In Genova Levante aprile 2015

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ANNO 2 - N° 2 - Aprile 2015 - Magazine di cultura, informazione e tempo libero - Poste Italiane - Spedizione in abbon. postale - D.l. 353/2003 (conv. In L. 27/02/2004 N°46) art.1 comma 1 D.C.B. - GENOVA - nr. 594 anno 2006

APRILE 2015

Michele, la storia della musica genovese

Claudio Pia...

semplicemente sbalorditivo!

Liguria nel Cuore, amore e “volontà”

UN MUSICAL IN “Lingua Genovese”



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Sommario

numerodiaprile2015 LevanteMagazine Michele, la storia della musica genovese Pag. 2 Claudio Pia... semplicemente sbalorditivo! Pag. 6 Liguria nel Cuore, amore e “volontà” Pag. 10 Levante Ligure “In-Let City Store” Pag. 14 Val d’Aveto, paesaggi da Far West Pag. 22 Mulini di Liguria: l’energia pulita derivata dalla forza dell’acqua. Pag. 26 Il Museo Marinaro di Camogli pag. 30 Bogliasco fa vincere l’Italia: nella fotografia subacquea l’Italia è sempre al vertice internazionale. Pag. 30 La primula, il fiore di primavera Pag. 40

APRILE 2015

ANNO 2 - N° 2 - Aprile 2015 - Magazine di cultura, informazione e tempo libero - Poste Italiane - Spedizione in abbon. postale - D.l. 353/2003 (conv. In L. 27/02/2004 N°46) art.1 comma 1 D.C.B. - GENOVA - nr. 594 anno 2006

Rivista realizzata con l a c o l l a b o r a z i o n e d i :

Michele, la storia della musica genovese

claudio Pia...

semplicemente sbalorditivo!

liguria nel cuore, amore e “volontà”

UN MUSICAL IN “LINgUA gENovESE”


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Michele, la storia della musica genovese “A spassu pe Zena” Dal parco dell’Acquasola, simbolo di un rispetto per la cultura genovese che deve rinascere, prende l’avvio un progetto che unisce tanti mostri sacri della canzone sotto la Lanterna

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asce a Genova, per le volontà unite di alcuni personaggi del mondo della musica, un progetto teatrale di grande rilevanza che percorrerà tutta la penisola. Michele, con l’apporto fondamentale di Giorgio Calabrese e Gianfranco Reverberi, si impegna a trasmettere ovunque il valore storico della canzone genovese, non solo dialettale, e della sua prosa profondamente riflessiva. In un’intervista nella quale percorre tutta la sua vita di cantante, l’interprete della celeberrima “Se mi vuoi lasciare” racconta la sua storia con grande partecipazione emotiva. Tutto inizia una sessantina di anni fa quando il giovane Michele, all’età di sette anni, ascolta per la prima volta una “squadra di canto” nell’entroterra di Genova. Rimane affascinano per la complessità del cantato, per la mancanza di strumenti, sostituiti egregiamente dalle voci, e per il profondo richiamo alle infinite possibilità riservate all’essere umano che esprime volontà piena e amore per la musica. Negli anni successivi, durante le estati in cui il padre lo

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I protagonisti della musica porta in campagna a Minceto, nei pressi di Ronco Scrivia, Michele continua il suo percorso di fascinazione diretto alla musica delle squadre di canto e si trova alloggiato presso una famiglia, i Repetto, i cui cinque figli (quattro maschi ed una femmina, “i figgi du Dria”) compongono una notevole squadra familiare con la copertura totale dei ruoli. Racconta Michele: “La sera, dopo che la Rosetta, moglie di “Dria”, ci aveva fatto assaporare il pesto, i cinque figli si disponevano a cantare dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro nei campi”. Per il cantante è una tappa fondamentale della sua vita: impara volontà e impegno. “Ognuno dei cinque giovani ricopriva un ruolo, e tutti erano capaci, senza alcuno studio, di armonizzazioni sorprendenti”. In questo periodo di lui si forma quel cantante “naturale” che successivamente diverrà famoso. A diciassette anni si trova a cantare in un locale di Genova e viene notato da Gianfranco Reverberi, lo scopritore di tutti i cantanti genovesi, che ne riconosce il valore e lo porta con sé a Roma e a Milano, dove inizia la sua carriera che lo porterà poi in giro per il mondo. Il “Trallallero” e le sue origini, a bordo delle navi che avevano toccato i paesi arabi, sono un’essenza profonda della sua passione musicale. Il suo legame con questa particolare forma lo coinvolge talmente che una sera in cui si trova a Nervi, nella storica pizzeria della Simona, con un Beppe Grillo all’esordio sullo sfondo, ascolta due camerieri che canticchiano per i clienti mentre servono le pizze. Da questo incontro nascono i “Trilli”, che Michele lancia e di cui produce i primi dischi. Poi Michele ricorda “Piango, ma se tu vorrai”, il suo primo disco non distribuito, seguito subito dopo dal famosissimo “Se mi vuoi lasciare” edito da RCA e diffuso nel mondo intero. Ricorda con estrema umiltà il suo percorso affianco a persone eccezionali che, così come lui dice, gli hanno insegnato tutto della musica: non ha dubbi sui suoi tre grandi amori, il Trallallero, i cantautori genovesi e il rock and roll. Fra gli aneddoti più gustosi, le serate all’Apollo di Milano, di proprietà del campione mondiale di rock and roll Bruno Dossena, dove si esibivano Gianfranco Reverberi al vibrafono, Luigi Tenco al sassofono, Giorgio Gaber alla chitarra solista, Enzo Jannacci alla chitarra d’accompagnamento e Adriano Celentano alla voce. Michele chiude l’intervista introducendo il suo progetto “A spassu pe Zena”, che raccontiamo più avanti, e portando l’attenzione sui partecipanti ricordando l’esclusiva squadra di canto famosissima della Lanterna; la più nota cantante genovese, Franca Lai, che ha aderito con gioia al lavoro e della quale tesse ampie lodi per la sua “rasformazione; Franco Faloppi, cabarettista e autore con un ruolo vitale nel progetto e infine Dina Manfred, della quale tiene a sottolineare professionalità e volontà. “Dina Manfred è la cantante di un gruppo col quale lavoro spesso. E’ piemontese ed ha grandi qualità di interprete ma non aveva mai cantato in dialetto genovese; affascinata dal progetto, mi ha chiesto di provare e le ho imposto la qualità nell’uso del dialetto. Si è impegnata per mesi e il risultato è stato incredibile”. Nello spettacolo Dina Manfred interpreta l’angelo che scende nel parco dell’Acquasola e incontra Franca Lai, una barbona, per dar vita a ventiquattro canzoni inedite e intermezzi di prosa. Un ultimo ricordo Michele lo rivolge ad Aidano Smuker, che conobbe quando stava preparando i “Canti de casa me” - primo album dei Trilli - e lo presenta come il più grande conoscitore del canto genovese, in possesso di un monumentale archivio di nastri registrati in giro per la regione e curati con una esemplare passione.

