PdA #1 Building a language

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CREDITS

sommario

FOUNDING ORAZIO CARUSO, SEBASTIAN DI GUARDO

editoriale .................................................... 04 prima impara a leggere. poi potrai provare a scrivere. sebastian di guardo

editorial staff ORAZIO CARUSO, SEBASTIAN DI GUARDO

aDDress VIA PIO VII 64, ROME, ITALY

articolo #1 .......................................................... 06 dark city. cara cittĂ io ti adoro. feriscimi pure. sebastian di guardo

CONTACTS architettandocontacts@gmail.com

articolo #2 .......................................................... 08 arte-cuore. espresso, sola andata. storie di esuli e poeti tra roma e venezia. sebastian di guardo

ISSN 2421-7239 (assegnato il 15/09/2015)

articolo #3 .......................................................... 11 il parco eclettico. sebastian di guardo foto del medesimo autore

BLOG http://paroladarte.altervista.org/

NUMBER ONE DATE AUTUMN 2014

TRANSLATIONS Giulia Scaglietta

COVer #1 Front: Sinfonia della Sottrazione, Orazio Caruso. Retro: (original cover 2014) Building a language, Orazio Caruso. What is Parola D’Arte? A collection of articles , essays and / or interviews selected by the publishers , divided into thematic and structured in the form of a magazine . These collections are organized into booklets , they have periodic nature nor any profit.

The sale of all or part of the material is forbidden. Each image or track is shown citing the author . Each interview is presented with the express permission of the interviewee . Reproduction of any material , including texts and images contained in this report is forbidden except with the express consent of the authors or citing the author himself more explicitly.

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intervista ............................................................ 14 edificare un linguaggio. orazio caruso intervista giuseppe cassaro

contents editorial ...................................................... 22 first learn to read. Then you may learn to write. translation: g. s. article #1 ............................................................. 23 dark city. dear city, I adore you. hurt me translation: g. s. article #2 ............................................................. 25 art-heart , one way stories of poets and exiles, between rome and venice. translation: g. s. article #3 ............................................................. 27 eclectic park. translation: g. s. interview ............................................................ 29 building a language: giuseppe cassaro, composer. translation: g. s.


EDIFICARE UN LINGUAGGIO building a language


Prima impara a leggere. Poi potrai provare a scrivere. Esprimersi è un bisogno primario, non solo per l’uomo, ma per tutte le specie viventi. È quell’azione che permette di comunicare un concetto, un’emozione, un desiderio, un’intenzione. L’evoluzione stessa si è concentrata sulla comunicazione come arma per dissuadere i predatori o per organizzare in gruppi gli individui al fine di procacciarsi meglio il cibo, di procedere all’accoppiamento, eccetera. Vi sono tanti tipi di comunicazione: quella gestuale – anche innata, basti pensare che sul viso l’uomo ha ben 36 muscoli il cui scopo è generare delle espressioni- quella primordiale della pittura sul corpo, quella musicale, della scenografia, della letteratura, della poesia, della moda, dell’arte naturalmente, e dell’architettura, tra gli altri. Il modo con il quale queste espressioni vengono comunicate è detto linguaggio, e pone delle questioni importanti per chi vuole esprimersi poiché possiede delle regole precise, grammatica e sintassi, che sono state codificate e si sono consolidate nel tempo. Conoscendo tutte le parole di una lingua ma non grammatica e sintassi, non riusciremmo a parlarla in modo comprensibile. Il linguaggio non è però una gabbia, o un filtro che distilla il nostro pensiero per trasformarlo irrimediabilmente, ma possiede in se le basi della propria evoluzione; infatti, è possibile sempre generare un linguaggio nuovo, con nuove regole espressive che meglio rispondano alle nostre esigenze. Di fatto è come creare un nuovo software che semplifichi la gestione di un (nuovo) tipo di lavoro permettendo di seguire nuove strade. Esso sarà poi più funzionale se compatibile con i “sistemi operativi” già esistenti: per esempio, se creerò un nuovo linguaggio letterario, come fece Dante Alighieri con la Divina Commedia, partendo come lui dai linguaggi esistenti, avrò maggiori probabilità di essere compreso. Esempi moderni di “generatori” di nuovi linguaggi espressivi possono essere autori letterari che mischiano Italiano

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e termini dialettali, specie nei discorsi diretti, quali ad esempio Pasolini che usa il linguaggio delle borgate romane (penso a “Ragazzi di vita”), Camilleri che usa il Siciliano, Malvaldi che usa il Toscano. Il loro scopo è quello di sottolineare che esiste una realtà “ufficiale” quella dei giornali, dei documenti, della televisione- che usa un tipo di linguaggio, e quella della vita di tutti i giorni dove si usa una lingua più antica e dai significati più immediati: un dualismo che contagia tutti gli italiani. La nostra scelta di parlare del linguaggio deriva da due constatazioni di fondo: la prima è che in campi d’applicazione differenti si possono usare linguaggi dello stesso tipo. Esempio è il cinema che in se stesso è sintesi di quasi ogni tipo di linguaggio. Al che consegue che prima di approcciare un’opera di qualsiasi tipo occorre capirne il linguaggio usato e approfondirlo anche con le sue manifestazioni in altri ambiti, al fine di comprendere quanto l’opera sia corretta. Un po’ come dire che se devo giudicare l’esattezza di una frase dal punto di vista grammaticale devo prima conoscere tutta la grammatica, almeno a grandi linee. In concreto, per parlare di un’opera di architettura barocca, può essermi utile osservare anche la pittura barocca e la scultura barocca. Scoprirei tra l’altro che i più grandi artisti dell’epoca, come il Cortona o il Bernini, si esprimevano in tantissimi campi artistici, usando sempre il medesimo linguaggio espressivo. La seconda constatazione è quella che attualmente non vi è ne una piena soddisfazione o convinta aderenza nei confronti di un linguaggio acquisito, ne una reale spinta o sostegno a crearne uno nuovo. In pratica, ci troviamo come un cacciatore senza frecce nella sua faretra, perchè non abbiamo avuto appieno gli strumenti, ne ci è stato dato il tempo, per fare una sintesi di quanto ci è stato comunicato. Siamo invece stati abituati ad apprendere per compartimenti stagni, in una catena di mon-


taggio dove l’operaio che monta la ruota non conosce chi monta il motore ma ognuno ha un ruolo (che gestisce comunque a modo proprio) in un progetto che non sempre ha una definizione che condividiamo. Ecco perchè con gli articoli che seguono si vuole approcciare il problema dell’edificazione di un nuovo linguaggio: imparando prima a leggere i linguaggi attuali e a metterli a confronto, capiremo meglio ciò che è stato fatto da altri. E dopo potremo provare a creare un nuovo linguaggio compatibile con il “rumore di fondo”, che sia trasmissibile e pieno di significato: nostra personale espressione. Il fascicolo che di seguito potrete leggere non

sarà che la prima di una serie di ricerche tematiche alle quali invitiamo tutti a partecipare. L’idea di edificazione di un nuovo linguaggio è emersa quasi da se, in seguito alla nostra esperienza di lettura e condivisione del progetto City Vision di Francesco Lipari e Vanessa Todaro. In questa piattaforma, dal Mag alle Competition, si affronta la possibilità di generare nuovi linguaggi architettonici capaci di caratterizzare a scala urbana le città in un (prossimo?) futuro. Appare scontato, ma va detto, che il tema non può esaurirsi con i seguenti articoli e interviste, che forniscono spunti ed esempi; anche per questo lo stesso tema verrà prossimamente riproposto da Parola D’Arte.

