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Aperitivi per tutti

Aperitivo PER TUTTI

di Giorgia Ferrais

TUTTO IL GUSTO DI DISTILLATI, LIQUORI E BIRRE, MA SENZA L’ALCOL DELLA VERSIONE ORIGINALE. IL MERCATO STA SCOMMETTENDO SUL TREND 0.0% TRA GRANDI AZIENDE E STARTUP INNOVATIVE. No, non è una moda passeggera. Quello del bere un buon cocktail o una buona birra che non contengano necessariamente alcol è un fenomeno destinato a durare. Dopo il grande successo ottenuto in Paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, anche in Italia arriva la possibilità di assaporare il gusto dei migliori distillati senza preoccuparsi del tasso alcolico, del benessere fisico o dell’hangover. È di origine inglese una delle prime aziende a imporsi sul mercato: Seedlip, fondata nel 2014 e acquisita dalla multinazionale degli alcolici Diageo cinque anni dopo, ha dato il via ai distillati analcolici. Altro esempio eclatante è Lyre’s, marchio australiano innovativo pronto a sbarcare sul mercato italiano dopo aver conquistato con una crescita rapida più di 30 Paesi. E se il movimento low alcol o no alcol è sempre più forte in diverse parti del mondo, il mercato italiano sta prendendo consapevolezza del fenomeno solo di recente con casi come le startup MeMento e Conviv. Si va sempre più verso una “democratizzazione” del settore del beverage, con l’obiettivo di includere anche tutti coloro che non possono bere alcol oppure più semplicemente per scelta non consumano alcolici, ad esempio

per adottare stili di vita più sani e un regime alimentare meno calorico.

DISTILLATI E INFUSI Il No-and-Low Alcohol Strategic Study 2021 presentato da Iwsr Drinks Market Analysis e condotto nei 10 mercati di riferimento (Australia, Brasile, Canada, Francia, Germania, Giappone, Sud Africa, Spagna, Uk e Stati Uniti, che insieme rappresentano il 75% del mercato mondiale dell’analcolico), mostra come gli spirit a basso o nullo contenuto di alcol abbiano aumentato le vendite del 32,7% nel solo 2020, nonostante la chiusura dei bar in tutto il mondo dovuta alle restrizioni. Un dato che ha portato questi prodotti a occupare il 3% del mercato mondiale degli ‘alcolici’ e che, prevede lo studio, porterà al 31% nel 2024. Viene dalla Toscana il primo “gin” senza alcol made in Italy. Si tratta di Gino, spirit analcolico realizzato tramite l’infusione in acque distillate di cinque botaniche dell’azienda Sabatini. “Dopo attente analisi e ricerche di mercato abbiamo deciso di accogliere una sempre più crescente richiesta di nuove esperienze legate ad un ‘bere consapevole’ da parte dei consumatori finali”, afferma Enrico Sabatini, cofounder di Sabatini Gin. “Stiamo ricevendo moltissime richieste dalla Germania, altrettante richieste stanno pervenendo da paesi quali l’Australia, l’Inghilterra ed i paesi del Medio Oriente dove questa categoria di prodotti è già conosciuta ed inserita nella drink list dei migliori cocktail bar”. Per quanto riguarda la situazione in Italia, “la domanda è aumentata dopo la fine delle restrizioni. Come categoria in crescita necessita dell’intervento della comunità dei bartender: infatti, il mercato italiano avvezzo alle classiche proposte analcoliche, sta iniziando ora a conoscere questi prodotti e le offerte disponibili”. Sicuramente “il mercato italiano è pronto a scoprire questa nuova categoria, e la richiesta positiva che stiamo registrando da parte delle diverse province ne è la risposta”. Per Sabatini è un fenomeno destinato a perdurare, in quanto la maggior attenzione verso la qualità e la costante ricerca di nuove esperienze da parte dei consumatori garantirà a questo settore una buona crescita. “Siamo quindi sicuri che questo non sia un trend passeggero ma qualcosa fatto per restare ed entrare a far parte delle nostre realtà così come lo è già in altri paesi”, conclude. Nel panorama italiano ci sono anche brand più piccoli che si stanno distinguendo con un’offerta mirata. Ingegnere con oltre 20 anni di esperienza nel marketing, nel 2017, a seguito di un progetto innovativo proposto in un Mba Executive del Mip Politecnico di Milano, Eugenio Muraro ha lanciato MeMento, il primo distillato non alcolico italiano destinato alla miscelazione dei cocktail. MeMento è un blend di acque aromatiche distillate con i profumi del Mediterraneo, realizzato con ingredienti di origine biologica, naturalmente senza alcool, privo di zuccheri e calorie. “I distillati analcolici non rappresentano un’alternativa, ma un ampliamento dell’offerta che siamo abituati a ricevere quando entriamo in un bar e per questo acquisteranno sempre più spazio nelle bottigliere internazionali, regalando ai bartender importanti strumenti di miscelazione che permetteranno loro di rendere ancora più qualitativo e completo il menu”, racconta il founder