Il progetto Oggi, grazie al profondo desiderio dei due “esuli” Calabrese e Reverberi, nasce un progetto che si articola in ventiquattro canzoni inedite e brani di prosa che Michele, assieme ad altri validissimi interpreti della canzone genovese, porteranno ovunque. Giorgio Calabrese, paroliere delle canzoni, ci introduce alla vicenda: “La storia comincia con tre amici che discutono. Uno dice: “Tutto a questo mondo accade per caso o per necessità. Va bene, gente: visto che non ci pensa nessuno, mettiamo insieme noi una serata di canzoni in genovese”. “Ma con che programma?”, chiede uno. Togliamo i classici, ormai riservati alle squadre, che i più chiamano “trallallero” confondendo il genere con gli interpreti. Ci vuole qualche cosa di più moderno, più attuale. Altra strada possibile sarebbe il recupero della trivialità più bieca rifacendosi alle antiche chansons a boire, anche citando vigliaccamente Francois Villon per un tocco di culturale capace di dare lustro all’operazione. Ma vivendo noi in terra di cantautori, dove tutti si sentono autorizzati a poetare e musicare, rispondendo all’appello dell’arte senza essere stati chiamati, abbiamo finito per concludere: “Va bene, le le scriviamo da soli”. La voce solista ce l’abbiamo, una squadra per il colore locale anche, un gruppo di musicisti

Dina Manfred, la piemontese che grazie all’orgoglio e tanta volontà ha imparato il genovese meglio di tanti “liguri”.

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Giorgio Calabrese, in una foto del 1967.

con tanto di arrangiatore è li pronto a suonare. Se un tempo si sono cantati i “treuggi” (lavatoi) di Santa Brigida, allora simbolo di progresso, igiene e socializzazione perché non, oggi, Piazza delle Erbe, polo magnetico e cuore della movida genovese. Oppure cantiamo (o bofonchiamo in coro) il ballo di mezzanotte con l’invocazione ad una “moria” fulminea e silenziosa che venga di notte a portarseli via tutti: loro, gli altri, quelli che comandano. “Caterina”, dice un ritornello, “all’ombra dei salic, alleva somari, ne faranno assessori”. Diranno che si tratta di un ballon d’essai. Il repertorio non manca di certo, noi siamo pronti ad andare avanti. Il genovese è lingua musicalissima: i brasiliani, che hanno occupato un grande spazio in tutto il mondo musicale, dicono di loro stessi: “Noi parliamo così perché le prime navi dei conquistatori che sono arrivate avevano equipaggi in gran parte genovesi, che poi si sono stabiliti qui.Se no parleremmo anche noi come i portoghesi...” Per Gianfranco Reverberi, autore di tutte le musiche, “Genova è una strana città: non lascia indifferenti. Si può amare od odiare, ma se vivi lontano da lei ti prende il “mal di Genova”. Ricordi solo le cose belle e come nel caso mio, che ormai sono in giro per il mondo da troppi anni, subentra la sindrome dell’emigrante: vorresti fare tutto per la tua città! Purtroppo le delusioni non mancano, ma non è certamente questo il caso: il progetto è troppo divertente e poi ritrovarci

