Museo del pane e della panificazione del Civraxu SA N L U R I
Comune di Sanluri
Pubblicazione a cura del
Comune di Sanluri
Servizio Affari Generali Ufficio Cultura, Turismo
nell’ambito del progetto Civraxu: un patrimonio antico per lo sviluppo futuro Con il contributo di
Fondazione di Sardegna Hanno partecipato al progetto
Sa Corona ArrĂšbia - Consorzio turistico della Marmilla Padri Cappuccini di Sardegna Dr. Paolo Sirena - Direttore artistico Silvano Caria - Artista Il Lichene Rosso - Soc. Coop. La Seggiovia - Cooperativa Testi
ATI - Il Lichene Rosso / La Seggiovia riproduzioni fotografiche, impaginazione e stampa
Panoramika Editrice S.n.c.
Sommario pag. 06
Introduzione
pag. 11
Il pane nella storia, in Sardegna e nel mondo
pag. 17
Dalla terra alla vita
pag. 23
Il tesoro del grano
pag. 29
La famiglia e il pane
pag. 41
Su Civraxu di Sanluri
Museo del pane e della panificazione del Civraxu SA N L U R I Sanluri e il pane Civraxu, un legame indissolubile che va oltre la quotidianità di un rito legato agli usi alimentari. Un legame che si perde nella storia secolare di una comunità che ha una forte impronta contadina, con generazioni di uomini e donne che hanno solcato i campi e hanno trasformato il grano in una materia viva capace di generare e rafforzare legami personali e familiari. Ecco perché è importante valorizzare il pane Civraxu, per dare testimonianza del lavoro di tutti coloro che si impegnano ogni giorno a realizzare un bene che costituisce uno degli elementi identitari più forti della comunità di Sanluri e di questa parte della Sardegna. Il Museo della Panificazione, in detto contesto, occupa un ruolo fondamentale nella cultura di Sanluri perché porta a compimento un percorso che ha radici lontane. Questa Amministrazione, attraverso la realizzazione di uno spazio che ripercorre le tappe fondamentali della storia della panificazione e del suo prodotto finale, il 6
Civraxu, ha messo finalmente a sistema una serie di sinergie capaci di dare un valore nuovo a questo pezzo di storia cittadina. Il Museo è importante perché permette a tutti i visitatori di avere consapevolezza dell’importanza di un prodotto che ha la sua origine nel lavoro della mietitura dei campi e nella storia agricola della nostra Comunità. Non è un caso che il nome di Sanluri derivi da “su logu de su lori” ovvero “il luogo del grano”, il granaio degli antichi Romani. Il Museo, quindi, ha una valenza che va oltre il semplice cibo presente sulle tavole delle nostre famiglie. Un altro sforzo dell’Amministrazione è stato formare un Comitato spontaneo di cittadini, nato con l’obiettivo di creare un disciplinare del pane Civraxu, percorso finalizzato alla registrazione di un marchio: uno straordinario veicolo dal punto di vista commerciale e turistico, se si pensa a quanto accade in altri luoghi d’Italia capaci di vendere il territorio attraverso i propri prodotti. Il Museo della Panificazione, considerato come una sorta di tempio aperto a tutti i visitatori, completa la Casa del Pane, edificio realizzato negli anni scorsi, e rappresenta la giusta valorizzazione della Festa del Borgo che ogni anno, a fine settembre, celebra il Civraxu e i prodotti della nostra tradizione agroalimentare. Il Museo del pane è un ulteriore tassello dell’offerta turistica di un Comune che, assieme al Castello, ogni anno attrae diverse
migliaia di visitatori. Il Castello è elemento centrale della rievocazione de Sa Battalla del 30 giugno 1409, momento di storia sarda e italiana oltre che di riflessione e di dibattito sul Medioevo sardo. La sconfitta inflittaci dagli aragonesi diede il via alla deportazione degli schiavi nostrani in Spagna, dove ancora oggi si trovano tracce di come le schiave e gli schiavi sardi del giudicato esportarono l’arte della panificazione. È evidente che questi beni culturali (Il Museo del Castello e il Museo della Panificazione), collegati ad altrettanti eventi storici e culturali (Sa Battalla del 1409 e la Festa del Borgo), siano l’elemento identitario più forte del nostro Comune, rappresentando cosi i momenti decisivi per valorizzare una delle aree più interessanti della Sardegna, rielaborando storie collettive e individuali che meritano di essere conosciute e diffuse. Questo volume è dedicato a una parte dell’antica storia di Sanluri, ripercorsa attraverso un prodotto, il pane, che racconta molto della tradizione e dell’identità di una piccola comunità fiera del suo passato e orgogliosa di poter avere una voce importante anche nel futuro della nostra Isola. Alberto Urpi Sindaco di Sanluri
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Su Civraxu di Sanluri
La famiglia e il pane
Il tesoro del grano
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Dalla terra alla vita
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Il pane nella storia, in Sardegna e nel mondo
1 Terrazzo
Inizio percorso museale
Ascensore
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Uscita scale Toilettes
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Sala multimediale
Il pane nella storia, in Sardegna e nel mondo.
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Le Mole La Sardegna gode di un primato speciale nelle innovazioni tecnologiche dei sistemi molitori in età storica. I giacimenti litici sardi derivanti dai cicli eruttivi del Cenozoico, furono quelli qualitativamente e quantitativamente più ricchi a livello mediterraneo ed europeo. Per la fabbricazione delle mole, la pietra vulcanica effusiva è la più adatta grazie alla ruvidità e al potere levigante. Tale risorsa, collegata all’attività estrattiva e artigianale, portò nel periodo punico e romano ad una produzione di macine pressoché autosufficiente a livello isolano e fortemente competitiva sul mercato esterno.