Sopra, a partire da sinistra, la birra analcolica Heineken 0.0 e la Alternativa 0.0

In apertura, i due infusi analcolici di Conviv

Sopra, le proposte di MeMento

e CEO. “Noi siamo stati i pionieri in Italia in questo settore in cui abbiamo creduto già nel 2017 e siamo stati la prima azienda italiana come startup innovativa a proporre un distillato analcolico per la miscelazione dei cocktail nel nostro paese”. Secondo Muraro, il fenomeno dei distillati analcolici è nato e ha cominciato a diffondersi prima della pandemia, “ma il periodo che siamo stati costretti a vivere ci ha obbligati a porre l’attenzione ad alcuni aspetti spesso sottovalutati nell’ambito dell’intrattenimento, come la salute: questo ha sicuramente spinto molte persone anche in prospettiva a limitare il consumo di alcol e a scegliere alternative prive di alcol”. Dello stesso parere il CEO di Conviv Lorenzo Cinelli, che ritiene che “sicuramente la pandemia ha limitato i momenti di convivialità all’esterno ma ha aumentato la consapevolezza dell’importanza del bere bene”. Da una ricerca con il consumatore sviluppata dal team della startup milanese, oltre il 50% dei consumatori ha dichiarato l’intenzione di ridurre il consumo di alcol. Diversamente da molti spirits analcolici sul mercato, Conviv non è un distillato ma un’infusione. L’offerta comprende due referenze, entrambe prodotte attraverso un processo di infusione di oltre trenta giorni con ingredienti naturali e con eccellenze del territorio italiano. “È vero - prosegue Cinelli - che il trend del senza alcol nasce in Stati Uniti e Gran Bretagna, ma il mercato italiano ha una lunga tradizione nel beverage alcolico ed analcolico. In particolare, la nostra penisola è composta da numerose realtà locali in grado di promuovere innovazione attraverso prodotti competitivi a livello qualitativo. Questo, unito ai riscontri di mercato che stiamo vivendo, ci spinge a credere che il mercato italiano sia pronto a ricevere questi prodotti con entusiasmo”.

FEBBRE DA BIRRA ANALCOLICA Anche per la birra analcolica i numeri parlano chiaro. Secondo una recente analisi di Global Market Insights la vendita di birra a basso contenuto alcolico ha infatti superato globalmente i 4 miliardi di dollari nel 2019 coprendo il 30% del mercato Usa e il 5% del mercato europeo. Dal report emerge un trend che porterà questo tipo di prodotto ad un giro d’affari di oltre

