PdA #3 The new popular cities pt.2

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CREDITS

sommario

FOUNDING ORAZIO CARUSO, SEBASTIAN DI GUARDO

editoriale .................................................... 04 la (nuova) città popolare 2. caruso

EDITORIAL STAFF ORAZIO CARUSO, SEBASTIAN DI GUARDO

ADDRESS VIA PIO VII 64, ROME, ITALY

CONTACTS architettandocontacts@gmail.com BLOG http://paroladarte.altervista.org/

ISSN 2421-7239 (assegnato il 15/09/2015)

NUMBER THREE

intervista #3 ....................................................... 06 ma che città? s. di guardo intervista emmanuele pilia intervista #4 ....................................................... 11 città popolare ieri oggi e domani. o. caruso intervista saverio massaro intervista #5 ....................................................... 16 dalla città alla musica. s. di guardo intervista daniele coccia intervista #6........................................................ 20 l’io della città. s. di guardo intervista francesco lipari

DATE SPRING 2015

TRANSLATIONS Haluk Joshua Gurel, Laura Dumbrava, Luigi Cavallo, Orazio Caruso COVER #3 A (new) popular city, 2 by Francesca Marinelli

character designer, 2D animator http://issuu.com/bluoltrenuvola What is Parola D’Arte? A collection of articles , essays and / or interviews selected by the publishers , divided into thematic and structured in the form of a magazine . These collections are organized into booklets , they have periodic nature nor any profit.

The sale of all or part of the material is forbidden. Each image or track is shown citing the author . Each interview is presented with the express permission of the interviewee . Reproduction of any material , including texts and images contained in this report is forbidden except with the express consent of the authors or citing the author himself more explicitly.

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contents editorial ...................................................... 28 the (new) popular city 2. translation: o. caruso e l. dumbrava interview #3 ....................................................... 29 but what city? translation: o. caruso e l. dumbrava interview #4 ....................................................... 31 popular city yesterday, today and tomorrow. translation: o. caruso and h. joshua gurel interview #5 ....................................................... 34 from city to music. translation: luigi cavallo interview #6 ....................................................... 36 the I of city. translation: luigi cavallo


LA (nuova) CITTA’ POPOLARE 2 the (new) popular city 2


LA (NUOVA) CITTA’ POPOLARE 2

Federico Fellini, Roma, 1972, Ultra Film, Les Productions Artistes Associés

In questo numero di Parola d’Arte, ci siamo affidati a contributi esterni, intervistando due giovani architetti, Saverio Massaro (Esperimenti Architettonici) e Francesco Lipari (OFL; Cityvision), un critico di architettura, Emmanuele Pilia e un cantautore, Daniele Coccia de Il Muro del Canto. Dalle quattro interviste viene fuori un importante contributo per il tema che abbiamo scelto già dal numero precedente, La (nuova) Città Popolare, le cui riflessioni sono di grande attualità e drammaticità al tempo stesso. E’ sorprendente notare come da quattro personalità diverse come quelle degli intervistati emergano una serie di risposte molto legate in fondo, da sentimenti comuni, da una voglia di reagire o interagire con la città, seppure con temperamenti e modalità molto differenti. Effetti negativi della globalizzazione e periferie come luogo estraneo alla città, fenomeno dell’emarginazione, sentimenti di rabbia, nostalgia, ironia, alienazione positiva nell’arte, sono alcuni dei temi trattati in queste pagine. L’ottusità delle persone al cambiamento viene letta talvolta come valore positivo di autodifesa, talaltra come peggior difetto per l’evoluzione della città. C’è un ovvio riferimento ai muri culturali generati dalla paura, che talvolta impediscono una spontanea mescolanza di genere e quindi spesso una possibile evoluzione dei popoli e dei luoghi. Emerge la questione dell’ingorgo legislativo che impedisce il processo di evoluzione della città, o

