Tolkien e Bach

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Introduzione Cammini paralleli Sul finire del Diciannovesimo secolo, a Moseley, nei pressi di Birmingham, in Inghilterra, vissero due uomini che avrebbero lasciato un’impronta significativa nel nostro tempo. Erano John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) ed Edward Bach (1886-1936), rispettivamente l’autore del Signore degli Anelli e il medico scopritore delle essenze floreali note come “Fiori di Bach”. Tolkien e la sua famiglia1 arrivarono a Sarehole2 nel 1896, quando il futuro scrittore aveva solo quattro anni – era nato a Bloemfontein, in Sudafrica, nel 1892. Bach, invece, aveva già dieci anni. Il piccolo Tolkien amava esplorare la campagna dei dintorni, con posti come Sarehole Mill3 e Moseley Bog (oggi una riserva naturale)4, che in seguito l’avrebbero ispirato5. Non è dato sapere se incontrò mai il giovane Edward, che era nato proprio a Moseley ed era cresciuto nella stessa zona, godendo dei suoi scenari e – forse inconsapevolmente – trovando in essi la fonte della sua futura passione per la medicina naturale. Quel che è certo è che trassero entrambi beneficio dalla bellezza e dall’energia di quell’ambiente, le cui tracce possiamo trovare nelle loro successive opere. Questo libro intende scavare nel territorio suggerito da quelle tracce, individuando le affinità – o le consonanze – tra l’immaginario fantastico tolkieniano e l’approccio terapeutico di Bach. Non si tratta di un’operazione strettamente biografica. Piuttosto, è un itinerario sottile e quasi nascosto, volto a in9


dividuare i segni di un retaggio comune che i due uomini condivisero: quello dell’energia naturale. In questo senso, le loro opere suggeriscono una via diversa dalle tendenze opposte e largamente predominanti nel mondo contemporaneo: dogmatismo (di natura religiosa, politica e culturale) e relativismo, derivanti dal progresso scientifico e dalla crisi della fede nella dimensione più intima dell’individuo, nell’invisibile e – più precisamente – nello spirituale. Una premessa: il ricco apparato di note a corredo del testo, che è stato inserito alla fine di questo libro, non vuole risultare un appesantimento alla lettura, ma è concepito per offrire ulteriori spunti di riflessione al lettore desideroso di approfondire alcuni concetti espressi nel corso della trattazione. Questa introduzione, in particolare, vuole gettare le basi di un confronto tra Tolkien e Bach incentrato sulle loro ‘creature’ letterarie e terapeutiche e, al contempo, dare il senso di come esse si inseriscano in una precisa concatenazione di eventi che hanno attraversato il Novecento e continuano ad attraversare il nostro presente – sia pure in una chiave diversa, come l’ultimo capitolo spiegherà. Tolkien e Bach nacquero e crebbero nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, dei crescenti nazionalismi e di una profonda trasformazione culturale che avrebbe velocemente portato non solo l’Inghilterra, ma l’intero mondo occidentale a credere profondamente nella tecnologia e nella scienza. In questo contesto, la spiritualità e tutto ciò che concerne la vita emotiva dell’individuo furono compressi e seriamente minacciati. La reazione in campo religioso (principalmente cristiano) fu in gran parte basata su valori e principi tradizionali, e sulla riaffermazione dell’idea di fondo che tutta la scienza umana 10