29 miliardi di dollari entro il 2026 con una produzione mondiale che supererà i 3 miliardi di litri. “Il segmento è ancora piccolo (2-3% del mercato totale), ma con una forte crescita anno su anno (+15/20 per cento)”, commenta Jan Bosselaers, marketing director Heineken Italia. “Ed è anche per questo che nel 2018 siamo stati tra i primi ad entrare convintamente in questo segmento e adesso vediamo che la maggior parte dei protagonisti del settore sta facendo lo stesso, generando di conseguenza uno stimolo della domanda”. Nel 2018, l’azienda ha infatti intravisto la possibilità di ampliare la propria categoria, senza compromettere gusto e qualità, andando in una direzione inedita: è nata così Heineken 0.0. “Abbiamo creduto fin da subito nella categoria di bevande a basso o zero contenuto alcolico e il mercato ci ha dato ragione”, prosegue il manager. “I consumatori, infatti, sono da un lato sempre più alla ricerca di moderazione da parte dei brand di cui si fidano, e dall’altro hanno il desiderio di concedersi qualcosa di buono, prestando sempre attenzione però, all’aspetto salutare dei prodotti che consumano. Le nostre birre Zero, con Heineken 0.0 in testa, hanno basso contenuto calorico e ovviamente 0 alcol e rispondo quindi perfettamente a questa esigenza”. Secondo Bosselaers il lockdown ha rappresentato un’occasione per i consumatori, sempre più alla ricerca di novità e qualità, di sperimentare nuovi gusti, ponendo una crescente attenzione alla scelta di tutto ciò che riguarda l’ambito food & beverage, inclusa la birra. “In questo periodo si è sfruttata anche la comodità dell’online per scoprire e provare novità in tutti i campi e la categoria 0.0 non è stata una eccezione. Abbiamo potuto vedere un crescente interesse verso la categoria che speriamo possa continuare negli anni a venire”, conclude. In Italia l’azienda ha deciso di sviluppare la categoria, prima con Heineken0.0, per poi estenderla negli anni anche a Birra Moretti creando due analcoliche Birra Moretti Zero e Birra Moretti Limone Zero. Tra le birre analcoliche figura quella del brand Alternativa 0.0 appartenente a Princess, azienda trentina nata nel 2012 con lo scopo di offrire una valida alternativa alle persone che non bevono alcol con dei prodotti di qualità e naturali al 100%. In catalogo, anche 11 bevande analcoliche derivate dal vino e un aperitivo analcolico. “Ci contraddistinguiamo per il processo della birra”, racconta il proprietario e produttore Michele Tait. “Produciamo infatti birra artigianale che viene poi dealcolata. A differenza dei nostri competitor non attuiamo il blocco della fermentazione ma lasciamo che la birra completi il normale corso di lavorazione per poi estrarre completamente l’alcol sino ad arrivare allo 0.0 vol %”.

Sopra, Sabatini Gino°

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DOPO UN’ESPERIENZA DECENNALE COME SOUS CHEF DI BOTTURA, NEL 2015 HA APERTO A MILANO L’OMONIMO RISTORANTE, DALLE CUI ‘CENERI’ (A CAUSA DELLA PANDEMIA) NEL MAGGIO 2020 È NATA LA BENTOTECA.

LA RIPARTENZA DI TOKUYOSHI

di Giorgia Ferrais

Nella vita bisogna sapersi reinventare per poter ripartire. E dopo la pandemia che ha colpito il mondo intero, anche il settore della ristorazione ha tentato di adeguarsi a nuove regole e abitudini, tra cambiamenti radicali e nuove formule. Ne è un esempio Yoji Tokuyoshi e la sua Bentoteca a Milano. Classe 1977, dopo quasi un decennio come sous chef di Massimo Bottura all’Osteria Francescana, a febbraio 2015 lo chef di origini giapponesi è sbarcato nel capoluogo lombardo dove ha aperto il ristorante omonimo. Qui, Tokuyoshi ha saputo coniugare due culture molto distanti tra loro con grande equilibrio, proponendo una cucina dove ingredienti italiani incontrano l’occhio e la filosofia giapponese. E lo ha fatto talmente bene che in appena 10 mesi dall’apertura il ristorante è stato premiato con una stella Michelin, mentre dopo due anni Tokuyoshi ha ottenuto il Premio Creatività in Cucina 2017 di Identità Golose. Ma 2020 significa pandemia, chiusure, cambiamenti radicali. Neanche questo, però, lo ha fermato. Dopo il lockdown, infatti, ha deciso di trasformare il suo ristorante stellato nella Bentoteca, un posto dove trovare una cucina giapponese più semplice abbinata ai vini naturali, con un conto più “leggero”. Da subito la nuova formula ha riscosso così tanto successo con la sua bento box, che