Rembrandt Harmenszoon Van Rijn, La Ronda di notte, noto anche come La compagnia del Capitano Frans Banning Cocq, olio su tela, 1642

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DARK CITY

Cara città, io ti adoro. Feriscimi pure. Questo articolo ha lo scopo di mostrare come per trasmettere un messaggio sia possibile usare diversi modi di esprimersi, accomunati però dalla stessa viscerale sensazione di fondo: con la musica, il fumetto, o in letteratura, o con particolari scelte di scenografia teatrale, eccetera. Nella vita ho avuto le idee chiare su poche cose, da subito. Una di queste è l’oggetto del mio interesse e del mio mestiere: la città. Il luogo della vita umana, il distinto e cintato dalla natura. Edifici che non sono un unicum “a se” ma che sono per la città e nella città. Così immaginavo metropoli regolari e semplici, poco affollate e dalle fabbriche eleganti e imponenti. Ma non avevo capito nulla. Quanto ho trovato dopo è stato come riscoprire una verità altrimenti evidente: lo spazio dell’uomo è un luogo che è fatto di animi irrequieti, pervasi da sensazioni comuni che permettono di riconoscere il cittadino straniero se lo incontri e ci parli per qualche minuto, senza esitazione. Il mio mestiere, la mia città, quella che immagino oggi, non è quella razionalista di Le Corbusier che nella sua Ville Radieuse negava di fatto la storia della città stessa: sono invece i vicoli dei “Miserabili” di Hugo, il lazzaretto di Milano del Manzoni, le buie stradine londinesi di un signor Hide o Jack “the ripper”. Essa è fatta di palazzi dalla pelle lucente, decorazioni festose e auto-celebrative del lavoro e della probità, automobili e ingorghi, tende semichiuse e persiane mezze sverniciate; ma cela tradimenti e gioie, vite che per il loro intreccio, superano ogni fantasia. Così riapro gli occhi sul mio lavoro, e mi scopro come Frank Miller a disegnare con penna nera e poco altro la mia (Ba)Sin City, dove il costruito è una macchia nera, dove supereroi, anti-eroi, ladri e prostitute si affacciano dagli edifici il cui stile tronfio esalta l’efferatezza dei loro caratteri, le loro bugie, o le loro paure, come in “Questi fantasmi”, tragicommedia che si svolge quasi tutta sul balcone, in cui l’appartamento prende vita, rimane pregno di sentimenti e menzogne al punto tale che il protagonista ha paura a rientrarvi, e si rifugia sulla pubblica facciata, di cui diviene egli stesso parte. Immagino, nell’immaginare la mia città, come Jonathan Lethem vi potrebbe ambientare la storia di

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persone confuse riguardo il proprio ruolo nella vita, attorniate da palazzi imponenti che con la loro muta sicurezza ne denunciano l’inadeguatezza, quasi accusandole costantemente della propria pigrizia e fragilità. Mi scopro ad amare la mia città, quando ne respiro i fumi delle auto o l’odoraccio dei freni in carbonio, mi acceco con le scintille del tram e provo gusto nel rumore continuo del treno arrugginito che sferraglia; soffoco compiaciuto dentro un vagone di metropolitana attorniato da gente estranea che urla. Sento profondamente l’olezzo dei bidoni della spazzatura, vedo gli escrementi dei cani sul marciapiede come la traccia di un delitto. Mi scopro ad amare la città, che quasi mai ricambia la mia passione ma che anzi rimane in agguato, e resto fermo aspettando il colpo che sta per infliggermi, come fossi un sadomasochista. Costruisco la scenografia mancante di Dogville, lasciando i perversi personaggi di Lars Von Trier, senza sentirmi in diritto di mutarne la fisionomia bonaria e paesana che nasconde sentimenti ferini e azioni terrificanti dietro muri spessi quanto l’aria. Attorniate dalle mie facciate borghesi immagino sulla scena strade e arterie dove si possono celebrare battesimi, veder sfrecciare in Cadillac donne formose e dai sensi appannati sulla Mulholland Drive o scorgere, di nascosto dietro un cespuglio appartato, le mute fiaccolate dei film horror, come nel videoclip di “Bring Your Daughter...To The Slaughter”, e di molti altri degli Iron Maiden, le cui canzoni e copertine macabre hanno spaventato molti benpensanti (una per tutte, quella di Killers con un quartiere buio sullo sfondo, mi torna simpatica) . Questo è il mio lavoro ragazzi, e non lo cambierei con nessun altro.


1 frank miller, sin city. dark horse comics, usa 1991. 2 eduardo de filippo, questi fantasmi. italia 1945 3 lars von trier, dogville. usa 2003 4 jonatham lethem, chronic city. usa 2009 5 david lynch, mulholland drive. usa 2001 6 john llewellyn moxey, the city of the dead/horror hotel. usa 1960. dal videoclip “bring your daughter to the slaughter�, iron maiden, uk 1990

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ARTE-CUORE, ESPRESSO, SOLA ANDATA Storie di esuli e poeti tra Roma e Venezia.

Questo articolo vuole mostrare come diversi tipi di linguaggio possono essere vicini tra loro, ed essere adatti a descrivere realtà diverse che però producono impressioni dello stesso tipo. L’articolo vuole essere di monito: non vi è un solo tipo di linguaggio per descrivere un evento o un’architettura o un’opera d’arte, ma un linguaggio per ogni persona. Il discorso è soggettivo. “Sveglia e caffè, barba e bidet… presto, che perdo-il-tram”. Comincia così la mia giornata, proprio sulla soppalcata Prenestina di Fantozzi. Lotto strenuamente per un angoletto, apro anche il mio libriccino-da-viaggio: “Fondamenta degli incurabili”, di Iosif Brodskij. Ed arrivo a Termini in orario, da bravo “svizzero”. Confusione, smarrimento. Più del solito: il cancello della metro è chiuso, sciopero selvaggio… Fantozzi ha appena dichiarato “La corazzata Potëmkin” una cagata pazzesca, la macchina dei sogni si ferma, la pellicola si attorciglia su se stessa, brucia, rimane solo il caos. Sconsolato, provo ad attendere un bus sostitutivo –speranza vana- alla fermata, con l’idea di leggere, e la sensazione che presto anche Roma mi aprirà il suo cuore. Apro intanto Brodskij, poeta russo in una Venezia invernale e gelata, in compagnia dell’arte e di qualche amante: -“Tutta la scena aveva una certa aria da fuga in Egitto: lei faceva insieme la parte della Madonna e quella del Bambino, io del mio omonimo e quella dell’asino; dopo tutto, era gennaio…” 1 Qualcuno mi tocca il braccio: turista giapponese con cappellino e guida in mano. “I’m solly…for the Vatican Museum?” “Eee….today, only by a taxi…” “Oh!.. how much? “ I think 30 euro…the taxi stop is here”. -“Così, mentre ti aggiri tra questi labirinti, non sai mai se insegui uno scopo o fuggi da te stesso, se sei il cacciatore o la sua preda (…) non proprio un Teseo, ma neanche un Minotauro affamato di vergini…” 2 “Scusami… hai per caso un accendino?” una ragazza, bionda, tinta forse. “Te lo do se mi dai una sigaretta. Le ho finite” “Ma certo! Sai per caso anche come si arriva a piedi a via Zanardelli?” “Vedi dal mio cellulare. Mi sembra lontano!” “Pazienza, devo andare a discutere la mia tesi!” “Oh! In bocca al lupo allora” “Crepi! Prendi un’altra sigaretta per dopo! Ciao!”. -“Ci ritrovammo in una lunga galleria (…) non potevi chiedere: che cos’è questo? Chi è quello? Non potevi per l’incongruenza della tua voce, appartenente ad un organismo posteriore e ovviamente irrilevante. O forse era un viaggio subacqueo (…) e non aprivi la bocca per non far entrare l’acqua…” 3 “Senta mi ascolti un attimo!” un signore sessantenne parte in quarta: “Io devo andare a piazza Risorgimento, è chiaro?” “Limpido” “Devo andare da un amico che non vedo da anni, ho il ritorno alle 17:00. Che devo fare?” “Prenda lì il tram, a Porta Maggiore cambi con il 19 ed arriva, al ritorno stessa cosa” “Bravo, perfetto. Grazie”. -“Esiste indubbiamente una corrispondenza – se non un nesso esplicito – tra la natura rettangolare delle forme di quel pizzo – ossia degli edifici veneziani – e l’anarchia dell’acqua, che disdegna la nozione di

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forma. È come se lo spazio, consapevole della propria inferiorità rispetto al tempo, gli rispondesse con l’unica proprietà che il tempo non possiede: con la bellezza…” 4 “Senta giovane, va ad Ottaviano?” “ Noi abbiamo l’ufficio tutti lì e stiamo dividendoci un taxi…” “No. La ringrazio. Buona giornata”.