Gli Egizi Nella storia del pane gli Egizi ebbero un ruolo fondamentale. Mentre i Romani si nutrivano di pappe di farina e i Greci di semplici sfoglie, il popolo egizio aveva posto il pane, insieme alla birra, come base della propria alimentazione. Abili agricoltori, gli Egizi coltivavano nella valle del Nilo essenzialmente tre tipi di cereali: il farro (triticum dicoccum), un tipo di frumento (probabilmente triticum aestivum) e l’orzo (hordeum sativum vulgare). Questi venivano macinati dalle donne mediante l’utilizzo di macine a sella e la farina ottenuta era utilizzata per fare pane di vario genere. Non conoscendo il lievito, la lievitazione era possibile aggiungendo alla pasta di pane un avanzo della pasta del giorno precedente. Il pane d’orzo, invece, era utilizzato per ottenere la birra. I Greci I Greci appresero l’arte della panificazione dagli Egizi. Nell’antica Grecia il pane rivestì un ruolo molto importante, tanto da essere associato all’idea della fecondità della terra. La dea Demetra nella mitologia è, infatti, la “dea del pane”, del grano e dell’agricoltura. I Greci divennero abili panificatori e secondo alcuni scritti 1 2
dell’epoca, già nel periodo classico, tra il VI e il V sec. a. C., nella loro produzione potevano annoverarsi oltre 70 tipi di pane diversi. I Romani Con la conquista della Grecia e il conseguente arrivo di schiavi panettieri greci anche a Roma si diffuse la cultura di questo prezioso alimento. Il pane lievitato andò a sostituire il puls, pane di polenta o farro o fava, che fino a quel tempo era considerato il cibo nazionale romano. All’inizio, la trasformazione dei cereali si svolgeva in ambito domestico, ma con l’incremento del consumo del pane si diffusero dei veri e propri panifici. Secondo il racconto di Plinio, i panifici furono introdotti nell’Urbe intorno al 171 a. C. e al loro interno si svolgevano, articolate in diversi ambienti, le varie fasi della produzione. È interessante notare che, in età imperiale, specialmente grazie a questo territorio, la Sardegna, era conosciuta come il granaio di Roma e, infatti, il grano duro, il pane e la pasta sono elementi naturali della cultura sarda. 02
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01 | moba sarda nuràgica - macina nuragica 02 | moba - macina 03 | moba romana - macina romana 1 3
Sanluri Seddori, in sardo, sin dal nome sembra custodire un rapporto filiale con la terra e in special modo col grano. Nelle più antiche varianti toponomastiche come Selori, Sellori potrebbe celarsi il richiamo a su logu ‘e su lori: il luogo del grano (su trigu, dal latino triticum), (F. Colli Vignarelli, in Sanluri terra ‘e lori, 1965). Scriveva Vittorio Angius, nel Dizionario geografico - storico - statistico - commerciale (1833-1856): «I terreni di Sellori sono generalmente di tanta fertilità, per cui possono mettersi al paro con i più fecondi delle regioni riputate meglio granifere. Aggiugnesi alla natura l’ausilio dell’arte nel sarchiarli e sgombrarli dalle erbe parassite». Alla fine dell’800, il dottor Ledda, medico a Sanluri fra il 1871 e il 1880, compilava una Topografia medico - statistica del comune di Sanluri: «Il terreno è per la maggior parte di natura marno-argillosa, che credesi più adatta alla coltivazione del grano, principale prodotto che dimandasi tra noi [sardi] alla terra». E precisava: «I terreni di Sanluri sono in massima parte coltivati a cereali: gli altri a vigneti, ad oliveti od a mandorleti. Quelli coltivati a cereali sono a coltura annuale in rotazione biennale» (S. Ledda, Topografia e statistica, 1884).
La Sardegna A causa della scarsità di dati e analisi paleobotaniche, il consumo di pane nella Sardegna preistorica può essere solo ipotizzato in relazione alla diusione della cerealicoltura. Questa fu introdotta nell’Isola intorno al VI sec. a. C. e già nel Neolitico Medio, intorno al 4000 a. C., si diffuse la coltivazione dell’orzo e dei grani duri. A partire dall’età nuragica, la diffusione della cerealicoltura è documentata da ziri e dolii in terracotta e da macine e macinelli che dal Neolitico in poi sono presenti in tutte le aree abitate della preistoria fino ad età storica avanzata. La macinazione avveniva attraverso lo sfregamento di una pietra sull’altra. Quella di dimensioni maggiori e dalla forma oblunga, detta macina, accoglieva il cereale; quella più piccola, il macinello, veniva impugnata dall’uomo e sfregata con un movimento ondulatorio. Con l’utilizzo, la pietra inferiore, la macina, tendeva a incavarsi assumendo la caratteristica forma a sella. Non essendoci riscontri diretti sulla panificazione nella Sardegna preistorica è possibile ipotizzare, grazie all’analisi di ceramiche e bronzistica, l’aspetto e i sistemi di cottura utilizzati. 1 4
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Nel vicino villaggio di Genna Maria di Villanovaforru, risalente alla prima età del ferro (IX-VIII a. C.), in un ambiente presumibilmente adibito a cucina, sono stati rinvenuti una caldaia in ceramica, un ampio sedile semicircolare e un bacile in pietra. In un vano accanto, il ritrovamento di due macinelli in basalto e di un letto di cenere induce a supporre che questo fosse il luogo dedicato alla panificazione. Il ritrovamento più interessante, in un vano utilizzato come deposito, è costituito da alcuni residui alimentari. Nonostante non sia stato possibile individuarne completamente la composizione, sebbene i risultati di importanti studi siano ancora in fase di pubblicazione, questi frammenti di materia carbonizzata consentono di documentare la produzione di pane nella Sardegna preistorica e protostorica. Anche le figurine in bronzo dell’età nuragica testimoniano la presenza del pane. Sono, infatti, molteplici i bronzetti con una focaccia in una mano, raffiguranti l’offerta del pane o di altri alimenti alle divinità, mentre l’altra è sollevata per il saluto devozionale. Alcune rappresentazioni di focacce più gonfie rispetto ad altre permettono di ipotizzare l’uso del processo di lievitazione nella panificazione. I pani della bronzistica sarda presentano come caratteristica ricorrente delle incisioni, probabilmente a scopo decorativo.