Alcune immagini delle sale interne della Bentoteca a Milano

l’idea di tornare al classico ristorante stellato si è allontanata. Merito anche del Bento Tour, il delivery che non si è limitato alla città di Milano, ma ha raggiunto tutto il Nord Italia, passando da Torino a Bologna, senza dimenticare anche piazze al di fuori delle rotte più battute come Biella o Padova, e molte altre città ancora. E per il futuro, lo chef pensa ad un nuovo Ristorante Tokuyoshi più intimo e raccolto, con pochi posti a sedere, dove potersi occupare sia del servizio sia della cucina.

A causa della pandemia, nel 2020 è stato costretto a reinventarsi: ha infatti chiuso il ristorante Tokuyoshi e aperto al suo posto Bentoteca. Di cosa si tratta e quali sono stati i punti in comune e di distacco con il format precedente?

Il cambio di insegna e di formula per me è stato molto semplice. Sono mutate le necessità, mi sono reso conto che dovevamo fare qualcosa di diverso rispetto a quello che facevamo prima. Il delivery del Ristorante Tokuyoshi sicuramente non poteva funzionare, inoltre il costo del menu degustazione era troppo alto per il periodo. Abbiamo quindi iniziato a pensare a come poterci evolvere: il primo passo è stato quello di aiutare gli operatori sanitari dell’Ospedale San Giuseppe di Milano fornendo circa 60 pasti al giorno per un mese delle nostre bento box a base riso con pollo teriyaki o salmone e verdure. Grazie a quest’esperienza e vari studi ci siamo perfezionati sempre di più per il delivery, il passaggio è stato molto naturale. Abbiamo creato il sito del delivery, il nuovo logo, i vari profili social, e siamo partiti. Dopo pochi giorni, abbiamo deciso di aprire il Ristorante Tokuyoshi trasformandolo in Bentoteca, anche se inizialmente non volevo utilizzare questo spazio dato che era stato appena ristrutturato. Abbiamo scelto di utilizzare lo stesso fornitore del Ristorante Tokuyoshi, semplificando il menu e abbassando il prezzo medio dello scontrino, dai 180 euro dello stellato a 60 euro. Inizialmente non sapevamo dove ci avrebbe portato questa nuova avventura, ma abbiamo capito che il format funzionava. Gli incassi tra il Ristorante Tokuyoshi e Bentoteca sono più o meno uguali, in quanto, anche se lo scontrino è diminuito, i clienti sono triplicati.

Durante il lockdown è nato il format Bento Tour, il servizio di consegne in altre città del Nord Italia. Qual era l’obiettivo di partenza e qual è stato il bilancio finale?

Ci siamo chiesti dove poter vendere oltre a Milano, non siamo rimasti con le mani in mano aspettando che la gente venisse da noi ma siamo andati a “prendere” i clienti. Un giorno abbiamo provato a vendere a Torino da alcuni nostri amici a cui abbiamo chiesto un punto di ritiro. Ha funzionato e da lì pian piano siamo arrivati in tutto il Nord Italia. Da novembre 2020 a maggio 2021 abbiamo

venduto circa 25mila pasti, 35mila in totale tra Bento Tour e delivery su Milano. Per non lasciare i dipendenti in cassa integrazione, tutti ci siamo reinventati e abbiamo fatto tutto, ci siamo svestiti dai ruoli per contribuire al progetto. Ad esempio, il sous chef è uscito dalla cucina e ha guidato la macchina per portare gli ordini a casa dei clienti. Devono capire che se il business funziona, tutto funziona. Il bilancio finale è stato molto molto positivo, al momento però il Bento Tour è in standby.

Nel 2015 è arrivato nel capoluogo lombardo e ha aperto il ristorante Tokuyoshi. A distanza di 6 anni pensa di aver fatto la scelta giusta optando per Milano?

