per scontato. Cos’altro può essere restare in questo modo a fianco del figlio? Alice, però, dimentica le parole notturne del figlio, che parla dall’interno di un limbo, una zona fuori della coscienza e fuori della pazzia. In quel limbo non c’è né bene né male, solo la verità che un figlio porge, una notte d’ospedale, a una madre insonne. Le parole non sono avvicinate con gentilezza, ma esplose da un tempo intimo e incalcolabile, stanano una delusione che mai è divenuta verbo, mai è stata così vera. Tu sei codarda, mamma. Resti qui, al mio fianco, e basta. Sono parole ingiuste? Forse. Ma cos’altro poteva fare Alice? Non c’è azione più grande di chi sappia restare. Non c’è madre, non c’è figlio senza questa azione immobile. Restare nel potere è di molti; restare nell’impossibilità, di nessuno. Scegliere di restare sapendo che non si è in grado di fare niente,
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solo restare, a mala pena guardare; consegnarsi nella più assoluta sterilità: non c’è umanità più grande. Non c’è umiliazione più grande; non c’è coraggio paragonabile. Ma è davvero questo che fa, Alice? La croce ci può aiutare a capire. Un uomo viene arrestato e picchiato; viene deriso e insultato; viene processato e condannato. Alla fine è inchiodato a una croce e innalzato. I suoi piedi non toccano terra, come quelli dei bambini; le sue parole non vengono comprese. C’è chi corre via fuggendo; c’è chi ha scelto una perversa imitazione su un ramo d’albero. Le rare persone intorno alla croce non restano: sono e basta, per inerzia, come Alice al letto del figlio. L’unico a restare è l’uomo inchiodato alla croce. Solo colui che è stato consegnato alla più assoluta impossibilità ha la forza di amare, di amare pienamente. La croce capovolge il nostro concetto di prossimo. Non è il figlio malato il prossimo suo, come Alice ha creduto quando si è legata a quel letto. Ma è
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lei il prossimo di suo figlio. Come le persone ai piedi della croce sono il prossimo del crocifisso. Nelle urla di panico, il figlio di Alice ha sognato: dormiva su gradini di sassi e faceva il bagno in una grande vasca volante. Alice è stata solo capace di restare accanto al letto, per inerzia, nel suo debito non rimesso. Amore è una delle parole che non è possibile consegnare ad Alice. E croce? Alice non sarebbe d’accordo con la conclusione del paragrafo. Lei ha amato suo figlio. Ed è vero, ma in cosa consiste l’amore? Alice direbbe che l’amore nulla ha a che vedere con la croce. Che se suo figlio l’ha amata sia nella malattia sia nella morte, lei ha fatto lo stesso. Amare è un verbo che le appartiene perché appartiene a suo figlio – non importa quello che accadrà alla fine. Ha ragione Alice, ma dimentica cosa significhi amare nella morte. Non nella malattia: nella morte. Nella morte non ami, al massimo la-
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vori su un corpo. Rendi tutte le tue forze, non puoi fare di più. Ma amare non è un lavoro fisico, non è lottare perché un corpo respiri. L’amore, nella morte, è solo di chi muore, di chi lascia che tu lotti con un corpo, anche se non può far altro, chi muore, anche se la sua lotta è finita e la sua azione è passiva, come nel pudore. Forse non è facile capirlo, per me non è facile spiegarlo. Ma non puoi pensare, Alice, che ami solo perché tieni stretto un corpo che muore, e gridi. Se tuo figlio accoglie la morte, se entra nella morte, vi entra lasciando che tu lo stringa. Questo è amare. Questa è la croce.
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