a collaborare con vecchi amici uniti dalla stessa passione è stato entusiasmante. In questo mestiere si devono fare solo le cose che piacciono; penso che se quello che fai non piace a te non puoi sperare che possa piacere agli altri. Se è vera questa antica teoria, questo progetto sarà un sicuro successo”. Neanche Elio Mereu, autore di alcune delle canzoni, si sottrae al sentimento comune: “Da molti anni vivo all’estero, ma quando si nasce a Genova si rimane genovesi nell’animo e nel sentimento tutta la vita. Ecco perchè con un po’ di fantasia e tanto amore per la mia città ho cercato di dire qualche cosa anch’io”. Francesco Ottone, paroliere di alcuni pezzi, ricorda “Ma se ghe penso”: “Sono passati tanti anni da quando nel 1925 è stata scritta la canzone simbolo di Genova. Da allora hanno fatto storia molte altre canzoni genovesi, da quelle dei Trilli a quelle di De Andrè, ma non sono le sole. Negli anni Cinquanta e Sessanta Gianfranco Reverberi, con Giorgio Calabrese ed altri autori, ha scritto, tanto per citarne qualcuna, “O Frigideiro” e “O Scioco”, rese famosissime da Bruno Lauzi, “Arrio”, “Madenn-a”, “Baexinn-a”, cantate da Natalino Otto e tante altre. Oggi Reverberi ha deciso di riprendere l’argomento, scrivendo nuove canzoni in dialetto; ha coinvolto anche me in questa divertente avventura e io ho collaborato più che volentieri, come faccio sempre. Ascoltando tutte le canzoni, alcune divertenti, altre commoventi, qualcuna nostalgica, è nata l’idea di scrivere uno spettacolo genovese che le contenga, sostenute da una trama divertente che le valorizzi. Lo facciamo per amore della città, delle sue tradizioni, della sua anima che si va disperdendo”. ““Vedrai che prima o poi qualcosa insieme facciamo”, mi dice da circa trent’anni il mio amico Michele” racconta Franco Faloppi, autore di testi e cantante “La speranza è sempre l’ultima a morire, e così è avvenuto. Il desiderio di cantare una o due canzoni in dialetto genovese ha sempre

Michele in una caricatura di Rosa Romanini

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I protagonisti della musica

Il Maestro Gianfranco Reverberi fatto parte dei miei progetti e grazie a Michele il sogno sta per diventare realtà. Il deus ex machina di tutto ciò è un genovese doc come Gianfranco Reverberi coadiuvato da altrettanti genovesi doc, che ha avuto l’idea o meglio la voglia matta di mettere in piedi un recital di canzoni inedite. Siamo sicuri che il cuore dei genovesi sarà messo a dura prova: emozioni ed ironia a non finire. Ma il mio desiderio di cantare è andato oltre: si è fatta strada anche la mia deformazione professionale di autore televisivo che non mi abbandona quasi mai e così, grazie alla benevolenza dei due patron, mi sono lasciato andare nella stesura del testo; un inedito che completa il progetto dialettale intolato “A spassu pe Zena”; un viaggio in prima classe interpretato e cantato dai quattro protagonisti dal sapore tutto nostrano”. Franco Faloppi è anche l’autore di un lavoro editoriale che uscirà a Natale e del quale vale la pena fare qualche accenno: “E’ un libro che parla degli anni ‘70, un periodo storico molto prolifico per lo spettacolo a Genova; intendo in particolare lo spettacolo di cabaret, una vera fonte di talenti e di personaggi come Grillo, Ricci, Solenghi che hanno animato la ribalta nazionale della tv di quegli anni fino ad oggi . E’ un viaggio nella memoria a ritrovare i luoghi , le discoteche, le sagre, le feste di piazza, le navi da crociera, le cantine dove questi personaggi si sono affaccendati, ognuno con il proprio repertorio, e dove dei giovani baldanzosi erano alla ricerca di un qualcosa vicino al successo, o almeno tentavano di abbandonare l’anonimato. E’ soprattutto una raccolta di aneddoti, un “dietro le quinte” che solo chi ha vissuto quel periodo può avere la faccia tosta di raccontare”. La lunga intervista di Michele è disponibile su dvd presso la nostra redazione.

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In alto a sinistra: concrezioni all’interno di una goccia. Miniera abbandonata, Val Graveglia. (Foto a “4 mani� con Cristian Umili). Qui sopra: entrata ai sottolivelli completamente allagata. Gambatesa, Val Graveglia.

Qui a sinistra: concrezione mucolitica organica. Miniera abbandonata, Val Graveglia

CLAUDIO PIA... semplicemente sbalorditivo! 6 INGENOVA Magazine


Liguria artistica

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uando la fotografia impedisce di scrivere didascalie è perchè le immagini, come si dice in “volgo” “PARLANO DA SOLE!” Queste non sono opere di un fotografo ma di un incantevole romanziere che trascura di mettere “lettere in fila...” Lui “scatta” e per incanto dice tutto quanto la mente più fantastica può immaginare.

Dall’alto verso il basso: giocando con lo sfocato, lamelle di un grosso fungo in gran evidenza, alta Val d’Aveto. Stropharia squamosa, Schuppige Träuschling mushroom e Rana Temporaria, alta Val d’Aveto. Piccole Mycena, splendido gruppetto controluce, alta Val d’Aveto. In fondo: giocando con il controluce, lamelle di un grosso fungo in gran evidenza, alta Val d’Aveto.