Sì, penso che Milano sia l’unica città internazionale in Italia dove tutti i settori funzionano, dalla moda alla ristorazione al design. È sempre in evoluzione, e questo dinamismo mi piace.

Nel 2019, invece, ha aperto il ristorante AlterEgo a Tokyo che propone una cucina italiana. Come ha performato e come sta performando tuttora?

A differenza dell’Italia, in Giappone non c’è stato un lockdown totale. I locali infatti sono stati aperti, il Governo ha consigliato solamente di non uscire. Abbiamo comunque avuto un tracollo e perso 120mila euro in 8 mesi. Per migliorare la situazione abbiamo replicato il modello Bentoteca: prezzi più bassi, vini naturali, il menu alla carta. Gli incassi hanno ripreso già da febbraio 2021. Ora il ristorante è sempre pieno.

In appena dieci mesi dall’apertura ha ricevuto la sua prima stella Michelin, che però ha perso a causa della chiusura del ristorante che portava il suo nome. Cosa rappresenta questo per la sua carriera?

Per me rappresenta un cambiamento, come ci sono stati tanti altri cambiamenti nella mia carriera. Quando è arrivata la pandemia ho sentito la necessità di cambiare per sostenere la mia attività e i miei dipendenti (in quel momento non ci pensavo neanche a guadagnare o perdere la stella). Di conseguenza, la Guida Michelin Italia ha fatto una scelta ed è giusto cosi. In futuro però, mi piacerebbe riprenderla. Ho fiducia.

Sopra, alcuni piatti dello chef Yoji Tokuyoshi

Come sta cambiando la ristorazione dopo la pandemia? Qual è il futuro del fine dining?

Prendiamo in considerazione i due poli opposti della ristorazione, il ristorante stellato e la trattoria. Ritengo che la trattoria abbia aumentato il livello, l’offerta del menu è più particolare e coraggiosa, il servizio è migliorato. Questo perché vogliono che il cliente ritorni. I ristoranti stellati, dal canto loro, dovranno migliorare ancora di più la loro offerta. Il fine dining tornerà sicuramente in futuro, ma dopo la pandemia le persone sono alla ricerca di cose “easy”.

Quali sono i suoi prossimi progetti? Sono previste altre aperture in Italia o all’estero?

Tutti mi hanno consigliato di aprire in altre città. Non credo che funzioni molto questo. Al momento non c’è niente di certo né interessante per me. La mia intenzione è quella di far tornare il Ristorante Tokuyoshi, in una versione completamente diversa. Me lo immagino molto più piccolo, in una mansarda con circa 8 posti, in cui mi occupo io sia della cucina sia del servizio. E poi mi piacerebbe aprire un panificio tutto nostro, al momento ci appoggiamo in un posto dove produciamo il pane giapponese in cassetta perfetto per i panini.

Ci parla invece di Bentoteca Co.Lab?

Bentoteca è nata un po’ per caso, ma ha funzionato. Vogliamo condividere la nostra esperienza, per questo ho creato Bentoteca Co.Lab, che offre consulenza enogastronimica per ristoratori che desiderano cambiare e migliorare la loro offerta gastronomica, diventare più competitivi, creare un brand forte e comunicare al meglio la propria offerta ad esistenti e potenziali clienti. Inoltre, la Bentoteca è aperta a collaborazioni più durature e di varie tipologie come cene a quattro mani e pop-up, proposte di cobranding o lezioni su varie tematiche: ristorazione, gastronomia e imprenditoria.

