OTTO
«Questa sera ti porto a vedere un’opera» mi dice la mamma. Si è alzata contenta, e sembra che tutto sia passato. Anche con Luisella è gentile. Lei prima l’ha guardata come fa la Molly quando viene sgridata. Con le orecchie basse, gli occhi spaventati, aspettando. Ma la mamma le ha accarezzato la testa senza dire una parola e Luisa ha ritrovato presto il suo buon umore. Sembra che lei dimentichi tutto in fretta. Non lo so se è così, ma so che la sua allegria selvatica, come dice la mamma, rende le cose meno pesanti.
«Dove?» le chiedo. «Andiamo al teatrino di Barga, ti piacerà.» «Solo noi due?» «Solo noi due.» Solo noi due, io e la mamma. Senza Luisa, che del resto si annoierebbe, e senza Laura che è comunque troppo piccola per fare tardi la sera. Io e la mamma andiamo a teatro. A vedere un’opera. 125
Insieme e senza nessun altro.
Continuo a ripetermelo per tutto il giorno, mentre giochiamo in giardino, mentre sto seduta sotto il tiglio a scrivere i compiti per le vacanze, mentre ripenso alla merenda l’altro ieri a casa di Stefania e al giro sul tandem preso a noleggio che abbiamo fatto dopo il gelato, pedalando sul lungomare e sorridendo ai ragazzi come fanno quelle più grandi. Bello. Stefania davanti e io dietro, con le gambe nude e il venticello che diventava fresco, a cantare a squarciagola alle porte del sooole ai confini del maaare. La mamma mi aspettava da Simonetta: quando siamo arrivate erano sedute al tavolo del giardino a bere l’aperol e le sorelle con Giuliana si stavano mangiando tutte le patatine. Guarda Liù dalla merenda siamo passate all’aperitivo ha detto la mamma che sembrava contenta e pure se era un po’ tardi non mi ha sgridato per niente. Mi è venuta voglia di mangiare anche io le patatine e allora con Stefania abbiamo aperto un sacchetto gigante e ci abbiamo infilato dentro le mani ridendo e leccandoci le dita unte e salate, afferrando le patatine a manciate. 126
Anche la mamma rideva mentre beveva un altro aperol e mangiava le olive verdi snocciolate. È stato un aperitivo divertente, e la pedalata mi ha fatto stare bene. Mi sono dimenticata perfino di essere malata. Pure la mamma mi sembra che con Simonetta si sia divertita. Ma con lei non si capisce mai, perché un giorno è allegra e un altro non lo è. Dopo la brutta giornata di ieri, oggi sì oggi è felice e infatti mi porta all’opera.
Ho un vestito a righe bianche e rosse, con la pettorina sul davanti e due volant come bretelle, abbottonato sulla schiena. Un altro volant orla il fondo della gonna, e ondeggia mentre cammino. Sotto, in modo che si vedano le mezze maniche e il colletto, ho una camicetta di cotone bianco. È un abito che mi ricorda certi vestiti delle bambine degli inizi del secolo, e mi fa sentire elegante. La mamma mi ha prestato anche uno scialle con le frange color rosso acceso, dice che sembra quello della Carmen, che è un’eroina di un’altra opera che lei conosce. Ai piedi ho delle scarpette basse con la corda, bianche anche loro. Sono emozionata. Scendiamo a passi lenti il viale che porta al cancello: Gemma ha acceso i lampioni perché 127
quando torneremo sarà buio, nell’aria sento il profumo dei gelsomini rampicanti, quelli esposti verso il sole che Jacopo prima di sera annaffia perché siano sempre freschi. Le beole dei gradini sono ancora bagnate, e mentre cerco di evitare che mi si rovinino le scarpe di tela, sento che la pietra ha quell’odore inconfondibile del sole di cui si è imbevuta durante la giornata, mescolato a quello dell’acqua. Sono sommersa dai profumi e dai colori, il mio scialle rosso è come le fucsie giganti nelle giare che costeggiano il viale, il rossetto della mamma, che continua a sorridermi, è un geranio, i petali si sparpagliano tra le sue dita e sulle unghie. Lei gesticola, parla parla vedrai questo Elisir d’amore ti piacerà è un’opera brillante e dolce e ti farà anche ridere e poi il teatrino è un amore piccolo piccolo incastonato nella piazzetta tra i vicoli e le strade strette come sono contenta davvero contenta di andarci con te Liù. Mi gira la testa perché la mamma queste cose non me le dice mai, che è contenta di andare con me da qualche parte, e anche Liù è difficile che mi chiami di questi tempi. Stasera è più allegra del solito, si vede che questo teatro deve essere meraviglioso, e lei ha bisogno di cose belle. 128
Il Teatro dei Differenti è carino, è il mio primo teatro vero, a parte quello dove facevamo il saggio di danza. Non mi è mai piaciuto gran che andare a danza, e men che meno fare i saggi. Poi quando abbiamo iniziato a usare le punte per me era un tale tormento, mi slogavo sempre le caviglie, così sono stata contenta quando con la storia che sono stata male alla fine a danza non mi ci hanno mandata più. Vado solo a pianoforte, ma quello mi piace. Comunque in questo teatro ci è venuto pure il famoso Pascoli a fare un discorso, e chissà se tra il pubblico c’era pure la Mariù che lo applaudiva. Deve essere bello avere un fratello, io ho sempre invidiato quelle che hanno un fratello più grande che le protegge, come la mia amica Paola quella che somiglia a Nancy Drew che ha un fratello bellissimo che la adora.