è soggetta alla sfera divina, e contribuisce a nutrirla e a difenderla: fondamentali punti di riferimento, in questo senso, restavano la filosofia di S. Tommaso d’Aquino (1225-1274) e gli scritti dei Padri della Chiesa6. A causa di una tale posizione, non ci fu – almeno inizialmente – nessuna apertura alle possibilità create dalla nuova disciplina della psicanalisi, la cui nascita ufficiale è fatta risalire al 1896, l’anno in cui Sigmund Freud (1856-1939) usò per la prima volta questa parola ne L’Interpretazione dei sogni. S. Tommaso d’Aquino, infatti, considerava i “segreti del cuore” (occulta cordis o secreta cordis) come qualcosa di non conoscibile dall’intelletto umano, ma solo da Dio7. Secondo la Chiesa cattolica, dunque, la sfera dell’intimo era ancora qualcosa di inaccessibile alla mente dell’uomo. C’è peraltro chi sostiene che la Chiesa, nel corso del Novecento, avrebbe abbandonato le sue posizioni dogmatiche riguardo alla psicologia e alla psicanalisi, considerando come tali discipline potessero, nelle parole di Freud, contribuire a purificare la religione – così come l’arte e la filosofia –, ma non a eliminarla8, e giungendo infine a riconoscerne il contributo allo sforzo dell’uomo di avvicinarsi alla dimensione del cuore – ovvero la parte più intima di ogni persona –, che è il nucleo di tutta la spiritualità. In ogni caso, all’inizio del ventesimo secolo questo risultato era ancora lontano dall’essere raggiunto. Non solo la Chiesa cattolica mostrava un profondo scetticismo nei confronti della psicanalisi, ma anche la scienza rifiutava qualunque tesi che non potesse essere dimostrata attraverso l’applicazione di un rigoroso metodo sperimentale. L’approccio di uno dei più importanti allievi di Freud, Carl Gustav Jung (1875-1961), basato sulla nozione di anima, mirava a curare le patologie psicologiche e a comprendere meglio le potenzialità più profonde di ogni individuo (processo di indi11


viduazione9), in modo da aiutarlo a esprimerle e armonizzarle con l’universo nella sua interezza. Eppure venne contestato da molti psicologi, convinti che gran parte delle sue riflessioni non avesse una solida base scientifica. In particolare, essi osteggiavano la dottrina degli archetipi, i modelli universali di pensiero (intrisi di contenuti emotivi) condivisi da tutti gli uomini e radicati nella storia del genere umano, che nella visione junghiana formano l’inconscio collettivo, al quale ogni individuo attinge. Concetti simili apparivano troppo vaghi e privi di una chiara dimostrazione scientifica per essere pienamente accettati. Il 1913 è considerato un punto di svolta nella carriera di Jung. In quell’anno cruciale egli si distaccò dalla psicologia freudiana per elaborare la sua visione personale, che fonda la psicologia analitica. In realtà, si tratta di un periodo decisivo per la storia della scienza in genere. Nel 1905 Albert Einstein (1879-1955)10 formula la teoria della relatività ristretta (o speciale), in base alla quale non esistono uno spazio e un tempo assoluti, ma queste dimensioni variano in relazione alla posizione e al moto dell’osservatore (ovvero al sistema di riferimento). Tale teoria era (per il momento) valida solo per i sistemi inerziali, ma in seguito (1916) sarebbe stata estesa anche a quelli accelerati (relatività generale). Spazio e tempo non erano più separati l’uno dall’altro, ma formavano una sola entità, lo spazio-tempo (più precisamente, uno spazio tridimensionale dove il tempo rappresenta la quarta coordinata). Massa, velocità e campi gravitazionali, in questa cornice, influivano sul passaggio del tempo. In particolare, nell’ambito della teoria della relatività ristretta Einstein propose l’equazione E=mC2, secondo cui massa ed energia sono due aspetti della stessa sostanza, e possono convertirsi l’una nell’altra in virtù di una velocità costante pari a quella della luce. 12


