OSSOLA.it n8 primavera

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La rivista turistica delle Valli dell’Ossola anno IV - numero 8 - 2011

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Verbania

Baveno

Lago Maggiore

Stresa

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Sommario

Anno IV - N. 8 - 2011

Sede e redazione Via Madonna di Loreto, 7 28805 Vogogna (VB) Tel/Fax 0324 88665 info@ossola.it

Comune di Vogogna

Direttore Responsabile Massimo Parma Direttore Editoriale Riccardo Faggiana Capo Redattore Claudio Zella Geddo

Comune di Baceno

Redattori Paolo Crosa Lenz, Rosella Favino, Giulio Frangioni, Uberto Gandolfi, Cecilia Marone, Adriano Migliorati, Marilena Panziera, Massimo Parma, Paolo Pirocchi, Giuseppe Possa, Fabio Pizzicoli, Michela Zucca. Coordinamento grafico e impaginazione Eleonora Fiumara - eleonora@ossola.com Collaboratori Aurora Video, Stefano De Luca, Tonino Galmarini, Davide Iardella, Felice Jerich, Anna Proletti, Diovuole Proletti, Giorgio Rava, Paola Rovelli, Massimo Sartoretti, Maria Antonia Sironi Diemberger, Carlo Solfrini, Marco Valsesia. Hanno collaborato a questo numero Provincia del Verbano Cusio Ossola, Grossi Editore Comune di Baceno, Roberto Pastore Galderio. Fotografia Archivio © Riccardo Faggiana Stefano De Luca, Adriano Migliorati. Video Editing Aurora Video Traduzioni Chiara Cane, Cristian Veldman

A proposito di... Primavera

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Valle Formazza

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La Chiesa delle Sibille

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Montecrestese

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Parapendio in Ossola

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Ascensore per il Veglia

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Gastrofilosofia: Il Miele

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Sul sentiero della luce

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Il libro: Racconti ribelli

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Pagine fragili

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In canoa sul Toce

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Museo antica casa Walser

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Scalate sul Rosa

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Sempione Viaggiare con lentezza

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Il fascino del Monte Cistella

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Boulder in Devero

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Arrampicata in Valle Antrona

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Stampa REGGIANI S.p.A. - Gavirate (VA)

Freeride

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Ossola.it è un periodico registrato presso il Tribunale di Verbania in data 10/04/08 con il n. 3/08.

La Rhodiola rosea

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In copertina: fioritura di Rododendro al Lago Nero - Alpe Devero

© 2011: É vietata la riproduzione anche parziale di foto, testi e cartine senza il consenso dell’editore. Tutti i diritti sono riservati.

Editore Faggiana Riccardo Tel. 329 2259589

Con il contributo di

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a proposito di... di Marilena Panziera

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I

n inglese primavera si dice spring, ma spring vuol dire anche sorgente, infatti le nostre Terme di Premia si possono definire hot springs “sorgenti calde”. Sorgente calda, come il sole che torna ad illuminare il paesaggio dai toni siderali che l’inverno ha congelato lungo le rive dei fiumi ossolani. La bassa Ossola per molti mesi rimane senza luce, così come Viganella in Valle Antrona, dove hanno rimediato con un grande specchio, ma anche alcune zone delle celebri Valli Anzasca e Vigezzo per qualche mese restano al buio. Con l’approssimarsi della primavera la luce avanza e lo sapevano bene i nostri avi, che costruivano le case dove non esondava il fiume, ma anche dove arrivava presto il sole. La primavera inizia il 21 marzo nell’emisfero boreale e il 23 settembre in quello astrale, coincide con il segno zodiacale dell’ariete, che gli esperti definiscono di fuoco, maschile e cardinale, perché regge il ciclo dei segni così come l’uomo, inteso come maschio, era considerato il cardine della società e della famiglia. Ora non è più così, i ruoli si sono gradualmente parificati, specie negli ultimi 40 anni. Ma così come l’uomo non è più l’unico cardine, la donna è sempre meno primavera, quante donne si identificano ancora con la bionda Flora, che avanza sotto lo sguardo di Venere e Mercurio, emblema dell’amore e della carnalità che innesca il cambiamento? E a proposito di cambiamento, sarà colpa anche dei mutamenti climatici, ma ormai anche la primavera non ha più odore, l’aria è sempre meno profumata, le 4 stagioni si riconoscono ormai quasi esclusivamente per la temperatura.

Un tempo la pioggia che bagnava i boschi di latifoglie e i pascoli appena erpicati e concimati, conferiva all’aria una fragranza impareggiabilmente buona, anche se alla base vi era il letame, ma ahimè anche quello è cambiato per effetto dell’alimentazione animale a cui si sono aggiunti componenti che un tempo nemmeno si sospettava adatti a tale utilizzo come la farina di mais, che prima si usava solo per fare la polenta, oppure la barbabietola da zucchero e i mangimi concentrati. Il cinguettio degli uccellini invece, è rimasto uguale, proprio come lo sentiva Vivaldi mentre componeva tra le Quattro Stagioni, quella primavera che è uno tra i brani di musica classica più noti al mondo. Pare di sentirlo tra le pareti della Villa Caselli a Masera, nella sala detta “degli uccelli” dalle mura

completamente affrescate di bei dipinti rappresentanti volatili gabbia in puro stile naturalistico ottocentesco, ciò dimostra, insieme ad altre cose, quanto agli ossolani dopotutto il gusto estetico e la fantasia non manchino. La primavera è un pretesto per tirare fuori questa parte creativa che tutti abbiamo e possiamo esercitare in quello per cui siamo più portati, dalla pittura alla musica, ma anche in cucina o in falegnameria, ovunque ci sia qualcosa da modellare, di materiale o immateriale, corporeo o spirituale, in primavera viene meglio.

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na escursione fattibile in giornata da tutti ma sempre di grande fascino. La salita dall'alpe Bettelmatt, lunga ma gradevole grazie al meraviglioso paesaggio che ci accompagna, il panorama a 360° e l'ampio Piano dei Camosci al nostro arrivo al Città di Busto, appagano appieno della fatica sin qui sostenuta. La diga dei Sabbioni, così piccina vista da lontano, racchiusa tra maestosi pendii, si presenta in tutta l'imponenza dei suoi 90 metri di altezza quando se ne percorre la sommità. Da qui si gode lo spettacolo dell'ampio specchio d'acqua che si prolunga fino ai piedi delle inconfondibili cime ed estesi ghiacciai di Arbola e Hosand: paesaggio da cartolina! Tracciato: La parte alta della Valle Formazza non è servita da BUS; arrivando a Riale in auto si può parcheggiare ai piedi della grande diga di Morasco. Da qui in circa mezz'ora di comoda camminata si giunge al piazzale della funivia Enel. Il sentiero si innalza subito verso nord fino ad attraversare, con un guado in tubi, un impetuoso torrente. Alcuni minuti e al primo bivio si volge a destra verso Passo Gries, si continua a salire fino a che una breve discesa ci immette nella rino-

mata conca dell'alpe Bettelmatt. Proseguendo in piano, sulla sinistra, e superate le baite dell'alpeggio, si trova il sentiero ben tracciato che in circa 45 minuti ci porta al rifugio Città di Busto. In leggera discesa si giunge al vasto Piano dei Camosci che si costeggia sulla sinistra. Al fondo di questo, ancora a sinistra, si imbocca una strada sterrata in discesa fino a superare un piccolo torrente dopo il quale, sulla destra, inizia il sentiero che, in leggera salita, conduce al muro della diga. Ne percorriamo la sommità fino alla casa dei guardiani dove inizia l'ultima breve ma impegnativa salita fino alla stazione a monte della funivia Enel. A pochi metri il rifugio Mores (a 15 minuti, con una deviazione, il Somma Lombardo). Da qui inizia la discesa che, esclusa una breve salita, appena superato un baitello in pietra a circa metà percorso, ci riconduce su tracciato evidente e sicuro fino a Morasco. Dislivello: 700 m in salita e in discesa Tempi di percorrenza: fino al rifugio Città di Busto h. 2,30 - al lago dei sabbioni h. 3,30 - rientro a Morasco h. 5,30 Punti di Appoggio: Rifugio Bim-se a Morasco Tel. 339.5953393 Rifugio Città di Busto Tel. 0324.63092 Rifugio Mores Tel. 0324.63067

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di Michela Zucca

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C

he la chiesa di Baceno sia una strana costruzione, appollaiata in uno strano posto, con delle strane presenze interne, non è un mistero per nessuno... Pochi però notano quelle figure femminili che sembrano sante, ma che non portano aureola: che cosa ci fanno in un edificio sacro?!... Poi si scopre che con le pie donne non hanno proprio niente a che fare, anzi: trattasi di professioniste della divinazione, fattucchiere, streghe, sibille... ma che ci fanno là dentro?! Quando cominciò la mia ricerca sulle sibille, pensavo a quelle, famose, che si fanno dare una cifra immonda - già all'epoca - dall'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, costretto appunto a cedere alle loro richieste e storicamente sbeffeggiato dalle donne sapienti, per i libri sibillini (distrutti dagli imperatori cristiani su ordine del papa perché in odore di empietà). Poi allargai il campo a quelle marchigiane, condannate al rogo dall'Inquisizione medioevale perché colpevoli di aver tentato di... avvelenare il papa a distanza. Mai avrei immaginato che le sibille fossero personaggi comuni anche sulle Alpi e nelle leggende alpine, e che abitassero in molte chiese, mimetizzate fra vergini martiri e madonne... Ma che cosa si cela dietro queste immagini? E che cosa hanno in comune con le loro parenti più strette, le fate da una parte, le streghe dall'altra? Fate, sacerdotesse celtiche, donne sapienti Nel cuore dei boschi, nei luoghi selvaggi, presso alcune fontane, all'ombra di vecchi alberi, un tempo si potevano intravedere donne alte, vestite di bianco o di verde, con uno strano copricacapo, dotate di bellezza sovrumana e luminose. Spesso le si scorgeva ballare. In Bretagna si mostravano preferibilmente nei dintorni dei dolmen, dove sembrava che si fossero rifugiate. Sulle Alpi, stanno vicine alle incisioni rupestri, oppure nei pressi dei monumenti preistorici chiamati, appunto, "cerchi magici": non è un caso che nei luoghi di culto di origine ar-

caica, ricchi di pietre incise, la popolazione mantenne per lungo tempo l'antica religione e l'inquisizione fu particolarmente feroce: vedi, appunto, le stesse streghe di Baceno. Per combattere questi riti ancestrali, il cattolicesimo oltre a condannare la saxorum veneratio (la venerazione dei sassi: ma pensiamo al Muro del Diavolo di Arvenolo di Crodo, e alle pietre sparse tutt'intorno!), cercò di adattarsi, appropriandosi di queste speciali forme di venerazione, e fece incidere croci a più non posso sui graffiti pagani. Come quelle scavate sul masso-altare del Lago delle Streghe. La stessa chiesa di Baceno potrebbe essere stata costruita sopra un luogo di antica sacralità precristiana: si trova in una posizione dominante, su una roccia facilmente interpretabile come masso sacro; ai suoi piedi sgorga una sorgente, acqua di vita, arcaica simbologia di potere e di sapienza femminile. Le immagini delle sibille potrebbero benissimo essere state dipinte per mantenere - nella memoria di chi sa e di chi deve sapere e ricordare - la presenza delle antiche sacerdotesse della natura. La presenza delle fate nella memoria popolare, in ogni modo, è documentata fino al Concilio di Trento in maniera sicura1. Pare che le loro apparizioni siano state relativamente frequenti, almeno fino all'inizio del XIX secolo, se si tiene conto del fatto che i testimoni che osavano parlarne erano molto rari. Fate e streghe spesso si confondono. In molti casi, probabilmente, le streghe erano le fate invecchiate. Oppure, ricoprivano i gradi inferiori della gerarchia sacerdotale celtica, e appartenevano alle caste basse delle tribù; mentre le fate erano druidesse che avevano studiato, donne ricche, colte e belle (le scuole druidiche duravano più di vent'anni: come vere università di musica, teologia, politica e medicina). In genere, le fate avevano con gli umani rapporti di buon vicinato. All'occorrenza rendevano loro un qualche servizio, facendo ritrovare gli oggetti smarriti, mettendo a

1. “Prima c’erano le fate: poi è arrivato il Concilio di Trento, e le hanno bruciate tutte”: antico proverbio raccolto nella zona di Conegliano Veneto, citato in Michela Zucca, La caccia alle streghe, il Concilio di Trento e la nascita dell’uomo moderno, in AA.VV., Oltre Triora: nuove ipotesi di indagine sulla stregoneria e la caccia alle streghe, Atti del convegno Triora-Toirano del 1994, Terziaria, Milano, 1997, p. 131.

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loro disposizione la propria conoscenza sui segreti dei "semplici". Però erano suscettibili e si vendicavano quando qualcuno disubbidiva loro o le insultava. Ma se si dimostrava la deferenza a cui avevano diritto, erano pronte ad aiutare chi aveva bisogno. Ciò non toglie che, a volte, venissero accusate di rapire i bambini, o di cercare di unirsi ad uomini per averne. I Bretoni dicevano che il loro scopo era quello di rigenerare la loro razza maledetta: per raggiungerlo, violavano tutte le leggi del pudore, "come le sacerdotesse dei Galli". E, in effetti, le leggende alpine ed europee hanno tramandato la libertà sessuale di cui potevano godere questi esseri strani e misteriosi, senza obblighi familiari

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e morali che potessero imprigionare la loro facoltà di scelta. A partire dal XVIII secolo, le fate cominciano a scomparire. Non era solo il progresso dei "lumi" a cacciarle via, ma soprattutto lo sviluppo della rete stradale che riduceva i luoghi appartati e selvaggi, in cui potevano trovare un rifugio sicuro. Perché le fate, che il più delle volte sono di origine mitica, sembrano però, in alcuni casi, esseri reali che vivevano isolati, in posti rimasti segreti, e non si facevano vedere quasi mai perché avevano tutto l'interesse di farsi dimenticare per poter continuare a vivere, e a non cadere nelle grinfie degli inquisitori. Alcuni elementi riferiti nei rapporti raccolti dai


folkloristi dall''800 in poi rendono abbastanza verosimile che molte fate, se non tutte, fossero tardive discendenti delle antiche sacerdotesse dei celti che avevano preferito la solitudine alla conversione. In tutte le Alpi, abbondano i luoghi considerati come "le ultime dimore dei pagani": buchi, grotte, rovine di castelli e di fortificazioni, addirittura chiese. Concordano anche le descrizioni che riguardano l'abitazione, i gusti, il modo di fare e i rimpianti suscitati dall'estinzione delle "buone signore". Ecco come la tradizione ricorda la fine di una di queste donne: In un tempo molto antico, una regina protestante, saracina, o che altro mai fosse, non volendo piegarsi alla nuova fede, che da ogni parte incalzava, si rifugiò in Val Brembilla. Dapprima andò a mettersi sull'altura verdeggiante su cui sorge la chiesa di sant'Antonio abbandonato, ma poi, non sentendosi lì abbastanza sicura, si ritirò più addentro nella valle e più in alto; nel luogo che ora prende il nome da lei, il Castello della Regina. Ma i credenti non le dettero tregua, e la strinsero in modo da non poter più resistere. Allora lei si ficcò in una botticella e si fece precipitare giù per i dirupi del lato orientale. A questo modo si sfracellò. Quanto alle sue genti, si arresero ai nemici ed ebbero in parte salva la vita2. Vestivano di bianco, conoscevano le erbe, prevedevano il futuro.... Il poco che sappiamo delle druidesse, è che vestivano di bianco, detenevano segreti terapeutici vegetali, praticavano diverse forme di mantica, proferivano maledizioni magiche contro i nemici e stando alla testimonianza di Strabone, che nel I° secolo parla di una comunità di donne stabilita su di un'isoletta alle foci della Loira si abbandonavano a volte ad un comportamento simile a quello delle menadi, questo non fa che confermare l'ipotesi di una reale esistenza delle "fate". Benché perseguitate dai romani, queste profetesse celtiche sembra go-

dessero, ai loro occhi, di un certo prestigio, in epoca imperiale anche abbastanza tarda, fino alla fine del III° secolo. Essendo pochissime, isolate e tutto sommato, inoffensive, le ultime sacerdotesse non furono perseguitate apertamente dal clero, almeno fino alla caccia alle streghe. Ma loro lo temevano profondamente (e chi potrebbe dargli torto!), tanto da non sopportare il suono delle campane, e gli serbavano rancore perché le aveva confuse con "gli spiriti delle tenebre". I preti si limitavano ad esorcizzarle da lontano, e intervenivano in maniera pesante soltanto se costretti, almeno fino al Rinascimento, che segna la recrudescenza nella repressione delle antiche vestigia dei culti pagani. I giudici accusarono Giovanna d'Arco di avere ubbidito alle fate, e non ai santi. All'inizio del XVII secolo, Le Nobletz, "missionario in Bretagna", trovò nell'isola di Sein tre druidesse che diffondevano il culto del sole: venivano consultate dagli uomini prima di mettersi in mare. Il sacerdote cristiano racconta che riuscì a convertirle e a farle stabilire sulla terraferma, dove conclusero la vita in un convento. Probabilmente non fu un caso unico: molte "buone signore", stanche della vita selvaggia che dovevano condurre, finirono i propri giorni con il soggolo delle suore3 . E se le druidesse, assimilabili agli alti prelati e alle badesse cristiane, ricche, colte, capaci di esprimersi a probabilmente anche di dissimulare una fede diversa dalla loro per sopravvivere, abituate alla disciplina e alla vita di comunità alla fine si confusero con le suore, le povere streghe non potevano certo essere accettate in un convento; né loro avevano la minima intenzione di entrarci. Anche perché, per secoli, nessuno le degnò di una qualche considerazione, e poterono continuare ad officiare i propri riti indisturbate, o quasi. Si hanno buone ragioni per credere che, in alcune zone isolate, ma neanche tanto, e Baceno potrebbe anche essere uno di questi luoghi, queste donne abbiano costruito e siano riuscite a mantenere una qualche

2. La Val Brembilla è una diramazione sulla destra della Val Brembana (Bg). Il testo della leggenda si trova in Lidia Beluschi, Leggende e racconti popolari della Lombardia, Newton Compton, Roma, 1983, p. 133-134. - 3. Jacques Brosse, Mitologia degli alberi, Rizzoli, Milano, 1991, p. 201-204.