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Dal confronto dell’incisione più frequente, quella a raggiera, con il negativo di diverse pintaderas nuragiche, si può supporre che queste matrici di terracotta, dal diametro non superiore ai 10 centimetri e la faccia decorata con motivi geometrici, fossero dei timbri utilizzati per decorare pani cerimoniali. Le pintaderas, attribuibili al periodo di tempo che va dal termine del Bronzo Finale alla prima età del Ferro (X-VIII sec. a. C.), furono ritrovate in nuraghi, villaggi e luoghi di culto.
04 | pintadera 05 | lacu - abbeveratoio 1 5
Il periodo giudicale Durante il Medioevo la Sardegna si presentava suddivisa in diverse realtà politiche: i quattro Giudicati sardi. Nonostante fossero delle unità distinte e autonome, i Giudicati avevano un’organizzazione simile. La società sarda ruotava attorno alla villa, elemento caratterizzante e fulcro economico di un territorio suddiviso in fasce concentriche. Attorno al nucleo abitativo vi era il vidazzoni, costituito da seminativi e proprietà della comunità del villaggio. Queste terre erano assegnate, ogni anno, alle famiglie in base al numero dei propri componenti e delle loro necessità. Accanto a queste terre comuni vi erano quelle private e chiuse, is cungiaus, destinate a colture ortofrutticole come orti, frutteti, vigne e oliveti. Seguendo una linea concentrica, vi erano poi i salti ovvero boschi, pascoli e terreni incolti che costituivano, col resto del territorio, il fundamentu di ogni villa. In questo periodo, la coltura cerealicola pare fosse piuttosto produttiva e diffusa nell’Isola. Ad avvalorare questa tesi vi sono alcuni toponimi quali Orrea, Argiolas, Laores e documenti del periodo pisano e aragonese. Nei latifondi privati, e nel comune populare, veniva coltivato soprattutto il grano che era principalmente di tipo duro e, presumibilmente, il pane
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veniva fatto solo di farina di grano. A tal proposito vi è un’assenza di dati certi, in quanto la procedura della panificazione in Sardegna, così come la foggia, il lievito e gli ingredienti, cambia da paese a paese. Ne è testimonianza la straordinaria varietà di pani che persiste tuttora in Sardegna. In alcune zone dell’Isola si riscontra addirittura la presenza di pane rituale a base di ghiande e argilla. La molitura del grano restava, in una Sardegna dall’economia antiquata, una delle attività più incombenti, mentre il pane si affermava come l’alimento base di una società servile. In città erano presenti i forni pubblici: si pensi che, in età aragonese, nella città di Cagliari vi era il divieto di avere forni propri per la paura degli incendi, mentre è probabile, invece, che nei paesi e in campagna le case fossero quasi tutte dotate di un forno.
06 | moba antiga - macina antica 1 6
Dalla terra alla vita
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Il rapporto tra l’uomo e la terra si perde nella notte dei tempi. Le prime forme di agricoltura risalgono a circa 12.000 anni fa nella Mezzaluna Fertile tra i fiumi Tigri ed Eufrate e l’Iran occidentale. Il grano dapprincipio venne raccolto allo stato selvatico e poi coltivato. L’invenzione della ceramica (8.000 – 7.000 a.C.) permise il passaggio dal chicco crudo a quello cotto, dalla farina alla focaccia, dalla semplice bollitura dei cereali al pane azzimo o lievitato. A partire dal VI millennio a.C., delle prime forme rudimentali di cerealicoltura apparvero anche in Sardegna. Da allora si cominciò a scoprire che l’annata agraria è soggetta a cicli produttivi: le semine e i raccolti portarono alla suddivisione del tempo in stagioni, dell’anno in mesi, settimane e giorni. Intanto, nel trascorrere circolare del tempo, il paesaggio mutava. Il richiamo della terra In anni più recenti, riducendo l’arco di tempo delineato agli ultimi scorci del 1.700 sino ad arrivare agli anni ’50 del ’900, si può ipotizzare che circa metà della superficie riservata alle colture annuali fosse dedicata alla coltivazione del grano (bidatsóni), l’altra metà (poborìbi) era destinata al riposo (pasiu) o alla coltura delle leguminose riservate al consumo familiare, alla vendita o per alimentare gli animali da lavoro, come esemplificato nel disegno tratto da Sa laurera, il lavoro contadino in Sardegna, G. Angioni, 1976. Nell’annata successiva le parti si invertivano. Le pratiche agricole richiedevano, in tutte le loro fasi, l’impiego di conoscenze ed
esperienze sedimentate nel tempo. Come si vedrà, il lavoro umano era coadiuvato dall’impiego degli animali (buoi, cavalli, asini). La meccanizzazione cominciò ad affermarsi lentamente solo tra le due guerre mondiali. L’annata agraria (annàda) corrispondeva a un anno solare, ma non coincideva con l’anno astronomico – cominciava, infatti, a settembre – ed era commisurata, in buona sostanza, alle stagioni, dalle quali dipende il ciclo vegetativo delle piante. La variabilità meteorologica, relativamente imprevedibile, era fonte di speranze e preoccupazioni. In relazione alle piogge e alle temperature, poteva rendersi necessario “anticipare” o “ritardare” alcune pratiche agricole (semine, lavorazioni, raccolto) e l’annata poteva risultare precoce (cabudraxa) o tardiva (cuaina), bella (abbondante) o maba (scarsa).