Altri piatti del menu della Bentoteca

Non solo grandi città

la DELIVERY si fa MICRO

LA PROVINCIA ATTRAE I NETWORK DELLE CONSEGNE. COMPLICE IL LOCKDOWN DELLO SCORSO ANNO, SONO MOLTEPLICI LE REALTÀ CHE SVILUPPANO ‘MICRO-DELIVERY’ ANCHE NEI COMUNI PIÙ PICCOLI. UN BUSINESS NON SOLO PER LE STARTUP, MA ANCHE PER I BIG

di Sabrina Nunziata

Fare di necessità virtù. Si riassume così la spinta alla base delle nuove realtà di delivery che stanno focalizzando i loro servizi laddove di servizi non ce ne sono: in provincia. L’ecosistema dei piccoli comuni, per lungo tempo, non è stato infatti presidiato dai grandi colossi della consegna di cibo a domicilio, lasciando così spazio a un proliferare di startup focalizzate a servire le aree meno battute da ristoranti e rider. D’altro canto, proprio i lockdown del 2020 sono stati tra i principali motori di questa fioritura di ‘micro-delivery’, che da caso sporadico sta pian piano attrando anche i grandi investitori.

FATTORE MANCANZA DI OFFERTA Nel periodo pandemico è nato Tvbeat, piattaforma di delivery del bergamasco specializzata nei comuni al di sotto

dei 50mila abitanti. “Siamo partiti durante il lockdown con pochi ristoranti di amici, puntando sulla conoscenza diretta del territorio e delle persone”, spiega a Pambianco Wine&Food il CEO e co-founder Damiano Vassalli. In sei mesi, “avevamo oltre 150 locali associati e consegnato più di 10mila pasti”. Nello specifico, “siamo partiti creando un sito che si può usare da cellulare e che tuttora, ottimizzato, stiamo utilizzando. A ottobre però avremo una nuova pagina e lanceremo l’app dedicata”. Un lavoro fatto grazie alla campagna di crouwdfunding lanciata ad aprile che ha permesso a Tvbeat di raccogliere 200mila euro, di cui la metà destinati appunto allo sviluppo tecnologico. L’idea “è quella di espanderci tramite il franchising in quanto, per sviluppare la provincia, che non è standardizzata come lo può essere una grande città, serve qualcuno che la conosca a fondo”. A settembre parte infatti il franchising per le provincie di Lodi e Cremona, cui ne seguirà almeno un altro, sempre nell’anno, e circa 5-6 nel 2022. “Ci sono già arrivate richieste anche dal sud Italia, ma prima di esportare il modello preferiamo affinarlo bene nel nostro territorio d’origine, così da presentarci altrove in maniera strutturata”. Sempre durante il lockdown, è nato Maracaiba, che punta già a oltrepassare gli otto milioni di euro di fatturato nel 2021, con l’auspicio di triplicarli nel 2022, come spiegato da Andrea Bulfon, AD di Bagong, azienda nel settore del food tech che gestisce il brand. Nato in Friuli Venezia-Giulia, si tratta di un format di food delivery e sushi d’asporto che lavora nei piccoli comuni e che prevede l’uso di una ghost kitchen, locata a Udine, nella quale vengono preparati i semilavorati che vengono poi spediti ai truck, i quali, spostandosi di Paese in Paese secondo un calendario bisettimanale, forniscono il cibo sia in modalità take away, e quindi con le persone che si recano al truck itinerante, oppure via delivery, con le auto della flotta che recuperano i piatti dai truck e li portano a casa del destinatario. Il format, attivo al momento anche in Veneto, ha fin da subito ingranato la marcia e attratto l’interesse di diversi investitori, raccogliendo 1,5 milioni di euro.

Dall’alto, i rider di Alfonsino e il board direttivo

In apertura, il truck di Maracaiba

L’obiettivo è quello di espandersi nel 2021 fino a Lombardia ed Emilia, per poi sbarcare l’anno prossimo in tutto il nord e centro Italia, fino ad Abruzzo e Roma. Tra gli antesignani della delivery formato provincia c’è invece Alfonsino, il cui servizio, attivo nelle città tra i 25-250 mila abitanti, è presente in circa 400 comuni italiani, dislocati in 10 regioni (Campania, Abruzzo, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Calabria, Puglia, Emilia Romagna e Lombardia). “Abbiamo scelto di presidiare il mercato delle piccole città perché quando abbiamo iniziato nel 2016, questi territori erano contraddistinti da un’elevata domanda sia da parte dei consumatori finali, desiderosi di poter ordinare cibo a domicilio con l’ausilio di moderne piattaforme di food delivery come quelle presenti nelle grandi città, sia da parte di un crescente numero di imprese della ristorazione”, spiega Dario Rauccio, marketing manager di Alfonsino delivery. Oggi, con quasi 9 milioni di euro di piatti consegnati nel 2020, e oltre 300.000 consegne effettuate, il servizio si è ampliato aggregando una serie di nuove possibilità come i fiori a domicilio, il grocery e il wine delivery.