Si trattava di concetti rivoluzionari in campo scientifico, che dimostravano come idee e principi consolidati potessero essere stravolti o letti in una luce nuova. Questi sono gli anni degli studi di J.R.R. Tolkien ed Edward Bach. Tolkien – che era già stato istruito in latino e greco, senza dimenticare lo studio del gotico e del finnico antico – si concentrò sull’inglese e sulle lingue germaniche all’Exeter College di Oxford, ottenendo il Bachelor of Arts nel 1915, mentre Bach conseguì la laurea in Medicina presso lo University College of London nel 1912. Entrambi vissero una stagione contrastata e difficile, in questa fase, anche se per ragioni diverse. Padre Francis Morgan, il tutore di Tolkien, gli proibì di vedere la sua innamorata, Edith Bratt, fino al compimento del ventunesimo anno di età. Fu una dura separazione, durante la quale Edith si trasferì a Cheltenham (non lontano da Gloucester, a sud di Birmingham). Qui John Ronald la raggiunse nel gennaio del 1913, non appena ebbe compiuto ventun anni, e le chiese di sposarlo. Lei accettò, e ruppe il fidanzamento con un altro ragazzo, George Field. Si sarebbe poi lasciata persuadere a lasciare la confessione anglicana per diventare cattolica, anche se con qualche esitazione. Si sposarono nel marzo 1916. Nel giugno successivo John Ronald dovette partire per la guerra e combatté sulla Somme; ma una febbre da trincea, nell’ottobre dello stesso anno, lo costrinse a tornare in Inghilterra. Tra il 1917 e il 1918 si riprese, gradualmente, e fu allora che cominciò a elaborare le lingue elfiche e alcune delle storie che avrebbero in seguito formato parte del Silmarillion: tra queste, i primi scritti inerenti alla caduta di Gondolin, alla vicenda di Túrin e a quella di Beren e Lúthien11. Particolarmente significativo è il fatto che, in questo periodo, la salute di Tolkien sembrò fare 13


di tutto per impedirgli di tornare sui campi di battaglia. La febbre si ripresentava nei momenti ‘topici’ in cui, se fosse stato bene, sarebbe dovuto ripartire per il fronte, rischiando di morire proprio mentre la sua creatività e la sua vita familiare stavano sbocciando decisivamente. Infine, la salute si ristabilì e la guerra terminò, l’11 novembre 1918. Tolkien ritornò con la famiglia a Oxford, dove completò gli studi universitari ottenendo il titolo di Master of Arts. Quanto a Edward Bach, iniziò la pratica ospedaliera subito dopo la laurea. Tuttavia, non era felice dell’approccio terapeutico della maggior parte dei medici, che curavano solo i sintomi, senza interessarsi ai pazienti, alle loro emozioni e personalità. Si persuase così che fosse necessario curare la persona malata, non la malattia, il che spiegava come mai certe medicine funzionassero su alcuni pazienti ma non su altri. Non prese parte alla Prima Guerra Mondiale perché le sue condizioni di salute non gli permettevano di affrontare la vita militare, ma ebbe la responsabilità di un gran numero di letti nell’ospedale dello University College of London. Quando, nel 1917, gli fu diagnosticato un tumore alla milza, i medici erano convinti che non avesse più di tre mesi di vita; ma lui reagì concentrandosi sui suoi esperimenti di immunologia – il campo al quale aveva nel frattempo volto la sua attenzione – e le sue condizioni migliorarono incredibilmente, fino alla guarigione. Questa straordinaria dimostrazione di forza di volontà, insieme ai suoi studi sui vaccini, innescarono probabilmente il meccanismo che in seguito lo avrebbe portato a elaborare il suo rivoluzionario sistema terapeutico basato sulle essenze floreali. Bach aveva deciso di diventare medico all’età di sei anni, e nel corso dell’infanzia aveva assorbito la bellezza della natura della campagna della sua regione, preparandosi inconsape14