Vittore Carpaccio, Incontro dei fidanzati e partenza per il pellegrinaggio, olio su tela, 1495

-“Dipingi, bisbiglia la luce invernale (…) non porta calore o energia (…) l’unica ambizione delle sue particelle è quella di raggiungere un oggetto e di renderlo – piccolo o grande che sia – visibile. È una luce privata, la luce del Giorgione o del Bellini, non la luce del Tiepolo o del Tintoretto (…). Un oggetto, dopo tutto, è ciò che rende privato l’infinito.” 5 “Ma come devo fare?!” urla un rotondo popolano sui cinquanta. “È una giornataccia per tutti… posso aiutarla?” “Purtroppo no. Devo andare al tribunale dei minori a discutere l’affidamento di mio figlio, e non ho neanche i soldi per il taxi con me” . Questo è troppo. Le storie si sono confuse, troppo. Turisti, lavoratori, studenti, io, Brodskij, tutti stranieri esuli dalle nostre patrie ricolme di desideri e problemi, verso Venezia, o Roma, verso “la risposta”, il quid di queste città che solo un poeta alla fine riesce a descrivere: ”In breve, l’occhio è sempre in cerca di sicurezza. Questo spiega la predilezione dell’occhio per l’arte in generale, e per l’arte veneziana in particolare (…) Perché la bellezza è sollievo, dal momento che la

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bellezza è innocua, è sicura. (…) Nella bellezza l’occhio ha la sua pace, per parafrasare Dante.” 6 Tutti dimentichi dei nostri esili, ci smarriamo nell’arte che è la città, nello spazio e nel tempo, dentro gli edifici (dentro di noi) come nelle strade, ignorando il futuro. Perché la bellezza è gemella della speranza: può farti commettere tante imprudenze.

Da “Fondamenta degli incurabili”, di Iosif Brodskij, Adelphi 1989. 1 – pag 96 2 – pag 70 3 – pag 46-7 4 – pag 41 5 – pag 67 6 – pag 87-8

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IL PARCO ECLETTICO I due articoli e la citazione letteraria che li precede hanno entrambi per oggetto l’area della ex SNIA Viscosa, una fabbrica in rovina a Roma. A variare è solo il linguaggio scelto, alla ricerca di una comprensione del luogo che, se non può non tener conto delle notizie storiche, forse non può neanche rinunciare ad un linguaggio più suggestivo per trasmettere le sensazioni di cui è preda l’osservatore. Spetta infine all’architetto scegliere quale tra questi linguaggi sia adatto ad un nuovo intervento, o al recupero dell’esistente, o al mantenimento del “fascino della rovina”, eccetera. Il primo testo appartiene a Niccolò Ammaniti, che ringrazio, e che fornisce un mirabile esempio di linguaggio che, partendo dallo stomaco stesso, punta sul personale senso del gusto: è come se una valvola che controlla quanto esso sia forte fosse stata messa al massimo, i sensi sono al limite del travaso di nervi e tutto questo si traduce nella descrizione del fenomeno architettonico della speculazione edilizia. “Dalla finestra chiusa con dei fogli di plastica trasparente si vedeva sfocato la Prenestina, le macchine incolonnate, i capannoni delle industrie di cessi, le gru d’acciaio, gli orti, le costruzioni basse e il cielo. Azzurrissimo. Freddo. Senza neanche una nuvola. Si guardò in giro e decise che quella era la più fottuta topaia che conoscesse. Un letamaio al settimo piano di un grattacielo a forma di torre. In cemento armato e mattonelle blu. Vicino ce n’erano altre quattro di quelle torri. Tutte uguali. Nessuna ancora finita ma già ci dormivano dentro. Agli ultimi piani mancavano sia le mattonelle blu che gli infissi. Speculazione edilizia.”

Il secondo testo è una descrizione di tipo nostalgico del lavoro e delle forze generatrici la stessa area della Prenestina, con tutti gli annessi e connessi: la fatica degli operai, le speranze e i pensieri leggeri degli studenti che vanno a scuola la mattina, le idee rivoluzionarie che circolano al centro sociale. È una gamma completa di verdi chiari la quercia, al parco della SNIA, accesa dal sole del pomeriggio rovente mentre sulla terra ormai polvere le formiche avanzano in processione, con le operaie e gli alfieri che tengono alto per vessillo una paglia gialla. Procedono sottomesse verso lo sfondo, dove tornano fedeli alle imponenti rovine industriali che risalgono la collina per dividerla in ambiti autonomi. In

Niccolò Ammaniti, Fango (vivere e morire al Prenestino), Volta Pagina, 1996

silenzio, salgo su un’altalena e osservo l’oscillare del tempo in questa moltitudine di parchi diversi dallo stesso nome. Ecco lo skyline del Prenestino; sotto, i rumori dello scalo ferroviario fanno da base al rap del centro sociale. Bangladeshi giocano a cricket attorniati da corridori lungo una pista senza fine ne inizio. Due pini secolari osservano sull’altro versante il tramvetto scorrere, impudichi nel loro isolato abbraccio su una piana brulla e zozza. Spaccato dal sole, un fontanile nuovo è già vecchio,

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scrostato, arrangiato. Di là, il recinto verso la fabbrica osserva abbandonato il rifiutato, allagato Largo Preneste. Sparpagliati, tentativi di creare un parco pubblico: nuovi edifici, campetti, giochi, siepi... hanno desistito alla forza di questo luogo, come per una decadenza latente, o maledizione implicita. Provo a dondolarmi un po’. Ma sono troppo cresciuto, e i piedi frenano sulle foglie secche.

Il terzo testo proposto è un articolo, quasi di cronaca, descrittivo dell’area della Prenestina. A seguire, descrizioni alternative, parti stralciate. Si tratta di un tentativo di mostrare come anche un testo di tipo descrittivo può cambiare forma e contenuti in base a ciò che si vuole descrivere con più attenzione, per colpire chi legge con un messaggio preciso, chirurgico. La SNIA era l’azienda italiana leader nel settore del tessuto sintetico detto “viscosa”. Presente in Italia con diversi stabilimenti, aveva creato lungo la via Prenestina a Roma un’imponente fabbrica, sfruttando il vicino scalo ferroviario che ancor oggi la delimita a Nord e a Ovest, e l’arteria di via di Portonaccio-dell’Acqua Bullicante, parallela alla quale scorreva una marrana intercettata per l’imponente necessità

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d’acqua dei suoi macchinari, oggi sgorgata in un grande lago. Chiusa dopo la seconda guerra mondiale, la SNIA aveva intanto contribuito alla creazione di un’intera borgata, che si sarebbe poi consolidata nel quartiere attuale. Il complesso industriale proseguiva a Ovest con altri annessi - oggi riusati come palestre o magazzini - posti su una bassa collina, ed oltre questa fino al limite dello scalo ferroviario con

ulteriori capannoni oggi occupati da un centro sociale. La porzione inedificata della collina è stata sistemata a parco, ed è caratterizzata da alti pini marittimi e sentieri; vi sono stati inaugurati un teatro all’aperto* con copertura in metallo supportante dei pannelli solari disposti a shed, e un edificio regolare**, basso, allungato, in materiali ecosostenibili, dall’interessante testata in acciaio bianco e vetro. Si è quindi venuto a formare un vasto paesaggio disomogeneo di rilevanti strutture di cui oggi solo alcune usate. A preoccupare è l’incapacità finora dimostrata di organizzare un programma completo, link-ando, mettendo in gioco tra loro queste diversità, che a oggi sono recintate e, quando raggiungibili, vi si accede da percorsi tortuosi il cui unico involontario merito è di invitare all’osservazione. Totale è il degrado dei capannoni verso Portonaccio, proprietà priva-


ta, vincolati ma oggetto di rilevanti interessi. Sulla via Prenestina un massiccio movimento di terra ha permesso soltanto la creazione di una brulla spianata come passeggio per i cani, con un isolato fontanile che ricorda i fondali per i vecchi film western, e forse proprio per questo è già vecchio e rotto. Un progetto unico sarebbe utile soprattutto nel ridare vita a questo fianco della Prenestina che, già traumatizzata dagli svincoli sopraelevati presso Porta Maggiore, viene dimezzata prima dallo scalo ferroviario, poi dal parco nato mutilo, che lasciano solo un lungo e muto muro lungo di essa. Nota positiva sono le manifestazioni di aggregazione sociale che vi si svolgono spesso, come “Eclettica”, serie di eventi e concerti. Purtroppo però la sensazione è che, ormai, la difficoltà di trovare decisioni condivise tra tutti gli attori della vicenda non consenta più di trovare una soluzione costruita plausibile e unica per quest’area che andrebbe riconsegnata alla città. Descrizioni alternative *Sorta sull’area di un capannone quadrato si trova una copertura metallica in forma di shed con pannelli solari, a ricordo dell’immagine passata del rudere. L’architetto ha consolidato i muri perimetrali rimasti e si è distaccato, anche in altezza, dalla preesistenza che cerca di imitare. Ne risulta uno spazio coperto indifferenziato – oggi si dice multifunzionale - con una terrazza volta allo spettacolo della ferrovia – ovviamente già inaccessibile - che non è privo di eleganza, ma che sembra simbolo delle potenzialità inespresse del luogo in cui si trova.

ta da container, priva di caratteristiche interessanti tranne che per l’elegante elemento di testata in acciaio verniciato bianco e cristallo, che tanto stride con l’anonimia della costruzione, e per una struttura composta da tre file di capriate lignee che dovrebbe sottolineare l’ingresso baricentrico, che, portando solo qualche pannello solare, rimangono fini a se stesse (negando quindi se stesse) nella propria perizia tecnica.