07 | giuàbi de bois - giogo per i buoi 08 | Carretu + carruba - Carretto + sponda
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Un detto popolare recita: «Acqua e sobi, trigu a muntonis: acqua e sole, grano in quantità». I riti religiosi, spesso di derivazione pagana, patrocinavano e ritmavano le attività agricole; le fasi lunari “suggerivano” semine e raccolti.
Croce, il 14, cui tutti gli abitanti del paese erano devotissimi. Dopo le prime piogge, intorno alla metà del mese si aravano i terreni e si vagliava il miglior grano da semina (trigu scerau, grano scelto) mediante setacci (cibirus) a grana via via più fine. Il lavoro coinvolgeva tutta la popolazione, finanche i bambini. Gli aratri erano trainati da buoi o dal cavallo. Fino ai primi anni del ’900 l’aratro era di legno.
Settembre – In sardo-campidanese, non a caso, veniva chiamato Cabudanni (caput anni) che rimanda anche al calendario liturgico bizantino che iniziava appunto in questo mese e che segnava l’inizio dell’anno agricolo. Settembre è il mese in cui si rinnovavano i contratti annuali in agricoltura e infatti, per benedire questa ritualità, erano ricorrenti in tutta la Marmilla le festività legate a Santa Maria Bambina, l’8, e a Santa
Ottobre (Mes’e Ladamini, da laetamen, concime) – A dispetto del nome, in questo mese non si sparge quasi mai letame su terreni destinati al grano. Il letame si utilizzava, solitamente, per la concimazione del poboribi destinato alle leguminose, in particolare fave. Nella seconda metà di ottobre, si preparavano i terreni per la semina: si eseguiva una “seconda aratura” perpendicolare alla prima (arretrocimentu), con cui si eliminavano anche le erbe infestanti sviluppatesi nel corso dell’autunno. 10
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Novembre (Onniasanti) – Intorno alla prima metà di novembre si semina il grano alla volata: i campi vengono prenus
09 | crappittàs - scarpe 10 | aràu de ferru - aratro in ferro 11 | agùris - stanghe di attacco dell’aratro al cavallo 12 | aràu de linna - aratro in legno
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(“riempiti”) con la semina a spaglio (seminadura). Per ricoprire il grano e pareggiare il terreno si utilizza l’erpice (su tsreppi) o anche lo zappacavallo (su strippadori). Eppure, ancora nell’800: «[In] Sardegna non s’impiegano gli stromenti chiamati erpice, o rastello, tanto per coprire di terra il seme, come per disfar in polvere le zolle, poiché lavorando la terra umida come è solita esser negl’indicati mesi [ottobre e novembre], facilmente [le zolle] si disfanno con la paletta di ferro, che porta il bifolco attaccata al bastone dello stimolo» (A. Manca Dell’Arca, Agricoltura di Sardegna, 1780).
Dicembre (Mes’e Idas) – Si tracciavano dei solchi con l’aratro nei terreni che tendevano ad allagarsi o erano soggetti al dilavamento, assecondandone la pendenza. I piccoli solchi confluivano in una cora maista: gora principale di deflusso dell’acqua.
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Aratri in legno e aratri in ferro S’aràu de linna o s’aràu sardu è un aratro a chiodo, in legno, col vomere (abràda) in ferro, che alcuni ritengono poco difforme dall’antico aratro romano. In Sardegna veniva realizzato, principalmente, in legno di olivastro (ollàstu) o di leccio (ìxibi). Negli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale si ebbe la progressiva sostituzione dell’aratro di legno con aratri di ferro che oltre a smuovere il terreno lo rivoltava, per una resa migliore. In quegli anni vennero introdotte anche le prime macchine agricole. Chiamati comunemente Èccarra (probabilmente dall’aratro di tipo Eckert) furono introdotti nella Sardegna meridionale a cavallo fra ’800 e ’900 e si diffusero massicciamente dopo la prima guerra mondiale, dapprima importati dal continente, poi forgiati localmente. 2 1
Gennaio (Gennarxiu), Febbraio (Friaxu) e Marzo (Martzu) – È tempo di sarchiare: «Più fiate [volte] si rimonda [ripulisce] dalle erbe parassite, praticandogli attorno [al grano] due o tre zappature» (S. Ledda, Topografia e statistica, 1884). Allo scopo si utilizzava una zappa dalla lama (atza) stretta, sa marra po’ trigu, che oltre ad eliminare le «cattive erbe, che succhiano i sali ed oli della terra» serve a frantumare le zolle e rendere soffice e friabile il terreno. Aprile (Abrili), Maggio (Maju) – Ci si dedica a limpiai su trigu de s’erba, alla diserbatura manuale: «Nelli mesi d’aprile e maggio si debbono roncare, ed estirpare l’erbe cattive, che si troveranno in mezzo de’ terreni seminati, come sono: i cardi selvatici d’ogni sorte, il loglio, e quella spezie d’erba chiamata in lingua sarda spiga marina [sa saina], [cioè] l’avena, la veccia e i piselli selvatici in tutte le sue spezie, che sono l’erba più cattiva, che si trova per danneggiar il frumento fatto già grandetto, perché rampicandosi al gambo, lo fa cascare» (A. Manca Dell’Arca, Agricoltura di Sardegna, 1780).