volmente ai successivi studi sulle proprietà curative dei fiori. Tolkien, ancora bambino, amava non solo la lettura – specialmente di autori come George MacDonald12 ed Andrew Lang13, oltre che di libri sulle lingue – ma anche le prime lezioni di botanica, impartitegli dalla madre, che accesero in lui un profondo interesse nei confronti del mondo naturale. Sembra dunque che, nel corso di anni di grandi cambiamenti per il mondo, questi due autori14 stessero elaborando i valori e le idee di fondo che sarebbero poi diventati i pilastri delle loro opere. E tanto gli uni quanto le altre erano imperniati sulla natura, le emozioni e l’anima. Bach avrebbe scritto, in Heal Thyself (Guarisci te stesso, 1931), che l’origine di tutte le malattie non è, in definitiva, materiale, e consiste nella negazione o nel rifiuto della mente di accettare ciò che l’anima suggerisce. In altre parole, ci ammaliamo perché non facciamo quello che desideriamo intimamente e ascoltiamo le ‘regole’ del mondo, anziché il nostro cuore. La malattia è una sorta di campanello d’allarme che ci aiuta a diventare consapevoli di questo errore, e la natura può aiutarci a tornare alla nostra Fonte interiore. Edward Bach comprese gradualmente tutto ciò nel periodo in cui lavorò come patologo e batteriologo presso il London Homeopathic Hospital (dal 1919 al 1922). In questi anni, fu profondamente influenzato dalle opere del fondatore della medicina omeopatica, il medico tedesco Samuel Hahnemann (1755-1843), ed elaborò sette vaccini omeopatici, detti ‘nosodi di Bach’, basati su diversi gruppi di batteri, corrispondenti a sette malattie croniche. Così facendo, si rese conto che i suoi nosodi erano riconducibili a sette diversi tipi psicologici15, e mentre iniziavano a essere conosciuti e usati anche in Germania e in America, cominciò a chiedersi se non fosse proprio l’aspetto psicologico a determinare la malattia, piuttosto che il contrario. I 15


nosodi funzionavano, ma le malattie a volte tendevano a ricomparire. Si convinse perciò che c’era bisogno di qualcosa di più profondo e sottile. Così, verso la fine degli anni ‘20, decise di continuare le sue ricerche nella natura. Setacciando la campagna del Galles si accorse che riusciva a percepire chiaramente l’impatto di piante e fiori sulla sua sfera emotiva e a capire l’effetto che ogni esemplare produceva sulla sua psiche. Poi cominciò a notare una serie di corrispondenze tra fiori ed emozioni e decise di preparare alcune tinture madri composte di acqua di sorgente e gocce di essenza ricavata da petali di fiori lasciati sotto la luce del sole per assorbirne l’energia. Veniva quindi aggiunto un goccio di brandy (o di cognac), per preservare gli estratti16. Luce, acqua e i prodotti della terra (i fiori) convergevano nel riarmonizzare gli stati emotivi alterati del paziente. Alla fine del 1930, Bach aveva già scoperto 12 rimedi. Li chiamò I Dodici Guaritori e ad essi intitolò uno scritto che diede alle stampe nel 193317, dopo aver pubblicato i saggi Guarisci te stesso (1931) e Libera te stesso (1932). Portò avanti i suoi studi fino alla morte, che avvenne nel 1936, creando 38 rimedi – oltre a una combinazione di emergenza, il ‘Rescue Remedy’ –, che avevano e avrebbero ancora curato efficacemente un gran numero di persone18. A questo punto, è interessante notare come Tolkien avesse lavorato come Lettore di Lingua Inglese all’Università di Leeds (dal 1920 al 1925) e quindi, ormai Professore, si fosse spostato al Pembroke College di Oxford per insegnare Lingua e Letteratura Anglosassone. Nel corso dei suoi anni al Pembroke cominciò a scrivere Lo Hobbit, che sarebbe stato pubblicato nel 1937. L’anno precedente aveva tenuto la lezione Beowulf: the Monsters and the Critics (Beowulf: i mostri e i critici19), in cui sosteneva che l’approccio critico all’antico poe16