Nella colonna a sinistra, sopra: Boletus reticulatus, splenido porcino in un castagneto della Val di Vara. Sotto: Clitocybe nebularis, giocando con gocce, forme e colori, alta Val d’Aveto

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Charaxes jasus bruco, caterpillar, Oruga, Sestri Levante

Lycaenidae sp, Licénidos, Bläulinge, Mariposa, Val Cichero

Qui sopra: L’Imperatore Dall’alto verso il basso, nelle prime due foto: Hesperia comma, Butterfly, Papillon, Mariposa, Val d’Aveto Le restanti: Melitaea didyma, Butterfly, Papillon, .Mariposa, Val Cichero Zerinthia polyxena, Butterfly, Papillon, Mariposa, Alta Val Graveglia .

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Liguria artistica CHI SONO Sono nato a Chiavari nel 1966. L’amore per la natura si manifesta già dai primi anni, in vacanza con i miei genitori, nel bellissimo paesino di Santo Stefano d’Aveto .Una volta cresciuto ho iniziato ad andare per boschi, cercando funghi, facendo trekking e, da quasi 20 anni, andando ogni Domenica in mountain bike nel nostro favoloso entroterra.Nel 2005 ho acquistato la mia prima reflex, una Nikon D70 e da quel momento ho ricominciato a studiare, molto di più di quando andavo a scuola. Inizialmente ho frequentato un corso base, nel quale ho imparato cosa sono e a cosa servono tempi, diaframmi ecc ecc. Successivamente ho partecipato a Workshops specifici sulla macrofotografia che mi hanno fatto scoprire un nuovo mondo, una dimensione ai più sconosciuta, ne siamo circondati, ma non la vediamo. La macro, svela le bellezze che l’occhio umano non riesce a catturare ed è per questo che esercita un fascino così grande su di me. Non essendo mai soddisfatto sono sempre alla ricerca del “passo avanti” e questo mi aiuta a progredire. Dal 2008, alla passione per la foto si è unita anche la voglia di conoscere le caratteristiche principali dei soggetti che riprendo, quindi ho iniziato a studiare entomologia (insetti), herpetologia (In particolare anfibi) ed infine botanica con grandissima soddisfazione. Nel frattempo svolgo ricerche sul territorio in maniera molto più mirata e consapevole. Il mio rispetto per la natura e la conoscenza dei suoi piccoli abitanti sono in continua crescita, al pari della mia tecnica.

Fotografando orchidee in alta Val Graveglia

Giocando con tecniche fotografiche avanzate, scatto unico! Val Graveglia miniera abbandonata.

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LIGURIA NEL CUORE, amore e “volonta”’ Quando la Liguria chiama le passioni si svegliano!

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Foto di gruppo dei partecipanti alla mostra

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i è conclusa da poco la mostra di “LIGURIA NEL CUORE”, prima ospitata nell’atrio di Palazzo Ducale e poi nel salone al piano terra della Regione Liguria. Ha avuto un notevole successo, ed ha mostrato ai numerosissimi visitatori cosa si possa fare quando centinaia di persone partecipano volontariamente al raggiungimento di un risultato importante. L’organizzazione, modesta per i numeri dei coinvolti, ma molto efficace nel tessere il “tappeto” da mostrare al pubblico, ha avuto in una giovane immigrata, ormai completamente “rapita” e affascinata dalla Liguria, la “scintilla” che ha messo in moto la macchina... Bravi tutti i partecipanti, di una bravura non esclusivamente tecnica, ma più che esemplare nel leggere col “cuore” i particolari della ns/ terra. La mostra proseguirà nei prossimi mesi in viaggio da ponente a levante!


Liguria nel cuore

Portovenere, foto di Michela Catoni foto di Lorenzo Callerio Sestri Levante... Baia del Silenzio

Boccadasse, foto di Mauro Lauri

Castello Doria di Vernazza, foto di Davide Biggi

Massimo Andreani, Lago del Brugneto

Davide Fregosi, Levanto.. & sunset.

Laghetti di Rocchetta Nervina, di Andrea Sciarrone

Gianni Vai, Piazza Matteotti, Monterosso Carlotta Fortina, Case di Pegli

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Sabrina Musante, Manarola

Albissola Marina., di Lorenzo Becce Lèvanto, foto di Davide Biggi

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Arciglione Francesco, San Rocco di Camogli

La casa di Cristoforo Colombo, foto di Simona Bianchera

Andrea Giana, Varazze

Michela Timperi, Dolceacqua


Liguria nel cuore

Vittorio Garatti, Golfo

Manarla, foto di Davide Biggi Bussana Vecchia, foto di Margherita Francesca Ficara

Franca Centonze - Camogli sotto la pioggia

Franca Centonze, Camogli

Manarola, foto di Michela Catoni

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Foto dei cavalli di Aurelio Schiaffino

I cavalli selvaggi nel Parco dell’Aveto vivono in mezzo a una natura incontaminata