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forma di organizzazione sociale specifica, matriarcale, fondata sulla sapienza esoterica, riconosciuta se non dai governi centrali (che preferivano ignorare le popolazioni di montagna, accontentandosi di sfruttarle e facendo finta di non vedere per evitare disordini, almeno fino a quando la Chiesa glielo permise) per lo meno dagli intellettuali di punta dell'epoca, che spesso si sono confrontati con queste signore. In Italia, più che le fate, sono conosciute, documentate e rappresentate da diversi artisti, le Sibille. Questa la descrizione tardiva di una di queste profetesse in Lombardia, quando già incutevano paura: ...il suo corpo magro e spigoloso era coperto da una lunga veste nera, e le sue chiome grigie svolazzavano liberamente al soffio dell'aria mattutina. La vecchia aveva una figura spettrale, una folta lanugine grigia copriva le sue labbra sottili e paonazze, sotto le palpebre crespe e giallastre due pupille grigie e sfavillanti, rivelavano uno spirito ancor pieno di energia e forse di violenza. ... "I miei piedi non possono calpestare le soglie consacrate. ... Se mi avvicino agli uomini lo faccio perchè ascoltino la parola del comando, ma non per soddisfare i loro iniqui desideri. Chi sono io? Sono la Sibilla, sì la Sibilla, la creatura maledetta, colei che fugge ed è fuggita, colei che è odiata e che odia, la creatura che trova chiuse tutte le porte come tutti i cuori, quella che fa gridare di spavento il lattante e fa inacidire il latte nel seno della nutrice, quella il cui sguardo fatale fa tacere la gioia, il dolore, l'amore, perchè il terrore è più forte di tutto e tutto fa dimenticare"4. Teofilo Folengo racconta, se pure in maniera ironica, della pratica di andare a "consultare le streghe di Valcamonica"5 nel 1526. Ma il luogo in cui la memoria storica dell'antica società è rimasto più a lungo sono le Marche, regione fuori dalle grandi strade commerciali e militari, coperta di montagne e di boschi un tempo quasi impenetrabili. Là queste antiche sacerdotesse, depositarie della conoscenza

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4. La leggenda, intitolata “La Sibilla dell’Adda”, è stata raccolta nel secolo scorso da B. Bermani, a Cassano d’Adda, e fa parte delle “Tradizioni italiane” curate da Angelo Brofferio. Lidia Beluschi, Leggende e racconti cit., p. 28. - 5. Teofilo Folengo, Orlandino, I, st. 12.s


magica ma anche del potere sulle proprie comunità, hanno lasciato il nome al territorio che per millenni le ha ospitate: i Monti Sibillini. L'organizzazione sociale e politica "sibillina", ancora dopo l'unità d'Italia, si reggeva sulle comunanze: praticamente, la proprietà privata non esisteva; non solo il bosco e il pascolo erano di uso collettivo, ma anche il seminativo veniva coltivato a turno dalle famiglie che facevano parte della comunità. La civiltà delle Sibille è stata, per secoli, un punto di riferimento e di attrazione per gli intellettuali che contestavano l'assetto teocratico-militare dello stato. Cecco d'Ascoli fu mandato al rogo per aver avuto rapporti con i negromanti e le Sibille dei Monti Sibillini. Molti pensatori fra i più noti, dal '300 al '600, dal cavaliere del La Salle ad Agrippa von Nettesheim, da Benvenuto Cellini ad Andrea Silvio Piccolomini, andarono a visitare la Sibilla, passando per Norcia,

in Umbria, o per Montemonaco, nelle Marche. Lì chiedevano un mulo e una guida per avventurarsi sulle montagne. E quello che trovavano non era una vecchia stravagante che leggeva la mano davanti ad una grotta, ma comunità di contadini, pastori, artigiani, tessitrici, guaritrici che vivevano secondo regole diverse da quelle che si erano imposte nelle società di pianura. Quelle montagne, come le Alpi, divennero rifugio di tutti coloro che non erano d'accordo con il potere: eretici, libertari, templari sopravvissuti alle stragi di Filippo il Bello, catari, anabattisti o semplicemente intellettuali che non accettavano l'egemonia teocratico-militare degli stati in formazione. Tutto ciò causò una feroce persecuzione nei primi anni del '300: i francescani locali accusarono le Sibille di aver preparato un attentato contro il papa Giovanni XXII: un avvelenamento a distanza6. E sulle montagne delle matriarche cominciarono ad accendersi i roghi.

6. Joyce Lussu, Sibille e streghe, in AA. VV., Sante medichesse e streghe nell’arco alpino, a cura di Roberto Andrea Lorenzi, Atti del convegno Università popolare Val Camonica-Sebino, Praxis 3, Bolzano, 1994, p. 261-262.

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M

ontecrestese si trova sullo sperone roccioso frontale di confluenza dei fiumi Isorno e Toce. Il territorio dove sono dislocate le numerose frazioni con orientamento sud-ovest è caratterizzato da un ottimo soleggiamento. Troviamo una situazione opposta nella valle Isorno non a caso detta anche la valle dell’Impossibile, che si apre tra Montecrestese e Masera. La parte iniziale è costituita da una magnifica forra postglaciale a parete verticale che sembra tagliata da un coltello, mentre alzandoci di quota la conformità geologica cambia radicalmente aspetto offrendo un paesaggio sempre meno ostile, fino a sfociare nell’amena Agarina un’autentica culla di piacere posta a 1200 m.

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In questo numero vogliamo descrivere un itinerario ad anello con il quale è possibile visitare le frazioni più importanti, ammirando le loro caratteristiche, dove elencheremo i nomignoli attribuiti agli abitanti.

S

i parte da Pontetto (330 m) con l’interessante centro storico dove notiamo recenti opere di ristrutturazione, nella parte interna è ubicato l’antico forno che veniva utilizzato dalla comunità per la cottura del pane 2-3 volte l’anno, i suoi abitanti sono detti Cadreghit forse perché anticamente alcuni facevano il tradizionale lavoro di costruttori di sedie, anticamente era la frazione meno abitata in quanto più esposta a saccheggi e ruberie. Seguendo i segnavia bianco/rossi che ci accompagneranno per tutto il tragitto, iniziamo la salita lungo la mulattiera lastricata arrivando a Roldo (430

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m) sopra la scuola materna è ben visibile la Torretta, un tempietto lepontico di notevole importanza storica, costruito attorno al I° sec. dopo Cristo adibito al culto pagano e sopraelevato in epoche successive dove il suo utilizzo divenne torre di segnalazione. Gli abitanti sono detti Ghett (gatti) forse riferito alle loro agili doti fisiche. Proseguendo su strada asfaltata ci spostiamo in direzione est nella frazione Vignamaggiore (460 m) costituita da una manciata di case sparse nei vigneti, la costruzione più importante è il palazzetto settecentesco dei Mattei di Albogno, ora chiamata Villa Porta. Gli abitanti sono chiamati Chiorp (Corvi) essendo la zona interessata alla presenza di questi volatili. Dalla piazzetta parte una trattorabile che si snoda nelle incantevoli praterie assolate, in prossimità della Cappella della Crosetta no-


tiamo sulla sinistra in lontananza la borgata di Oro (520 m) i suoi abitanti sono chiamati Spargirei ovvero (irrequieti, agitati). Attraversiamo la strada e percorrendo un tratto di mulattiera asfaltata arriviamo così a Naviledo (605 m). Le abitazioni sono in prevalenza antiche, con ampi solai aperti ben esposti al sole chiamati in dialetto Astrign dove si essiccava la segale e il granoturco oltre a maturare la frutta. Gli abitanti sono detti Brusata castegn (brucia castagne) indicante l’abbondante uso che essi facevano di questo frutto, presente in grande quantità in loco. Rimanendo sulla stessa mulattiera ma con il selciato in sasso, saliamo ancora nel bosco attraversando i terrazzamenti costituiti da muri a secco di pietre accatastate, dove è stata trovata una grotticella che si ipotizza possa essere stata una tomba di epoca antichissima, e sbuchiamo così ad Altoggio (740 m) il villaggio più elevato come altitudine e un tempo il più abitato. Un vasto prato ci divide dalle case ben visibili in lontananza, sono motivo d’interesse il lavatoio monumentale del 1880 e l’oratorio di San Giovanni patrono degli alpigiani, inoltre con occhi attenti potremmo scovare nei meandri delle viuzze degli interessanti affreschi storici. Gli abitanti sono detti Julit (capretti) forse perché abili a muoversi nell’ambiente montano. Iniziamo così la discesa lungo la strada asfaltata, in corrispondenza di una casa isolata di colore arancione seguiamo le indicazioni (Montecrestese/Pontetto) sul lato destro della carrozzabile si stacca la mulattiera lastricata simile alla precedente, un vero capolavoro di opera rurale che nemmeno il tempo è riuscito a scalfire. In questo tratto non sono da escludere incontri con curiosi caprioli, un luogo fatato dove ci si aspetta che da un momento all’altro possa uscire qualche folletto. Il tracciato scende lungamente nel bosco di latifoglie arrivando così alla frazione Chiesa (490 m) dove non passa di certo inosservata l’imponente parrocchiale di Santa Maria Assunta. Inizialmente si trattava di una chiesa romanica a navata unica del XII sec. Succes-

sivamente venne allargata a tre navate, alzata per renderla più luminosa e abbellita, fu ultimata agli inizi del 1700. Poco distante dal sacro edificio svetta incontrastato il vero orgoglio dei montecrestesani, il campanile. Con i suoi 67,5 metri è il più elevato dell’Ossola è dotato di otto campane di cui la più pesante raggiunge i 18 quintali, mentre la più piccola pesa 2 quintali. Nel suo interno è racchiuso l’antico campanile romanico del XII° sec. di ottima fattura alto 24 metri che ricorda stilisticamente quello di San Bartolomeo a Villadossola. Gli abitanti sono detti Scota sol (prendi sole) in effetti nella frazione non mancano le rocce levigate dall’erosione glaciale, adatte alla tintarella. Torniamo sui nostri passi per scendere a fianco del municipio lungo un sentiero che scorre parallelo alla strada asfaltata che ci conduce al successivo agglomerato urbano di Lomese (435 m), posizionato in una conca ben riparata dai freddi venti della valle Antigorio. Interessanti alcune abitazioni nobiliari sottoforma di case forti risalenti alle famigli più agiate dell’epoca. Gli abitan-

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ti sono detti Fauscit (falcetti) perché abili ad usare la falce. Usciamo ancora sulla strada dove vediamo le indicazioni (CastelluccioPontetto) che ci invitano a scendere lungo la valle dei Cani sbucando in località Castelluccio (320 m) una minuscola frazione ora disabitata, il toponimo è derivante dal modestissimo castello del XII° sec. di cui rimangono i ruderi. A questo punto non ci resta che seguire le indicazioni e tornare a Pontetto dove siamo partiti, utilizzando il sentierino nei prati che costeggia l’agriturismo. Località di partenza/arrivo: Fraz. Pontetto (piazza). Sviluppo planimetrico: 9,5 Km. Dislivello complessivo: 450 m. Periodo consigliato: Tutto l’anno. Difficoltà: T (Turistico). Cartografia: C.N.S. Valle Antigorio n° 275 (1:50.000). Traccia GPS dell’escursione www.ossola.it/gps.html

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di Alessandro Silvestri

in Ossola

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“Una volta che avrete imparato a Volare, camminerete sulla terra guardando il cielo perchè è là che siete stati ed è là che vorrete tornare.” Leonardo da Vinci

L

a storia del Parapendio comincia nel 1965 con la messa a punto della Sailwing da parte di Dave Barish. Egli chiamò questa nuova disciplina slope soaring (volo di pendio). Parallelamente a questa invenzione, Domina Jalbert creò un paracadute dotato di cassoni da utilizzarsi al posto del paracadute parabolico: il parafoil. Dave Barish e Dan Poynter effettuarono, nel 1966 e nel 1968, numerose dimostrazioni di slope soaring su di un trampolino da salto con gli sci. Numerosi alpinisti cominciarono ad interessarsi a questa pratica, vedendovi un modo rapido ed efficace, e non ultimo divertente, di planare dopo un’ascensione. Nel 1978, tre paracadutisti francesi (Jean Claude Bétemps, Gérard Bosson e André Bohn) decollarono con i paracadute rettangolari dal monte Pertuiset, presso Mieussy in Alta Savoia. Furono solo i primi di molti paracadutisti che cominciavano ad interessarsi al volo di pendio. Laurent de Kalbermatten inventò nel 1985 il Randonneuse, il primo parapendio concepito specificamente per il volo. Era un mezzo più efficiente, più facile da gonfiare e dalle maggiori prestazioni dei paracadute di allora. Il parapendio non cesserà più di evolversi, tanto come materiali utilizzati che come tecniche di costruzione, divenendo nel tempo un sport a sé stante. I primi voli in Ossola furono effettuati