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perlomeno pare deviarlo verso un’evoluzione dagli effetti disastrosi. E’ sempre presente il riferimento al fallimento storico dell’Urbanistica. Si prova a dare una connotazione attuale alla Città, cercandone un possibile significato nelle sue origini storiche, considerandola come si manifesta oggi quale complesso di congestioni materiali e flussi immateriali da un lato e di venerandi centri storici da proteggere, dall’altro. Architettura Popolare, Città Popolare.. si cerca ancora una volta di relazionarsi a queste espressioni, fondamentali per la nostra ricerca, per cercare di capire il loro senso attuale, nell’arte del mestiere, così come nella politica, nella gestione del territorio, delle leggi e come tutto ciò condiziona in maniera diretta e indiretta lo spazio pubblico in particolare. Si parla inoltre di processi di riattivazione dei centri storici tramite laboratori e iniziative promosse da giovani professionisti che intendono approcciare al mestiere dell’ Architettura in maniera inedita. Si danno delle definizioni o perlomeno si prova a delineare i contorni dei difficili concetti di Realtà e Utopia, si fa riferimento a nuovi stimoli architettonici ed emozionali, con progetti realizzati e già vincitori di concorsi, anche a livello internazionale, con l’incentivo ad occuparci della nostra città come della nostra felicità. Emerge un sentimento di fondo, talvolta esplicito talvolta sottinteso: la nostalgia. E mi viene da citare una delle scene finali de La grande Bellezza di Sorrentino quando Carlo Verdone, nel suo monologo teatrale fa un fervido elogio della nostalgia, appunto, come unico baluardo per riscattarci, forse, da un presente di mediocrità ed aspirare al sogno, per superare i nostri limiti e le nostre paure. E’ un numero intriso di emozioni. Buona lettura!

Case di Sant’Elena, appezzamenti A e D, prospettiva dall’alto, 1925, Archivio storico Ater Venezia

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MA CHE CITTA’? RESILIENZA VS RESISTENZA

Dialogo con Emmanuele Pilia, critico di Architettura, su passato presente e futuro della città.

S.D.G. Cerchiamo per prima cosa di inquadrare il soggetto della discussione, di metterlo a fuoco. Parleremo della città: aggregato urbano, insieme di persone.. fenomeno. La città per l’architetto, e per il critico di Architettura. Che cos’è per te Emmanuele? E.P. Cominci con una domanda banale, ma solo all’apparenza; è come chiedere a un matematico cos’è un numero. Potrei risponderti che la città è là dove i flussi si raggrumano, ma prima di discutere di questo ritengo utile definirla un caso storico. Come sappiamo, essa nasce per motivi militari -soprattutto difensivi- come spazio intra moenia, dove ricevere protezione e concentrare le forze.