ma inglese Beowulf – ma la tesi può essere estesa a qualsiasi grande opera letteraria – non potesse basarsi su mere osservazioni filologiche o linguistiche, ma dovesse ricomprendere il valore chiave della bellezza, intimamente legata alla poesia e alla fantasia. Altrimenti, lo studio dell’opera sarebbe stato semplicemente come smontare una torre per analizzarne le singole pietre, il che non avrebbe certo potuto spiegare o riprodurre la sensazione inebriante di raggiungerne la cima e lasciare che gli occhi si aprissero su un vasto panorama e raggiungessero il mare. Quindi, gli stessi anni che sono decisivi per le ricerche di Edward Bach si dimostrano cruciali anche per la realizzazione della parte più importante della produzione letteraria di Tolkien. Inoltre, non dimentichiamo che la sua opera – o meglio, il filone più noto, quello incentrato sugli Hobbit – partì quasi per caso – quando, occupandosi di alcuni certificati scolastici, il Professore scrisse su un foglio una frase che diceva: “In una caverna sottoterra viveva un Hobbit”20. Indubbiamente, questo è un ulteriore riferimento psicologico alla profondità, o comunque alla fonte interiore delle idee e delle ispirazioni più profonde. Una piccola creatura vivente che spuntava dal terreno esattamente come avrebbe fatto un fiore. E per la verità i concetti di ‘fiore’ e ‘fonte’ possono essere rintracciati nella stessa biografia del giovanissimo Tolkien, perché il nome del suo luogo natale in Sudafrica, Bloemfontein, significa appunto “Fonte dei fiori” – ma potremmo anche interpretarlo come “i fiori alla Fonte”, o magari “i fiori verso la Fonte”21. Ma le corrispondenze significative non finiscono qui. Infatti, Edward Bach passò gli ultimi due anni della sua vita – e condusse le sue ricerche, dal 1934 al 1936 – a Mount Vernon, presso Brightwell-cum-Sotwell, poco a Sud di Oxford, dove Tolkien trascorse la maggior parte della 17


sua vita di professore. Ancora una volta, un ambiente circondato da una natura splendida, capace di ispirare. Tolkien e Bach avevano compreso entrambi – benché separatamente – che la natura è una porta di accesso privilegiata alla parte più segreta e importante dell’animo umano. Col tempo, i frutti letterari e terapeutici del loro lavoro sono stati etichettati come visionari, eretici, New Age e in altri modi simili; ma la verità è che questi studiosi avevano intuito qualcosa di veramente profondo sulla vita e le possibili vie verso la felicità. In effetti, guardando alle loro ricerche in ottica comparativa, possiamo trovare la chiave di un’intuizione capace di cambiare il mondo. Qualcosa di intimamente consonante con quello che Albert Einstein aveva detto sul filosofo Baruch Spinoza (1632-1677)22, che ammirava per la sua fede in un Dio rivelatosi nella bellezza e nell’armonia della natura, e per l’idea che il corpo e l’anima non dovessero considerarsi come entità separate, ma come un tutt’uno. E infatti la parola greca holos (“tutto”) ha un’importanza cruciale nell’approccio terapeutico della medicina olistica – in gran parte basata sugli studi di Edward Bach – che non cura i meri sintomi presi separatamente gli uni dagli altri e dall’insieme della persona, ma considera questa come una sola entità, fatta di corpo, mente e spirito. Il suo concetto centrale è l’energia, la forza vitale che si manifesta in tutto ciò che esiste – data la summenzionata equazione einsteiniana E=mC2 – e in particolare si esprime, in natura, come un principio vibrazionale. Il meccanismo attraverso cui i Fiori di Bach operano è essenzialmente vibrazionale, perché vengono preparati, come abbiamo visto, facendo in modo che assorbano la luce e il calore del sole (energia) all’interno di acqua mescolata con l’essenza estratta dai petali dei fiori; così ciascuno dei rimedi risultanti produrrà una sua specifica vibrazione – o un ‘mes18