Abbiamo delle comode poltrone di velluto, rosse proprio come il mio scialle. Sprofondo nel sedile, e butto indietro la testa per guardare in su. Un grande lampadario di cristallo pende dal soffitto, i palchi dorati sembrano balconi per le comari curiose. Mi fanno ridere le loro teste che 129
sporgono dalla balaustra di velluto rosso, i ventagli che si agitano, gli occhi che sbirciano giù per vedere com’è vestita la gente. Io, per me, mi sento carina. «Leggi il libretto, Lia» mi dice la mamma porgendomi un libriccino con la storia di Gaetano Donizetti che è il compositore, e il riassunto degli atti e tutto il resto. Faccio un po’ fatica a seguire la vicenda di questa Adina che deve essere un tipo vivace, e vuole fare ingelosire il povero Nemorino che è innamorato di lei ma è troppo timido per confessarglielo. È così difficile confessare le cose. Per fortuna che poi c’è il dottor Dulcamara con il suo elisir d’amore. «Preferisco guardare l’opera così capisco meglio» rispondo dopo un po’ che leggo. «Come vuoi.» «Dimmi solo se va a finire bene» aggiungo. «Certo che finisce bene, mica ti portavo a vedere un’opera che finisce male.» «Già.»
Se c’è una cosa che ho capito, è che nell’opera tra di loro le persone non si capiscono mai. Adina pensa che Nemorino non le voglia ab130
bastanza bene solo perché lui è troppo impacciato per dirglielo, e così accetta la proposta di nozze del sergente Belcore. Ovvio che Nemorino ci resta malissimo, poveretto. È per quello che compra l’elisir. Ma è così ingenuo che non capisce che quella pozione magica è solo del vino rosso, e si ubriaca di Bordeaux. Brillo com’è diventa allegro fa il simpaticone e riesce anche a far l’indifferente con Adina, che in tutta fretta per rabbia decide di sposarsi immediatamente con quell’odioso sergente. Oltretutto siccome si è sparsa la voce che Nemorino ha avuto una grande eredità da uno zio, le ragazze del paese cominciano a corteggiarlo, e Adina si ingelosisce ancora di più. Il tonto, poi, crede che tutte lo adorino proprio perché ha bevuto l’elisir d’amore. Insomma, nessuno capisce mai come stanno davvero le cose. Solo alla fine i due riescono a confessarsi che si vogliono bene. Solo quando si scopre che l’elisir non esiste, che la magia non esiste, Adina e Nemorino trovano il coraggio di dichiararsi il loro amore. Come vorrei avere anche io il coraggio di dire la verità. Invece anche nel mondo fuori dall’opera la gente non si capisce mai, e succedono un mucchio di disastri. 131
«È vero, è finita bene» dico alla mamma. «Te l’avevo detto.» «E poi Dulcamara mi ha fatto ridere» continuo. «Che falsone, eh, mamma?» dico cercando la sua approvazione. «Quando canta che il magico elisire move i paralitici spedisce gli apoplettici, gli asmatici, gli asfitici, gl’isterici, i diabetici, guarisce i timpanitidi, e scrofole e rachitidi e fino il mal di fegato» insisto leggendo i versi del libretto d’un fiato, attenta a non incespicare sulle parole. «Che divertente, vero mamma?» Non so perché ma ho bisogno di sentire che io e la mamma siamo simili, che la pensiamo allo stesso modo. «Molto. Dulcamara è un vero ciarlatano. Ma a volte la gente ha bisogno di credere anche alle bugie.»
Quando torniamo alla villa i lampioni sul sentiero sono accesi e dove il giardino resta buio, prima del bosco, si sentono i canti dei grilli. «Ancora una musica per noi, mamma» dico prendendole la mano. Mi sento come se la stessi corteggiando, voglio riempirla di cose belle. «E ci sono anche le lucciole, guarda Liù.» Lungo il viale decine di lumini si accendono e si spengono nella notte, volando intorno a noi 132
come le fate delle favole. «È stata proprio una bella serata. Grazie» mi dice con una dolcezza che non conosco. E in quel momento io sento che il coraggio forse mi è venuto, che non ho bisogno di nessun elisir per dirle tutto, che lei non mi deve dire grazie che noi due se siamo insieme siamo invincibili e che io mentre le stringo la mano sto tornando a essere vera perché si è rotto l’incantesimo, saranno state le lucciole le fate gli stornelli dei grilli ma il cuore ora mi batte forte forte ed è per la gioia.
Quando siamo quasi in cima, però, all’altezza dell’ultimo lampione inciampo. Lo scialle rosso mi scivola, calpesto le frange, mi piego in avanti. Cado sulla ghiaia bianca del sentiero. Lentamente, perdendo la presa. E di colpo mi risuona dentro la sua voce che dice a volte la gente ha bisogno di credere anche alle bugie. Mi rialzo di scatto perché la mamma non si preoccupi, perché tutto non si rovini. Le balze del vestito sono sporche di terra. Mentre mi guardo le mani scure sento che quel coraggio non mi serve a niente.
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