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S.D.G. Interessante notare, nel Rinascimento, come la comparsa dell’artiglieria sul campo di battaglia abbia avuto come conseguenza la costruzione di possenti mura dalla pianta stellata che condizionarono pesantemente la forma della città stessa. E.P. In un breve periodo però l’artiglieria moderna rese inutili le mura. Nel XIX secolo, epoca della Rivoluzione industriale, le mura vengono smantellate e la città assume una nuova ragione d’esistere come mercato. Oggi la situazione è ancora diversa e dobbiamo adottare altri criteri di giudizio. S.D.G. Un cambiamento di epoca. E.P. È facile riscontrare che nell’800 l’eclettismo ha assunto una grande importanza quale stile architettonico. Ai nostri giorni, molti architetti e urbanisti affrontano il tema del linguaggio impostandolo come un problema di mode, un insieme strutturato di modi di agire e pensare che in qualche modo facilitano le scelte ma le banalizzano. Quando persino il problema della sostenibilità diviene moda, allora non mi stupisco se a ciascuno sembra lecito seguirne una propria e personale. Un caso emblematico è stato il concorso per il nuovo museo di Helsinki, per il quale sono stati presentati moltissimi progetti con una incredibile varietà di linguaggi diversi in lotta per la vittoria. In pratica, ne facciamo ancora un problema di ordini architettonici. S.D.G. Siamo quindi d’accordo che l’architetto dovrebbe ragionare in termini più seri e impegnati, e approfondire tematiche inedite. Su quali dinamiche contemporanee ti stai concentrando in particolare? E.P. Per esempio, gli ambiti geopolitici. Conoscerai per certo il muro che separa Palestina e Israele, o quello tra Messico e Stati Uniti; ma non dobbiamo guardare tanto lontano, un muro simile c’è anche a Padova e separa gli immigrati dalla “gente comune”. S.D.G. Nel recente libro che hai scritto con Alessandro Melis, “Lezioni dalla fine del mondo”, lasci intendere che le nostre città non riescono a rispondere ai loro problemi più attuali, e il muro di Padova ne è l’esempio, quasi una metastasi urbana. Certo, la colpa come dicevamo è anche del nostro modo di pensare. Che cosa blocca l’evoluzione delle nostre città? Mi sembra di capire che la caratteristica principale dei nostri aggregati urbani sia la resistenza, che è il contrario della resilienza che invochi. E.P. Proprio così, ma attenzione: resistenza delle cose, ma anche delle persone, non-adattabilità. Persino il corpus legislaivo, in Italia, è scarsamente capace di evolversi e perfezionarsi in tempi brevi, complicando spesso la situazione, divenendo obsoleto in poco tempo. Deve anche essere chiaro che non si tratta solo di scarsa capacità del legislatore: al contrario, a volte la legge è istituita ad uso e consumo di chi, a conti fatti, ne trae guadagno, e quindi non ha interesse al cambiamento. In questo senso, le nostre leggi funzionano benissimo! S.D.G. Dovremmo quindi abolire ogni regolamento edilizio? È una tentazione. Anche l’abusivismo, come ogni cosa, può avere dei pregi. Se ogni regola può assumere un valore positivo o negativo in

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Tokyo Metabolizing, a concept movie produced for the Japanese Pavilion at the 12th Venice Biennale, held between 29 August and 21 November, 2010 in Venice, Italy. The work had been offered to WOW by architect Ko Kitayama, the commissioner of the Japanese Pavilion, and is based on the Pavilion’s concept “Tokyo Metabolizing,” which is expressive of the unique way in which the city of Tokyo has expanded. Aerial photographs of Tokyo were incorporated, and rendered to appear as a fix-point observation footage taken over a long period time. The work captures houses and buildings appearing and disappear- ing one after another, representing the city of Tokyo as a living metabolizing organism.