saggio’ energetico –, corrispondente a una diversa emozione o gamma di emozioni che hanno bisogno di essere riarmonizzate. E questo è, in modo diverso ma intensamente consonante, lo stesso effetto che gli scenari, i personaggi e gli oggetti della Terra tolkieniana (Arda, ma in particolare il continente della Terra di Mezzo, dove sono ambientati Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli) producono sui lettori. Sono invenzioni narrative che lavorano in profondità nella sfera emotiva, spingendosi a quei livelli che la psicologia analitica chiama archetipici. Gli archetipi sono dunque il tema di fondo. Questi, nella psicologia junghiana, sono schemi universali di pensiero che tutti gli esseri umani condividono: modelli emotivi radicati nella storia del genere umano e negli invisibili mattoni della nostra psiche23. Le loro prime manifestazioni – come sottolineato dagli interpreti americani del pensiero junghiano Joseph Campbell e James Hillman24 – furono gli dei e i semidei greci. Ciascuno di questi, con la sua specifica sfera d’influenza, rifletteva una gamma di emozioni e di attitudini intellettuali. Hillman, in particolare, scrisse il Saggio su Pan25, in cui evidenziò come questo dio greco rappresentasse la natura nella sua forza istintuale, che può portarci a stati di contemplazione estatica ma anche a momenti di rabbia e violenza sfrenate. Pan è l’‘istinto animale’ in tutte le sue potenzialità. L’autore sottolinea quanto sia importante per ognuno recuperare dentro di sé la consapevolezza di questa dimensione. Negarla, infatti, potrebbe ingenerare una pericolosa scissione, ovvero una separazione dalla parte più profonda di noi, che a sua volta potrebbe preludere a ‘esplosioni’ distruttive. Al contrario, ritornare allo stato di natura può riportarci in sintonia con la nostra sfera intuitiva, che è intimamente connessa con l’energia naturale. E, perché questo accada, è ne19


cessario scavare nella nostra Ombra o nel nostro ‘lato oscuro’ – che è precisamente quello che produciamo quando, rifiutando il richiamo della nostra anima, non accettiamo il ‘Pan’ che è in noi. Così, risalendo alla radice della nostra scissione, saremo in grado di individuare il punto esatto in cui si è verificata e dunque lo strato di base sotto il quale il vero Sé (il Sé Superiore, la nostra vera identità e il nostro più alto potenziale) giace nascosto. È importante capire che non c’è nulla di necessariamente ‘cattivo’ nel livello ‘panico’ della nostra natura, che può veramente essere considerato come la traduzione moderna, in termini psicologici, degli occulta cordis (“segreti del cuore”) di S. Tommaso d’Aquino. Un mistico italiano che visse nel XVIII secolo, Giovanni Battista Scaramelli26, si riferì a questo quando disse che “lo spirito altro non è che un impulso, eccitazione, o movimento interiore a credere o discredere, a fare o ad omettere alcuna cosa; e che tale è lo spirito, qual è la sua mozione o buona o rea”. Questo è precisamente il punto. La sfera dell’istinto (ovvero, l’Ombra) non è, di per sé, ‘cattiva’, ma diventa tale solo quando viene rifiutata o rimossa. E questo è anche quanto – secondo il Vangelo di Marco (7, 21-23) – Gesù disse quando avvertì che il male non può venire all’uomo da fuori, ma solo dal suo cuore. Questo non significa che sia automaticamente o necessariamente là, ma appunto che può emergere quando la parte istintuale della natura dell’uomo viene rigettata, causando la scissione. Il problema è che, nell’interpretazione che è in seguito prevalsa nella storia della Chiesa, la soluzione al problema del male è stata quella di un controllo razionale sugli istinti: imbrigliarli, tenerli a bada, così che non possano produrre ‘esplosioni’. Ma questo – che non è altro se non il concetto di peccato – ha provocato la fondamentale e più pericolosa conseguenza: la separazione 20