**Sulla sommità si trova un centro ricreativo, una lunga regolare manica che sembra forma-

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EDIFICARE UN LINGUAGGIO Intervista di Orazio Caruso, architetto, a Giuseppe Cassaro, compositore. Chiediamo al musicista tarantino Giuseppe (terra) Cassaro di raccontarci la sua significativa esperienza in campo musicale - cinematografico e proviamo a ragionare assieme su alcuni aspetti attuali legati al rapporto tra la musica e la nostra vita quotidiana con riferimento particolare ai recenti cambiamenti dovuti al proliferare incestuoso della tecnologia: come e in che modo tutte queste evoluzioni influenzino l’arte e la qualità della musica in particolare.. O.C. - A giudicare il tuo lavoro, sembra proprio che tu sia un imprenditore – artigiano che si occupa di fare arte a tutto tondo, tanto nella colonna sonora di una trasmissione televisiva, quanto in un film o documentario, o semplicemente nel comporre canzoni… quando ti chiedono di cosa ti occupi, come rispondi? G.C. - L’immagine di “artigiano” non è mai emersa per descrivere la mia attività. E’ un’immagine che mi piace perché riavvicina il mestiere dell’arte musicale proprio al concetto di “fare”, “creare”. Sono un compositore e produco musica; negli ultimi anni (o se vogliamo nei primi legati alla mia carriera da professionista) il mio universo musicale ha incontrato quello del visivo. I miei studi universitari in campo cinematografico sono il seme della mia particolare propensione a cercare di ogni suono un corrispettivo visivo. “L’immagine del suono, il suono dell’immagine” come direbbe il più grande teorico dell’Audiovisivo, Michel Chion. A questo si aggiunge l’attività “imprenditoriale” di EchiVisivi, la società di cui sono amministratore assieme a Samuele Rossi e attraverso la quale porto avanti un’intensa attività produttiva di audiovisivi (lungometraggi, film documentari, video, spot, ...), in sinergia con altri due soci, Maria Rosaria Furio ed Edgar Iacolenna. Mi occupo -inoltre- della mia personalità. La mia tecnica e il mio spirito viaggiano su due binari paralleli. Per me è fondamentale il fattore umano: senza di esso siamo solo macchine che producono “arte” che rischia di essere vuota, fine a se stessa. Non siamo solo curricula. Siamo uomini e pertanto dobbiamo alimentare l’anima, cercare nuovi stimoli e gratificazioni da chi ci circonda. O.C. - Però c’è anche da dire che ciò che rende aride le nostre giornate spesso può diventare una grande fonte d’ispirazione.. a volte i periodi così detti di crisi, e siamo nell’attualità, diventano immensamente prolifici. Certo, mi piace il tuo riferimento al cosidetto curriculum che spesso avrebbe la presunzione di essere il nostro biglietto da visita, ma che sembra a mio giudizio, molto spesso non tenere conto della cosa più importante: il soggetto cui fa riferimento, la Persona per l’appunto. In riferimento alla tua esperienza di “artigiano della musica”, volendo accettare questa espressione, come pensi sia cambiato in questi anni il tuo approccio nel comporre? G.C. - Fondamentalmente è rimasto lo stesso. L’approccio, la radice, è sempre guidata dall’esigenza di esprimere qualcosa che si annida interiormente. Di sicuro è cambiata la modalità. Non so se in meglio o in peggio poiché, oltre al fatto che sono cambiati i mezzi con i quali dialogo, non ho la maturità per esprimere un giudizio categorico, assoluto; attualmente vivo una fase di crescita, di esplorazione dei nuovi strumenti e pertanto potrei rispondere in maniera più esauriente solo tra qualche anno. Se penso che il mio primo disco (nel senso amatoriale e adolescenziale!!) lo realizzai con il “registratore di suoni” di Windows, quella fantastica finestrella che ti permette di registrare fino ad un massimo di 30 secondi, mi viene da dire: altri tempi!!

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O.C. - (Rido) … Si, abbiamo avuto negli ultimi quindici anni svariati cambiamenti, troppi mezzi per produrre arte e troppi veicoli di diffusione … Personalmente sono ancora legato in maniera affettuosa al ‘singolo’ passato in radio (si, proprio alla radiofonicità di un pezzo musicale!), pur rischiando di sfociare nel commerciale da classifica. Ma, indipendentemente dal mezzo, qual è il metodo che utilizzi per “fabbricare la tua arte”? Immagino di trovarmi accanto a te nel tuo studio di registrazione e ti chiedo: come si costruisce una struttura melodica, una base di musica che vivrà di vita propria? Ecco, sapresti dirmi con parole semplici, come nasce una traccia musicale, come si edifica un linguaggio per un artista che cerca di rinnovarsi sempre e di mostrarsi come nuovo? G.C. - Inseguire la “verità” è un grande limite; chi crede, infatti, di essere un’”artista” è nemico di sé stesso. L’arte è allo stesso tempo disciplina e improvvisazione, calcolo e imprevisto, studio e intuizione. In questo naturale incontro di sensi ognuno di noi ha la possibilità di costruire il proprio linguaggio. Solitamente siedo al mio pianoforte e suono. Il primo grande dialogo è con i tasti. Loro sono i miei traduttori personali, i miei interpreti. Con loro e attraverso di loro parlo una lingua nuova, scopro che la musica compie un viaggio meraviglioso: muove timidi passi nella testa, percorre velocemente il sistema nervoso e scarica la sua forza sui tasti. Il bello sta proprio nel riuscire a pigiare quelli giusti, nel modo giusto. L’avventura poi si articola in un interscambio di chitarre, suoni, giochi, esperimenti, ritmiche, sonagli, voci, parole (raramente!). L’aspetto che forse più mi affascina del linguaggio musicale è il suo essere “universale”, capace di mettere in relazione più uomini, etnie, culture e visioni diverse. Coniare un linguaggio musicale capace di incentivare le relazioni umane sarebbe, forse, la più bella sfida per la cultura dell’essere vivente. Personalmente tutto ciò si traduce nelle collaborazioni con altri musicisti, con altre menti musicali e ciò rappresenta un ulteriore motivo di crescita, di stimolo per rinnovarsi e affrontare nuove sfide. O.C. - Certo. Mi viene da pensare che questo scambio di livelli, di imput creativi e, perché no, di imprevisti tecnici, avviene un pò in tutti i campi dell’arte, della creazione; in fondo nessun’ opera nasce già compiuta. Difatti una struttura architettonica è, nella maggior parte dei casi, il risultato di una serie di incontri (o scontri) tra varie menti, e ne viene rimaneggiato più volte il progetto prima di arrivare a quello definitivo. In ogni buona architettura, musicale o fisica che sia, coesistono, per necessità, calcolo e improvvisazione, altrimenti essa crolla! Ritornando al rapporto tra suono e immagine di cui accennavi prima, mi interessa molto questo legame che si crea tra l’arte sonora e l’arte visiva. Di solito, quando si ascolta una musica, con l’immaginazione si fa riferimento a un luogo della mente, ad un’immagine. Possiamo dire, invece, che spesso tu ti trovi ad immaginare e comporre la musica per un video, la situazione opposta insomma.. Come avviene tutto ciò nel cinema? G.C. - Non sono a conoscenza dei metodi e degli approcci dei grandi compositori come -per citarne alcuni- Santaolalla, Morricone, Newman, Teardo, Desplat, Kilar, Catalano, Glass, Greenwood, Tiersen, e molti, molti altri ancora, ma sono consapevole che ogni colore, ogni frase, ogni cellula

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Orazio Caruso, foto della rada di Augusta, Sicilia.