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maniera relativa, potremmo affidarci al solo buon senso. E.P. No, lo escluderei. L’urbanistica non tollera l’anarchia, e molte leggi tutelano realmente la salute pubblica dalla speculazione come dalla stupidità. Però questo non toglie che le nostre leggi producono immobilismo, e lo fanno in parte volutamente. È anche un gioco perverso che consiste nel creare una sfera di protezione, ma prevedendo anche il modo per eludere il controllo. Un piacere quasi erotico. S.D.G. Mi ricordi il progetto My Masochism, che entrambi abbiamo seguito per Cityvision. Forse grazie a quel progetto, per la prima volta, abbiamo cominciato davvero a renderci conto di quanto il meccanismo del sadomasochismo sia rilevante nel campo dell’Architettura e dell’urbanistica. E.P. Un piacere che potrei definire voyeuristico parlando di legislazione. Lo immagino anche come piacere all’autopreservazione. S.D.G. Riguardo agli interventi decisi a-priori, ricordo che in “Lezioni..” si discute, per esempio, delle abitazioni collettive e mi ha molto colpito la vicenda di Pruitt-Igoe e del suo fallimento. Cosa ti è rimasto più impresso di quell’episodio? E.P. Quanto poco esso abbia insegnato, specie all’urbanista europeo. Pruitt-Igoe era un aggregato urbano per neri, costruito per eliminare le bidonville del dopoguerra e demolito proprio mentre in Italia si costruiva Corviale. Un periodo della storia americana in cui la legge perseguiva la segregazione razziale e quindi urbana. S.D.G. Ecco un caso di intervento che ha fini non condivisibili: segregazione, contenimento, e ancora, abbiamo parlato di motivi economici, commerciali. Che cosa dovremmo pensare di chi ha questi obbiettivi, così lontani dalla resilienza che auspichiamo invece per il futuro della città? E.P. Non formulerò un giudizio, ma ricordiamoci del fatto che queste persone sono come me e te, e i loro scopi sono gli effetti della natura umana più profonda; dobbiamo stare attenti quando tutto ciò viene a galla. S.D.G. A questo punto, mi preme davvero una domanda: la città deve evolvere e farlo in fretta, perché altrimenti rischia il collasso di fronte alle sfide della nostra epoca? E.P. Ne sono fermamente convinto! S.D.G. Allora si pone un’altra domanda: cosa tuteleremo del passato, escludendolo da questo processo evolutivo? E.P. Non risponderò stavolta, perché penso che porsi questo problema significhi scadere inevitabilmente nel meccanismo della nostalgia. Ciò è inevitabile e credo che occorra essere coraggiosi per immaginare il futuro.

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S.D.G. In “Lezioni..” con Alessandro Melis parlavate del progetto Zombiecity, una città immaginata come comunità chiusa in perenne emergenza, creata per fronteggiare un’invasione globale di zombie. Un pretesto per parlare di resilienza allo stato puro? E.P. Si, anche davanti a situazioni estreme o impensabili. Per capire come sciogliere il nodo della resistenza, sociale e materiale: Genova, Rosarno.. quelle tragedie derivano da questo problema che non è affatto astratto, anzi contiamo già le vittime di questi atteggiamenti malsani. S.D.G. Avremo presto altre pubblicazioni su questo tema? E.P. Posso anticiparti qualche novità: pubblicheremo il nuovo libro di Léopold Lambert, “Topie Impitoyable”, “Luoghi terribili”, sul rapporto perverso tra città politica e corpi.. nonchè un nuovo libro su Zombiecity, con riflessioni ancora più approfondite. Saranno due libri molto “puri e crudi”. Vogliamo essere incisivi! S.D.G. E credo sia davvero il momento di esserlo, grazie Emmanuele.

Civita di Bagnoregio, Viterbo. E’ detta “la città che muore” - foto S. Di Guardo

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CITTA’ POPOLARE IERI OGGI E DOMANI Videochat con Saverio Massaro, di Esperimenti Architettonici Disponibile presso il nostro canale Youtube. O.C. Partiamo da te. Chi sei, di che ti occupi? S.M. Sono originario di Altamura in Puglia, ho studiato Architettura alla Sapienza laureandomi nel 2013 con il prof. Antonino Saggio e sono dottorando di ricerca in Teoria e Progetto. Faccio ricerca e svolgo attività di assistente alla didattica con la prof.ssa Anna Giovannelli all’interno del Laboratorio di Progettazione Architettonica 1 e del corso di Architettura degli Interni. In maniera complementare all’attività accademica proseguo un’attività di ricerca e sperimentazione in Puglia che nasce nel 2011, quando insieme a due amici ancora studenti organizzammo un’e-conference intitolata “Tre giorni d’architettura”, mettendoci in gioco e contestualizzando le nostre passioni per l’architettura; ricordo che soffrivamo in particolare la mancanza di occasioni nel nostro territorio..da allora si è aperto per me un mondo inaspettato. Da queste esperienze si è costituita poi l’associazione Esperimenti Architettonici della quale sono il presidente. A Roma collaboro inoltre con due realtà: faccio parte del gruppo nITro_New Information Technology Research Office, fondato da giovani architetti formatisi con Antonino Saggio, in qualità di social trainer e co-direttore della rivista web On/Off Magazine e sono uno dei soci di Urban Esperience, un’associazione di promozione sociale. In questa fase tendo a non occuparmi in maniera specifica di progettazione architettonica, ma più di dinamizzazione culturale e attivazione di processi urbani, sviluppando attitudini e competenze nel settore web piuttosto che nella progettazione tout court comunemente intesa. O.C. Cominciamo subito con la città. Nel passato come oggi si è parlato spesso di architettura popolare; nel numero precedente di Parola D’arte, ci siamo avvicinati invece alla definizione di città popolare, cercando di com-