Val d’Aveto,

paesaggi da Far West

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Liguria natura

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avalli selvaggi che corrono in branco su montagne incontaminate, tra prati, rocce, boschi. La Val d’Aveto presenta caratteristiche spiccatamente montane, dalle rocce emergenti all’abbondanza di acqua. Se il fiume Aveto, infatti, ha plasmato e dato il nome alla Valle, le montagne hanno contribuito a rendere il paesaggio unico e caratteristico. Qui si trovano alcune delle cime più suggestive dell’Appennino ligure: il Monte Penna (1735 m), con la sua estesa foresta demaniale, un tempo formata da abeti bianchi e faggi secolari ed oggi caratterizzata da faggi e conifere di varie specie, affiancato sul versante n-e dall’imponente guglia del Pennino e, sul versante nord, dalla conca della Nave, suggestivo avvallamento simile a una dolina, frutto di una faglia su cui ha agito l’erosione degli agenti atmosferici; il Monte Aiona (1701 m), caratterizzato da estesi pascoli sul versante tirrenico e foreste di faggio su quello padano. La

sommità si presenta come un ampio e arido altopiano da cui emergono rocce, spesso coperta da nebbie fittissime; il Maggiorasca (1799 m), vetta più elevata dell’Appennino Ligure e cima principale di un gruppo montano costituito da un’insieme di affioramenti rocciosi e paretine, intercalate a boschi e a manto erboso. A questo gruppo roccioso appartengono emergenze spettacolari come il Dente della Cipolla, aguzzo monolite diabasico ai cui piedi si apre l’ampia conca di origine glaciale detta Prato della Cipolla, il Monte Bue, montagna erbosa di formazione calcarea, la Rocca del Prete, imponente e suggestiva bastionata orientata a s-o, lunga circa 600 metri e interessata da alcuni ripidi e incassati canaloni e la bellissima cascata dell’Acquapendente. Gli ultimi due monti della catena del Maggiorasca sono il Croce di Martincano e il Tomarlo, quest’ultimo spartiacque tra la Val d’Aveto e la Val Ceno. E poi il Groppo Rosso, montagna tutta picchi e anfratti, che nei tramonti limpidi

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Liguria natura

si colora di rosa per effetto della presenza di Sali di ferro e magnesio nella composizione mineralogica delle rocce. Numerosi rigagnoli e ruscelli danno vita al fiume Aveto che percorre tutta la vallata. La sua corsa verso la confluenza con il Trebbia è mutevole: nella piana intorno a Priosa scorre tranquillo, allarga poi il suo letto nel vastissimo pianoro alluvionale di Cabanne, aumenta la velocità nella forra del Malsapello e nel tratto ponte di Alpepiana-Salsomi-

nore scorre in uno spettacolare e profondo canyon. Le foreste demaniali e i laghi di origine glaciale ne fanno un ambiente montano di grande interesse e fascino, che per le sue caratteristiche strutturali e naturalistiche è rimasto incontaminato e inalterato. Per tali motivi e per le molte attrattive la Val d’Aveto è da sempre meta degli appassionati di alpinismo ed escursionismo, che possono effettuare un gran gran numero di itinerari e percorsi suggestivi.

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Mulini di Liguria

Il Mulino vicino al Sassello, forniva energia alle macchine di una falegnameria

Testo e foto di Mauro Ricchetti

L’ energia pulita derivata dalla forza dell’acqua. E a Valbrevenna, in località Porcile, ce n’è uno ancora perfettamente funzionante

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ella Liguria dell’entroterra, da Rocchetta Nervina e Molini di Triora a ponente e fino a Sarzana a levante, lungo i torrenti provenienti dalla montagna, erano numerosi i mulini ad acqua che consentivano agli abitanti di ottenere una forza motrice naturale per macinare il grano, produrre olio ed azionare macchinari per falegnamerie e piccole industrie locali. L’uso del mulino è antichissimo: i primi documenti si trovano nel trattato di Vitruvio del 25 a.C., il De Architectura, dove appunto si descrive il funzionamento di un mulino a ruota

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verticale. In Italia, nelle zone soggette ad una economia feudale, l’uso privato dell’acqua come fonte di energia e strumento libero di lavoro fu impedito per secoli dal “signore padrone“ di tutti gli uomini, animali e risorse naturali. Fu solo nel periodo comunale e nel tardo medioevo che l’uso pubblico delle risorse divenne accessibile alle attività artigianali. Il mugnaio per eccellenza iniziò a svolgere un lavoro da libero professionista, svincolato dalla proprietà del feudo; la sua opera era al servizio della comunità. Specialmente in Liguria, dove il concetto


Architettura da salvare Il Mulino di Porcile: la ruota e il proprietario, il Sig Gianni Firpo.