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13 | béttua - bisaccia
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Il tesoro del grano.
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esclusivamente grano duro) è quello in cui, mentre le spighe sono già diventate gialle e le ariste di colore scuro, i culmi rimangono ancora un po’ freschi e verdi nelle parti nodose. Occorrevano solo una falce (sa fracci), un ditale e qualche indumento specifico. 14
Con l’arrivo della stagione calda e dell’estate arriva anche il tempo della mietitura tra i mesi di giugno e luglio. «Sullo scorcio di giugno e lungo il luglio si falcia a mano e tosto si trebbia facendolo calpestare dai buoi e dai cavalli e poscia colla forcatura e col paleggiamento si pulisce e si scevera dalla paglia» (S. Ledda, Topografia e statistica, 1884). Giugno è detto Mes’e lampadas, dai fuochi accesi nella notte di San Giovanni, coincidente col solstizio d’estate. Il momento migliore per la mietitura del grano (quasi
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Sa fracci (falce messoria) è lo strumento principale della mietitura tradizionale. Con una forma di mezzaluna o segmento di ellisse, è costituito da un arco chiamato coddu (spalla) e da una punta detta biccu (becco). La parte concava è finemente dentellata, durante il lavoro si fila spesso con una pietra, di solito, arenaria. L’impugnatura di legno (màniga) è lunga circa quindici centimetri.
La falce ha un corto manico di legno a cui era fissata la lama, a forma di arco oppure di mezzaluna, che veniva realizzata dal fabbro del paese. Il lavoro aveva inizio il mattino prestissimo, già prima dell’alba, quando gli steli sono meno aridi, resi più elastici dalla rugiada. Prima di iniziare il lavoro, si sceglieva il punto del campo da cui partire (sa tenta), tenendo conto dell’inclinazione delle piante di grano. I mietitori si disponevano affiancati, a distanza di circa tre metri l’uno dall’altro. Prima di iniziare il taglio, di solito i mietitori si facevano il segno della croce con la mano che impugnava la falce. La sinistra impugnava un mazzo di culmi/steli e con la destra si tagliava il mazzo: si aveva così un mannùgu (manipolo), legato (alliongiau) con gli steli ritorti e poi deposto a terra. Un covone è formato da 6-8 manipoli. Il legaccio per legare i covoni, formato dai culmi stessi o da altre piante erbacee, è detto lióngiu. Ogni mietitore aveva diritto a portarsi dietro una spigolatrice, di solito una sua parente (moglie, sorella, fidanzata) mentre il proprietario del terreno (su meri) si riservava l’onore di mietere l’ultimo quadrilatero del campo, quello dal grano migliore: prima una striscia in verticale poi in orizzontale, ottenendo così una croce.
14 | crocoriga antiga - zucca antica 15 | crocoriga antiga - zucca antica 16 | fracci - falce 2 5
Luglio – Il mese della trebbiatura (treba o tréula) è propriamente luglio, che perciò è detto anche Mes’e treulas o Mes’e Argiolas (mese delle aie). Il trasporto nell’aia aveva un qualcosa insieme di rituale e di gioioso. L’ultimo covone veniva posto in cima al carro, con una canna conficcata al centro ed un fazzoletto (copricapo femminile) che sventolava attaccato alla canna. Arrivato sull’aia, il carradore veniva aiutato per lo più dal guardiano (su castiadori) nell’operazione di scarico. Prima che vi si stenda il grano, l’aia viene pulita accuratamente con una scopetta di frasche (scova, scovedda), poi si provvede ad estirpare le erbacce, infine si stende il grano nell’aia, in sardo stèrri. Si trebbia all’antica, spingendo sopra il grano una o più coppie di buoi, che di solito trascinano anche una pesante pietra (sa pedra ’e trebai)» (M. L. Wagner, La vita rustica, Nuoro, 1921). Il calpestio degli zoccoli separava
i granelli di grano dalle spighe. Vi erano delle precise fasi che segnavano i lavori nell’aia: la trebbiatura, la ventilazione, l’ammucchiamento e l’insaccamento, la misurazione del grano. Al primo maestrale (bentu estu) iniziava sa bentua (la ventilazione), con un trabutzu il padrone, salito nel cumulo, lanciava in aria delle inforcate di grano. I chicchi, più pesanti, ricadevano sul mucchio; la paglia, leggera, veniva spinta più in là dal vento, formando un mucchio a parte.