In questa pagina, il servizio TvbEat e i founder Damiano Vassalli e Andrea Togni QUALITÀ IN CRESCITA Un raggio d’offerta più ‘a misura d’uomo’ consente di monitorare meglio, e di conseguenza aumentare, la qualità del servizio offerto. “Operare nel mercato dei piccoli centri ci permette di avere il massimo controllo su tutti i processi aziendali ed erogare un servizio preciso e affidabile”, spiega Rauccio. In questi territori “attraverso il nostro know-how, riusciamo ad avere non solo una comunicazione fluida ed efficace con tutti i nostri stakeholder, ma siamo capaci anche di rispondere prontamente alle richieste della clientela proprio perché abbiamo una forte empatia con quest’ultima”. Pertanto, la possibilità si espandersi in comuni più grandi o più piccoli rispetto alla fascia ora presidiata “per il momento non è contemplata”. E le ragioni risiedono nel fatto che “il nostro modello di business è ottimizzato proprio per i piccoli centri”. Ciò significa che tutti i diversi processi “vengono costantemente monitorati e sottoposti a rigidi controlli qualitativi per garantire il massimo dell’efficienza delle nostre performance, in questo tipo di territori e non in altri”. Dello stesso avviso è Vassalli, secondo cui ai ‘contro’ delle distanze

Un rider di Glovo

maggiori tra ristorante e cliente, corrisponde una gestione diretta dei rider, con colloqui e formazione più onerosi dal punto di vista del tempo ma più remunerativi dal punto di vista della qualità del servizio al cliente finale.

APPROCCIO ‘IPER LOCALE’ La provincia non è però solo materia di startup, tanto che anche i grandi nomi come Glovo stanno puntando a questi territori. “Crediamo che il delivery debba essere un servizio disponibile in tutte le tipologie di città, anche in quelle medio-piccole, ciò anche alla luce della distribuzione molto peculiare della popolazione nel contesto italiano”, spiega Rafael Narvaez Gracia, head of expansion di Glovo Italia che, nelle ultime settimane, è sbarcato in città come, per esempio, Alghero (circa 40mila abitanti), Desenzano del Garda (circa 30mila abitani), Jesolo (circa 26mila abitanti), Crotone (circa 60mila abitanti). “Nei centri che riteniamo più interessanti dal punto di vista commerciale facciamo in modo di avere a disposizione una buona offerta in termini di esercizi commerciali partner e di assicurare un servizio efficiente dal punto di vista logistico, ovvero di persone che collaborano come corrieri”, prosegue Narvaez Gracia. “Lavoriamo su entrambi questi filoni prima del lancio ufficiale di una città, con un approccio che definiamo ‘iper-locale’: cerchiamo infatti di comprendere a fondo la realtà del singolo centro e di adattare le azioni, per esempio riservando un’attenzione particolare alla cucina tipica del luogo”. L’obiettivo di Glovo Itali, già presente in oltre 200 città, è quello di raggiungere tutti i comuni con più di 20.000 abitanti a livello nazionale, da Nord a Sud, tanto che da inizio 2021 è attivo un team dedicato focalizzato sull’espansione in nuovi contesti locali.

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VERSATILE, IMMEDIATO, SENZA SPRECHI E CIRCULAR, IL CONTENITORE IN ALLUMINIO STA CONQUISTANDO IL VINO MONDIALE. LA PANDEMIA HA CAMBIATO LE ABITUDINI, SOPRATTUTTO TRA I PIÙ GIOVANI. IN ITALIA, CANTINE STORICHE, DISTRIBUTORI E STARTUP SI PREPARANO.