prendere, in maniera più ampia, tanto la scala architettonica domestica che quella di quartiere, distretto, etc. Una visione più allargata direi .. tu cosa ne pensi? S.M. E’ chiaro che la definizione dell’aggettivo stesso popolare può creare giudizi tendenziosi da parte di chi lo interpreta: può riferirsi ad esempio in maniera esclusiva alla scala dell’edificio e può avere un riferimento storico ben preciso, come può essere ad esempio il Neorealismo..dall’altro lato, per quanto riguarda le mie esperienze, mi fa pensare a una serie di processi all’interno della città, cioè le dinamiche con cui tu abiti o puoi trasformare la città stessa. Un concetto come quello di prossemica mi sembra pertinente, perché rimanda alla giusta interdipendenza che ci deve essere tra la natura propria dell’essere umano, dell’abi-

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tante, e le caratteristiche proprie dell’ambiente fisico, lo spazio pubblico, il verde, etc. Alcuni fattori quali le giuste proporzioni, i rapporti di equilibrio, le relazioni fisiche e immateriali sono decisive e credo contribuiscano ad ottenere risultati importanti, perché meglio percepiti da parte degli abitanti. Un altro aspetto da non trascurare è la manualità, l’artigianato con cui sono stati realizzati parti di un edificio o della città. La “componente umana” arricchisce il contesto di storia e di significato. Ampliando il discorso, possiamo attualizzare la riflessione associando il concetto di città popolare a un luogo in cui si generano processi di cittadinanza attiva e in cui sorgono spazi per il co-design, nodi diffusi che contribuiscono a innestare maggior consapevolezza da parte dei cittadini. Per chiudere potremmo dire: una città popolare coincide con una città più consapevole. O.C. Nel progetto per la tua città Altamura, SOTTANINRETE ( a cura dei docenti Marco Terranova, Marco Lampugnani, Domenico Di Siena ) di cui sei coordinatore, si rivalorizzano i sottani cioè i luoghi che in genere ospitavano le botteghe artigiane o le abitazioni al piano terra, soprattutto nel sud Italia. Che funzione possono avere oggi i sottani nel contesto cittadino? Collante ideale tra l’edificio e la strada, questi sono (da sempre) un ottimo posto per relazionarsi.. S.M. Premessa: il progetto è promosso dall’associazione Esperimenti Architettonici e altre realtà attive in Puglia (Pophub, Vuoti a Rendere, Coompany, Fork in Progress, LUP-Laboratorio di Urbanistica Partecipata, Hericool Digitools) con i quali abbiamo promosso un Laboratorio dal Basso, finanziato dalla regione per realizzare attività, workshop, che dessero un impulso all’imprenditorialità creativa e sociale. Nel 2013 questo network, tutt’oggi