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Su trabutzu, (il forcone e il tridente): è un attrezzo che serve per spostare dei materiali col trascinamento o il sollevamento; oppure per ripulire aree come cortili o l’aia prima e dopo il deposito e la trebbiatura dei loris (cereali). In legno o in ferro, a tre e a più rebbi e di varie dimensioni; il manico è di legno.
17 | brocchittu - piccola brocca 18 | sistema di ricevuta pagamento 19 | trabutzu po ghetai sa palla - tridente per la paglia 20 | frocidda de seidai - forcone per i covoni 21 | trabutzu po bentulai - forcone per spagliare i cereali 22 | pĂ bia po bentulai - pala per spagliare i cereali
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In presenza del padrone si passava a s’incungia (immagazzinamento). Un uomo attingeva dal cumulo con un apposito secchiello (kubeddu) e mediante i mesuras (misure) si travasava il grano in sacchi di cotone grezzo e si attribuiva a ciascun lavoratore il compenso spettante. Il restante grano veniva portato a spalla su per il granaio. Si finiva con una grande festa.
Agosto (Austu). L’aia veniva ripulita dalle stoppie restanti, si bruciavano le stoppie dei terreni coltivati a grano, rendendoli in questo modo pronti per l’annata agraria successiva. Nelle aie ormai vuote, i piÚ poveri andavano spesso a raccogliere gli escrementi secchi degli animali che vi avevano lavorato e pascolato. Tali escrementi venivano utilizzati come combustibile del forno per fare il pane.
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23 | kubeddu - secchiello 24 | mesuras e arrasadoris misure e rasiere in legno 2 8
La famiglia e il pane
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Il ciclo del pane era di competenza quasi esclusiva della donna, sia nelle fasi preliminari (lavaggio e vagliatura del grano, molitura, setacciatura), sia nel processo di produzione (preparazione lievito, impasto, modellazione del pane, cottura). All’interno del nucleo familiare tutte le donne, indipendentemente dalle condizioni sociali ed economiche, davano il loro contributo. Le più anziane, oltre a collaborare, trasmettevano la loro esperienza, le bambine incominciavano ad essere avviate a tutta una serie di faccende domestiche. Dagli avanzi della panificazione venivano modellati i “pani per i bambini”, che costituivano quasi dei giocattolini commestibili. Le forme erano varie e alle bambine si regalavano bamboline, braccialetti, collanine; ai bambini cavallini, bici, strumenti musicali ecc. L’uomo si occupava del ciclo agrario, della costruzione degli attrezzi ed utensili in legno o in ferro come pale, tavoli, terraglie, rotelline. Rientrava nelle competenze maschili anche la produzione delle strutture architettoniche: granai, macine e forni. La panificazione era una sorta di rito solenne, con preghiere, frasi rituali, gesti che ne accompagnavano tutte le fasi di preparazione. Prima di iniziare il lavoro e di infornare il pane le donne si segnavano con la croce. Dall’Ottocento sino agli anni Cinquanta le graduali trasformazioni della panificazione tradizionale hanno riguardato più che altro la strumentazione, sulla base delle innovazioni tecnologiche; si pensi al progressivo abban-
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dono della mola asinaria. Dopo il 1950, il sistema produttivo generalizzato regredì in maniera inesorabile, la grande industria molinologica e i forni pubblici hanno sottratto all’ambito locale e familiare tutto il settore di trasformazione dei cereali. Fasi lavorazione La sequenza di preparazione del pane non si discosta nel complesso dalle pratiche e dai saperi tradizionali delle culture mediterranee. La peculiarità del prodotto sardo è dato dalla complessità e varietà di forme e modalità decorative.
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Vagliatura Prima della macinazione, il grano era sottoposto ad una serie di trattamenti che avevano lo scopo di eliminare polvere, pietruzze, pula, grani attaccati dai parassiti e di far assorbire al cereale una giusta quantità di umidità. Una prima cernita si effettuava utilizzando un vaglio (su cibìru de cerrunciuai - crivello dal fondo di giunco e i bordi di fieno), con movimenti ondulatori le impurità venivano indirizzate al centro per poi essere raccolte con le mani ed eliminate. Il grano veniva depositato dentro un recipiente in terracotta (sa scivedda) e immerso in acqua corrente. Il grano lavato si lasciava asciugare, preferibilmente all’aperto, sparso su coperte di lana oppure dentro canestri di vimini intrecciati, con fondo piatto e basso (is canistéddus). Una volta asciugato il grano era sottoposto a sa prùgadura, ovvero lo si “purgava” dalle impurità non eliminate dal lavaggio. 3 1
Molitura La molitura è quella fase della panificazione alla quale l’uomo ha cercato di applicare, dopo quella manuale, sempre nuove fonti di energia: animale, idraulica, eolica, a vapore, elettrica. La mola asinaria (sa moba sadra) è il sistema molitorio utilizzato dalla metà del XIX secolo nel Meridione dell’isola, essa è una variante della mola romana antica. Posseduta dalla gran parte delle famiglie contadine, la mola veniva sistemata in prossimità della cucina, in modo che fosse agevole controllare l’operato dell’asinello. La macina era costruita in pietra vulcanica (basalto, tufo, trachite), mentre il contenitore di raccolta era generalmente
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in pietra o legno e dotato di una finestrella (su portalittu) che consentiva l’estrazione della farina macinata (su molingiu). Il grano veniva versato dalla parte superiore: la tramoggia (su maiolu) in legno o in paglia e giunco, a forma di tronco di piramide o di cono, con un’apertura sul fondo. Un asinello bendato con un cappuccio di sacco (su foccibi de su burrincu) girava per ore intorno alla macina.