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narrativa ha in sé una melodia intrinseca, una propria musica, come ogni cosa nel mondo. Trovare il corrispettivo sonoro equivale ad entrare a stretto contatto con quel mondo, con quella storia e con quei personaggi. Vuol dire diventare allo stesso tempo attore, oggetto di scena, parola, racconto. Vuol dire essere un piccolo miracolo per sé stessi e per l’economia della storia. Per esempio un film documentario - anzi se vogliamo molto più di un film di finzione - racchiude in sé una verità da trovare e saper raccontare in musica. In entrambi i casi il passo che sancisce la buona riuscita di una “colonna musicale” (per “colonna sonora” si intende la totalità dei suoni, musiche, voci che compongono una pellicola) è da ricercare nello stile. Scrivere una buona musica ma saperla scrivere secondo un proprio stile, secondo un linguaggio strettamente personale. O.C. - Come avviene tutto questo da un punto di vista più tecnico, nel momento in cui entrate in scena tu e i vari attori di un progetto cinematografico? G.C. - Gli interventi musicali nella post-produzione di un’opera audiovisiva sono il frutto di numerosi confronti con i professionisti coinvolti. Il compositore, infatti, dialoga con il regista (in primis) e attraverso le sue direttive avvia il processo compositivo. Successivamente si confronta con la struttura narrativa affidata al montatore; con le dinamiche organizzative affidate al produttore; con gli arricchimenti sonori del sound designer; infine con il responsabile del missaggio audio, per creare l’equilibrio tra suoni e musiche. A tutto ciò si aggiungono le collaborazioni con altri musicisti, autori o semplicemente esecutori ed editori.

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O.C. - La tua creatività ha mai risentito dei vincoli contrattuali? G.C. - E’ difficile rispondere a questa domanda perché non sempre l’arte, quella che mi piacerebbe coltivare, esplorare e produrre, è fonte di sostegno economico. Ed è per questo che una buona dose di realismo aiuta a coltivare il seme dell’arte, riuscendo a vivere gli impegni contrattuali per sbarcare il lunario con serenità. Che lo si faccia per denaro o per passione la musica deve sempre coinvolgere l’ascoltatore e/o lo spettatore; che sia uno spot o un film. Questo mi aiuta a vivere serenamente i vincoli di cui mi chiedi. O.C. - Cerco di consolare te (e me stesso) su questo punto ricordando che molti grandi artisti hanno dato il meglio di sé stessi proprio quando avevano tanto talento, quante difficoltà economiche. G.C. - E’ vero. Sono consapevole difatti che la gratificazione professionale non debba necessariamente coincidere con una retribuzione monetaria. Ma sono, al contempo, dell’idea che bisogna vivere la propria passione e non lasciare che sia essa a vivere noi, condizionandoci e portandoci a sofferenze taciute. O.C. - Alla luce delle esperienze fatte ti trovi meglio a lavorare da solo o in equipe? G.C. - Attualmente vivo un momento di “solitudine” a causa dei miei continui spostamenti; coltivo esclusivamente le collaborazioni con musicisti ed esecutori in campo cinematografico (sono nel pieno della produzione di una colonna sonora per un film documentario), ma sento l’esigenza di confrontarmi nuovamente, (l’intervista risale al 2013 n.d.r.) di costruire nuovi rapporti artistici con musicisti, proprio perché, attraverso le esperienze passate, ho maturato la consapevolezza che il lavoro di equipe è sinonimo di crescita. Ma c’è un tempo e un luogo per tutto. Credo poco alle collaborazioni attraverso e-mail, preferisco guardare in faccia la gente! O.C. - Condivido questo pensiero, perché il progresso può essere un grande ostacolo, creare delle distanze. Ampliando un pò il discorso, mi interessa capire come definisci il periodo che viviamo, riguardo alla qualità e al tipo di musica che viene oggi prodotta e a come viene ascoltata, specie dalle nuove generazioni. G.C. - Quello che viviamo musicalmente è un capitolo della storia lungo e buio, un tunnel all’interno del quale vige il caos. Pur essendo sempre stata oggetto di dibattiti sul piano formale, contenutistico e percettivo, oggi la Musica sembra essere preda di strumentalizzazioni, demolizioni e demonizzazioni, vittima di algoritmi e codici digitalizzati. Siamo la generazione dei “simulatori”! Simuliamo tutto, dimenticando che la Musica dovrebbe essere stimolo alla crescita culturale degli individui. E’ importante, quindi, tutelare la “qualità” della musica, evitando di banalizzare (o peggio monetizzare) l’atto creativo: eseguire un fade tra due brani precedentemente selezionati e impostati a ritmo di un basso pulsante in 4/4, non è fare musica. Per quanto riguarda i supporti di ascolto, un tempo compravo i cd (soprattutto usati), scommettevo su un disco, anche solo affidandomi all’estetica della sua copertina; talune volte godevo come un matto, altre invece rimanevo deluso e con un disco che avrebbe preso solo polvere. Oggi, invece, come le nuove generazioni

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di ascoltatori, anche io esploro stereomood, spotify, soundcloud, lastfm, bandcamp, ecc... ma scelgo le mie battaglie e preferisco ascoltare “In the court of the Crimson King” sul giradischi di casa. O.C. - Chissà se continuando a rielaborare il passato non troviamo la chiave giusta per interpretarne i valori. Io, da studente prima e da architetto adesso, sento in pieno questa crisi; come suggerisci nella risposta precedente, infatti, questo tempo porta con sé un bisogno urgente di nuovi slanci creativi che personalmente ricerco nelle mie radici culturali. Anche i luoghi in cui ci troviamo possono rappresentare un ulteriore stimolo. A tal proposito: in quale ambiente ti trovi più a tuo agio? G.C. - In treno. In movimento. Viaggiare per me vuol dire ‘essere’, evolvermi andando in una direzione. Mentalmente mi tranquillizza, mi protegge. Mi concentro di più e vivo con più naturalezza ciò che mi circonda. Mi riavvicino a tutto ciò che sfugge al di là del vetro. I treni e i loro viaggi mi fanno riscoprire l’importanza del tempo che scorre, di ciò che ci lasciamo alle spalle. Per altro per me è difficile oggi immaginare di mettere radici in un luogo specifico. Il lavoro, le passioni, le esigenze mi vedono sempre in movimento, con la valigia impossibile da disfare e con la possibilità di aprire nuove parentesi chissà dove. Ma allo stesso tempo sono costretto, spesso, a vivere le amicizie attraverso le e-mail, schiavo della programmazione e dei calendari. Quello che mi chiedo è: quanto può essere “programmabile” il bisogno di una birra con un caro amico? Non puoi bere una birra su Skype!!! Da questa consapevolezza nasce il mio EP musicale, intitolato “CONNECTION” quale esigenza di tenere vive le relazioni costruite negli anni, nonostante la distanza, gli impegni e il lavoro. O.C. - Mi sembra pertinente proprio perchè abbiamo appurato che il tuo mestiere nasce dalla vita reale e non solo nella tranquillità di uno studio di registrazione: le idee, le influenze, il rapporto con le persone (midollo della realtà bella o brutta che viviamo), necessitano di un contatto reale e non solo virtuale. Penso che, nel tuo caso, tu debba sempre più impegnarti a tutelare il rapporto fisico con la realtà, (la birra di cui parlavi prima) proprio in quanto musicista: un musicista contemporaneo, nel senso che vive più tempi, più luoghi, più esperienze e che da queste trae ispirazione per il proprio prodotto artistico. Inoltre il treno in movimento (non-luogo per eccellenza) potrebbe essere un perfetto dispositivo per captare e bloccare le tante idee che affiorano, veicolate dal movimento... G.C. - Hai centrato il bersaglio proprio perché la mia musica altro non è che lo specchio della mia vita, delle mie relazioni. Il treno, oltre ad essere un veicolo che mi trasporta fisicamente, è il collante per la famiglia, amici, lavoro... Inoltre è un non-luogo di riflessioni in cui -paradosso- mi sento padrone del tempo. Fuori tutto scorre inesorabile, ma su quel sedile ci sono io e le mie mete da raggiungere. In fin dei conti il movimento è vita.