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attivo, ha promosso Reactivicity Old spaces / New uses, incentrato sulla riattivazione creativa del patrimonio urbano dismesso. Nel caso di Altamura durante il primo anno del progetto abbiamo iniziato con attività di brainstorming in un cantiere aperto di sperimentazione con relative passeggiate urbane (collaborando con Carlo Infante-Urban Experience e Fedele Congedo-Città Fertile) al termine del quale abbiamo formulato alcune proposte progettuali; tra queste vi era l’idea di lavorare assieme su alcune parti peculiari del centro storico e in particolare sui sottani. Questi spazi sono oggi una grande risorsa poco utilizzata e hanno, di conseguenza, perso valore. Abbiamo deciso di puntare su questi spazi anche perché sono una concreta opportunità per tutti quei giovani che come noi, svolgono delle professioni creative e che, rispetto al passato, hanno molte più possibilità di avviare una propria attività lavorativa grazie alle potenzialità del web e del digitale. Questi luoghi rappresentano allo stesso tempo un ponte con le tradizioni e gli antichi mestieri artigiani.Un altro livello di ricerca è quello della relazione con lo spazio urbano, infatti alcuni di questi sottani si trovano all’interno di cortili, i claustri, che hanno una discreta qualità architettonica in termini di proporzioni, rapporti di vicinato, illuminazione naturale e di fatto, se adeguatamente valorizzati, trasformano lo sguardo sul centro storico che può così costituire una risorsa per l’intera città. Sottaninrete è inserito come uno dei moduli del laboratorio Reactivicity Reloaded, giunto alla seconda edizione nel 2014, durante il quale di abbiamo cercato di sviluppare delle strategie per questi spazi che sono stati via via mappati sulla piattaforma web pophub.it (progetto vincitore del bando Smart Cities and Social Innovation del MIUR). Inoltre, con Marco Terranova abbiamo


Fasi del modulo #Sottaninrete durante il laboratorio Reactivicity Reloaded (2014)

realizzato un elemento fisico, un kit di riattivazione polifunzionale e open source, grazie al quale stiamo costruendo una community di riattivatori, creando le condizioni affinché questo valore sociale emerga e si inneschi un processo virtuoso sia per i privati sia per la pubblica amministrazione. I risvolti futuri che intravediamo per questi spazi sono molteplici. Possiamo parlare di una possibile staffetta tra l’attuale cultura dei makers, cosiddetti “artigiani digitali”, e i mestieri artigiani del passato che vanno progressivamente scomparendo, così come possiamo immaginare che i sottani possano trasformarsi in cantine collaborative. Secondo queste o altre ipotesi di ri-funzionalizzazione, resta il fatto che essi possano svolgere un ruolo di coesione sociale per gli abitanti e possano offrire nuove occasioni per i progettisti. O.C. Ti faccio una domanda difficile: Come debbono porsi i giovani architetti nei confronti di una realtà urbana che si evolve sempre più in maniera caotica e incontrollata? S.M. Fin da quando ero studente, mi sono sempre interessato al processo che c’è dietro la realizzazione di un intervento architettonico, più che alla forma finale di quest’ultimo. Il mio ruolo di collaboratore didattico inoltre mi ha aiutato a comprendere come l’università, spesso, spinga lo

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Kit di riattivazione #sottaninrete in adozione presso alcuni spazi

studente a concentrarsi maggiormente sulla forma del prodotto architettonico finale, trascurando la consapevolezza del processo che ci sta dietro e la relativa gestione. Tutto ciò penalizza non poco la figura del progettista, incapace di fronteggiare le sfide della vita reale, e diminuisce in generale la domanda di architettura. È questo che vorrei fosse all’attenzione soprattutto degli architetti più giovani: occuparsi di processi, tattiche, strategie, dei flussi immateriali che informano il progetto. Tutto ciò, certo, senza dimenticare la qualità materiale del progetto. Insomma ci spetta sì un ruolo di progettisti di spazi, com’è giusto che sia, ma anche di progettisti culturali. O.C. Adesso una domanda facile: tra tutti i luoghi in cui hai vissuto, anche per brevi periodi, ce n’e qualcuno che ti ha lasciato un particolare ricordo positivo? Se si, in che modo? S.M. Sono rimasto molto colpito dall’esperienza a Monaco di Baviera, città in cui ho vissuto per un anno durante l’Erasmus. Questa città rappresenta per me un ottimo risultato rispetto a quello che l’uomo, in particolare un buon progettista, può e deve mettere in campo. A Monaco lo spazio pubblico presenta una propria sacralità percepibile attraverso le modalità di fruizione dei cittadini, un decoro urbano diffuso ed un’attenzione progettuale per il dettaglio; inoltre non esiste la mole di barriere architettoniche a cui siamo abituati in Italia, non esiste il concetto di recinto, che tanta fortuna ha avuto e continua ad avere soprattutto negli ambiti teorici e poetici dell’architettura ita-