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nel 1985 da un gruppo di alpinisti che iniziarono ad appassionarsi a questa pratica, vedendovi un modo rapido ed efficace, e anche divertente, di planare dopo un’ascensione. Trovando questa pratica molto affascinante questi si interessarono alle prime nozioni di volo libero al fine di affinare la loro tecnica allora molto pionieristica. Questo lavorò comportò un evoluzione dei materiali e delle conoscenze meteorologiche e tecniche di pilotaggio; elementi che hanno permesso al parapendio un livello di diffusione significativo in Ossola. Il nostro territorio, risulta essere uno scenario molto suggestivo, appagante per la pratica del parapendio, molti sono infatti i decolli e gli atterraggi. Tra si siti di volo principali segnaliamo: Il Lusentino ha molti decolli atti alla pratica del parapendio come l’alpe Torcelli, la cima del Moncucco mentre l’atterraggio ufficiale è ben in vista il “Campari”, luogo ove si svolgono anche corsi di parapendio e kite. La Val Vigezzo è un’altra località dove la pratica del parapendio appare molto diffusa come anche da La Colmine di Crevola con l’alpe Coipo; altri decolli sono poi possibili da Riale in Val Formazza e a Macugnaga in Valle Anzasca volando con lo spettacolare scenario del Monte Rosa. La Valle Antigorio propone poi decolli dall’alpe Aleccio, dall’alpe Deccia con atterraggio a Verampio di Crodo. Va aggiunto che in generale la pratica del parapendio è fattibile da ogni pendio che abbia le caratteristiche atte a permettere un decollo. Preliminare al lancio è poi l’individuazione di un punto ove sia possibile atterrare in


completa sicurezza. I panorami visti dall’alto assumono tutta un’altra dimensione e l’unico modo per poter provare una tale emozione è affidarsi ad un pilota qualificato per un volo biposto. L’attrezzatura necessaria al volo è composta da un’ala (generalmente chiamata vela dai parapendisti), alla quale è sospesa la selletta del pilota tramite due cavi funicolari. Il pilota controlla il volo tramite due comandi. Tutte le vele sono dotate di un dispositivo di accelerazione da controllare con i piedi, detta comunemente “pedalina” che, agendo in modo diversificato lungo il profilo alare, consente una migliore performance di velocità o efficienza a seconda della regolazione e comunque in base alle condizioni aerologiche (es. migliore “penetrazione” del profilo dell’ala rispetto all’aria nel caso in cui vi sia la necessità di avanzamento più rapido con vento - contrario forte). Agendo sulla pedalina, comunemente chiamata SPEED, si va a variare l’incidenza dell’ala. Tale variazione comporta un aumento della velocità. Curiosamente in Italia non è obbligatorio per legge il paracadute d’emergenza. Nonostante non ve ne sia l’obbligo questo è comunque adottato dalla totalità dei praticanti ed è normalmente integrato nella selletta. Si tratta di un paracadute “a calotta” attivabile mediante una maniglia di estrazione. Il parapendio, come tutti i mezzi volanti con o senza motore, necessita di una forza esterna per poter vincere la forza di resistenza e mantenere il moto. Per

poter prolungare il piacere del volo, il pilota deve imparare a sfruttare le correnti ascensionali presenti in natura, altrimenti è costretto unicamente a scendere. Il volo nelle correnti ascensionali si divide in due tipi a seconda dell’origine della corrente ascensio-

nale stessa. Il volo in termica sfrutta le correnti ascensionali generate dal riscaldamento delle masse d’aria mentre il volo in dinamica utilizza invece le correnti ascensionali che si generano quando un vento incontra un ostacolo opportunamente conformato.

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di Uberto Gandolfi

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n ascensore per l’Alpe Veglia. Questa l’idea, a prima vista balzana ma in realtà con solide basi tecnico- scientifiche, venne proposta un centinaio di anni fa da Anselmin Benetti, storico costruttore e gestore dell’albergo Lepontino all’alpe Veglia spirato nel ’39. In pratica, visto che la galleria del Sempione passa esattamente sotto la piana del Veglia, si era pensato di allargare la stazione posta a metà del tunnel, dove i treni si scambiano a volte i binari, e da lì scavare un tunnel per 900 metri, salendo nella roccia sino a sbucare nella piana del Veglia. I turisti così avrebbero potuto salire in treno a Domo, Varzo o Iselle, per scendere a metà del tunnel del Sempione, dove avrebbero preso l’ascensore che li avrebbe comodamente portati direttamente all’alpe Veglia. Ovviamente del progetto non se ne fece niente, ma l’originale idea testimonia della creatività e dell’impegno che un centinaio di anni fa veniva impiega-

to per cercare di far decollare l’alpeggio divedrino. Pionieri che avevano l’alpe Veglia nel sangue, e che hanno fatto opere faticose e costose, un’azzardo commerciale che ora nessuno più fà. Hanno costruito gli alberghi portando ogni singolo mattone con i muli e hanno trasformato quell’alpeggio in una delle zone più belle ed attrezzate delle Alpi occidentali. Basti pensare che avevano costruito la centralina idroelettrica per avere l’energia, mettendo le lanterne illuminate lungo tutta la strada sulla piana, sino all’imbocco della stretta valle che scende sino a ponte Campo. Ed arrivare al Veglia con tutte quelle luci doveva essere davvero uno spettacolo. Dai registri delle presenze dell’albergo si leggono nomi di avvocati, ingegneri, professori provenienti da Roma, Napoli, insomma da tutta Italia. E’ triste pensare che negli ultimi settantanni non si sia più fatto niente.

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a cura di Pizzico Da Chef

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l miele è davvero uno dei più straordinari alimenti naturali esistenti. Da millenni utilizzato come alimento dolcificante, ancora oggi, viene merceologicamente classificato come sostanza edulcorante. In verità questa classificazione è estremamente riduttiva. Molti di noi pensano al miele come un dolcificante da utilizzare al posto dello zucchero. Dal punto di vista gastrofilosofico questo è un concetto totalmente errato e assolutamente inaccettabile per noi gastronomi moderni, che affonda le radici nel fatto che è stato proprio lo zucchero (di canna prima, e di barbabietola poi) ad aver favorito il sensibile calo del consumo di miele in ambito domestico. Le due sostanze (miele e zucchero) sono profondamente diverse tra loro. E’ lo zucchero che è solo un comune e semplice dolcificante! Ottenuto inoltre con procedimenti chimico fisici di tipo industriale. Il miele è molto di più… soprattutto sotto il profilo gastronomico. E’ un vero e proprio “mondo” che tutti dovremmo riscoprire e conoscere. Una sorta di magia al cento per cento naturale, che testimonia ed evidenzia una perfetta armonia tra il mondo vegetale, animale e l’essere umano. Altro concetto riduttivo è che vengono attribuite al miele virtù terapeutiche e curative. In realtà queste non sono mai state sperimentate clinicamente. Di sicuro è stato dimostrato un effetto antibatterico, dovuto soprattutto all’elevato grado zuccherino, e al ph acido, cosi come sal-

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tuariamente è stato verificato un giovamento nella cura di vari disturbi dell’apparato respiratorio, e digestivo. Ma sarebbe davvero molto triste e ancora una volta riduttivo, pensare di ricorrere al gradevolissimo ed emozionante gusto del miele, solo quando si è ammalati... A questo proposito, consiglio caldamente anche a tutti gli appassionati apicoltori di cambiare l’approccio con i consumatori, non limitandosi, all’atto della vendita, ad elencare le infinite qualità benefiche delle diverse tipologie di miele, (pratica peraltro contrastata dalla legge italiana, che impedisce appunto di indicare in etichetta benefici taumaturgici). Oggi è il momento del miele!!! Nell’era della globalizzazione e del progresso tecnologico assistiamo ad un generale ritorno alla natura. Il nostro palato saturo di gusti industriali standardizzati (molti dei quali artificiali) è nuovamente pronto ad apprezzare l’antico aroma del miele. E’ interessante allora conoscere come il miele viene definito dalla legge: “...per miele si intende il prodotto alimentare che le api domestiche producono dal nettare dei fiori o dalle secrezioni provenienti da parti vive di piante o che si trovano sulle stesse, che esse bottinano, trasformano, combinano con sostanze specifiche proprie, immagazzinano e lasciano maturare nei favi


dell’alveare”. In pratica, tanti tipi di nettare, danno tanti tipi di miele, differenti di anno in anno... differenti da zona a zona. E’ quindi un alimento straordinario in grado di appassionare ed emozionare i gastronomi più esigenti, proprio come da sempre fanno i vini, i formaggi e l’olio extravergine di oliva. COME SCEGLIERE LA QUALITA’ Ricordate l’articolo del numero scorso? Scegliere gli alimenti secondo la qualità orizzontale e verticale? Bene proviamo subito ad applicare questo concetto di gastrofilosofia al miele. In senso orizzontale ricordiamoci che non esite “il miele” ma moltissime varietà di miele, con colori, sapori e profumi molto diversi tra loro. Esistono mieli uniflorali cioè ottenuti da un’unica qualità di polline, e mieli poliflorali, ottenuti da diverse varietà di pollini, e chiamati miele di millefiori. La scelta in senso orizzontale è dunque davvero considerevole. In senso verticale ogni tipologia di miele sarà analizzata di volta in volta, in base al proprio gusto poiché la fioritura delle piante è diversa da luogo a luogo, e di anno in anno. Non tutti i mieli denominati “di tiglio” per esempio, contengono la stessa percentuale di nettare di tale pianta. Questo anche perchè per legge la denominazione secondo la specie botanica, è consentita a condizione che il nettare della pianta caratterizzante il nome, sia predominante. Ma c’è comunque una sostanziale differenza di profumo, colore e sapore tra un miele di tiglio con il 51% ed uno con il 99% di nettare di tale pianta. E’ quindi il livello qualitativo e quantitativo della fioritura che incide sulla qualità del miele: i mieli uniflorali in purezza sono dunque quelli considerati migliori in senso verticale. Proviamo a descrivere le caratteristiche delle principali varietà di mieli uniflorali prodotte in val d’Ossola:

MIELE D’ACACIA (Robinia) (Robinia pseudoacacia) Viene prodotto un po’ in tutta Italia, nelle zone collinari, ma le Prealpi possono essere considerate le zone più produttive. Aspetto: limpido leggermente opalescente. Colore: molto chiaro. Cristallizzazione: assente. Odore: molto leggero, generico di miele. Sapore: molto delicato, confettato. MIELE DI RODODENDRO (Rhododendron sp.) Viene prodotto solo in montagna, sull’arco Alpino ma con una produzione di miele incostante di anno in anno per via delle condizioni climatiche.

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Considerato un miele raro. Colore: molto chiaro, opalescente, bianco nel cristallizzato. Cristallizzazione: variabile, ma spesso in massa pastosa. Odore: molto leggero. Sapore: delicato, con un aroma molto leggero che ricorda la marmellata di piccoli frutti selvatici. MIELE DI CASTAGNO (Castanea sativa) Si produce in tutta l’Italia, nelle zone di media montagna. Colore: da ambrato a quasi nero, secondo le zone di produzione. Cristallizzazione: in genere assente o a grossi cristalli. Odore: forte e penetrante, tanninico. Sapore: simile all’odore, pungente all’inizio, poi più o meno fortemente amaro a seconda dell’origine. MIELE DI TARASSACO (Taraxacum officinale) Viene prodotto all’inizio della primavera se le colonie di api sono sufficientemente sviluppate al momento di questa fioritura. Colore: giallo vivo o beige crema, se in miscela con miele di salice. Cristallizzazione: molto rapida e in genere a cristalli finissimi. Odore: molto intenso, quasi ammoniacale. Sapore: simile all’odore. MIELE DI TIGLIO (Tilia sp.) Viene prodotto sui tigli selvatici, non è facile trovarlo in purezza, poiché fiorisce insieme al castagno Colore: molto chiaro, quasi bianco da cristallizzato. Cristallizzazione: molto spesso a grana grossolana. Odore: tipico mentolato, aromatico. Sapore: simile all’odore, con leggero retrogusto persistente. Usi: come miele da tavola.

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I mieli di millefiori I mieli di millefiori, sono ottenuti con diverse varietà di pollini. Questa definizione non deve essere intesa come una minore qualità dei mieli prodotti. Non esiste un’unica categoria di millefiori, ma tante quante sono le possibili combinazioni di pollini. Ogni millefiori possiede dunque peculiari caratteristiche che possono variare di anno in anno ma che non nascondono la qualità di base: proprio come accade per i vini più famosi e rinomati... A volte i mieli millefiori sono caratterizzati da una presenza botanica che prevale e che costituisce il gusto prevalente del miele, ma che è accompagnata da una costante flora concomitante che ne costituisce la specificità, lo caratterizza rendendolo “UNICO” ma non permette la denominazione uniflorale. In alcuni casi due fioriture in grado di dare anche raccolti separati si sovrappongono per diverse cause: molto comune, in tutto l’arco alpino, il miele misto di castagno e tiglio, che coniuga due aromi diversi e molto forti, in un millefiori speciale. Altre volte le componenti del miele sono davvero mille, come capita per il prodotto delle fioriture di alta montagna: dire da che cosa dipende quel certo aroma è impossibile, ma il risultato è comunque sorprendente. Scoprire i diversi mieli millefiori può essere un viaggio molto più appassionante che non quello alla ricerca dei mieli uniflorali, con il grande stimolo apportato dal fatto che l’oggetto dell’eventuale scoperta costituirà un’esperienza veramente irripetibile. IL MIELE IN GASTRONOMIA: In cucina il miele è un ingrediente più antico dello zucchero: si noterà infatti che la maggior parte dei dolci tradizionali, quelli che in tutte le regioni d’Italia si preparano e si consumano per le feste, soprattutto a Natale, contengono miele come componente insostituibile. La ricerca e la creatività che accompagna oggi l’arte antica del cucinare, da alcuni anni


ha letteralmente ‘riscoperto’ il gusto del miele. Per cominciare ad allenarsi consiglio di apprendere l’abbinamento del miele con i formaggi. Ogni formaggio infatti, a seconda del gusto, della stagionatura, dell’erborinatura, e via discorrendo, richiede un particolare miele in accostamento. L’abbinamento Miele formaggio, sarà quindi un divertente esercizio, per conoscere ed approfondire i concetti che abbiamo fin qui esposto. Dopo aver testato diverse varietà di miele, sarete pronti per un suo uso più evoluto quale ingrediente di ricette che vanno dagli antipasti, ai primi piatti, ai secondi di carne e pesce, agli ortaggi, e naturalmente ai dolci. Il segreto sull’uso dei mieli in cucina risiede oltre che nel giusto abbinamento miele-ingrediente, nella capacità di riconoscere il giusto dosaggio, per consentire ad ogni tipo usato di evidenziare il suo ruolo di esaltatore caratterizzante del gusto. E’ molto importante non eccedere nella quantità: nel piatto finito gli aromi apportati dall’aggiunta di miele devono essere percepiti come un qualcosa di straordinario senza che il miele utilizzato sia prevalente o predominante. In Pasticceria questo elemento può sostituire fino a un terzo dello zucchero in tutte le preparazioni, anche quelle moderne: torte e biscotti risulteranno di una consistenza più elastica, meno asciutti, più uniformemente dorati, dotati di un aroma inconfondibile e si conserveranno freschi più lungo. La sostituzione dello zucchero con il miele, tuttavia, richiede alcuni aggiustamenti nelle ricette originali: 1- una riduzione degli ingredienti liquidi, per l’apporto d’acqua del miele; 2- una cottura a calore leggermente più moderato e più prolungata, per evitare l’eccessivo imbrunimento visto che il fruttosio contenuto nel miele caramellizza più facilmente del saccarosio (zucchero). Per i dolci al cucchiaio, budini, creme, gelati, bisognerà farsi guidare dal proprio gusto per scegliere il miele dall’aroma più adatto per

ogni preparazione; in genere, comunque, miele e prodotti derivati dal latte producono un accostamento molto piacevole. Concludendo questa breve trattazione non mi resta che ricordare a tutti i lettori, che esistono ovviamente in commercio i mieli di tipo industriale provenienti da ogni parte del mondo, e quelli di tipo artigianale, in vendita sul mercato locale. Inutile dire che solo quelli artigianali, cioè prodotti da piccoli e medi apicoltori, ben si prestano ad essere scoperti ed utilizzati sotto il profilo gastrofilosofico, cosi come lo abbiamo fin qui analizzato. Non abbiate paura della cristallizzazione del miele... è un fenomeno assolutamente naturale, anzi, la cristallizzazione, è garanzia del fatto che il prodotto non è stato lavorato a livello industriale!!! Chi volesse segnalarci ingredienti da trattare, puà farlo al nostro indirizzo gastrofilosofia@ossola.it

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aleggia è un meraviglioso piccolo mondo in cui le voci giungono rarefatte mentre lo sguardo spazia sul solco vallivo appena sopra la strada antronesca che serpeggia centenaria lungo il corso ripido del torrente Ovesca. A lato si scorge Montescheno che ben illustra, con le sue quattordici frazioni (in età storica) il proprio sedime celtico; ripiano montuoso che frammenta da un lato la valle dell’Ovesca e dall’altro il corso del torrente Brevettola.

