagne, patate, lenticchie, da consumare in piccole quantità.


Binocoli - Telemetri - Telescopi - Visori Notturni

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Lucchini Via Galletti, 27/29 DOMODOSSOLA (VB) - Italy

Tel. +39 0324 200135 - Fax +39 0324 223545

Frazione Cresti 28843 Montescheno (VB) Per prenotazioni e informazioni: Bar Miravalle (Cresti - VB): Tel. +39 0324 56285 Cell. +39 342 3878066

Situato a Cresti, pittoresco, antico, silenzioso borgo in Valle Antrona. Qui, periodicamente vengono organizzate sagre e feste, alla riscoperta di angoli suggestivi e tradizioni, impronte di un passato da non dimenticare. Aperto pressochÊ tutto l’anno, per una semplice vacanza o soggiorni di lavoro. Dal nostro Bed & Breakfast, sono raggiungibili in breve tempo, meraviglie: architettoniche, paesaggistiche, culturali, gastronomiche, storiche, commerciali.


il Salame di Trota

La piacevolezza di un sapore unico

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Al ristorante Lago delle Rose il buongustaio potrà scoprire una vera e propria rarità culinaria: il salame di trota. Il titolare e chef Paolo e l’amico Andreino Brusa hanno infatti creato, negl’anni scorsi, questo piatto che da solo vale una visita e un assaggio. Il salame è composto di trota, pancettone di maiale e pezzi di lombo, ingredienti a cui vanno aggiunti sale, pepe diverse e prelibate spezie; il tutto viene poi bagnato da vino bianco e vino navigato (marsala). Il piatto viene quindi cotto a vapore, fatto raffreddare e quindi affettato come un salame cotto. Questa prelibatezza viene proposta abbinata alla famosa trota del Riscion e guarnita dai tradizionali fusniti, il pane fritto. Chi ama e apprezza la buona tavola non si lasci dunque scappare l’occasione di assaporare, nell’accogliente ambiente del ristorante Lago delle Rose, una ricetta che coniuga al meglio ricerca, tradizione e buona cucina.


Ristorante

Lago delle Rose SpecialitĂ ossolane e di pesce Ampia sala ristorante per cerimonie Pesca sportiva

CHIUSO IL LUNEDĂŒ

www.lagodellerose.it - lagodellerose@ossola.com 75 - ossola.it Via Pietro Iorio - ORNAVASSO (VB) Cell. 333.982 9810


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Del Vecchio Borgo dei F.lli De Regibus

Cucina tradizionale Specialità pesce Camere con servizi, Frigobar e TV Nell'antico borgo di Vogogna, l'albergo ristorante Del Vecchio Borgo propone una cucina tradizionale e specialità a base di pesce. Tranquille camere con servizi, frigobar e TV. Il ristorante rimane chiuso il martedì.

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