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Possibili configurazioni del kit di riattivazione #sottaninrete

liana. Il recinto crea invece molti limiti e disagi reali alla città e alle persone. In Italia, incentriamo l’attenzione più sullo spazio privato che su quello pubblico; esiste quasi una sorta di riserbo verso la collettività in generale e lo Stato stesso, è spesso percepito come un nemico. Insomma mi sembra chiaro che c’è un grande lavoro culturale da portare avanti. Ecco che la cultura dello spazio pubblico, nel concetto di città popolare non può non avere ripercussioni. Mi rendo conto che basta guardare fuori dalla nostra porta di casa per vedere quanto abbiamo in maniera progressiva disimparato cos’è e come si costruisce una città e quanto sia trascurato in maniera notevole lo spazio pubblico. Da ogni piccolo dettaglio artigianale alla macro scala, tutto ciò che è fuori sembra essere incontrollato, selvaggio.

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DALLA CITTA’ ALLA MUSICA Intervista a Daniele Coccia, cantautore romano delle band “Il Muro del Canto” e “Surgery”.

Daniele Coccia ed Elio Germano cantano per la band romana “Il Muro del Canto” - foto: Gloria Angelini

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S.D.G. I testi dei Surgery e del Muro del Canto hanno toccato più volte il tema della città, penso a “Siamo animali” e a “500” su tutti. In quale zona sei cresciuto e che influenza ha avuto, se ne ha avuto, sul tuo percorso artistico? D. C. Io sono cresciuto e ancora vivo in provincia di Roma. A Guidonia. Questo ha sicuramente influito sul mio percorso personale ed artistico. La mancanza di spazi culturali e aggregativi é stata, negli anni dell’adolescenza, la causa di una sorta di alienazione positiva attorno alle mie passioni: la scrittura e la musica. Una fortunata reazione al nulla circostante. In provincia, rispetto alle grandi città, i ragazzi che approcciano l’arte lo fanno con maggior rabbia e con una passione smodata. In più questa sorta di isolamento, la mancanza di un confronto con altri autori o musicisti, aiuta a sviluppare, spesso, connotati di spiccata originalità. Può non essere il mio caso ma ho molti buoni esempi. S.D.G. Nella canzone Palazzinari, del vostro ultimo lavoro Ancora ridi si fa riferimento ai quartieri dormitorio della periferia romana e di come questi siano dei recinti di indifferenza e distacco dalla città per chi ci vive… Credi che le periferie facciano davvero parte della città, nonostante siano spesso luoghi smarriti e di smarrimento? Cosa ti ha insegnato la periferia romana in generale? D. C. Qui rispondo in veste di autore e cantante de Il Muro del Canto, specificandoti però che il testo di “Palazzinari” è stato ben scritto da Alessandro Pieravanti (batterista e voce narrante della band). Le periferie dovrebbero far parte della città ma molte di queste effettivamente sono dei satelliti malserviti, dimenticati dalle amministrazioni e lasciati alla deriva. Quelle che, venti o trent’ anni fa erano consi-