di “comunità operante nell’interesse comune“ che dal medioevo caratterizzò sempre i borghi del nostro entroterra, da Triora, a Varese Ligure, da Pieve di Teco a Sarzana, l’uso dell’acqua come bene pubblico diventò l’elemento base di una economia industriale-agricola al servizio degli abitanti dell’interno. Ogni paese, anche il più piccolo, è sempre stato costruito vicino ad un corso d’acqua e possibilmente lungo le strade di comunicazione tra il mare e la montagna. L’acqua era importante – oltre che per le esigenze degli abitanti – anche per dissetare le lunghe carovane dei muli che attraversavano il territorio; spesso il corso del torrente

fu utilizzato come baluardo difensivo, come a Zuccarello, e infine forza motrice imbrigliata per fornire energia. Oltre ai mulini, fino ai primi anni del ‘900 anche cartiere, industrie del legno e segherie furono sempre ubicate lungo i torrenti. Moltissimi sono ancora i mulini ad acqua che si possono vedere nella parte interna della Liguria; alcuni erano ancora funzionanti fino a una ventina di anni fa, con la grande ruota verticale in legno dal diametro di sei, sette metri. Un ingranaggio costruito in legno, detto “ruota dentata” o anche “lanterna” che determinava una moltiplicazione dei giri e trasformava il movimento di rotazione da verticale in

Nella foto a sinistra il mulino di Ponti di Pomassio, in provincia di Imperia in una foto del 1960. Qua sotto in una foto odierna.

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Il mulino di Villacella, frazione del comune di Rezzoaglio, sarebbe tuttora in grado di funzione

Mulino di Porcile (Comune di Valbrevenna): interni ingranaggi lignei e nella foto qui a fiancogli interni con le due macchine originarie orizzontale nella grande mola in pietra. Uno dei mulini più pittoreschi si trova a Ponti di Pornassio, a pochi chilometri da Pieve di Teco, con la ruota ancora fissata con un perno ai muri della palizzata in pietra, direttamente costruita sul fiume. Un canale partiva dal torrente e l’acqua riempiva le “scatole rotanti“, un tempo in legno ed in seguito realizzate in metallo. Un altro edificio quasi intatto con la ruota verticale in buone condizioni si trova a Villacella, paese situato poco prima di Santo Stefano d’Aveto, d’estate avvolto da cespugli di rose rampicanti. Un altro è nei pressi del Sassello, ma se ne trovano a Pietrabruna, nell’imperiese e a Castelvittorio. A Molini di Triora un tempo esistevano sedici frantoi funzionanti lungo il torrente Argentina. Alcuni sono stati rimessi in funzione a scopo turistico come a Rocchetta Nervina, nei pressi del ponte medioevale, all’inizio del borgo. Ricordo di aver visto circa dieci anni fa a Casale, in provincia di La Spezia, un mulino a ruota ancora attivo a cui stavano sostituendo il perno della ruota. Un mulino ora fermo ma tuttora in grado di funzionare si trova in provincia di Genova nel comune di Valbrevenna, località Porcile. E’ di proprietà di Gianni Firpo che cortesemente ci accompagna. Sorge nel territorio del Parco

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Architettura da salvare

L’esterno del Mulino di Porcile: e la adiacente fonte energetica.

naturale regionale dell’Antola ed è stata restaurato, come afferma il proprietario, alcuni anni or sono, per mezzo dei contributi della Comunità Montana. La ruota venne sostituita nel 1911, come raccontava il nonno del signor Firpo e ricostruita esattamente come era stata impostata, nei primi anni del 1800 o forse anche prima. Le macine erano due e potevano funzionare anche contemporaneamente, utilizzando sia l’acqua direttamente proveniente da una cascata sia quella raccolta in un piccolo lago di riserva, previsto per i periodi di piogge scarse. Purtroppo il restauro dell’esterno troppo spinto ha ricoperto l’antica struttura muraria originaria in pietra faccia a vista. Interessante è l’interno dove sono visibili ancora gli ingranaggi lignei orizzontali e verticali. La grande ruota esterna sistemata dal lato opposto all’ingresso è del tipo a “cassetta” e sfrutta il peso dell’acqua e non la sua velocità o spinta. Questo sistema aveva un rendimento maggiore, perché non erano necessari grandi volumi d’acqua, ma bastava solo un dislivello di poco superiore al diametro della ruota. «Il mulino di Porcile serviva molte frazioni della Valbrevenna», racconta il signor Firpo, «e attorno vi erano anche altri mulini. La zona era ricca d’acqua e di coltivazioni di grano. Il mulino funziona perfettamente: l’abbiamo provato di recente e nonostante gli anni gira ancora bene». Il mulino vale davvero una visita, soprattutto per i macchinari interni ben conservati. Si raggiunge in circa dieci minuti di mulattiera dalla strada poco prima del paese di Porcile e può essere visitabile contattando direttamente il proprietario, residente nel paese.

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Il Museo Marinaro di Camogli di Matteo Sicios info@matteosicios.com

L’insegna del museo. Nella foto a fianco l’inizio del percorso del sito del Monte Castellaro. Sotto: la Polena conservata nel museo.