IN LATTINA? YES, WE CAN

di Giorgia Ferrais

Nella botte piccola ci sta il vino buono, è vero. Ma anche nella lattina. Come dimostrano i numeri, il formato del vino in lattina d’alluminio sta conquistando il mercato mondiale e si accinge a raggiungere anche quello italiano, se pur con qualche reticenza. Secondo le stime rilasciate a metà 2020 da Grand View Research, società di ricerca e analisi di mercato californiana, entro il 2027 il volume d’affari del vino in lattina a livello mondiale supererà quota 155 milioni di dollari (circa 131 milioni di euro), con un tasso annuo di crescita composto del 10,4 per cento. Da un’analisi condotta da Nielsen, invece, emerge come già nel luglio 2020 sono stati superati i 180 milioni di dollari di giro d’affari, rispetto agli appena 2 milioni di dollari del 2012, mentre, come ricorda Wine Intelligence, l’interesse, tra i bevitori abituali di vino, è cresciuto in maniera sensibile: se nel 2017 solo il 21% dei britannici ed il 33% degli americani prendeva in considerazione l’idea di comprare vino in lattina, la percentuale nel 2020 è salita rispettivamente al 32% e al 42 per cento. Ma quali sono le ragioni di questo boom? L’aspetto pratico in primis: il vino in lattina è un prodotto comodo, maneggevole, leggero e che permette un consumo più immediato; e poi il contenuto equivale a due

bicchieri di vino, per cui si esaurisce senza che la bevanda avanzi. Infine, non da meno, il fattore sostenibilità: l’alluminio, infatti, è riciclabile all’infinito e comporta un minor consumo di Co2.

I GIOVANI E LA SOSTENIBILITÀ Non stupisce quindi che il target principale di questo prodotto siano le nuove generazioni. Sono proprio i giovani che spingono la svolta green dalla vigna alla bottiglia, come emerge da un sondaggio di Agivi, l’Associazione giovani imprenditori vinicoli italiani under 40 di Unione Italiana Vini che ha indagato l’attitudine green dei suoi associati. “Da tempo in Associazione registriamo una sensibilità diffusa e crescente su questi temi – spiega la presidente di Agivi, Violante Gardini Cinelli Colombini –, per questo abbiamo deciso di provare a misurare quanto il rispetto per l’ambiente influenzi le scelte aziendali, anche in un’ottica di nuove chance commerciali. Ne è emerso un quadro interessante: quasi 7 intervistati su 10 hanno dichiarato di selezionare i fornitori in base alla sostenibilità delle loro proposte, e sono l’83% le aziende che dichiarano di avere progetti o piani sul tema della sostenibilità, già ultimati o in corso di realizzazione in 8 casi su 10”. Stando al sondaggio, la quasi totalità dei giovani imprenditori vinicoli intervistati (94,3%) ritiene che la sostenibilità possa rappresentare un fattore decisivo per la competitività nei mercati nazionale ed estero, e sono il 64,7% quelli che hanno optato per dei packaging a ridotto impatto ambientale. Sul fenomeno della lattina ha influito, e non poco, la pandemia, che inevitabilmente ha cambiato le abitudini delle persone. Le nuove generazioni hanno esigenze di consumare il vino anche in situazioni non standard, come a un festival, in spiaggia, un pic-nic o durante un’escursione, e la lattina risulta un formato ideale per il servizio d’asporto e il consumo all’aperto.

FENOMENO ANGLOSASSONE... MA CON RADICI ITALIANE Come anticipato, il vino in lattina gode di una grande popolarità all’estero, soprattutto in Paesi anglosassoni come Stati Uniti, Regno Unito e Australia. Ma è in Italia che

Dall’alto, Lambrusco dell’Emilia di Donelli Vini e il Villa Francesca Merlot di Cantine Sgarzi

In apertura, un’immagine della cantina di Cantine Sgarzi

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