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autore sconosciuto. da http://www.dubmc.com/dubmc/2012/06/dancing-about-architecture.html

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First Learn to Read. Then you may learn to write. Expressing yourself is a primary need, not only for human beings but for all living creatures. It’s an action that enables you to communicate an idea, an emotion, a desire, an intention. Evolution itself has developed through communication as a tool, to dissuade predators or to organize individuals into groups to fetch food or to mate, etc. There are various ways to communicate : non verbal through gestures – our face has 36 different muscles whose purpose is to generate expressions – through primitive body painting, through music, scenery design, literature, poetry, fashion, art and architecture, among others. Language is the way these expressions pass across. And this sets important questions to those who aim at communicating, because language has precise rules - its grammar and its syntax - which have been codified and reinforced in time. Vocabulary alone is not enough: it is not possible to achieve meaning by knowing all the words in a language and ignoring its rules. However, language is not a cage. It is not a filter that transforms our thoughts and it contains the basis for its own evolution: it is possible to generate a new language, with a new set of rules that will better respond to our new needs. It is very much like creating a new software, simplifying operations to achieve a new goal, following new steps. It’ll work if it is compatible with existing “operating systems”: I will have more chances to be understood if I create a new language starting from existing ones, like Dante in the Divina Commedia. Modern examples of new language generators are some literary authors that mix Italian with dialectal terms, especially in direct speech, Pasolini for instance (“Ragazzi di vita”) with Roman dialect, Camilleri with Sicilian dialect, Malvaldi with Tuscan dialect. These examples show that there is an “official” reality – in newspapers, in tv , in official documents – exploiting a different language from everyday life language, where meaning has to be more immediate. This duplicity affects all Italians. We chose language for two reasons. First of all we noticed that the same language may apply to different fields. Cinema itself is the synthesis of any type of language. Before you may approach any kind of work, you need to be able to recognize and understand its language. It’s like saying that if I have to judge the grammar exactitude of a sentence, I basically have to know first all the grammar rules. To be able to speak of a baroque architecture, it may be important and useful to know about baroque painting or sculpture, in order to find out that most influent artists of the time – Pietro da Cortona or Gian Lorenzo Bernini – used to express themselves in different artistic fields, using the same language. Second of all we noticed that we seem to lack the belonging to an

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acquired and satisfactory language, as well as the will or desire to create a new language, right now. Like a hunter without arrows in its quiver, we do not possess the correct tools or we have not been given time to acknowledge what we have. We were taught to think everything in watertight compartments. Like an assembly line worker, mounting a wheel and ignoring who is working at the engine - we all have an independent role in a project whose definition we not always all share. These are the reasons why – in the following articles - we approached the question of building a new language: learning to read existing languages and also comparing them, to understand what has been done so far. Then trying to create a new language, which will be compatible with the “background noise”, wiping it out to send a significant signal : our personal expression. The following booklet is the first of a series of thematic researches which you are all invited to share and partake. The idea of building a new language emerged itself naturally, following our experience in the City Vision project with Francesco Lipari and Vanessa Todaro. In that platform (from Mag to Competition) we faced the possibility of generating new architectural languages, to characterize the city at a urban scale in the (next?) future. Granted that the theme cannot be fulfilled with the following articles and interviews, these are just examples and hints, leading to a new thorough analysis in “Parola d’Arte”.

DARK CITY

Dear City, I Adore you. Hurt me. This article aims to show how to transmit a message. It is possible to use different means of communication, all sharing the same sensation : music, comics, literature.

I’ve had few clear ideas, in my life so far. One of them is my interest and my profession: the city. The place for human life, the distinct and dissimilar from nature. Buildings that are not a unicuum but that are for the city and in the city. I used to imagine a regular simple metropolis with elegant and imposing factory plants. I had no clue. What I learned after, was like finding an obvious truth: the place of man is made of restless souls, pervaded by sensations so similar that you may point out a foreigner without hesitation. My profession, my city, the one I imagine today, is not the rational Ville Radieuse of Le Corbusier (which denied history in the city) but the passages and alleys of Victor Hugo’s Les Miserables, the Milan Lazaret of Alessandro Manzoni, or the dark little streets of London in Mr Hyde or Jack the “ripper”. Buildings with shiny skins, pretty lights and decorations celebrating work and integrity, cars and traffic jams, half-closed blinds and half-painted shutters concealing betrayal, cheating but also joy. A life-plot that overwhelms fantasy. When I open my eyes I find myself like Frank Miller, drawing with a black pen and not much else, my (ba)sin city, where the built is

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just a black spot and heroes, super-heroes, anti-heroes, thieves and prostitutes lean from buildings whose pompous style celebrates the brutality of their characters, their lies and their fears. As in “These ghosts”, a tragic comedy taking place mainly on a balcony, where the apartment seems to grow alive with feelings and falsehood so much that the main character is afraid of going back inside and seeks refuge on the façade, almost becoming a part of it. I picture in my city imagination how Jonathan Lethem may set the story of people confused by their own life, surrounded by imposing buildings so confident to reveal human failure, fragility and indolence. I find myself loving my city, while I breathe in the stink of exhaustion pipes or carbon brakes, or go blind at tramways sparkles, or treasure the continuous noise of a train rattling past and proudly suffocate in the underground, surrounded by obnoxious and irritating people. I breathe in deeply the stench of garbage bins and I watch at dogs excrements on the sidewalk like a corpus delicti. I find myself loving my city, that never responds to my passion and instead lies in ambush, while I stand still waiting for the final blow, like a sado-masochist. I build Dogville missing scenery, leaving Lars Von Trier’s wicked characters and their rustic warm-hearted features intact. Surrounded by bourgeois façades I imagine baptisms being held on dark streets and avenues, buxom women speed up on Cadillac cars along Mulholland drive and silent torchlights appearing from behind a bush, like a horror movie or the video of “Bring your daughter to the slaughter” or some other Iron Maiden video. (their songs have scared many moralistic and judgmental people, and one especially comes to mind, with a dark city on the background, the girl in Killers). That’s my job, guys, and I wouldn’t change it for anything else.

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ART- HEART , one way

Stories of poets and exiles, between Rome and Venice. This article aims at showing the similarity of various languages that may describe different realities but suggest similar impressions. There is not only one language to depict an event or an architecture or a piece of art, but a language for each individual. It IS subjective.

“Alarm clock, shave and shower… hurry or I won’t catch the tram”. That’s how my day begins, right on Fantozzi’s Prenestina high lane. I fight hard for a spot on the tramway and I succeed in opening my commuter-book: Quayside of the Incurables – Iosif Brodskij. And I arrive at destination on time, as a real “swissman”. Confusion and bewilderment. More than usual: the underground gate is closed, there is a strike going on… Fantozzi has just declared The battleship Potemkin is “real shit”, the dream machine stops, the film unwinds, burns and there’s just chaos left. I wander discontent and wait for a bus, reading at the bus stop and hoping that through the poems, Rome too will open its heart to me. Brodskij , a Russian poet in ice-cold Venice, with art and a few lovers: “The entire scene looked like the flight into Egypt: she was at the same time the Madonna and the child, I was my homonymous and the honkey. It was January after all. “ 1 Someone touches my arm; a Japanese tourist with a pretty hat and an umbrella: “I am solly… fol the Vatican Museum?” “Weeell, today only by taxi.” “Oh, how much?” “I think 30 euro, the taxi stop is right there.” “While you meander in this maze, you never know if you chase a goal or flee yourself, if your are the hunter or the hunted, not a Theseus nor a Minotaur hungry for virgins” 2 “Excuse-me do you have a lighter?” – a blond girl, maybe a fake blond, asks. “I do, and do you have a cigarette for me? I ran out” “Sure! Do you know how to get to via Zanardelli?” “Let’s check on my phone, it seems far to reach by foot!” “Doesn’t matter how far it is, I have to be there to discuss my thesis.” “Oh! Good luck then!” “Thanks, take another cigarette! Ciao.” “We found ourselves in a long gallery (..) and you couldn’t ask: what is this? Who is that? Discrepancy in your voice, belonging to a posterior organism and irrelevant of course. Or maybe you were traveling underwater (..) and you didn’t open your mouth to avoid water getting in.” 3 “Hey listen to me please!” a 60 years old man asserts “ I have to go to Piazza Risorgimento ok?” “Sure!” “I have to meet with a friend that I haven’t seen in years and I

