Davide Sapienza
I DIARI DI RUBHA HUNISH Brevi saggi sull’interruzione del pensiero in viaggio
Galaad Edizioni
Š 2011 Galaad Edizioni www.galaadedizioni.com ISBN 978-88-95227-50-4
Durante i miei viaggi finii per convincermi che i desideri e le aspirazioni degli umani fanno parte della terra come il vento, gli animali solitari e le fulgide distese di pietra e di tundra. E mi convinsi anche che la terra esiste completamente separata da tutto questo. (Barry Lopez, Sogni Artici)
A Miriam C., al suo viaggio, alla gioia che ci regala.
Prefazione
Madre, dove vivi? Nel cielo? Nelle nuvole? Nel mare? Mostrami il tuo volto. Dammi un segno. (da The new world, regia di Terrence Malick, 2006)
Esiste una verità che i sensi percepiscono, ma la ragione umana non può spiegare. Per cercarla, Davide Sapienza sceglie la via dell’immersione nella Natura, concepita come l’eterna custode dei sentieri nascosti che conducono a quella verità. L’obiettivo di questa ricerca, a volte dichiarato, a volte lasciato all’intuizione del lettore, è sempre lo stesso: cercare di sollevare, seppur di poco, il velo che separa l’essere umano dalla conoscenza del linguaggio della Natura. È questo il percorso obbligato per giungere alla comprensione dell’essenza profonda, autentica dell’uomo, al fine di ripristinare la simbiosi originaria. Perché la Natura può esistere indipendentemente dall’uomo, ma l’uomo non può vivere “nella sua interezza” se non inserito nel suo contesto naturale, abitatore della Natura più che membro della Società, consapevole di essere una “minuscola particella pienamente
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13 marzo 2000. Aeroporto di Malpensa. Hunter.
If travel is searching, and home what’s been found, I’m not stopping, I’ll go hunting… Così cantava la voce di Bjork due ore fa, mentre guidavo con Cristina nel buio della discesa a valle, nel silenzio dell’alba invernale, prima di separarci per due settimane. Non che io avessi scelto quella musica perché stavo per partire verso l’Islanda: la musica si è scelta da sola. Quando si esce presto di casa, circondati dalle montagne, nell’oscurità che precede l’alba, la mente rimane aggrappata al giorno precedente. Una domenica, ieri, in cui mi sono tuffato in una competizione sportiva su due ruote, in bicicletta, mentre la mia testa era rivolta agli ultimi preparativi per la mia prima spedizione in Islanda. Stamane ero ancora sospeso tra i due mondi, preda di quella trance che il mugugno del motore procura, proprio come la cadenza di una pedalata regolare. Se presti attenzione al dettaglio puoi trovare una lucidità straordinaria, come se ogni canale di comunicazione tra il sé e l’esterno sia sgombro, pronto per essere riempito dall’ignoto, percorso dalla luce del respiro. Stamane, la prima canzone del viaggio si chiama Hunter: “Se viaggiare è cercare, e la casa ciò che hai trovato, io non mi fermerò, partirò a caccia”. Per qualche momento, nel silenzio, sia io che lei abbiamo visto qualcosa: suoni che vibravano e veleggiavano, quasi disegnando sul parabrezza un tracciato
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di nebbie e nevi. In un’Islanda di fine inverno, ghiaccio e deserto divengono una sola cosa tra passato e futuro, ciò che eravamo e ciò che saremo su questa Terra. Con l’arrivo della luce la strada si schiariva. Ma era una luce malata, quella del traffico in autostrada. Solo ora, a pochi minuti dal decollo dell’aereo per Londra, mi rendo conto che sono io quello che partirà; sono miei gli sci ed è mio il sacco con l’attrezzatura invernale, poche cose da tenere ben salde sulle spalle come saggi suggerimenti per cavarmela vicino al circolo polare artico, nel mezzo della Corrente del Golfo. Nei prossimi giorni queste poche cose saranno, oltre a Franco, le uniche a ricordarmi i luoghi che sto per lasciare e che rivedrò con occhi diversi – dopo. In quella terra di mezzo, su quell’isola di meraviglie della natura, su quella terra agitata e imprevedibile ci sono giacimenti di sogni e vene madri di parole da scoprire. Franco e io siamo diretti nel cuore di questo universo, con l’intento di isolarci e provare a capire come si vive circondati dall’inverno in un territorio che non ama compromessi, perché è giovane e schierato dalla parte del grande richiamo naturale. Solo la persona che mi è più vicina stamane pareva aver capito qualcosa. Perché per un uomo di parole innamorato della terra è difficile spiegare ciò che ha solo immaginato e offrire un’idea della proporzione di questa avventura ai fratelli, alla famiglia, agli amici. Le emozioni contrastanti che hanno preceduto questa spedizione sono le stesse che ripercorro in un cerchio continuo a caccia del centro di ogni cosa, dove l’equilibrio non è un’utopia: da dove vengo a dove vado, dove spero di tornare, c’è un
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sentiero da tracciare, una rivelazione che mi attende e mi pretende. Non è difficile indovinare che le parole di oggi, nel diario datato tredici marzo duemila, saranno in seguito l’ultimo lembo di pagine conosciute e che ogni sera, in tenda, dovrò sforzarmi di vedere nell’immenso bianco un senso da ricondurre alle piccole pagine del mio quaderno azzurro. Rifletto anche sulla parola spedizione. Devo ricordare cosa significa per me. La mia attrazione nasce al polo opposto delle esplorazioni comandate da sovrani o grandi proprietari di compagnie commerciali, che spedivano uomini coraggiosi e ben equipaggiati a cercare nuove terre, nuovi luoghi da conquistare. Queste parole sono il mio unico punto di riferimento sicuro. E allora sarà tutto svelamento, libero da quel significato antico: sarà una spedizione nel cuore del mistero interiore che mi conduce per il mondo sin dall’infanzia. Alzo lo sguardo e cerco di fotografare i momenti in aeroporto in Italia: come ogni giorno, migliaia di bagagli in movimento, centinaia di persone in transito. Io sono una di queste. Ma nella mia terra di nessuno ora cala il silenzio.