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Valeggia è borgo che ancora conserva e propone - è il caso di dirlo - al viandante moderno un prezioso oratorio dedicato alla S. Maria di Re del XVII° secolo, un ben conservato torchio comunitario, un forno per il pane (quello duro e scuro di segale coltivate nei terrazzamenti che lambiscono, verso Zonca, le ultime case), abitazioni in pietra che ancora sanno catturare per le esatte proporzioni e per il nascosto regno della pietra che le costituisce. E’ anche luogo di passaggio della Processione di Santa Croce che dalla


chiesa parrocchiale portava, ai primi di maggio, i fedeli anche a Barboniga e Vercogno lungo i crinali verdeggianti della montagna. Da questo borgo molte sono le opportunità per risalire la Testa dei Rossi, passando dall’alpe Faiu e poi Pradurino (sentieri C 8 e C 10) o avvicinarsi al percorso degli Autani dei set frei (v.di Ossola.it n. 3 2009, pagg. 47 ss.), oppure raggiungere l’alpe Sogno lungo un giro ad anello lungo la valle del torrente Brevettola (sentiero C 6). Tuttavia questa volta catturati dall’atmosfe-

ra magica che quassù si respira e seguendo istintivamente le indicazioni di San Bernardo di Chiaravalle “Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce t’insegneranno cose che nessun maestro ti dirà”, ci dirigiamo con passo svelto verso un autentico patriarca della natura: un faggio ultracentenario, che si scorge, in alto, contro montagna. Usciti dal borgo si prenda la trattorabile per l’alpe Faiu, in viso si profila il Pizzo San Martino mentre il canto di Fringuelli e Lui piccoli asseconda il nostro desiderio di solitudine.

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Alla prima curva ci si porti lungo la traccia di sinistra e nel bosco di betulle, roveri, castagni e querce il lavorio del picchio accompagna il passo tra le cortecce slabbrate dai camosci e la terra rivoltata dai cinghiali. Sempre sicuro il sentiero prosegue fino ad una roccia impreziosita da venature dorate. Qui, per permettere il passaggio delle mucche, come in passato, è stato necessario allargare il percorso, la montagna ancora respira e vive. Sotto di noi trapela, tra la cortina di un giovane bosco, Zonca; proseguiamo seguendo le rade indicazioni di vernice rossa lungo una gradinata, oltre una baita diruta, fino all’ampio incavo di un rio lussureggiante d’acqua e colore e sovrastato dal regno chiaro di una cascata. Ormai intravediamo il nostro albero cosmico, l’Yggdrasill di questo crinale (anche se nella mitologia nordica Yggdrasil è il frassino di Odino) che signoreggia contro l’orizzonte di questa incipiente primavera. Oltrepassiamo allora una cappella votiva, un gruppo di baite a balcone sulla valle, l’alpe I Ross e siamo ai piedi del Re del Mondo a circa 1000 metri di quota. E’ immenso, un fag-

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gio ultracentenario, per abbracciarlo sono necessari almeno quattro uomini. Solitario svetta nel cielo e si distende, con i propri frutti dorati, ai quattro angoli del mondo. In questo nemeton celtico cogliamo con l’anima, con la punta dei pensieri l’immensità del regno che un albero del genere consegna agli uomini che lo ammirano, che si avvicinano alla sua corteccia lucente. Il ritorno si svolge lungo un ringweg che sfruttando l’antica mulattiera in breve ci riporta ad un’edicola votiva e quindi a Zonca alta. Luogo che denuncia la bellezza della sua impostazione architettonica con i loggiati e le colonne del vecchio monastero. Edifico in cui una vecchia signora per anni conservò e allestì una biblioteca per sé e per i viandanti. Lungo la via tappeti di botton d’oro, mughetti e l’odore forte di timo e tarassaco, il sentiero della luce, ci conducono ancora a Valeggia: regno dell’anima. Tempo: 2h. Difficoltà: E (escursionistica) Cartina: C.N.S. 1.50.000 n.275 “Domodossola”


Da Valeggia a Santiago sulla “Barca della Provvidenza” GIORGIO DA VALEGGIA: “COLORI DA SOGNI DERAGLIATI” di Giuseppe Possa

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aleggia, frazione di Montescheno, era disabitata quando Giorgio Sartoretti a metà degli anni Ottanta - in seguito a una crisi esistenziale che inciderà profondamente sulla sua vita e sulle sue future tematiche pittoriche - prese la decisione di fare solo il pittore, ritirandosi lassù in una specie di eremitaggio. In seguito, quasi tutte le case del piccolo agglomerato, che possiede ancora i simboli di una civiltà contadinomontana in via d’estinzione (baite, stalle, un lavatoio, un forno, un torchio, un piccolo oratorio) sono state recuperate per uso estivo. In quegli anni, però, Sartoretti era l’unico ad abitarci anche d’inverno; infatti, aveva ristrutturato una baita portandovi la residenza, per abbandonare la città e vivere lassù in solitudine dedicandosi all’arte. Dopo un primo periodo stimolante, attraversa momenti difficili, sprofondando pure in una crisi depressiva. Tuttavia, è sostenuto da alcuni amici che lo vanno a trovare spesso per discutere di cultura e per trascorrere momenti spensierati; s’immerge così in un periodo d’intensa e valida produzione pit-

torica, che diventa poi oggetto di una personale nel maggio del 1994, con la quale ottiene un enorme successo di stampa e di pubblico. Una mostra storica: per una settimana Valeggia (oltre cento quadri erano esposti nella sua abitazione e nei vicoli della frazione), in un caldo clima primaverile, è visitata da una fiumana di persone. Una “processione” che finisce per rianimare un Sartoretti (che per l’occasione sceglie il nome d’arte “Giorgio da Valeggia”) ormai sull’orlo di una crisi senza ritorno, e che gli apre nuove vie, nuovi orizzonti, ridandogli un po’ di serenità. Il ciclo delle opere create in quegli anni, forse il più fervido della sua produzione pittorica, è quello degli “hometti”, larve umane, creature mostrificate, emblematici esseri zoo-antropomorfi simbolici di una società brulicante di uomini-lombrichi, nella torturata e contraddittoria esistenza contemporanea. Oggi l’artista, vive il suo momento felice a Valeggia, scendendo di tanto in tanto a Domodossola nella casa di Laura, la sua compagna che ha conosciuto proprio in quella mitica esposizione. Lassù dipinge e ora anche scrive: è appena stato pubblicato il suo libro dal titolo “La Barca della Provvidenza” (un romanzo vero e proprio, sebbene nell’intreccio delle vite narrate ci sia anche una parte della sua travagliata biografia, a partire dagli anni Ottanta, quando appunto si è ritirato a Valeggia, borgo che rivive nelle pagine del volume). Questa sua attività di scrittore è iniziata nell’autunno del 2007, quando con Giorgio - fino ad allora noto solo come pittore - stavamo programmando per l’estate successiva una sua mostra itinerante in Valle Bognanco. All'improvviso decise di intraprendere il faticoso pellegrinaggio a piedi che porta a Santiago di Compostela. Ogni giorno, lungo il tragitto, prendeva appunti: una specie di diario in cui raccontava fatti ed emozioni del viaggio, ma anche ricordi,

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sogni, pensieri e avvenimenti della sua giovinezza, così come gli tornavano in mente. Al suo ritorno lo ha voluto pubblicare, per far conoscere la propria complessa personalità a chi apprezza la sua pittura. Con l’editing di Laura Savaglio ha quindi dato alle stampe <<La mia ombra ed io sul cammino di Santiago>>, che tanto successo ha riscosso nella nostra provincia, ma non solo. Giorgio da Valeggia, nato Crevoladossola nel 1945, dimostra, fin dalle elementari, interessi e attitudini al disegno, ma a causa delle condizioni economiche della famiglia è presto avviato al lavoro di decoratore. Si sposa a 17 anni (avrà sei figli) e la sua vita è costellata di sacrifici, ma anche di gioie familiari. Sul finire degli anni Settanta, apre con i figli più grandicelli un negozio di colori, cornici e altri articoli d’arte. Questa nuova attività gli permette di entrare in contatto con i pittori locali: con alcuni di essi fonda il G.A.O. (Gruppo Artisti Ossolano). In questo periodo, proprio per il risveglio delle sue passioni giovanili, frequenta i corsi pittorici di Carlo Bossone e di Rino Stringara. Decide così, come abbiamo visto, di dedicarsi completamente alla pittura, ritirandosi a Valeggia. Negli anni, ha allestito numerose mostre nel Verbano Cusio Ossola, a Novara, Torino, Roma, Como, Milano e in altre città. I suoi numerosi cicli pittorici vanno da quello iniziale dei “paesaggi”, alla “psicopittura” degli anni Ottanta, per arrivare alle “onde del sentire” e poi agli “hometti” o, ancora, il periodo di “Veseva”, dei “paletti” o degli “uomini che non vedono”, fino alle sequenze di “Oltre le porte”, “in attesa di…” e all’attuale “ricerca nell’anima delle cose su cui scorre il tempo”. Inoltre, nella sua continua metamorfosi ha dipinto volti inquietanti, quadri dal profondo senso spirituale, figure e ambienti vagheggiati, dalla vena calda, sognante e si è pure dilettato a scolpire suggestive ed emblematiche figure primitivototemiche, che fanno bella mostra di sè

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nel suo giardino o attorno alla casa. Sicuramente ai suoi due libri (un terzo è già in preparazione) e a questi cicli pittorici, altri se n’aggiungeranno in futuro, perchè Giorgio da Valeggia non si è mai fermato su un unico soggetto o argomento. Se qualcuno, recandosi a Valeggia per una piacevole passeggiata o per godersi l’intimità di questo angolino immerso nella natura, volesse ammirare anche le sue opere, può andare a trovarlo. Giorgio è sempre ospitale, riceve tutti come amici e parla volentieri del suo mondo che va al di là della realtà quotidiana, perchè la pittura per lui rappresenta la vita e attraverso di essa esprime le sue emozioni, i suoi sentimenti, la sua visione del mondo.

La Zattera 2000

Video presentazione


IL LIBRO di Claudio Zella Geddo

RACCONTI RIBELLI

La resistenza nel Cusio dalla Valle Strona alle cascine di Ameno

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acconti Ribelli è il 19° volume della collana di Tararà “Storie”, pubblicazioni che anno dopo anno, uscita dopo uscita hanno fatto luce, raccontato storie, episodi e personaggi che hanno contrassegnato la storia più recente del nostro territorio. Non sfugge a questo fil rouge Racconti Ribelli che è soprattutto un lavoro, un omaggio alla memoria e particolarmente a tutte quelle vicende resistenziali che hanno interessato, tra 1943 e 1945, il Cusio dalla Valle Strona alle pendici del Mottarone. Nell’intensa introduzione Vittorio Beltrami scrive profetico Il lavoro di Patera è appello e invito a dialogare al di là della dialettica e conflittualità politica, a unirsi nel rilanciare la democrazia nei sui fondamenti costituzionali e nel difenderla, prima che sia troppo tardi. Dunque l’attento lettore troverà in oltre venti capitoletti, occasioni per dare agio alle memoria di emergere con tutto il suo carico di giovinezza, coraggio e anche morte, la voce di Renato Patera che racconta, a partire dalla terribile data dell’8 settembre 1943, il suo apprendistato partigiano, la sua voglia di un mondo nuovo. Ecco allora profilarsi all’orizzonte il borgo di Agrano, la città d’Omegna, la sanguinosa alpe Del Barba e poi Miasino e Pisogno e boschi, alture, rii in cui il terribile urlo della guerra divampa. Vivida e impressionante, nonché ricca di notizie per lo storico, la descrizione del battesimo del fuoco del Patera tra Ornavasso e Condoglia. Scrive: Dall’esaltante esperienza vissuta in quella giornata non ho difficoltà a dire che, tra paura e incoscienza, penso di essere uscito più maturo e di avere imparato a dare più valore alla vita. Dettagliata poi la ricostruzione della battaglia di Megolo al Cortavolo, 13 febbraio 1944, ove trovò la morte, insieme ai suoi soldati, il capitano Fi-

lippo Maria Beltrami. Situazione in cui l’autore incontra in una grotta niente meno che un altro protagonista di quegli eventi ovvero Gino Vermicelli. Non mancano tra le pagine vivide descrizioni di figure di quei tempi travagliati come Mamma Bariselli, il comandante Beldì o il gran mediatore don Giuseppe Annichini o Don Sisto Bighiani, prete partigiano. Concludendo si può riportare una frase di Patera secondo cui La memoria è una grande ricchezza a cui non si può rinunciare. Al lettore il piacere, l’impegno a conoscere la storia magari integrando le sue letture con libri fondamentali sull’argomento come il fondamentale scritto di Claudio Pavone Una guerra civile (1991) o l’agile volume di Gianni Oliva I 600 giorni di Salò (1996). Pagine in cui il tema degli anni 1943-1945 viene contestualizzato in un ambito più ampio ove magari rancori, odi trovano una felice e distaccata analisi. Renato Patera, a cura di Paola Giacoletti. Tararà edizioni Verbania, pagg. 202, € 15,00.

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PAGINE FRAGILI

di Rosella Favino

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ra le pagine fragili della Storia, in questa primavera di celebrazioni per l’unità d’Italia abbiamo scelto un tema che ci riporta indietro nel tempo di secoli, in un periodo in cui lupi e orsi ancora scorazzavano per i boschi delle valli ossolane e la lingua più parlata in val Formazza era una sorta di Tedesco antico, un periodo inquieto in cui dal Passo del Gries calavano verso Domodossola i soldati vallesani del Vescovo di Sion e per i Formazzini , gente di confine anche nella verticalità degli spazi alpini, non c’era pace. Nel contratto iniziale di concessione delle terre alte in affitto ereditario, stipulato nel XIII sec. da alcune famiglie di origine alto-vallesana con i Signori della famiglia De Rodis, valvassori imperiali fin dal 1210, non sappiamo esattamente cosa era scritto, del documento originale non si è trovata ancora traccia. Tuttavia dal contenuto di documenti successivi è stato possibile ricostruire alcuni aspetti della storia delle comunità, e la ricerca storica è ancora in corso. Tracce di questa piccola, importante storia delle Alpi sono state trovate in archivi civili ed ecclesiastici a Novara, Pavia, Milano, Roma, e in un’abbazia della Svizzera romanda, in Canton Grigioni; qualcosa è ancora conservato con cura negli archivi comunali di Formazza e Premia, mentre minore fortuna ha avuto l’archivio di Salecchio, bruciato quasi completamente dopo l’accorpamento del Comune con quello di Premia, avvenuto nel 1928. Le Comunità Walser, nella valle AntigorioFormazza come in altre zone delle Alpi, erano rette da usi e consuetudini consolidati, riconosciuti, confermati e rispettati dai

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Signori del tempo a fronte di un contratto che prevedeva pochi obblighi da parte della Comunità: il pagamento dell’affitto, ovviamente l’obbligo di partecipare alla difesa. L’organizzazione della Comunità, tuttavia, era basata su consuetudini e portava a una gestione comunitaria delle scarse e preziose risorse del territorio: boschi, pascoli, acqua. Originariamente non sembra ci fosse bisogno di dare a queste norme una forma scritta ma il moltiplicarsi dei contatti tra comunità differenti, le questioni di confine, la necessità di gestire i rapporti con i forestieri resero necessario rivolgersi ad un’autorità superiore perché le consuetudini diventassero legge. Ecco che a partire dal XV secolo le Comunità chiedono all’Autorità di turno la conferma dei propri Sta-


tuti in forma pubblica: per la Val Formazza nel 1487 Gian Galeazzo Sforza concesse la propria approvazione; per Agaro nel 1513 la redazione degli Statuti avvenne alla presenza del Governatore elvetico; nel 1588 per Salecchio in febbraio e in maggio per Ausone, la promulgazione avvenne in onore del Serenissimo Filippo Re di Spagna. Nei secoli, i documenti antichi sono stati ripresi, tradotti e pubblicati, ma anche smarriti, alcuni poi anche fortunosamente ritrovati. Queste antiche testimonianze ci permettono di immaginare uno spaccato della vita tra le nostre montagne in altri tempi e di ripensare a quanto importante sia stata la concessione e la successiva riconferma di un margine di autonomia nella

gestione amministrativa di comunità le cui condizioni di vita e ambientali erano sfidanti e difficilmente comprensibili per chi, da un certo punto della nostra storia in poi, governava queste terre da centri di potere lontani. Nel celebrare l’unità del nostro Paese, oggi l’importanza del rispetto delle differenze culturali e delle specificità locali emerge con forza come elemento di grande ricchezza e di speranza per il futuro: è un valore sul quale costruire un’Italia migliore. [1] Renzo Mortarotti, I Walser, Libreria Giovannacci, Domodossola 1979 [2] Statuti di Agaro, Ausone e Salecchio riportati in I Walser del silenzio, Ed. Grossi, Domodossola, 2003