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have my train at 17:00. What should I do?” “Well, hop on the tramway there until Piazza Maggiore, then take the 19 – another tram – and you get there. Same on the way back” “Good. Great. Thanks” “There obviously is a reciprocity – if not an explicit connection – between the rectangular nature of that edge – i.e. Venetian buildings – and water anarchy despising form. It’s as though space were aware of its inferiority towards time and responds with the only characteristic that time does not possess: beauty.” 4 “Listen young man, are you going to Ottaviano? We all head there and we are sharing a cab, want to come?” “No thank you. Have a nice day.” “Depict - whispers the winter light (…), it doesn’t warm or bring energy (…), its main ambition is hitting an object and make it visible – however big or small. It’s a private light, not the one in Giorgione or Bellini, nor the one in Tiepolo or Tintoretto (…). An object makes the infinite personal, after all.” 5 “So, what do I have to do?” shouts a chubby little man on his 50s. “It’s a hard day for everyone, may I help?” “No, unfortunately. I have to go to the minors Court to settle the case for my son’s custody and I don’t even have the money for a cab.” That’s enough! The stories mixed up too much. Tourists, students, workers, me, Brodskij, all strangers and aliens, exiled from their own Countries, overwhelmed by desires and issues, Venice or Rome, and looking for answers. Describe the quid within. Only a poet can. “The eye searches for security. This explains why the eye prefers art in general and Venetian art in particular. (…) Beauty is relief because beauty is harmless, it’s safe. (…) In beauty the eye finds peace, to quote Dante.”6 Oblivious of our exiles, we wilder in the art of the city, in space and time, in buildings (within ourselves) and in streets, ignoring our future. Because Beauty rimes with Hope: it makes you act silly, sometimes. From “Incurable disease”, Iosif Brodskij, Adelphi 1989 Italy 1 – pag 96 2 – pag 70 3 – pag 46-7 4 – pag 41 5 – pag 67 6 – pag 87-8

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Eclectic park The next two following articles and the literary quote preceding them are

about the SNIA Viscosa area, an abandoned factory plant in Rome. The language varies, seeking for a better understanding of the area. The language may ignore historical hints but it cannot renounce to transmitting the observer’s sensations. It is up to the architect to choose which language is more adequate for describing a new project or the rehabilitation of the existing architecture or keeping the “ruins charm”.

The first text is by Niccolò Ammaniti, whom I thank, and gives a good example of language that points to personal taste, moving right from the guts: it’s a control valve set at its maximum level, all senses arise to the nerve limit, for the description of a building speculation. “The window was sealed with transparent plastic paper and you could see Prenestina street, blurred behind: cars in line, toilets manufactory warehouses, iron cranes, vegetable gardens, low buildings and the sky. Very blue. Cold. Cloudless. He looked around and decided that it was the damnest rat’s nest hovel he’d ever seen. A dung-heap set at the 7th floor of a tower-shaped skyscraper. In cast concrete and blue tiles. Next to his, rose other 4 towers. All identical. None was finished but people already were sleeping in them. The last floor had no tiles nor windows. Building speculation.” Niccolò Ammaniti, Fango (living and dying at Prenestino), Volta Pagina, 1996, Italy The second text is a nostalgic description of the forces that generated the Prenestina area, with its appendages: the workers’ fatigue, students’ hopes and thoughts, the revolutionary ideas of the social center. It has a whole range of light green, that oak in the SNIA park, lit by sunshine in a hot afternoon, while ants line up in the dust and burnt soil, the drone ant holding a yellow straw as a standard and leading the worker ants behind. They faithfully proceed towards the imposing industrial ruins of the hill in the background. Silently I sit on a swing and stare at the oscillation of time in this multitude of different parks with the same name. This is Prenestino skyline. Below, the railway station noises serve as a rap base to the social center music. Bengali cricket players are surrounded by joggers that run along a never ending track. Two old pines - shameless in their isolated hug on this bare dirty plane - watch the tramway pass by on the other side of the hill. A new built sun-burnt fountain looks old, flaking and peeling already. The enclosure towards the factory plant watches over the often flooded Largo Preneste. Scattered attempts to create a public park : new buildings, playgrounds, fences… have all surrendered to the strength of this area, like a concealed decadence or implicit curse. I swing a little. But I’ve grown up and my feet touch the ground, braking on dead leaves. The third text is an article, structured as local news report, describing the Prenestina area. Following, alternate descriptions and extracts. It’s an attempt to show how a descriptive text may

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change shape and form according to what it aims at recounting or whom it wants to affect. SNIA was an Italian manufacture industry, leader in the production of a synthetic textile called “viscose”. It had different factories around Italy but had built an imposing production area in Rome, along the Prenestina street, next to the railway station - that is still one of its geographical boundaries to the North and West – and the Portonaccio street that ran parallel to a useful ditch and today turns into a big lake every time it rains. After WWII the SNIA closed down but it contributed to the creation of a wide suburb which later merged in today’s neighborhood. The industrial complex spread to the West in many annexes – today reused as gym or depots – along a low hill up to the railway station in various warehouses now occupied by a social center. The unbuilt portion of the hill is now a park with maritime pines and little tracks, an open-air theatre* with a metallic roof and a low rise building** in eco-compatible materials and an interesting glass and iron entrance. A new landscape formed, through various and significant structures partly unused. There has been a lack of programme, structured to organize and relate these diversities: some are still enclosed, some are difficult to reach, through winding paths whose only merit is to favour meditation. The warehouse on Portonaccio street are abandoned and in decay. They are private propriety and legally bound but financially possess a great potential. On Prenestina street there’s only a bare plane for dogs walk, with an isolated fountain, sad and broken, prompting old western movies. A unified project would be needed to bring vitality to this corner of the Prenestina, wounded by the railway station, the high lane and the mutilated park. Only real positive note is the organization of open-air social events and concerts such as “Eclectica”. There seems to be a real difficulty in sharing decisions or proposals. This is an obstacle to any tangible solution for this vast area needing to be handed back to the town and its inhabitants. Alternative takes * Risen on an old square warehouse area there’s a metallic shedroof with solar panels. A reminder of ancient times. The architect has reinforced the existing outer walls and separated the roof from the pre-existing ruins that he tried to imitate. The result is an undifferentiated covered space – vaguely defined as “multifunctional” – with a terrace headed towards the railway; quite elegant in the whole but also seemingly the symbol of the unexpressed potential of the entire area. ** At the top there’s a recreational center: a long regular alley formed by an array of containers. Dull and anonymous, except for the elegant iron and glass entrance and its 3 wooden trusses lining up along its axis. They should emphasize the core of the building but are useless instead, sustaining only few solar panels, and therefore remain self-referenced.

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BUILDING A LANGUAGE

Interview – Orazio Caruso, architect and Giuseppe Cassaro, composer. We asked the composer Giuseppe Cassaro to share with us his experience - as a composer and director - on relations between music and everyday life, especially with respect to the technological improvements and changes this has caused. How and why these evolutions influence art and quality, especially in music. O.C. – According to your work, you look like a craftsman managing every aspect, in composing the soundtrack of a television series as well as in a movie or documentary and single songs …What do you reply when asked about your occupation? G.C. – I like the craftsman image to describe my work, it has never occurred to me so far. It associates music to the idea of “doing” and “creating”. I am a composer and I produce music; in the past years (and also the first years of my professional career if you want) my universe in music has come to contact with visual arts. My university studies in cinema have been the seed for my personal attitude towards visual arts: I seek for an image that corresponds to each peculiar sound. “The image of sound, the sound of image” to put it in Michel Chion’s words (the biggest theoretician in Audiovisual) . I am also the manager of “Echi Visivi” together with Samuele Rossi. We share an intense activity and production of audiovisual (movies, documentaries, videos, spots…) with two associates Maria Rosaria Furio and Edgar Iacolenna. I also take care of my individuality. My technique and my spirit travel on two parallel lines. The human factor is fundamental to me: without it we run the risk of turning into machines and produce empty and self-referenced “art”. We are not only curricula. We are human beings and we must feed our soul, search for stimuli and gratifications from each other. O.C. – Yet again, sometimes what makes our everyday life dull may become a source for inspiration, sometimes a crisis can become incredibly prolific. I like your hint to curricula that tend to be like a visit card which doesn’t take into account the most important: the Person. Referring to your experience as a “music craftsman”- if you accept the definition - how do you feel the approach to composing music has changed in these past years? G.C. – Fundamentally it hasn’t. The root, the spur has always been – and still is – the need to express something personal nesting inside. The process has changed. I don’t know whether for good or worse. The means have changed and I don’t feel I have the maturity yet to judge it in a categorical or definite manner, I still am growing up and I am exploring new tools. I feel I will be able to answer these matters in a few years time. If I think that my very first record ( in an amateur-ish and teenager-ish sense!) was played with a “Windows sound recorder” – the small window that records sounds up to 30sec – I feel like saying “old times!”