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i sento di consigliare il Museo Marinaro di Camogli perché ho potuto vedere con i miei occhi come un gruppo di bambini molto piccoli, direi dell’asilo, ascoltassero le parole del direttore del Museo che spiegava, al centro di uno stretto corridoio creato da pareti colme di oggetti e documenti, la storia di un’isola vulcanica sperduta, in mezzo all’Altlantico, raggiungibile ancora oggi solo per mare, con solo duecento abitanti ed una nave inglese che su quei lidi approda solo due volte l’anno. La storia di Camogli, della Marina Velica Camogliese, la storia di uomini, capitani e marinai viene raccontata nel Museo Marinaro. Entrando nei locali della biblioteca si accede ad un atrio che introduce alla raccolta di oggetti di marineria e all’attigua sala archeologica. Proseguendo per il corridoio, entrando

Le principali tappe della storia - 1742-1939 campagna di pesca delle acciughe alla Gorgona - 1798 con l’esercito di Napoleone in Egitto (tornano solo 3 navi camogliesi su 26 partite - attenta gestione dei rimborsi avuti dalla Francia e ricostruzione della flotta) - 1830 partecipazione alla conquista dell’Algeria da parte della Spagna - 1853-1856 Guerra di Crimea con Francia e Regno Unito (la flotta camogliese diventa grande conquistandosi l’esclusiva degli scali nel mar Egeo, Mar di Marmara, Mar d’Azof, grazie alle conoscenze acquisite negli anni) - 1915 propulsione meccanica e fine della vela, quindi della marineria camogliese Per saperne di più: www.museomarinaro.it

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La storia della Marina Velica Camogliese tra oggetti e documenti raccolti da Gio Bono Ferrari


Il consulente museale Portolani e carte.

L’esposizione degli oggetti del Museo Marinaro.

Qui sopra alcuni splendidi modelli di velieri.

nel Museo vero e proprio si incomincia ad incontrare una grande quantità di oggetti: quadri, strumenti nautici, modelli di navi, fotografie, utensili da carpentiere. Sono gli oggetti raccolti da Gio Bono Ferrari che dopo i suoi attenti studi sulla storia della velica ligure, si rende conto di avere a Camogli il più grande e ricco “magazzino” di oggetti storici di cui tanto si è occupato sulle carte. Sono le case dei camogliesi, ognuna delle quali custodisce ricordi e testimonianze di viaggi per mare, scali in posti lontani e commerci di ogni tipo. È quindi questo il vero Museo della città di Camogli per come ancora riusciamo a riconoscerla oggi, un borgo marinaro che è stato grande per Mare.

Il Parco Archeologico – Zignago (SP) Il luogo ideale per praticare trekking, assoporare la cucina tradizionale e conoscere la storia della Val di Vara (provincia di Spezia) – è Zignago. Il comune ospita un parco archeologico costituito da tre siti: una mostra archeologica, un sito all’aperto di epoca medievale con i resti della case in pietra (entrambi nella frazione capoluogo) e un sito, che conserva tracce di epoca protostorica, bizantina e medievale, raggiungibile sia a piedi che in auto – in frazione Castellaro

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Davide Lombroso theme libre.

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Nella fotografia subacquea l’Italia e’ sempre al vertice internazionale. Dopo Marsiglia, nuovi successi anche in Costa Azzurra per merito dei sub bogliaschini

Fioritura - Massimo Corradi.

Bogliasco fa vincere l’Italia

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Testo di Ilva Mazzocchi Foto di Gianni Risso

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i è svolto con grande successo dal 6 all’8 dicembre, nel Palais des Congres di Antibes Juan-les-Pins, l’importantissimo Festival International de l’Image Sous-Marine et de l’Aventure Méditerranea, organizzato magistralmente dall’Office de Tourisme e des Congres d’Antibes - Juan-les-Pines e dall’ Equipe Cousteau. Nel corso delle tre riuscitissime giornate nel Palais des Congres, completamente ricostruito, si sono tenute esposizioni fotografiche, proiezioni, seminari, stage di fotografia subacquea con immersioni in mare, battesimi subacquei, mostre e tanto altro. Secondo una tradizione pluriennale, anche quest’anno i fotografi subacquei italiani hanno conseguito risultati veramente entusiasmanti, cogliendo vittorie e piazzamenti Nella pagina accanto: di prestigio. Nei diaporama e audiovisivi ha vinto con pieno pulizia dentale, merito Andrea Pivari con una suggestiva e intrigante storia Massimo Corradi.

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di amori fra creature del mare. Alle sue spalle, a un solo punto, si è piazzato il savonese Massimo Corradi, leader del CICASUB ASD Bogliasco Seatram , con un breve documentario sul relitto della petroliera Haven. Nelle serie di 10 immagini digitali, categoria Master, ha vinto David Salvatori su Domenico Roscigno. Nelle serie di cinque immagini, categoria Open, strepitosa doppietta di Davide Lombroso primo davanti a Flavio Vailati, entrambi del CICASUB Bogliasco Seatram; 5° Alessandro Schiasselloni di Rapallo. Fra le centinaia di stampe, tutte esposte perfettamente nei vari saloni del Palais des Congres, l’italiano Domenico Roscigno, nel Master Mediterraneo, ha sbaragliato tutti con un’eccezionale foto di Pesce San Pietro. Nei Master altri mari ha vinto una bellissima istantanea di quattro otarie realizzata da Gregory Lecoeur. Per l’Open altri mari ha vinto uno squalo di Frederic Fedorowsky. La manifestazione si è svolta sotto l’abile regia di Baudouin Varenne. La giuria internazionale era composta da André Ruoppolo, Valerie Ferretti, Settimio Cipriani e dal nostro Gianni Risso. Ospiti d’onore del Festival, Madame Francine Cousteau, vedova del Comandante Jacques Yves e Presidente della Fondazione Cousteau, e il navigatore solitario Stéfane Narvaez con il suo sloop Shark 47 reduce dal suo grande exploit: il giro del mondo al contrario, in 250 giorni, senza scalo e navigando soltanto con la forza del vento e dell’energia solare.