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di Riccardo Faggiana

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in da piccolo, abitando a Vogogna sul fiume Toce, ho avuto il desiderio di discenderlo fino al lago Maggiore, sono le classiche avventure che ogni bimbo sogna. A quei tempi il fiume aveva una portata maggiore e non avendo le giuste cognizioni l'avventura che sognavo sembrava ardua. Fantasie a parte, la discesa del fiume Toce è alla portata di tutti, anche per quel che riguarda il natante. Infatti passati trent'anni da quei sogni d'avventura sono riuscito lo scorso anno a compiere il viaggio, ovvio nulla di trascendentale, un viaggetto tranquillo, 26 chilometri di percorso turistico, ma l'eccitazione c'era e lo ricorderò negli

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anni a venire. Per quanto riguarda l'attrezzatura ho optato per una canoa gonfiabile due posti, della Sevylor, ben costruita, ad un prezzo piu' che ragionevole. A completamento ho acquistato anche gli indispensabili giubbotti, delle robuste pagaie, una sacca a tenuta stagna per macchina fotografica e il cellulare, e una muta leggera. In tutto 500 euro circa. La canoa gonfiabile è facilmente trasportabile e non occupa troppo spazio, inoltre, per i recuperi basta una normale autovettura, si sgonfia e la si ripone nel bagagliaio. Insomma tanti pregi e pochi difetti. E se vi chiedete quan-


to tempo ci vuole per il gonfiaggio rimarrete sorpresi nell'apprendere che esiste una pompetta elettrica a batteria che gonfia e sgonfia la canoa in soli 10 minuti. L'unico inconveniente a cui possono andare incontro questo tipo di imbarcazioni è la rottura o foratura. Quest'ultima la si può facilmente riparare una volta a terra, per la rottura invece... bè basta evitare lamiere, massi taglienti e quant'altro possa provocarla! Vale sempre la pena, la navigazione dei fiumi, e' una esperienza... zen. Si ha il vero contatto con la natura, si ha una nuova visione del territorio. Ad esempio, in alcuni tratti il fiume Toce sembra lo Yangtze. Non che sia mai stato in Cina, ma ho visto delle immagini dello Yangtze e vi garantisco, complici le brume autunnali, che sembrava proprio di essere lì. La partenza si effettua a Vogogna dal ponte della Masone, un ponte che ha compiuto da poco 200 anni. Il motivo della partenza da questo ponte e' che poco piu a monte "a Prata" il fiume è sbarrato dalla diga che convoglia le acque nel canale della fabbrica che troveremo poco piu a valle. Purtroppo questo canale convoglia la maggior parte dell'acqua che il fiume porta a valle, anche se verrà poi riceduta al fiume qualche chilometro piu a valle. Quindi, se ci sono le condizioni, la partenza potrà essere effettuata da questo ponte altrimenti ci si dovrà spostare poco più a valle, alla passerella che collega Vogogna al comune di Pieve Vergonte. Qui sotto c'è una spiaggetta che sarà un buon punto di varo. Subito un po’ di correntina e si parte... Il Toce è un fiume tranquillo, raramente si incontrerà qualche tratto veloce, e comunque solo in questa prima parte, ma questi tratti sono davvero corti e gestibili. Passata qualche ansa ci troveremo

presto, all'altezza di Premosello a dover gestire l'immissione d'acqua del canale prima descritto. Da questo punto, l'acqua è più abbondante e la discesa piu' divertente. Ben presto ci troveremo al cospetto del granitico ponte di Migiandone, il punto più critico dell'intera gita, perchè non c'è possibilità di doppiarlo a bordo della canoa, dato che i blocchi per smorzare il flusso dell'acqua sono stati posati senza pensare a questa possibilità. Ho individuato un punto sulla destra appena prima del ponte, dove è possibile prendere terra per trasbordare a piedi. C'è qualche masso viscido da saltare, ma facendo attenzione il tutto può essere fatto in sicurezza. Non appena attraversato il punto morto del ponte si andrà a percorrere il tratto più bello dell'intera gita. E'

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qui che ho avuto le mie visioni ‘zen’, ed è qui che avremo la sensazione di aver fatto qualcosa di bello. è il tratto più selvaggio, quello più ricco di fauna, e incontreremo anatre, cigni, cormorani, aironi e se fortunati anche altro. Altre anse e si arriva presto a Ornavasso passando ancora un punto di corrente in acqua bassa, che nel periodo di siccità sarà da fare a piedi. Non ci resta che scendere ancora fino ad arrivare ai piedi del Montorfano, ora il fiume è placido, si allarga, e la vegetazione si fà più fitta e il paesaggio decisamente più selvaggio. Il tratto finale è lento e ci sarà da remare fino alla nostra meta, il Lago Maggiore. Il recupero lo si può fare sulla prima spiaggetta a sinistra appena finisce il fiume, oppure a Feriolo, appena dopo l'area dedicata ai campeggi, così ci godremo anche un tratto di lago tra i piu belli.

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When I was young living in Vogogna on the river Toce, I had a dream: to sail it down to Lake Maggiore. It was the wonderful adventure every child dreams. Thirty years after that dream my fabulous idea came true: I sailed down the river Toce on a quiet and enjoyable 26-kilometer cruise. The experience was so exciting, well worth doing. I could come into contact with Nature, I could see our land from a different point of view. The “Toce” is like the “Yangtze” in some of its stretches. It seemed like being on that Chinese river while I was sailing down the Toce into the mist. The only thing you must do is to wait for the good current and then you can start off. The river Toce is quiet and peaceful, you can rarely find a quick flowing stretch. Note: the best period to sail the river is obviously the Spring when snow on the mountain tops is melting. During the Summer, if it is rainy, the river is navigable but the water is icy. So we will have a swim in the lake……which is much better.

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NOTE: Il periodo migliore per effettuare la discesa è ovviamente la primavera, allo scioglimento delle nevi. Anche durante tutta l'estate "se piove" il fiume è navigabile, l'acqua è sempre fredda perchè nasce dai ghiacciai alpini, perciò il bagno lo faremo al lago... li è tutta un'altra acqua!

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Accompagnati dalle guide del Kayak Club Val d’Ossola, durante tutta l’estate, è possibile discendere il fiume Toce, dalla centrale di Megolo fino alla passerella in ferro all’altezza di Ornavasso. L’imbarco si trova al termine di una stradina, di fronte alla chiesetta nell’abitato di Megolo. Il percorso, di otto Km circa, è adatto a tutti, anche famiglie con bambini non presentando particolari difficoltà (1°-2°). Questo tratto di fiume proprio per la sua tranquillità è adatto, sia alla discesa in rafting che in canoa canadese aperta ed in kayak, per principianti e non, meglio se accompagnati da esperti.

Corsi di nuoto - Acquagym - Hidrobike TENNIS - CALCIO A 5 - BEACH VOLLEY Info 0324.482475 - piscinedomo@libero.it

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Ristorante

Lago delle Rose SpecialitĂ ossolane e di pesce Ampia sala ristorante per cerimonie Pesca sportiva

Chiuso il LunedĂŹ

www.lagodellerose.it - lagodellerose@ossola.com Via Pietro Iorio - Ornavasso (VB) - Cell. 333.982 9810

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di Cecilia Marone

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l primo documento in nostro possesso riguardante l’edificio che diventerà nel 1982 la Casa Museo Walser di Borca risale al 6 luglio 1701. Dinanzi al notaio Giovanni Battista Jachino fu Giovanni di Macugnaga gli uomini del quartiere di Borca, per il prezzo di 500 lire imperiali, acquistarono da Giovanni Battista Lanti senior l’abitazione per il sacerdote addetto all’Oratorio della Madonna della Neve e coadiutore di Macugnaga. Cristoforo dei Lanti junior fu Giacomo, Cristoforo Frezio fu Bartolomeo, i fratelli Giacomo e Cristoforo fu Giacomo dei Lanti di Spiss, Giacomo fu Tommaso dei Lanti di Isella, Bartolomeo Jachini fu Cristoforo, Giacomo fu Aurelio Burca (unico cognome fra quelli trascritti oggi scomparso a Macugnaga), Cristoforo fu Aurelio Burca, Cristoforo fu Giovanni Jachini di Quarazza, Giovanni Battista fu G. Battista Burca, Giacomo fu Cristoforo dei Lanti junior, Giacomo Marono fu Giovanni e Cristoforo fu Bartolomeo Frezia: furono questi gli uomini di Borca che assicurando di essere più dei due terzi dei frazionisti comprano per il reverendo cappellano e per i suoi successori la casa “dalle fondamenta fino al tetto”, onorando anche i debiti del vecchio proprietario. La posa della prima pietra dell’oratorio della Madonna della Neve era avvenuta nel 1674 e con l’acquisto di una dimora, il sacerdote avrebbe avuto un’abitazione consona e vicina della chiesa. Il 14 luglio 1982 presso lo studio notarile dell’avvocato Carla Quinto di Gravellona Toce, tredici macugnaghesi e il parroco del paese, firmarono l’Atto costitutivo dell’associazione “Alts Walserhüüs van zer Burfuggu”. Antematter Sonia, Basaletti Angelo, Bettoli

Lino, Campanella Francesco, Da Boit Mario, Sergio Frezza, Lanti Alda, Marone Roberto, Micheli Fernando, Morandi Eugenio, Morandi Vittorio, Pala Mario, Schranz Walter e don Maurizio Midali furono i soci fondatori dell’Associazione. Lo scopo dell’Associazione era ed è di “curare la raccolta, lo studio, la pubblicazione, l’esposizione permanente o temporanea di documenti e testimonianze od oggetti concernenti la vita e la storia di Macugnaga, quali l’antica casa Walser; la vita all’alpe; la vita in miniera; l’arte; il Monte Rosa e la sua storia…”. In accordo con il parroco di Macugnaga si stabilì che l’antica casa del prevosto di Borca, situata ai piedi della frazione divenisse la sede del Museo. La casa fu risanata poiché nei decenni precedenti era stata affittata a famiglie bisognose ed era sostanzialmente vuota. Non furono eseguite modifiche strutturali: il complesso fu mantenuto nella sua completezza. Le uniche modifiche, peraltro necessarie, furono la posa dell’impianto idraulico per il riscaldamento, dell’impianto elettrico e dell’impianto d’allarme. La casa fu oggetto di una profonda pulizia e di un deciso risanamento e in seguito s’iniziò una raccolta di oggetti della vita quotidiana per allestire l’edificio affinché divenisse un museo etnografico: il tutto grazie al pre-

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ziosissimo lavoro dei volontari che animarono il progetto, molti dei quali ancor oggi si occupano della gestione della struttura e ai quali va un sincero ringraziamento. Il consiglio di presidenza del Museo fece davvero un lavoro eccellente: oltre 650 oggetti costituiscono oggi le collezioni della struttura museale, che con il passare degli anni è divenuta polo d’eccellenza dello studio delle popolazioni montane e della cultura Walser. Il Museo è composto da sette sale espositive ossia dai sette vani dell’antica abitazione. La prima delle sette sale cui si accede è il focolare, ossia il luogo nel quale i Walser cucinarono e confezionarono gli alimenti (zuppe, polenta, formaggio, carni, patate...), ed anche il luogo nel quale si può caricare la bocca di fuoco che alimenta

la casa, un ambiente finemente rivestito con pannelli lignei e nel quale è posto il fornetto. La grande sala era l'unica zona riscaldata della casa e per questo motivo in essa si dormiva, si pregava, si lavorava e si svolgeva la quasi totalità delle azioni quotidiane della famiglia. Tra le altre cose è visibile nell’immagine sottostante il famoso “roll-bet” il letto matrimoniale con le ruote, sotto il quale è posto un secondo letto per ospitare i membri più giovani della famiglia e accanto al quale vi è la culla lignea per i neonati. E’ in questa sala che troviamo il fornetto, la grande stufa di pietra ollare, sgrossata, bocciardata e assemblata da pazienti mani, che per molti secoli rappresentò l’unica forma di riscaldamento dell’unità abitativa. Quest’anima calda è posta in due diver-

la grossa stufa di pietra ollare, il fornetto, unico sistema di riscaldamento della casa. La seconda sala fu in origine l’ingresso della casa. In quest’andito troviamo oltre ad alcuni capi di vestiario, una vetrina illuminata contenente oggetti preziosi, come libri antichi e monete, un banco sul quale sono esposti oggetti del fabbro e dello stagnino e una zona dedicata ai minatori della Valle Anzasca. Si accede quindi alla stanza principale del-

si locali: la bocca di fuoco nel focolare (Firhüüs), il corpo riscaldato nella Stobu. L’accensione del fornetto è compiuta una volta al giorno, introducendo nella cavità interna quattro o cinque grossi ceppi di legna (abete, larice, faggio, maggiociondolo). Nel periodo più freddo dell’anno si può accendere il fornetto anche due volte al giorno, generalmente mattina e sera. Sebbene il sasso impieghi almeno un’ora ad intiepidirsi, una volta raggiunta


la temperatura massima, nelle ore successive rilascia calore decrescente, omogeneo e salubre. Al piano inferiore si trova la sala espositiva che conserva una cinquantina di antiche riproduzioni e stampe del paese di Macugnaga e dei suoi abitanti. Il piano alto del Museo si suddivide in tre sale. La prima stanza è dedicata agli antichi mestieri (falegname, bottaio, calzolaio...) con oggetti unici, funzionanti e perfettamente conservati. La seconda sala è riservata al complesso lavoro della panificazione: il pane di segale, cotto una sola volta all'anno, costituiva l'elemento base dell’alimentazione del popolo Walser. La terza sala espositiva conserva alcuni abiti tradizionali, oggetti e documenti delle miniere aurifere di Macugnaga, beni demo-etno-antopologici rari. Il Museo fu aperto al pubblico grazie al lavoro dei tanti volontari che spesero il loro tempo e il loro impegno nell’impre sa e alle tre custodi storiche: le signore Anna Nava Bettineschi, Carla Anghini Alessi Bettineschi e l’attuale custode Rosalia Francioli Morandi. Nel 2002 il Museo è stato scelto e ha aderito al Progetto di catalogazione Guarini della Regione Piemonte; nel 2006 ha aderito all’Associazione Museo d’Ossola (www.amo.it); nel 2007 il Museo ha partecipato, con ottimo successo, al Progetto Interreg IIIB Walser Alps che è culminato nella creazione della banca dati www.walser-cultura.it. Collabora attivamente con Enti, associazioni presenti sul territorio e con strutture museali o associazioni Walser internazionali.

Orari di apertura: Periodo invernale 26 dicembre - 6 gennaio tutti i giorni 15:30 - 17:30 Pasqua e lunedì dell’Angelo 15:30 - 17:30 Periodo estivo Giugno sabato e domenica 15:30 - 17:30 Luglio tutti i giorni 15:30 - 18:30 Agosto lunedì - venerdì 15:30 - 18.30 sabato e domenica 10 - 12/15:30 - 18.30 Settembre fino alla prima domenica del mese tutti i giorni 15:30 - 17:30 www.museowalser.it Centro abitato Borca 271, 28876 Macugnaga Telefono +39 348.9842329

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di Paolo Crosa Lenz

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l Monte Rosa è la “Montagna Madre” della Pianura Padana, fin dal Medioevo ritenuto la montagna più alta delle Alpi, essendo il Monte Bianco nascosto entro la Valle d’Aosta e non visibile se non da pochi chilometri di distanza. Per questa ragione possiamo ritenere che il Momboso dello storico Flavio Biondo (XV secolo) sia il nostro Monte Rosa. Leonardo da Vinci scrisse di aver salito la Grigna ed il Momboso fino ad una certa quota, ma dove fece l’ascensione di preciso non lo sappiamo. Nel 1567 Josias Simler affermò che i Salassi chiamavano Rosa quel monte che i Seduni, gli abitanti del Vallese, indicavano come Monte Silvius, la traduzione latina di Mombos-us.