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O.C. (laugh) – Yes, indeed we underwent many changes in the past 15 years, too many tools and means to produce art and too many ways to diffuse it … Personally I am still attached to the “single” played on radio stations (yes, the radio times!) even if you risk the “commercial hit parade” effect. But, disregarding the tool, how do you proceed in “producing your art”? I imagine being next to you in your studio and asking how you build a melodic structure, a basis that will live its own life? Would you describe in simple words how you create a new track, how you build a language, when you also want to innovate ? G.C. – Looking for the “truth” is a limit. If you think of yourself as an “artist”, you become an enemy to yourself. Art is discipline and improvisation, study and intuition, foreseen and unexpected. In this natural balance of senses, each one of us has the chance to build his own language. Usually I sit at my piano and play. My first dialogue is with the keyboard, it’s my personal translator, my interpreter. With it and through it I speak a new language, I discover that music sets a journey of wonder moving timid steps, riding fast in the nervous system and finally unloading its energy on to the keys. The wonder is in being able to push the right ones, in the right way. The quest can be then articulated in guitars, sounds, games, experiments, rhythm, rattles, voices and (hardly ever!) words. The aspect that interests me more of music language is its “universality”, it can bring together human beings of different origin, culture, vision. Being able to create a musical language that can stimulate human relations is be the biggest challenge for our culture, perhaps.Personally this pushes me towards the collaboration with various artists, different musicians and it becomes another motivation to grow up, to innovate and face new challenges. O.C. – Sure. I think that in any artistic field there exists this type of communication and the possibility of sharing creative inputs or at times even some unpredicted technical difficulty. No work occurs from scratch, it is accomplished. Architectural composition structure, for instance, is the result of a series of exchanges and confrontations between different minds. The projects undergoes phases and transformations before it comes to its final definition. In any good architecture, whether physical or musical, control and improvisation coexist, otherwise its structure collapses! Concerning the relationship between sound and image that you mentioned before, I am interested in the connection between music and visual art. When you listen to music you can usually picture an image in your head. We can say that the opposite occurs in your work: you are asked to compose a soundtrack to an existing video. How does it happen in cinema business? G.C. – I have no idea of how it works for famous composers such as Santaolalla, Morricone, Newman, Teardo, Desplat, Kilar, Catalano, Glass, Greenwood, Tiersen and many others - but I know that each colour, each phrase or sentence possesses an inner melody - its own music in a way - like any other thing in the world. Finding its corresponding sound means getting in touch with that peculiar world, that particular story and its characters. It means becoming at the same time actor, scene, word, tale. It means achieving a small miracle for yourself and for the story. A documentary for example - much more so than a fiction movie- holds a truth that

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needs to be found and revealed through music. In both cases, what makes the difference and sets the pace in a good soundtrack (seen as the sum of all sounds and voices of the film) is the style. Being able to compose a good music with a proper style, your own personal language. O.C. – What happens when you and the other actors come into play, from a more technical point of view? G.C. – Post-production music of a film is the result of a series of meetings with all the professions involved. The composer shares opinions in primis with the director and through these inputs he activates the composing process. Subsequently, he’s confronted by the editor and narrative structure, by the producer and organization issues, by the sound designer and sound enriching; finally by the sound editor and the correct balance between music and sounds. To all this, add the cooperation with other musicians, authors, editors and other players. O.C. – Has you art ever suffered from contract restrictions? G.C. – It’s hard to answer this question: art – as I’d like to see it and produce it - is not always a means of financial support. To cultivate art, I try to be realistic and accept the contract restrictions with serenity. Whether you do it for money or passion, music has to move the audience, no matter if it’s a commercial spot or a film. This helps me to accept the restrictions you mentioned. O.C. – I try to think that many great artists have given their best when their creativity was as big as their financial difficulties. G.C. – True. I am well aware that a professional gratification doesn’t always correspond to financial remuneration but I also think that you have to live your passion and not let it limit you or make you miserable. O.C. – In your experience, do you prefer working alone or in a team? G.C. – I am going through a “solitude” phase right now, since I move so often. And I am mainly cooperating with musicians in film industry. But I do feel the need to share artistic experiences with other musicians, because I think that working with a group, in a team, means growing up. There’s a time and place for everything, though. I don’t like working through internet or mail, I prefer face to face. O.C. – I agree with you. Progress can be an obstacle, it can build distances. How would you define the times we are living as to the quality and type of music produced or listened to, especially from younger generations? G.C. – We are going through a long dark tunnel, where chaos is the rule. Music has always been a big matter for debates and formal or substantial critiques, but right now Music seems to be subject

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also to exploitation and demolition: a victim of digital codes and algorithms. We are the simulators generation! We simulate everything. And we forget that Music should be a spur to cultural evolution of individuals. It is very important, then, to protect the quality of creativity, avoiding the ordinary: fading out two previously selected 4/4 tracks, is not music. In the past, I used to buy CDs (especially second-hand) and often would judge by the cover, thus sometimes I would be very disappointed and other times totally excited. Now, with the new generation of supports, I surf on stereomood, spotify, soundcloud, lastfm, bandcamp etc. I choose my fields, though, and prefer listening to “In the court of the Crimson King” on my turntable at home! O.C. – Rethinking the past will perhaps give us a key to interpret it and understand its values. As a student before and as an architect now, I strongly feel this crisis. Our time has the need for new creative energy, as you suggested, and thus I try to investigate my roots and origins. The places where we are and we live in, can be another source for innovation. Where do you feel you are more at ease, what kind of place you like more? G.C. – In train. Traveling, because I feel I AM moving in a direction. It calms me down, mentally, it protects me. I concentrate more and I live more naturally. I feel closer to what is flowing behind the glass. Traveling by train makes me grasp the importance of time flowing, of what we leave behind. It is also difficult to imagine myself well-established somewhere, right now. My work, my passions, my needs, request and allow that I move all the time, with a suitcase in one hand. I have the chance to open up to new experiences – anywhere. I am forced, at the same time, to communicate with friends, through mail, a slave to agendas and organizers. I wonder, then, is it possible to “plan” the desire for a beer with a friend? You can’t drink a beer on skype!!! This is why my album is titled “CONNECTION”: the need to cherish long-time human relationships, despite distance, work or commitments. O.C. – It seems relevant, especially since we have proved that your work is inspired by everyday life and is not only the result of recording studio sessions. Ideas, influences, relationships (the core of our reality, for good or worse) need human contact, real and not only virtual. I think that you should strive to protect your physical contact with reality (the beer you mentioned) especially as a musician: a con-temporary artist lives at the same time different experiences in different places, and draws inspiration from them. Furthermore, the train could be the perfect tool to capture many ideas that come to surface, moved by the vehicle. G.C. – You got a point. My music reflects my life and my relationships. The train is not only a means of transport but also the bonding agent for family, friends, work… a non-place where I can concentrate and where – paradox – I feel master of my time. Outside, everything else goes by but on that seat there’s only me and my goals. Life IS movement, after all.

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www.paroladarte.altervista.org The independent blog of Parola d’Arte

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A r C h i t e c t u r e - a r t - l i t e r at u r e - m u s ic

not regular, non-salable and independent - autumn 2014 - year I - n째 01


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