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Flathead Valley (La prima versione è stata pubblicata sul mensile «GQ» del settembre 2009)
La bellezza di un viaggio può nascere in sogno. Perché costruire un viaggio è partorire un desiderio. Un’elaborazione della vita mentre la vivi. Parafrasando John Lennon, un viaggio “è ciò che ti succede mentre fai i tuoi piani”. E ciò che ti succede, se hai sempre sete di visione, è che puoi smentire chi sentenzia che non esiste più niente da scoprire. Ogni uomo nasce libero – libero di scoprire, libero di farsi scoprire. Ogni uomo nasce e inizia un viaggio che decide di percorrere nella sua ideale geografia, un sogno spesso fatto da bambino e si incammina, ogni giorno, anche quando non ci pensa, verso le Terre Lontane. E le Terre Lontane esistono nella mente esattamente come nella morfologia del Pianeta. Lì in mezzo ci muoviamo alla scoperta di Terre che a loro volta ci scopriranno. E dall’incontro nasce l’attimo, il momento di grazia che ti fa dire – questo viaggio è il mio sogno. Così è nato anche questo sogno – così ho visto con i miei occhi cosa ho scoperto una volta giunto nel cuore della Flathead Valley. Quando il «Canadian Geographic» ne ha svelato l’esistenza alla nazione e dunque al mondo, sulla copertina c’era una foto mozzafiato ma un titolo inquietante: “Estrazioni minerarie a cielo aperto – qui?”. Già. Qui? Sfoglio la rivista, leggo cose che mi impediscono di arrivare alla fine dell’articolo e sono già in Canada. Sto già camminando in un luogo senza sentieri e dove solo biologi, studiosi e cacciatori sanno muoversi. Forse.
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La Flathead Valley è una vallata lunga e pressoché incontaminata, e tuttavia minuscola se paragonata agli spazi del grande continente chiamato Canada. Ma la Natura comunica grandi messaggi anche attraverso le più piccole parti di sé: e noi umani siamo più disposti a capire quando riusciamo a rapportarci alle piccole cose. Ecco alcune informazioni: più a Sud, in Montana, negli USA, il Glacier National Park garantisce la protezione del Flathead River che, dopo 400 chilometri, termina la sua corsa selvaggia sfociando nella parte canadese della Flathead Valley che, incastonata tra diversi parchi, resta un enigma geografico e amministrativo – ma di questo parleremo più avanti. Con la Flathead Valley e quella foto in mente, dopo aver esplorato in lungo e in largo le foreste boreali del Quebec, il Nord del British Columbia, ho elaborato le mie riflessioni sul viaggiare sostando alcuni giorni nella splendida Vancouver, che si può anche definire la San Francisco canadese. Ma anche viceversa, se ci pensate bene (andateci, visitatela, attraversatela a piedi). È in quei giorni che la Flathead Valley, dopo averne parlato con l’amica biologa Vivian Banci, ha iniziato a profilarsi nella mia visione di ominide in viaggio alla scoperta di qualcosa di concreto. La vera partenza l’ho scelta bene. Sosta notturna a Hope, a 150 km verso Est da Vancouver – così ne restavano solo 1100 per arrivare nell’East Kootenay, zona del B.C. dove si trova la Flathead Valley. A Hope sono giunto di notte, al buio, senza vedere i due grandi fiumi sui quali è stata scritta la storia di questa fetta di Nord America: il Fraser – sul cui delta è nata proprio Vancouver – e il Coquihalla. Ma i grandi fiumi, anche quando non li vedi, li
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senti e ne percepisci la presenza. Chissà come e chissà perché ma la mattina della partenza da Hope verso Fernie, nell’East Kootenay, il ponte sul Fraser ha segnato una frontiera oltre la quale stava tutto ciò che vi era da immaginare. Il nostro campo base si chiamava Fernie, il centro abitato più vicino alla Flathead Valley, che si trova oltre mille chilometri a Est lungo il confine con gli USA – linea che percorre precisamente gli stati di Washington, Idaho e Montana. Ci siamo diretti con decisione da Ovest a Est, come in un viaggio a ritroso nel tempo, un sinuoso addentrarsi in uno scenario selvaggio di drammatica bellezza e potenza; osservi la via e capisci la pista seguita dagli uomini alla ricerca di luoghi in cui vivere, prosperare, legittimarsi. Quando passi la wine country, nella regione dell’Okanagan, hai come l’impressione di qualcosa che è stato modificato radicalmente poi ecco che laggiù, come in un grande alveo, vedi Osoyoos e attraversi l’omonimo fiume. Risali la strada, quasi bagnato dal ricordo di una cittadina che sembra attivarsi solo quando la attraversi, e nuove geografie si dispiegano. Si viaggia attraverso luoghi che in alcuni momenti raggiungono vertici di immane bellezza e sono i nomi a raccontare, basta metterli in fila come perle di un vento che ancora soffia impetuoso dai giorni della frontiera: da Hope a Bridesville, da Kettle Valley ad Anaconda, da Grand Forks a Warfield, da Trail a Meadows, Erie, Salmo, Lost Mountain, Creston, Arrow Creek, Bull River, Elko… e infine ecco Fernie, vecchio centro minerario, con tante storie di emigrati italiani scritte sulle insegne dei negozi sulla grande arteria che le passa in mezzo, la Trans Canada Highway.
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