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La “scoperta” del Monte Rosa avvenne alla fine del ‘700 ad opera del naturalista ginevrino Horace Benedicte de Saussure che nel 1789 descrisse per primo la grande montagna e visitò le valli ai suoi piedi. Due anni prima il torinese Conte Morozzo della Rocca si recò a Macugnaga sia per studi scientifici, come il determinare la quota esatta delle vette, sia per tentarne l’ascensione: dopo aver attraversato tutto il ghiacciaio del Belvedere, risalì sulle rocce scoscese del crestone Marinelli raggiungendo i 3000 m di quota. Il Morozzo comunicò a De Saussure la sua ferma convinzione che questa montagna fosse alta almeno come il Monte Bianco. De Saussure arriva a Macugnaga nel luglio


1789 accompagnato dal figlio e alloggia per undici giorni nella povera locanda di Anton Maria Del Prato che elegge a base logistica per le sue escursioni. Accompagnato da Giovanni Battista Jacchetti, un cacciatore di camosci antesignano delle guide alpine, sale alla Pedriola per tentare l’ascensione del Pizzo Bianco di cui raggiunge l’anticima. L’anno precedente sette giovani pastori walser di Gressoney avevano vinto la paura delle altezze giungendo nei pressi del Colle del Lys, alla “Roccia della scoperta”: stavano cercando la mitica “valle perduta” della tradizione leggendaria walser, luogo di delizie, di benessere e di felicità. Avevano per la prima volta sfidato il mondo dell’ignoto e rotto l’incantesimo per cui i ghiacciai erano il luogo dove le anime dannato espiavano le loro pene. Nella prima metà dell’Ottocento vengono salite le vette principali del Monte Rosa dal versante occidentale e meridionale (la Dufour nel 1848). Dopo la metà del secolo l’ambiente culturale del nascente alpinismo cambia e si organizza, si pongono nuovi e più ardui obiettivi. In Inghilterra nasce l’Alpine Club (1857) e in un breve volgere di anni quello austriaco (1862), svizzero e italiano (1863). Sono gli anni dell’alpinismo esplorativo nel quale gli alpinisti cittadini, colti e benestanti, si facevano accompagnare da guide valligiane. Le guide conoscevano i luoghi, portavano viveri ed erano garanti della sicurezza durante l’ascensione. Spesso le guide alpine erano anche cercatori di cristalli e grandi cacciatori di camosci e queste attività abituali erano la “formazione” naturale al mestiere. L’alpinismo esplorativo vede la ricerca di itinerari di salita lungo i versanti non conosciuti delle montagne, non ricerca le difficoltà o la “via” impegnativa ed esteticamente “bella”. Il fascino di un versante vergine e mai percorso dall’uomo catalizzava sogni e progetti di quella generazione di guide e di alpinisti. Gli attrezzi erano le “picche”, allora evoluzione moderna dell’alpenstock, le pesanti corde di canapa che si

irrigidivano se impregnate d’acqua, gli scarponi chiodati. Di chiodi e moschettoni non si fa cenno nelle relazioni dell’epoca. Nel 1872 viene conquistata la parete est. La prima salita è opera di Ferdinando Imseng di Macugnaga che accompagnò tre inglesi con altre due guide. Imseng aveva 27 anni e di professione faceva il cacciatore di camosci e il minatore: dopo quell’ascensione, frutto del suo intuito e senso della montagna, diventò guida a tutti gli effetti e quattro anni dopo realizzò anche la prima ascensione della Nordend da Macugnaga. Imseng morì nove anni dopo nella tragedia Marinelli e una targa lo ricorda nel cimitero di Chiesa Vecchia: bonne guide, honnete homme. Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento la “grande parete” attrasse da allora i più bei nomi dell’alpinismo. Del 1889 è l’ascensione del sacerdote Achille Ratti che diventerà Papa Pio XI; nel 1925 il viennese Oskar Franz la sale e scende da solo. Poi tante imprese e tante tragedie: una straordinaria salita solitaria di Hermann Buhl, vagabondo per grandi pareti, la morte della guida Gildo Burgener sulle roccette della Dufour (il suo corpo non venne più ritrovato). La prima ascensione invernale della parete est avviene nel marzo 1953 ad opera di Oliviero Elli ed Emilio Amosso. Nel febbraio 1965 le guide di Macugnaga Felice Jacchini, Michele Pala, Luciano Bettineschi e Lino Pironi raggiungono la vetta della Dufour dopo un gelido bivacco a 300 m dalla vetta.


Viaggiare con lentezza... di Roberto Pastore Galderio

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E

’ domenica mattina. Preparo lo zaino con la macchina fotografica e le pellicole. Sono diretto in Svizzera. In stazione a Domodossola chiedo un biglietto per Briga e oltrepasso la frontiera una prima volta, Briga è la prima fermata dopo il tunnel del Sempione, una ventina di chilometri al buio. Si trova nel Canton Vallese a circa 700 metri sul livello del mare, latitudine 46° 18’ Nord, longitudine 7° 58’ Est. Quando esco sul piazzale della stazione vedo un gran movimento di persone, molti turisti, che da qui partono per le località di montagna, utilizzando corriere e treni. Durante la settimana invece riprende il via vai dei residenti, presi dalle attività quotidiane. Vado verso la corriera del servizio postale. La mia destinazione ora è Domodossola, torno in Italia. Attraverso di nuovo la frontiera, questa volta in un bagno di luce. L’autista mi saluta e mi parla in tedesco, penso voglia conoscere la mia destinazione. Pago il biglietto e prendo posto vicino al finestrino. Ho circa due ore di viaggio. In attesa della partenza osservo le persone che salgono. Organizzate e precise, sistemano il proprio bagaglio. Alcuni portano con sé il cane. Si siedono, parlano tra di loro, guardano fuori dal finestrino, la giornata è bellissima. La corriera si è riempita, in pochi abbassano l’età media. Come altre volte penso di essere l’unico con natali a sud delle Alpi. Si parte, lasciamo Briga alle spalle. Lungo la strada che sale verso la montagna molti passeggeri scendono per proseguire l’escursione a piedi, magari sulla Stockalper Weg (la Via Stockalper), l’antico sentiero del Sempione, e alla fine della giornata ritornano a casa ancora con la corriera. Vedo molte persone, anche in bicicletta, l’importante è stare in giro all’aria aperta. Io, intanto, proseguo il mio viaggio. Osservo il panorama e mi abbandono alla visione.

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Il fascino del

Monte Cistella di Claudio Zella Geddo

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l monte Cistella è una montagna affascinante, giustamente considerata come una delle più belle cime dell’Ossola. Sita al centro delle Alpi Lepontine si staglia dominatrice con il suo altopiano dall’armoniosa forma. Chiunque sia passato anche una sola volta per le valli dell'Ossola, non può non averlo visto. Lo si nota dalla superstrada del Sempione, scendendo dalla Val Vigezzo, dalla val Formazza, dalla val Divedro, da Devero... lo si vede un po' da ovunque. Quante volte raggiunto un passo, un'alpe, una vetta lo trovi lì di fronte, dall'alto dei suoi 2880, ad osservare. Il Cistella è ricco di storia e soprattutto di

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leggende arcane e misteriose. Le streghe del Cistella sono ricordo ancora impresso nella memoria degli ossolani, al sibilo della baiorda le si poteva scorgere roteare e si potevano udire le loro litanie funeste. L’altopiano era considerato con terrore il gran salone da ballo di messer Diavolo… povero il malcapitato che al calar del sole avesse a trovarsi in quei luoghi! Non esistono notizie sui primi salitori, ma dalla seconda metà dell’800 la montagna fu esplorata da alpinisti e geologi alla ricerca di minerali. Fu verso la fine del secolo che, per forte volere e coraggiosa iniziativa del poeta


dialettale Giovanni Leoni, allora presidente del Cai ossolano, venne costruito lo storico rifugio sotto la vetta, inaugurato nel 1901. Il rifugio è tuttora funzionante, incustodito ma sempre aperto. La salita al monte Cistella è una meta ambita dagli escursionisti, sia per il vasto panorama a 360°, sia per l’accesso, un po’ faticoso, ma su bei sentieri segnalati e agevoli. E poi, a ripagare della fatica, dalla vetta…tutto sarà ai vostri piedi… potrete ammirare il mondo dall’alto. Dal monte Rosa e la sua capanna Margherita, ai 4000 della svizzera, dal vicino anfiteatro del Monte Leone alle vette Lepontine, per poi spaziare dal Monviso all’Adamello passando dai laghi e dall’ immensa pianura a perdita d’occhio. Accessi remunerativi e contemplativi si sviluppano dal Vallone di Solcio e da Foppiano, con possibilità di un percorso ad anello. Merita inoltre fermarsi per qualche ulteriore giorno nelle sottostanti vallate per un meritato relax e per ammirare, dopo averne raggiunta la cima, il gruppo del monte Cistella.

ACCESSI: DA SOLCIO Partenza: rifugio Crosta all’Alpe Solcio m 1750 (raggiungibile su buon sentiero da Foppiano, da Varzo e da S. Domenico) Dislivello: m 1130 Tempo di salita: ore 3 Difficoltà : E DA FOPPIANO Partenza: Alpe Foppiano m 1210 (raggiungibile da Crodo, valle Antigorio, su strada asfaltata) Dislivello: m 1660 Tempo di salita: ore 4,30-5 Difficoltà: EE DA CIAMPORINO Partenza: Dall’Alpe Ciamporino m 1975 (raggiungibile con la seggiovia da San Domenico) Dislivello: m 1000 Tempo di salita: ore 3,30 Difficoltà: E

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Mcome sinonimo di prati, sole, montaolte persone conoscono l'Alpe Devero

gne, camminate. Molte altre la conoscono sotto un'ottica più alpinistica: è infatti una piana circondata da vette storiche per l'alpinismo ossolano (dal Cervandone, alla famosissima punta della Rossa, passando per la Marani, la Gerla, il pizzo Bandiera e cosi via). Ma una piccola parte di scalatori da anni ormai sta cercando di far conoscere il DEVERO come area boulder. Fin dai primi anni del nuovo secolo infatti, spinti dalla forte espansione del bouldering, un'arte che esalta la forza esplosiva e la libertà del movimento, un ‘arrampicata senza l'uso di corde, moschettoni, imbraghi o altro materiale, ma solo con l'utilizzo di scarpette e materassini, ecco nascere i primi passaggi sui blocchi sparsi per la piana. Ricordiamo ancora le prime uscite in Devero con i crash pad in spalla e le domande dei curiosi su cosa fossero quegli strani zaini, sul loro utilizzo e se al loro interno vi fosse nascosta la fidanzata! E ricordiamo

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ancora le espressioni curiose che la gente ci rivolgeva quando vedeva noi pulire con spazzole e spazzolini da denti i sassi. Da allora molti sono ora i passaggi aperti e gradati ma le possibilità di sviluppo sono ancora molte. La zona boulder si espande principalmente alle spalle del Rifugio Cai Gallarate dove si puo trovare la cartina dei blocchi. I blocchi che consigliamo e forse i più belli esteticamente sono: LA PRUA, una vera prua che non è cosi banale da chiudere... il RAPANUI, un gran blocco in mezzo al prato (che ancora oggi ci chiediamo come diavolo ha fatto ad arrivare sino li) e che ci ha ricordato le statue dell'isola di Pasqua per la sua forma; la CANTINA, un tetto duro con poche e piccole prese scalabile anche in condizioni avverse del meteo; il SASSO BERHAULT, dove leggende narrano che sia passato di li un certo Patrick Berhault, il SASSO DELL'ACQUA pieno di passaggi fisici e un lancio molto, molto estetico per tutti gli appassionati del genere... Il periodo migliore per la scalata risulta sicuramente essere quello estivo lontano


dall’afa e dal caldo delle città ma non sono certamente da evitare i mesi primaverili previo scioglimento della neve o i mesi di settembre o ottobre dove si può scalare tra i colori autunnali in una cornice dorata. Inoltre ogni anno si organizza il DEVERO BLOCK un raduno che attira sempre tanti ragazzi attratti dalla bellezza del luogo, dalla passione per uno sport che a differenza di molti altri lega le persone anziché dividerle per il colore diverso della maglia, dalla voglia di mettersi in gioco di fronte a un passaggio senza lo stress del rischio di volare per qualche metro seppur legati da una corda. In conclusione grazie alla nostra esperienza consigliamo vivamente di passare una o più giornate in questo parco naturale per la bellezza del luogo stesso, per l’ottima cucina locale e infine per la meritevole scalata.

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Parete sud della cresta ovest del Mittelruck di Stefano De Luca

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Apritori: Fabio Cappelletti e Stefano De Luca - Settembre 2009 Difficoltà: 6b max; 6 a+ obbl. Sviluppo: 500 m Materiale: 2 mezze corde da 60 m, 13 rinvii, cordini per allungare gli ancoraggi, serie di friend e nut, ramponi per arrivare all’attacco (a seconda delle condizioni del nevaio) Avvicinamento: Pernottare al Rifugio Andolla (Valle Antrona, a circa 2 ore di cammino da Cheggio). Percorrere il sentiero per il bivacco Varese (anche qui è possibile pernottare), proseguire lungo il sentiero segnato per la ferrata del Lago e poco prima di questa lasciare il sentiero e salire verso destra seguendo una vaga morena che conduce alla base della parete, in prossimità dell’evidente canale che scende dalla antecima del Mittelrück. L’attacco della via è situato a circa 20 metri a sinistra del canale (dal Rifugio Andolla 1h 45, dal bivacco Varese 0h 30). Discesa: Consigliata per la cresta ovest e la ferrata del Lago (possibile in doppia).