Setacciatura La lavorazione delle farine (fai sa farra) era l’attività femminile per eccellenza, veniva richiesta una grande manualità e tecnica. Una volta macinato il grano, si passava alla setacciatura, con lo scopo di separare i diversi componenti dello sfarinato integrale. Si utilizzavano setacci di diverse dimensioni. Escludendo la crusca (poddini), destinata all’alimentazione animale, tutto il macinato veniva usato nella panificazione. Si ricavavano il fior di farina (su scetti), la semola fine o grossa (sa simbula), la crusca (su poddini), il cruschello (su civraxeddu o su poddieddu). 3 2
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Con su scetti si confezionava il pane più comune, detto civraxu. Una grossa pagnotta dalla crosta morbida ed elastica, con molta mollica all’interno. Un pane prodotto per il consumo giornaliero. Il cruschello veniva usato per preparare su pani nieddu, un pane integrale poco spugnoso, prodotto dalle famiglie meno abbienti e consumato nelle case padronali dalla servitù. Si realizzavano, inoltre, sa coxina de is puddas e su cuccu de cani, pani di scarsa qualità, destinati agli animali da cortile. Con la semola si preparavano pani più pregiati e di forma più elaborata come su coccoi, su coccoi pintau e su moddizzosu. In cucina (coxina), nella stanza del forno (in sa domu de su forru) o nel loggiato (in sa lolla) le donne preparavano gli strumenti (strexus) necessari tra i quali erano indispensabili is crobis, di fieno o di asfodelo e
di varie misure, per contenere le diverse farine e su canisteddu, grande canestro piatto, anch’esso di fieno o di asfodelo, contenente un panchetto (sedazzadòri), che serviva come piano di lavoro dei setacci. Continuando a lavorare sopra il gran canestro piatto (canisteddu) si collocava il macinato, già depurato di varie farine, entro un piccolo canestro (cobinu, palinu, canistedda), imponendo a questo un movimento rotatorio in modo da far convergere al centro i cruschelli sempre più fini che venivano poi asportati. Per raffinare ulteriormente le semole, venivano usati crivelli dal fondo di sottilissime lamelle di giunco o paglia d’orzo (cibiru de ferru, cibiru de fenu). Tutti gli strumenti utilizzati per la produzione delle farine facevano parte del corredo della sposa.
26 | crobi - corbula 27 | cibiru - crivello 28 | cibiru - crivello
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Lavorazione dell’impasto Le farine si lasciavano riposare almeno per un giorno, dentro corbule rivestite di tovaglie e teli candidi. Si cominciava la sera prima con la preparazione del lievito madre (su frumentu), pezzo di pasta inacidita, residuo della panificazione precedente, custodito dentro una ciotola, in un luogo fresco e asciutto della casa. Il giorno dopo, all’alba, il lievito già sciolto veniva mescolato alle farine e impastato con acqua tiepida e un pizzico di sale, dentro una conca di terracotta (sa scivedda). L’impasto veniva in una prima fase lavorato con la pressione dei pugni chiusi e delle nocche (cummossai), successivamente, con l’aggiunta di abbondante acqua, veniva ulteriormente manipolato e costantemente rimescolato (spongiai, ammodiai). Questa lavorazione veniva utilizzata soprattutto per i pani soffici di farina e di farine integrali: civraxu, moddizzosu; invece era
necessario lavorare a lungo, con la forte pressione del palmo della mano (ciuexi), l’impasto di semola destinato a produrre pani a pasta dura (coccoi) o a sfoglie sottili (carasau). Questa lavorazione, essendo lunga e faticosa, impegnava anche gli uomini e veniva eseguita in un apposito tavolo (sa mesa de fai pani). Una volta che la pasta acquistava elasticità e morbidezza veniva messa a lievitare (axedai) dentro una conca di terracotta (scivedda) ricoperta con teli di lino o cotone e con una spessa coperta di lana, per proteggere e mantenere la giusta temperatura.
29 | màchina po sa pasta - trafila per la pasta 30 | sa stangiada - recipiente in terracotta 31 | sedazzadòri - cernitore 32 | scivedda - conca in terracotta 29
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Modellazione dei pani Nell’attesa della lievitazione venivano preparati gli strumenti per la modellazione e la cottura dei pani. Con una leggera pressione della mano si valutava il grado di elasticità e l’avvenuta lievitazione della pasta, poi si procedeva a dividere e modellare il pane (pesai su pani). L’impasto veniva ridepositato in un canestro per circa una mezz’ora per “riposare”.
Successivamente, con l’ausilio di arnesi vari (forbici, coltellini, rotelle dentate, pinzette, spianatoie e mattarelli), ciascuna focaccia veniva modellata in diverse forme e consistenza, a seconda degli usi locali e degli ingredienti utilizzati.