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PRIX TOUTES MERS Papier Noir et blanc - Jean - Marc BLACHE.

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PRIX TOUTES MERS MASTER PAPIER COULEUR Gre¦ügory LECOEUR.

SALVATORI David Macro. 28 INGENOVA Magazine


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Nella foto in basso: fluorescenze di Massimo Corradi.

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ici «primula» e subito pensi alla primavera: la si vede far capolino con fiori di un bel colore giallo nei boschi, vicino a ruscelli, su terreni calcarei, alla fine dell’inverno subito dopo la scomparsa della neve, quando nei prati comincia a comparire l’erba verde. Le Primule accomunano due proprietà molto importanti: sono rustiche di facile impianto e molto decorative. I fioristi quindi si sono cimentati a creare un numero grandissimo di cultivar (soprattutto dalla subsp. sibthorpii o ibridi tra le varie sottospecie) variando la colorazione dei petali, la grandezza del fiore, la bellezza delle foglie, ma anche il numero dei petali o il suo disegno (fimbriato, arricciato, ondulato, frastagliato, ecc.). Il nome del genere (“Primula”) deriva da un’antica locuzione italiana che significa fior di primavera (e prima ancora potrebbe derivare dal latino primus). All’inizio del Rinascimento questo termine indicava indifferentemente qualsiasi fiore che sbocciasse appena finito l’inverno, ad esempio così si indicavano le primaverili margheritine (Bellis perennis – Pratolina). In seguito però il significato si restrinse come nome specifico (nel parlare corrente) alla pianta di questa scheda (chiamata alla fine “Primula comune”), e come nome dell’intero genere nei trattati botanici. Ildegarda di Bingen (Badessa Hildegard von Bingen, diventata santa e vissuta in Germania dal 1098 al 1179, studiosa di medicina) la consigliava come rimedio contro la malinconia: se la si portava sul cuore a contatto con la pelle avrebbe raccolto il vigore del sole di mezzogiorno. Le più conosciute specie spontanee della flora italiana vi sono la P. veris, nota col nome comune di primula odorosa o primavera odorosa, spontanea sulle prode dei fossati, sulle Alpi e gli Appennini, dove fiorisce alla fine dell’inverno, la P. vulgaris, comune nei boschi, nota col nome comune di primaverina, e occhio di civetta, la P. farinosa, dai fiori colorati di rosa o rossi, comune sulle Alpi. Le primule coltivate in piena terra desiderano esposizione semi-ombrosa e riparata, terreno acido e fresco, fertile e ben concimato con sostanze organiche; le specie coltivate in vaso richiedono locali freschi e umidi, luce solare filtrata, terriccio fertile, leggero e acido, concimate ogni 15 giorni con fertilizzante liquido, annaffiature abbondanti, le specie perenni vengono coltivate come annuali, scartandole dopo la fioritura. La moltiplicazione avviene con la semina sotto vetro o in ambiente fresco e ombreggiato, in terriccio di bosco sabbioso, utilizzando seme freschissimo, da aprile in poi, con fioritura nell’inverno-primavera successiva. Le cultivar vengono moltiplicate per via agamica, con la divisione autunnale dei cespi, o dei getti, anche se generalmente le primule malsopportano i trapianti, presentando scarse fioriture. Le specie esotiche che mal sopportano il gelo vengono coltivate in vaso nelle serre o negli appartamenti. tra le specie

Più di cinquecento specie per questa pianta che coi suoi colori vivaci segnala la fine dell’inverno

rustiche, adatte alla decorazione di sottoboschi, prati e giardini umidi, segnaliamo la P. acaulis dai fiori giallo-chiari, la P. auricolacon foglie carnose e fiori gialli, la P. hirsuta dai fiori porporini e la P. elatior, con fiori di colore giallo o arancio riuniti in ombrelle, e numerose varietà con una vasta gamma di colori, dal giallo al rosso al blu. La primula è una pianta dalle numerose virtù medicinali. L’infuso, il decotto e lo sciroppo dei rizomi di P. veris, dall’odore anisato, raccolti da settembre a novembre, ripuliti ed essiccati al sole, hanno proprietà diuretiche, espettoranti e bechiche, vantano anche un’azione antiemetica, tonica del sistema nervoso, antireumatica e antidiarroica. Topicamente si utilizzano i rizomi freschi ridotti in poltiglia come impacchi sedativi. Inoltre, la polvere dei rizomi ha proprietà sternutatorie; il decotto per uso esterno di foglie raccolte da aprile a giugno avrebbe proprietà antireumetiche, antiartritiche e curative della gotta, e l’infuso e lo sciroppo dei fiori raccolti da aprile a giugno appena sbocciati e seccati all’ombra, vantano proprietà sudorifere, calmanti, anticonvulsive, bechiche e pettorali. L’infuso per uso topico dei fiori serve per impacchi antinevralgici e infine le giovani foglie consumate fresche, crude o cotte, hanno un’azione depurativa.

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