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Freerid e di Ricca

rdo Fag g

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L

e discipline del Downhill “in gergo DH” e del freeride sono sempre più conosciute. Per chi comunque ancora non sa di cosa stiamo parlando le spieghiamo, semplicemente paragonandole alle attività dello sci. Per cui, il crosscountry stà al fondo, il downhill alla discesa e il freeride allo scialpinismo. In verità il freeride viene praticato con lo stesso approccio anche nello sci, si sale con gli impianti o con altri mezzi, “elicottero o motoslitta” e si scende interpretando liberamente la discesa. Quindi possiamo affermare che il termine freeride viene in egual modo riferito allo sci e alla MTB. L’approccio mentale è identico, si scende in libertà, curvando, droppando “salto verso il basso” e sopratutto evitando, si perché l’abilita’ sta nel fatto di trovare la linea migliore, più divertente e gratificante cercando di evitare gli ostacoli più insidiosi. Si avranno così sensazioni di libertà, di controllo, di capacità acquisita e il contatto con la natura è assoluto, poiché questa viene percepita ad un livello superiore. Nelle frazioni di secondo che attraversiamo un pendio, evitiamo un masso o un’ albero, effettuiamo una curva, il nostro cervello analizza il terreno, visualizza e memorizza ogni particolare. Tutto è scansionato ed elaborato, velocemente e profondamente, si ha perciò un’immersione totale nell’ambiente. una consapevolezza superiore, globale, che difficilmente si potrà avere con altre pratiche. Questo è uno dei motivi fondamentali per cui fare freeri-

de è altamente gratificante.. Le biciclette da freeride hanno prestazioni straordinarie, sono dei veri e propri concentrati tecnologici, perlopiù bi-ammortizzate, cioè dotate di ammortizzatori posteriori che possono andare dai 160mm ai 240mm, mentre la forcella ha un’escursione che varia tra 180mm e 200mm. I copertoni sono tacchettati per maggiore aderenza e sono anche più larghi di quelli normalmente usati sulle MTB. I freni sono sempre a disco idraulici, i pedali sono molto larghi e chiodati per una maggiore aderenza del piede. I cerchioni hanno solitamente un elevato numero di raggi per sopportare le sollecitazioni degli urti e della potente frenata a cui il mozzo è sottoposto dato il disco. Può sembrare uno sport pericoloso e a volte lo è, ma tutto dipende da noi, da quanto vogliamo rischiare. Se la discesa avviene ad una velocità proporzionale alle nostre capacità non è più rischioso dello sci. Del freeride esistono altre varianti, come il northshore; un percorso artificiale fatto di strutture in legno di varie altezze e fatture, queste solitamente le troviamo nei bike park e nei resort dedicati alla disciplina. Altre specialità legate alla gravity che pur-

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troppo in Ossola non vengono praticate per mancanza di impianti sono il dirt; una serie di salti in terra battuta da superare con evoluzioni e “forzatamente” possiamo inserire anche il four-cross, “detto 4X” è una competizione ad eliminazione tra quattro biker, in brevi tracciati quasi completamente artificiali con salti e ostacoli. Qui occorrono bici più leggere adatte agli scatti energici. Poi c’è l’enduro; specialità tra freeride e crosscountry, con buona parte del percorso in discesa, lungo diversi chilometri. La val d’Ossola è potenzialmente adatta a queste discipline, in particolar modo questo vale per il freeride che è praticabile un po’ ovunque. A San Domenico tra giugno e agosto la seggiovia biposto in due tronconi è aperta ed è fornita di ganci per il trasporto della bicicletta. Ciamporino è una località adatta per un freeride a tratti estremo. Consigliamo anche un giro all mountain: Dall’arrivo a Ciamporino, salire sino al Passo della Sella, scendere poi verso la Val Bondolero fino ad Esigo, qui prendere la via degli Squettar “scoiattoli” che ci porta a Cravegna. Da qui si scende ancora verso Crevoladossola. “Poi servirà il recupero dell’auto a San Domenico”. All’Alpe Lusentino invece si sta lavorando per la realizzazione di una pista da DH e vari tracciati da freeride. Qui troviamo una seggiovia biposto in due tronconi. E’ bene chiamare la stazione per avere informazioni dettagliate. Alla Piana di Vigezzo c’è una cabinovia con possibilità di carico della bicicletta 2 per volta. Quì il percorso freeride

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è medio-duro, approntato qualche anno fa per una gara regionale di DH. Il fondo è variabile; pietraia, sottobosco, prato e mulattiere. Prestate attenzione, quì i sentieri a volte sono difficili da trovare e si rischia di finire lontano dagli impianti. Apertura tutto l’anno e risalite ogni ora. Anche a Macugnaga qualcosa si sta facendo, per ora, sembra, un campo scuola per bambini. Un’altro spot adatto è il Mottarone. Si sale con la funivia divisa in due tronconi e si scende nei vari percorsi freeride creati negli anni dai tanti appassionati. Per chiudere una doverosa precisazione, i percorsi di freeride a differenza delle piste da DH appositamente realizzate, sono quasi sempre, sentieri escursionistici. E’ buona norma e doveroso quindi mantenere sempre una velocità di sicurezza. Questo anche per preservare il futuro della disciplina.


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di Claudio Zella Geddo

Nella foto Luca Cotone

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TI DEL LUGLIO I CAMPIONA MONDO DI TRIAL E MASERA TRA MONTECRESTESE

mmancabile per appassionati di motori e sport l’evento sportivo che avrà luogo sabato 9 e domenica 10 luglio tra Masera e Montecrestese. Occasione in cui il Moto Club Domo ‘70, dopo un lavoro di oltre dodici anni, allestirà la prova italiana del Campionato del Mondo di Trial, disciplina che da sempre è patrimonio e ribalta per gli atleti ossolani. Finalmente dopo quasi 40 anni di vita il Moto Club riesce ad organizzare un evento di rilevanza mondiale. Il Campionato è una sorta di coronamento di tanti anni di buon lavoro in cui tutte le gare disputate sono sempre state momenti di spettacolo, sportività e non hanno mai creato alcun problema. Artefici della nascita di questo Moto Club furono Luigi Facchinetti e il compianto Giuliano Marini, il quale era motivato dall’idea di portare il mondiale in Ossola, entusiasti propugnatori di una disciplina sportiva come il trial sempre più in grado di coinvolgere giovani e amanti delle due ruote e della natura. Sono previste infatti circa 20.000 presenze e la copertura mediatica di tantissime televisioni da ogni parte del globo tra cui Sky e Mediaset. Le competizioni si svolgeranno il sabato per il campionato europeo e la domenica via al campionato mondiale. Importante il contributo delle municipalità di Montecrestese e Masera che hanno creduto, fin da subito, alla bontà di questo progetto, decisivo anche il concorso di tutte le associazioni presenti sul territorio dalle Pro loco all’AIB. “Abbiamo lottato tanto per vederci assegnare questo evento davvero storico- spiega il presidente del Moto Club Domo 70 Adolfo Cotone- ringraziamo allora la Regione, la Provincia, il Distretto Turistico, il Comune di Montecrestese, l’Unione Andifor e Banca di Intra-Veneto Banca che ci hanno supportato nell’ini-

ziativa, e chiediamo la collaborazione ed il supporto di tutti per la buona riuscita dell’evento. Essere stati scelti per ospitare una gara del mondiale ci onora, e testimonia della bontà del lavoro svolto in tutti questi anni, quando siamo stati in grado di organizzare prove del campionato italiano ed europeo”. Tra il 9 e 10 luglio saranno in gara circa 130 atleti, provenienti da tutto il mondo, tra campioni e giovani promesse. Dai qualificati spagnoli ai temutissimi spagnoli e inglesi, piloti che porteranno in gara marchi motoristici come Beta, Montesa e Scherco, nomi che per chi è nato tra i ’60 e ’70 suscitano ancora emozioni e ricordi .Garantita la presenza sulle piste di casa del recente campione italiano Luca Cotone. Il circuito di gara si srotola e ritorna dagli impianti sportivi di Montecrestese (sede dell’annuale sagra della patata) per proseguire lungo il fiume Isorno, il rio Cresta in territorio di Masera e raggiungere quindi Viganale e il campanile di Montecrestese. Campanile che è un poco l’emblema della manifestazione oltre che essere, con i suoi 67, 50 metri, il più alto dell’Ossola e conservare al suo interno un pregevole e primitivo manufatto romanico alto 24 metri a 6 piani. Il Campionato Trial si svolgerà secondo un fil rouge che condurrà gli atleti all’ombra dei suggestivi ritrovamenti megalitici di Coppola, Naviledo o Casteluccio, durante la prova speciale che percorrerà la Valle dei cani, e in vista del tempio lepontico di Roldo, vera vestigia del passato, unica nel suo genere in Piemonte. Non di dimentichi poi l’inclita presenza del pintore Giacomo da Cardone con i suoi affreschi, finestre di epoche e sogni. Insomma arte natura e sport sono le cifre di un evento che metterà alla ribalta uno degli angoli più straordinari dell’Ossola.

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L’angolo del gusto

Carpione di Lago a cura del Ristorante Villa Giulia

Ingredienti: Pesce per carpione consigliamo Coregone del Lago Maggiore - cipolla bionda - sedano - carote - peperoni verdi gialli e rossi - aceto aromatico di Ghemme - vino rosè di Nebbiolo Antichi Vigneti di Cantalupo - acqua - miele d’acacia Apicultura del Monterosso Sommaruga - sale Marino pepe in grani misto - alloro fresco Preparazione: Portare a ebollizione l’aceto, il vino e l’acqua con sale, miele, pepe e alloro. Tagliare i legumi a julienne e sbollentarli qualche minuto nella marinatura. Infarinare e friggere nell’olio il pesce squamato e ben pulito, asciugarlo dall’olio in eccesso e riporlo in un contenitore largo. Versarci la marinata calda con le verdure e lasciarlo riposare per almeno 24 ore. Presentare il piatto posizionando i filetti di pesce distesi, eventualmente sollevati da una foglia di insalata e disporgli sopra le vedurine colorate. Aggiungere un filo d’olio extravergine del Monterosso al momento di servirlo. Buon Appetito!

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Aperitivi, Rinfreschi, Serate a tema, Pause pranzo, Buffet, Feste private

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ell’incantevole cornice del Lago e le sue Valli... un giardino incantato, racchiude un ambiente ospitale dove poter gustare i piatti della tradizione locale e i nuovi abbinamenti, accompagnati da vini selezionati e musica ricercata.

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La“radice d'oro” anti-stress di Anna Proletti

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i pare doveroso innanzitutto premettere che non sono una laureata in Botanica o Scienze Naturali o Erboristeria, ma da alcuni anni mi interesso della Rhodiola Rosea, una pianta che mi ha affascinato dalla prima volta che me la sono trovata tra le mani. Amo molto tutti i fiori e le piante ma ce ne sono alcune che emanano un fascino particolare, quasi avessero un'anima e la Rhodiola Rosea è una di queste. Dalla prima volta che l'ho notata, l'ho percepita come una “pianta magica” cosicché ho cercato informazioni e notizie che mi hanno sempre più convinto della sua particolarità e potenza, l'ho osservata in natura ed ho infine iniziato a coltivarla. Sua caratteristica intrigante è il delicato profumo di rosa che rizoma e radici emanano al taglio e che rende particolarmente piacevole la tisana che ne deriva.

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La Rodiola Rosea, conosciuta anche come “golden root” (radice d'oro), è una pianta erbacea dalle mitiche e molteplici proprietà benefiche, molto diffusa anche sulle montagne ossolane. Da noi però è ancora oggi poco nota ed apprezzata, nonostante, una volta conosciute le sue proprietà, non si possa fare a meno di entusiasmarsi e di diventare suoi appassionati estimatori ed utilizzatori. Mentre non si hanno notizie sul suo impiego nella medicina popolare alpina, al contrario il suo utilizzo nell'emisfero nord-orientale del mondo, dagli Altai alla Mongolia e alla Siberia, si perde nella notte dei tempi ed è tuttora praticato ed avvallato da continui nuovi studi e ricerche. E' una pianta erbacea perenne, appartenente alla famiglia delle Crassulacee il cui vasto areale di distribuzione comprende le zone artiche dell'Europa (Lapponia e


Scandinavia), dell'Asia (Siberia) e del Nord America (Alaska Canada), l’Himalaya, così come le alte montagne delle zone temperate. In Europa Centro-Meridionale la sua distribuzione interessa i Pirenei, le Alpi dalla Liguria al Friuli, i Carpazi e i Balcani. In particolare in Italia, la si trova in genere fino ai 2.800-3000 metri, sia sui substrati silicei delle praterie alpine e subalpine, sia negli ambienti rocciosi e morenici, spesso in prossimità di ruscelli e sorgenti ove non vi siano però ristagni d'acqua. E' una pianta in grado di adattarsi alle condizioni più difficili ed estreme, contenente principi attivi che possono aiutare l'organismo umano ad affrontare a sua volta condizioni critiche di stress, fatica e difficoltà, sia fisiche che psichiche. E' una pianta che “si adatta” ed è chiamata “adattogena” (1) in quanto a sua volta può aiutare gli umani ad adattarsi alle condizioni di stress ed ad affrontarle. Quale rimedio potrebbe essere ai nostri giorni più ricercato ed apprezzato? Alcuni anni fa un'amica passò da noi al Devero e mi offrì una piantina che forse avevo già visto durante vari giri nel Parco Veglia Devero, ma non avevo mai degnato d'attenzione. Era composta da un rizoma da cui uscivano alcuni germogli carnosi. La piantai nel prato vicino ad una roccia e divenne rigogliosa. Scoprii in seguito che si trattava di una piantina di Rhodiola Rosea, una pianta dalle pochissime esigenze, soddisfatte le quali attecchisce con facilità, sviluppandosi anche da una piccola porzione di rizoma.

ramificati o steli che terminano con densi corimbi (2). La loro altezza varia dai 5 ai 35 cm nelle nostre zone, mentre può raggiungere i anche i 90 cm in altre condizioni di clima e terreno. Anche la forma delle foglie è più o meno stretta e allungata a seconda della latitudine: procedendo verso nord si presentano progressivamente più corte e larghe. Nelle infiorescenze con fiori maschili prevale il giallo mentre i fiori femminili sono spesso arrossati all'apice; anche il colore comunque varia, a seconda dello stadio di sviluppo del corimbo e della fioritura. La fioritura si prolunga da giugno ad agosto. In ottobre tutta la pianta assume una colorazione vivace nelle tonalità rosse, arancio e violacee fino alla perdita delle foglie. I semi sono piccolissimi, allungati e di colore scuro. Una decina di migliaia di semini arriva a pesare da 1 a 2 grammi, per dare un'idea della loro grandezza e peso. Pare abbiano una bassa germinabilità compensata dal grande numero di semi prodotti da ogni stelo (parecchie migliaia). E' una pianta rustica e forte che ben si sottomette alla domesticazione, purché al di sopra dei 1.500 metri nel nostro emisfero. Predilige terreni sciolti a reazione da leggermente acida a neutra, che non abbiano ristagni d'acqua o eccessiva presenza di pietre e ben esposti al sole. Sopporta bene la siccità e si ottengono buoni risul-

Caratteristiche La Rhodiola Rosea, pianta perenne a riposo vegetativo invernale, presenta foglie e fusti succulenti, con foglioline più piccole alla base e più grandi nella parte superiore, dentellate, di colore verde/azzurro ed orlate di rosa-violetto all'apice. Dal rizoma carnoso la cui polpa biancastra profuma di rosa (da qui il nome R. Rosea) si diparte un numero vario di fusticini non

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Storia Come già accennato, la Rhodiola R. è una pianta molto usata nella medicina tradizionale dell'Europa Orientale e dell'Asia. Le antiche popolazioni Siberiane, Mongoli, Vichinghi e Cinesi da sempre ne tramandarono l'uso per aumentare la resistenza fisica al freddo, alla fatica, alla fame oltre che per curare malattie da raffreddamento, disturbi depressivi e prevenire i disturbi d'alta quota. Ciò che veniva usato ovunque era il rizoma con le sue radici, preparato in te ed infusioni. In Siberia venivano usati anche i fiori per il mal di stomaco e i

sull'uso medicinale della Rhodiola Rosea in tutti i paesi del Nord Europa ma solo dagli anni '60 dello scorso secolo vengono fatti studi sistematici e ricerche farmacologiche sulle proprietà di questa pianta, da parte dei ricercatori dell'ex Unione Sovietica i quali, per primi hanno dimostrato clinicamente i suoi effetti benefici sulla riduzione dello stress. Gli studi sulla Rhodiola Rosea condotti in particolare sugli astronauti e gli atleti erano però coperti da segreto militare e l'Occidente ne venne a conoscenza solo dopo la caduta dell'Unione Sovietica. Negli anno '70 e '80 i derivati della Rhodiola Rosea sono riconosciuti come prodotti medicinali nei paesi Scandinavi, in Francia, Danimarca ed Inghilterra. Grazie ai lunghi anni di sperimentazione, oggi sono ormai tutti concordi nell' ammettere che la Rhodiola Rosea è forse il più completo adattogeno mai studiato sino ad ora e che le straordinarie proprietà riconosciutele dalla tradizione popolare sono scientificamente giustificate.

disturbi gastro-intestinali e le foglie ridotte in poltiglia per la cura di ferite e ustioni. Le informazioni sui migliori luoghi di raccolta e sui metodi di ottenimento degli estratti più efficaci erano gelosamente tramandate di generazione in generazione. A partire dal 1700 si trovano pubblicazioni

Proprietà A differenza di altri adattogeni come il Ginseng, il Guaranà e il Ginko Biloba, la Rhodiola Rosea non presenta i loro effetti collaterali quali il sovraeccitamento e l'insonnia. La caratteristica fondamentale che rende unica la R. Rosea, differenziandola dalle altre 200 specie di Rhodiola, è da attribuire alla presenza di agenti (i glicosidi fenilpropanoidici) come salidroside, rosavina, rosina e rosiridina che producono un aumento della concentrazione plasmatica delle beta-endorfine. Queste ultime prevengono le variazioni ormonali indicative dello stress, stabilizzano l'umore con conseguente effetto cardioprotettivo ed una miglior resistenza dell’organismo alle tossine. Essendo lo stress direttamente collegato con lo stato energetico generale, la memoria, le capacità di apprendimento, la risposta immunitaria e i disturbi dell'umore ne conse-

tati anche senza particolare concimazione. Per la messa a dimora si possono usare sia porzioni di rizoma di almeno 3 anni, sia piantine ottenute da seme. La raccolta va effettuata alla fine del periodo vegetativo e deve riguardare piante dai 3 ai 5 anni, età in cui la pianta presenta la maggior concentrazione dei principi attivi. Dopo i 5 anni i rizomi cominciano a presentare parti legnose e a decadere.