dalla nostra Fonte, il nostro Sé, che parla principalmente attraverso la nostra parte istintuale. Ancora un’altra citazione evangelica (Giovanni, 15, 4)27 può aiutarci a capire meglio questo punto. Quando Gesù dice “Rimanete in me, e io in voi”, si riferisce a questa dimensione del cuore, dove possiamo trovare la nostra vera natura e incontrare Lui. Perciò, il Suo vero messaggio non mirava a rifiutare la nostra parte istintuale, ma al contrario a riconoscerla e ad accettarla. Così, l’approccio archetipico può permetterci di recuperare questa dimensione assolutamente necessaria del nostro essere che, in quanto non frenata e compressa, ma accettata e lasciata libera di esprimersi armonicamente, non potrà certo portare al male28. E può anche indirizzarci nella direzione della riconquista di una vita spirituale profonda e libera. Edward Bach sviluppò ulteriormente queste premesse. Non solo evidenziò che, fondamentalmente, tutte le malattie derivano dal fatto che non accettiamo i nostri desideri più profondi e non seguiamo la nostra vera vocazione, ma offrì anche, con i suoi rimedi floreali, un’espressione più raffinata e sottile dei ‘vecchi’ archetipi. Adesso, perciò, possiamo sentirli molto più vicini a noi, senza bisogno di interpretarli attraverso schemi intellettuali (com’era vero delle antiche figure della mitologia greca). Sono lì, sotto forma di essenze e dunque di vibrazioni, facili da assumere e – soprattutto – da sentire. Ciascuno di essi copre una varietà di aspetti psicologici che non sono nient’altro che un’espressione ‘nuda’ ed essenziale delle emozioni umane che gli dei e i semidei greci simbolizzavano. Infatti, la parola mythos significa “parola” e “racconto”, e una storia (appunto, un racconto) è composta di parole, ciascuna delle quali ha una radice semantica risultante da un suono29. I suoni sono vibrazioni, tipiche manifestazioni dell’energia. E i Fiori di Bach30 operano, appunto, su 21


un livello energetico (vibrazionale). Ogni gamma di emozioni che riarmonizzano è uno spettro di vibrazioni. I modelli floreali, perciò, sono la quintessenza di tutti gli archetipi, perché sono fatti dei loro31 stessi ‘mattoni’ elementari: vibrazioni o energia, il fondamentale principio della vita, come Albert Einstein ha dimostrato. E coprono tanto lo spettro disarmonico (o negativo) di ogni archetipo, quanto quello armonico, in quanto riequilibrano le emozioni alterate del primo, consentendo loro di evolversi nelle loro corrispondenti forme positive. Le teorie di Bach offrono dunque un ‘ponte’ ideale che collega scienza, psicologia e spiritualità. Ma si tratta di un ponte ‘strano’, perché ha anche un’altra terminazione: la letteratura. E le opere di Tolkien – soprattutto Il Signore degli Anelli, sul quale mi concentrerò in particolare – esemplificano questo molto bene questo concetto. La Terra di Mezzo, attraverso la sua varietà di luoghi, personaggi e oggetti, esprime percezioni e valenze simboliche32 che ci offrono una nuova chiave di accesso all’universo degli archetipi, consonante con quella profilata dei rimedi di Bach. Infatti, gli ‘archetipi’ di Tolkien sono meno intellettuali di quelli provenienti dalla cultura greca. Sono immagini e sensazioni che sembrano fatti direttamente delle vibrazioni energetiche originatesi nel mondo. Ecco perché possono essere prima ‘percepiti’ e poi ‘assimilati’ e ‘compresi’. Mostrano principalmente un’essenza intuitiva, piuttosto che razionale. In questo senso sono ‘panici’, come direbbe Hillman, perché sono strettamente legati all’energia naturale e alle intuizioni che in essa trovano espressione. Nei prossimi capitoli prenderò in considerazione vari simboli tolkieniani e li collocherò in un contesto emotivo che può essere utilmente esplorato alla luce dei modelli (ar22


chetipici) dei Fiori di Bach. Ciò aprirà una vasta gamma di riflessioni spirituali attinenti al tema della ricerca del Sé Superiore.

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