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33 | sedazzadòri - cernitore 34 | màchina po sa pasta - macchina per impasto 35 | tùturu - mattarello
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Cottura Il forno (su forru) non era uguale dappertutto, ma in genere si strutturava a cupola su base quadrata, costruito con argilla e rivestito all’interno da materiale refrattario, collocato all’esterno della casa, nel loggiato (sa lolla) o nella stanza del pane (sa domu de su pani). Il forno veniva riscaldato per oltre un’ora, con fascine di lentisco (modditzi), sarmento (sramentu) e altri legni ad alto potenziale calorico. Raggiunta la temperatura desiderata, si eliminavano le braci e si ripuliva il forno, grazie all’ausilio di scope inumidite realizzate con erbe ed arbusti aromatici. Il pane veniva infornato con l’aiuto di una lunga pala (pabia de inforrai). I pani più grossi si infornavano nelle parti più calde del forno, dunque nella zona perimetrale e centrale, mentre i pani più piccoli in prossimità dell’apertura. Il civraxu, una volta sfornato, per essere dorato veniva inumidito con un canovaccio bianco e rimesso in forno per un’altra mezz’ora. Veniva conservato in su canisteddu mannu, un grande cestino ricoperto con coperte o lenzuola.
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36 | pàbia po inforrai – pala per infornare 37 | turra - mestolo 38 | sporta po sa sèmina- paniere 3 8
Solo le famiglie piÚ agiate potevano permettersi di avere un pane giornaliero, le altre producevano pani di lunga durata. A Sanluri, nella maggior parte delle case, si produceva sempre qualche forma in piÚ da destinare ai poveri, anziani e malati. La donazione era un gesto fatto con discrezione, il pane veniva trasportato sotto il grembiule (su pannu de ananti) per non dare nell’occhio. I pani cerimoniali, con decorazioni particolari, erano invece legati a riti o commemorazioni particolari: festività religiose, matrimoni, morti o nascite.
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39 | sarretta - rotella dentata 4 0
Su Civraxu di Sanluri
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Su Civraxu di Sanluri Elenco degli ingredienti Il “Civraxu di Sanluri” designa il prodotto di panetteria ottenuto dalla lavorazione di semola di grano duro, semolato rimacinato e farina di grano duro, insieme o separatamente, uniti a lievito naturale, sale marino preferibilmente iodato e acqua. Caratteristiche della materia prima Le cultivar di frumento duro utilizzate per la produzione del Civraxu di Sanluri devono provenire prevalentemente dal territorio di Sanluri, non escludendo l’approvvigionamento, in caso di necessità, dall’intero territorio della Regione Sardegna previa analisi effettuate dall’organismo designato dalla CCIAA. I grani utilizzati devono possedere buone caratteristiche produttive, adattabilità all’ambiente di coltivazione, alla tecnica colturale, la capacità di resistere alle patologie ed alle condizioni ambientali di sviluppo e di maturazione anche sfavorevoli, mantenendo le caratteristiche qualitative costanti. Pertanto una volta conferito il grano e dopo le opportune analisi, la granella deve rispettare i range riportati nella tabella: Peso ettolitrico Min 75 Peso 1000 semi gr. Min 40
Chicchi volpati % 8 max Proteine % s.s. Min 12
Bianconatura % 30 max
Impasto e prima lievitazione Gli ingredienti vengono lavorati tutti insieme meccanicamente per circa 40-60 minuti. Durante la lavorazione l’impasto non deve superare la temperatura massima 28°C, sulla base della temperatura esterna e della stagione. Terminate le operazioni l’impasto viene fatto lievitare, nell’impastatrice o in appositi contenitori, per circa 60-90 minuti (prima lievitazione) a temperatura ambiente, che preferibilmente non deve essere inferiore ai 2728°C, sino a raggiungere un volume di circa il doppio rispetto a quello iniziale. Spezzatura, modellatura e seconda lievitazione L’impasto viene diviso manualmente nella pezzatura desiderata (Pesadura), Il Civraxu viene quindi lasciato lievitare per ulteriori 60-90 minuti (seconda lievitazione) sino al raddoppio di volume, all’interno di appositi contenitori/canestri, anticamente realizzati in fieno e detti crobeddas, ricoperte di piccoli teli in cotone. Cottura e Conservazione La cottura del prodotto avviene in forni alla temperatura di 180°-220°C per 65-70 minuti, sulla base della pezzatura del pane. È ammessa anche la cottura tramite forni a legna. Il prodotto cotto viene sfornato e disposto sui tipici sostegni che consentono il raffreddamento dei pani posti di taglio. Il Civraxu cosi prodotto può essere conservato a temperatura ambiente sino ad un massimo di 7 giorni. 4 2
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Il Museo del pane è stato allestito anche grazie alla generosità di alcuni che privandosi di oggetti a loro cari, li hanno voluti mettere a disposizione della collettività e hanno aderito con entusiasmo al progetto. A loro va tutta la nostra gratitudine, li menzioniamo di seguito: Frati Minori Cappuccini di Sardegna Convento dei Frati Cappuccini di Sanluri Famiglia Bassetto Antonio e Giovanni Famiglia Cocco Orlando Famiglia Ibba Eliseo Famiglia Nurra – Podda Famiglia Pau Francesco (noto Acchino) Famiglia Pau Salvatore Famiglia Eredi Pes Beniamino Famiglia Schiavo Ugo Famiglia Eredi Serrenti Fiorentino (noto Titino) Famiglia Urpi Giuseppe Famiglia Usai Sergio Famiglia Eredi Usai Sisinnio
© 2018 Comune di Sanluri È vietata la riproduzione totale o parziale se non espressamente autorizzata. La proprietà di testi e immagini è dei rispettivi autori. Finito di stampare nel mese di settembre 2018 presso la Panoramika Editrice - Alghero