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gue l'azione positiva della Rhodiola Rosea su una vasta serie di disturbi collegati al sistema nervoso. Le proprietà antiossidanti ed anti-invecchiamento sarebbero dovute alla presenza di acidi fenolici e flavonoidi (rodionina, rodiolina e rodiosina). Riassumendo per quanto possibile gli studi scientifici e in particolare fitochimici fatti, che elencano una lunga serie di parole incomprensibili ai non iniziati, si può dire che i principi attivi contenuti nella Rhodiola Rosea agendo a vari livelli sul sistema nervoso centrale contribuiscono a dare all'organismo un benessere generale mediante una doppia azione tonica e rilassante, di stimolazione cognitiva e di sedazione emozionale. Essi migliorano le capacità di concentrazione, attenzione, apprendimento, la lucidità mentale e le prestazioni sessuali, potenziano l'energia fisica e la resistenza alla fatica, alzano il tono dell'umore, abbassano i livelli di grasso nei tessuti, procurano senso di sazietà e controllano la fame ansiosa, proteggono il sistema cardiovascolare e infine grazie al miglioramento dei meccanismi intracellulari di riparazione del DNA pare verificato che contrastino gli effetti del cancro. Gli studi e i test clinici non hanno evidenziato l'insorgenza di effetti collaterali indotti dalla R. Rosea, fatta salva l'accortezza di non assumerla la sera visto il temporaneo effetto stimolante che compare entro mezz'ora dall'assunzione e che si può protrarre per 4-6- ore. In poche parole la RHODIOLA ROSEA può rappresentare un valido aiuto semplicemente per stare bene. Sperimentazioni in Italia e nel VCO Negli ultimi anni sono stati fatti studi e sperimentazioni anche in Italia. Tra il 2004 e il 2008 il Servizio per l'Università e la Ricerca della Provincia Autonoma di Trento ha finanziato un progetto chiamato “Piante Alimentari aRomatiche e Medicinali Alpine” (abbr. PARMA) nell'ambito del quale sono stati allestiti cinque campi sperimen-

tali, con raccolta di semi, coltivazione, elaborazione di metodologie per l'analisi dei principi attivi di cinque specie medicinali, tra cui la R. Rosea, ed una alimentare. La coltivazione della Rhodiola Rosea ha avuto risultati molto promettenti che fanno ben sperare su uno sviluppo anche commerciale di questa attività, possibile fonte di reddito e quindi concreto incentivo per gli abitanti delle aree montane a non abbandonare i loro territori. La domesticazione di questa pianta può diventare un valido strumento di valorizzazione delle aree alpine e potrebbe, si auspica, passare dalla fase sperimentale a quella imprenditoriale a pieno campo. Nella provincia del V.C.O. il Consorzio Erba Bona ha dato inizio con successo tre anni fa, alla coltivazione della Rhodiola Rosea in alcuni campi sperimentali in Val Formazza e all'Alpe Devero, siti molto ricchi di piante spontanee e che si sono dimostrati ideali per la sua domesticazione. Il primo raccolto è stato fatto lo scorso ottobre e sono attualmente in preparazione alcune “Tisane del benessere” confezionate con prodotto locale. Ci auguriamo che il Consorzio Erba Bona, nato col pregevole intento di dare nuovi impulsi all'agricoltura di montagna, continui in questa sana ed appassionante attività e... buona Rhodiola Rosea a tutti! Note (1) adattogeno (termine coniato dal Dr.N. Lazarev nel 1947 e ripreso da Brekhman nel 1958), è la proprietà indicante la funzione di rinforzare le difese non specifiche dell’organismo allo stress, mantenerne inalterato il buon funzionamento rafforzando le capacità adattative fisiologiche, senza indurre effetti collaterali o tossicità. (2) il corimbo è una falsa ombrella catalogata fra le infiorescenze ramose semplici; dall'asse principale i peduncoli fiorali partono in posizioni diverse ma sono di differenti lunghezze in modo che i fiori siano disposti tutti alla stessa altezza.

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OSSOLA.it da questo numero adotta la tecnologia QR Code per accedere ai contenuti multimediali. Attraverso questo codice e per mezzo degli smartphone e dei tablet è possibile con un semplice click accedere ai nuovi video documentari di OSSOLA.it e/o agli spot degli inserzionisti. Due seplici passi per utilizzare il codice QR: 1) Scaricate e installate il software necessario sul vostro smartphone ce ne sono diversi "tutti gratuiti", noi consigliamo il software "i-nigma" qui ad esempio, il link per l'iPhone: i-nigma.softonic.it/iphone 2) Inquadrate il codice con il telefonino e attraverso internet potrete vedere il video associato al QR Code. Questo ad esempio è il codice QR di ossola.it, nient’altro che il collegamento al sito www.ossola.it.

Note: Alcuni apparecchi di nuova generazione hanno già preinstallato il lettore QR. Il sistema per funzionare deve avere un'accesso a internet "Wi-fi o attraverso operatore telefonico". Anche il Ossola stanno nascendo degli Hotspot. "Punti di accesso gratuito ad internet Wi-Fi".


La rivista delle Valli dell’Ossola la puoi trovare qui... ARONA: Uff. Turistico - Libreria Librami • BACENO: Comune e Uff. Turistico - Meublè Isotta - Albergo Vecchio Scarpone - Ristorante Pizzeria Cistella • Alpe Devero: Rifugio CAI Capanna Castiglioni - Bar Pensione Fattorini - Bar Pensione Funivia - Albergo Ristorante La Lanca - Casa Vacanze La Rossa - Agriturismo Alpe Crampiolo - Albergo Ristorante La Baita • BOGNANCO: Pro Loco - Albergo Edelweiss - Albergo Rossi - Hotel Panorama - Yolki Palki Camping Village - Albergo Ristorante Da Cecilia - Rifugio San Bernardo • DOMODOSSOLA: Comune - Pro Loco - Edicola via Binda - Bar Roma - Bar Mignon - Bar Milano - Bar Caffè Regina - Bar Moderno - Caffè del Borgo - Acosta Cafè - Caffè Vecchia Domo - Caffè Istriano - Caffè Bistrot - GVM sport - Edicola sul Corso - Edicola Ultime Notizie Via Binda - Lolli collezioni - Centro Commerciale Sempione - Ristorante La Meridiana - Edicola Via Galletti - Lucchini Foto Video - Residence Fiordaliso - Rifugio Lusentino - Edicola della Stazione - Edicola Alagia Patrizia V. Giovanni XXIII - Simplon Caffè - Snack Bar Le Dune • DRUOGNO: Albergo Ristorante Stella Alpina - Bar Gelateria - Bar Tabacchi • CREVOLADOSSOLA: Alimentari Tomà - Ristorante Gambrinus - Ristorante C’era una volta • CRODO: Albergo Ristorante Buongusto - Albergo Ristorante Edelweiss - Albergo Ristorante Pizzo del Frate - Ristorante Bar del Parco - Rifugio Crosta • FONDOTOCE: Edicola • FORMAZZA: Comune e uff. Turistico - Albergo Edelweiss - Albergo Rotenthal - Edicola Zarini - B&B Schtêbli - Bar Barulussa - Ristorante Walser Schtuba - Ristorante Cascata del Toce - Rifugio Maria Luisa - Rifugio Città di Busto - Ristorante Igli • GALLARATE Libreria Carù • GRAVELLONA TOCE: Sportway Megastore e Sportway Kids • MACUGNAGA: Uff. Turistico - Hotel Cima Jazzi - Funivie Monterosa - Bar Mignon - Ristorante Roffel • MASERA: Alimentari e Bed & Breakfast Tomà - Ristorante Del Divin Porcello - Edicola tabacchi - Bar Tati • MERGOZZO: Il Forno Shop - Gelateria Bar Aurora - Bar Calumet, Candoglia • MILANO: Libreria HOEPLI - Monti in Città, Viale Monte Nero • MONTECRESTESE: Osteria Gallo Nero - Bar Gufo’s • MONTESCHENO: Ufficio Turistico NOVARA: Sportway • OMEGNA: Pro Loco - Libreria UBIK • ORNAVASSO: Comune - Bar Beba - Bar Baraonda - Angel’s Caffè - Lago delle Rose - Edicola Tabacchi - Antica trattoria del Boden • PALLANZENO: Edicola PREMIA: Uff. Turistico - Albergo del Ponte - Albergo Minoli Miravalle • PREMOSELLO: Bar Pasticceria - Supermercato Conad - Edicola Borella • PIEVE VERGONTE: Bar Hg • PIEDIMULERA: Supermercato Sigma - Bar Monterosa • S. MARIA MAGGIORE: Comune - Ufficio Turistico • STRESA: Bar Idrovolante - Libreria Leone • SVIZZERA: Salone del turismo - Gondo - Simplon Dorf • VARZO: Sede Parco Naturale Veglia Devero - Uff. Turistico - Cartolibreria Borghi Wilmo - Ca’ del vino - Pub Orso Bianco • VERBANIA: Tecnobar co. Palazzo della Provincia - Uff. turismo Pro Loco - Bar gelateria Milano - Gelateria Isola del Gelato - Bar Ristorante Villa Giulia - Bar Sublime • VILLADOSSOLA: Edicola Rinaldi G. - Comune - Bar Plaza - Tabaccheria Pergrossi - Ristorante La Tavernetta • VOGOGNA: Comune - Bar Jolly - Tabaccheria Edicola - Pizzeria Roxy - Motel Bar Monterosa - Centro Calzaturiero - Supermercato Sigma - Albergo Ristorante Vecchio Borgo - Casarotti Calzature.

Per richieste e nuovi punti di distribuzione: info@ossola.it - T. 329 2259589

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Una selezione di ristoranti ossolani provati per voi, dove gustare i piatti e i prodotti locali

Vecchio Scarpone

Baceno

Via Roma, 48

0324 62023

La Meridiana

Domodossola

Via Rosmini,11

0324 240858

Moncalvese

Domodossola

Corso Dissegna, 32

0324 243691

Rifugio Alpe Lusentino Domodossola

Alpe Lusentino

0324 240468

Gambrinus

Crevoladossola

Via Mazzorini, 6

0324 45192

Buongusto

Crodo

Fraz. Mozzio

0324 61680

Del Parco

Crodo

Via Vegno, 3

0324 61018

Edelweiss

Crodo

Fraz. Viceno

0324 618791

Pizzo del Frate

Crodo

Fraz. Foppiano

0324 61233

Cistella

Croveo

Loc. Croveo

0324 62085

Walser Schtuba

Formazza

Loc. Riale

0324 634352

Rotenthal

Formazza

Loc. Ponte

0324 63060

z’Makanà Stubu

Macugnaga

Via Monte Rosa, 114

0324 65847

La Peschiera

Malesco

Via Peschiera, 23

0324 94458

Divin Porcello

Masera

Fraz. Cresta, 11

0324 35035

Trattoria Vigezzina

Masera

Via Statale 337, 56

0324 232874

Gallo Nero

Montecrestese

Fraz. Pontetto, 102

0324 232870

C’era una volta

Oira

Via Valle Formazza, 15

0324 33294

Lago delle Rose

Ornavasso

Via Pietro Iorio

333 982 9810

Antica Trattoria del Boden Ornavasso

P.zza Boden

345 555 2299

Ca’ del vino

Varzo

Via Domodossola, 2

0324 7007

Villa Giulia

Verbania Pallanza

Lungolago

392 3330826

La Tavernetta

Villadossola

C.so Italia, 4

0324 54303

Vecchio Borgo

Vogogna

P.zza Chiesa, 7

0324 87504

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T E N D E

D A

S O L E

Vendita e installazione Sostituzioni stoffe Motorizzazioni Tende interne ed esterne Zanzariere Alex De Carvalho Zona Ossola Tel. 347 3114668 alex.deca@libero.it

Bed & Breakfast - Case Vacanza - Residence Baceno

Casa Vacanze La Rossa

Loc. Devero

 +39 335 458769

Baceno

La Beula

Croveo

 +39 347 3474453

Crevoladossola

La Toce

Fraz. Pontemaglio,15  +39 338 2245767

Crevoladossola

Cà d’Matè

Loc. Oira

 +39 335 7507609

Formazza

Schtêbli

Loc. Riale

 +39 328 3391368

Masera

Casa Tomà

Via Menogno

 +39 0324 232084

Masera

Divin Porcello

Fraz. Cresta

 +39 0324 35035

Meina

Casa del Sole

Via Chiosi

 +39 347 5585486

Vogogna

Palazzo del Gabelliere

Via Roma, 17/19

 +39 338 1749100

Vogogna

Al Teatro

Via Teatro, 3

 +39 340 2415782

Premia

Casa Vacanze La Meridiana

Fraz. Cadarese, 13

 +39 0324 240858

Premia

Premia Vacanze

Via Domodossola, 154  +39 392 3331484


a pochi passi dalle Terme di Cadarese con area verde attrezzata (giochi-bimbi e barbecue), posteggio privato, deposito sci e biciclette. (Sconto del 10% su tutti i trattamenti termali)

Alloggio Salamanca. Monolocale con soffitto a volte, composto da ampio soggiorno con due divani-letto matrimoniali, angolo cottura e servizio igienico. Corredato di buona utensileria da cucina e dotato di ogni confort: tv satellitare con lettore DVD, lavatrice, forno ventilato, asse e ferro da stiro, phon fisso e portatile e biancheria per la casa e la persona.

Alloggio Valladolid. Ampio bi-locale composto da angolo conversazione con due divani-letto matrimoniali, camera matrimoniale, spazioso angolo cottura e servizio igienico. Corredato di buona utensileria da cucina e dotato di ogni confort: tv satellitare con lettore DVD, lavatrice, forno ventilato a colonna, frigo a colonna, asse e ferro da stiro, phon fisso e portatile e biancheria per la casa e la persona. Alloggio Leòn. Ampio bi-locale con balconata vista giardino, composto da angolo conversazione con due divaniletto matrimoniali, camera matrimoniale, angolo cottura e servizio igienico. Corredato di buona utensileria da cucina e dotato di ogni confort: tv satellitare con lettore DVD, lavatrice, forno ventilato a colonna, frigo a colonna, asse e ferro da stiro, phon fisso e portatile e biancheria per la casa e la persona. Alloggio Zamora. Spazioso *openspace* mansardato con balconcino vista giardino, composto da angolo conversazione con due divani-letto matrimoniali, letto soppalcato matrimoniale, angolo cottura e servizio igienico. Corredato di buona utensileria da cucina e dotato di ogni confort: tv satellitare con lettore DVD, lavatrice, forno ventilato a colonna, asse e ferro da stiro, phon fisso e portatile, biancheria per la casa e la persona.

Casa Vacanze La Meridiana Frazione Cadarese, 13 28866 PREMIA (VB)

Tel. 0324.240858 Cell. 348.388.6118 info@ristorantelameridiana.it 80


Via Paolo Ferraris, 6 28855 Masera (VB) Tel. +39 0324 35138 Fax +39 0324 35012 www.ossola.com/prini prini@ossola.com

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Il ristorante tipico ossolano

28855 MASERA (VB) - Fraz. Cresta, 11 - Tel. 0324.35035 - Cell. 348.2202612

info@divinporcello.it - www.divinporcello.it Per chi volesse pernottare disponiamo di accoglienti camere.


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