derate periferie, sono state fortunatamente assorbite dalla città; crescendo insieme all’ottusità con la quale questo processo é avvenuto. La cosa che ho imparato osservando da vicino queste zone è un risveglio popolare fatto di solidarietà e autogestione. In questi dimenticatoi urbani molta gente si sta adoperando per supplire alla colpevole assenza dello Stato, costruendo il futuro per qualcosa di migliore che vedrá i propri frutti nella Roma di domani. S.D.G. A volte da alcuni testi come “Erba cattiva”, o “Habitat” e dal video di queste canzoni, la città sembra un luogo tenebroso, un baraccone di specchi deformanti, e le maschere dei Surgery dei “segnali di guerra”. Che differenza c’è in questo caso con la tua esperienza del Muro del Canto? D. C. Ne Il Muro del Canto il linguaggio e l’immaginario cercano di rievocare un passato e una civiltà irrimediabilmente perduta con la globalizzazione. C’è quasi una visione ostinata nella rievocazione di quello che abbiamo perduto: umanità, civiltà e il senso di appartenenza alla comunità. Nei Surgery abbiamo cantato questo declino da vicino facendone vedere le ferite ancora aperte. Le due visioni di città sono completamente diverse. Nella prima si stava con la chiave alla porta, quasi che la città fosse un’estensione della famiglia. Nell’imaginario dei Surgery la città è preda di nuove epidemie alla fine dei giorni e della civiltà umana. S.D.G. Nei tuoi testi in particolare prevale più un senso di rabbia o di nostalgia? D. C. Le due cose vanno di pari passo. Sono due componenti innate del mio carattere e fortunatamente non le uniche. S.D.G. Nella recente intervista a Repubblica

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parli della positività e dell’ironia che contraddistinguono i Romani e gli italiani in generale. Tutto ciò può essere, in fondo, un meccanismo di autodifesa, un modo molto creativo di sconfiggere il male o di oscurarlo..

che sociali (come la chiacchierata da bar) che assorbono tutto e tutti. Vuoi raccontarci di questo perché speri in una presa di coscienza o perché ti affascina in quanto lo consideri una realtà immodificabile?

D. C. L’atteggiamento ironico aiuta l’individuo nella vita di tutti i giorni. Aiuta il romano come l’eschimese ma i grossi problemi della gente non possono essere sconfitti sdrammatizzando. L’ironia può aiutarci nelle difficoltà, può renderci amabili agli occhi degli altri, ma non può ricostruire una società né sconfiggere o oscurare il male.

D. C. Una presa di coscienza collettiva a questo punto della storia del nostro paese sarebbe naturale, ma non mi aspetto che questa possa arrivare. Non mi aspetto un cambiamento della mentalità delle persone perché nel sistema presente l’Italiano ha tutto quello che gli é sempre andato a genio: una buona dose di tollerabile corruzione personale, un’ipocrita adesione alle tradizioni correnti e un senso dell’avvenire che sopravvive alla giornata costruendo un baratro per le generazioni che verranno.

S.D.G. Hai mai immaginato una Roma ideale (e positiva) del futuro? Se sì, dicci come la immagini, se no, dicci perché. D. C. La Roma che vorrei la immagino come ad Agosto, quando tolte dai piedi le migliaia di vetture che ogni giorno l’assaltano sembra tutto più chiaro. Mi piace associare idealmente Roma alla notte; perché di notte è stata cornice di molte belle avventure. Mi piacerebbe ritrovare ancora la città dei vecchi film, la gente di una volta. Non è più così, possiamo rievocarla ma i tempi sono cambiati e a nostro favore abbiamo la nostalgia e l’archeologia. Non vedo un bel futuro perché nel tempo ho conosciuto solo peggioramenti e credo di essere realista a prevederne di ulteriori. S.D.G. Più volte parlando di architettura abbiamo approfondito il ruolo delle periferie nell’evoluzione del tessuto sociale. Questo tema non sembra toccarti, ma parlando della “maledizione” cioè di un meccanismo immutabile e “magico” in senso negativo, in realtà ti avvicini a quello che noi abbiamo chiamato recentemente “resistenza”: la resistenza al cambiamento di mentalità, a quelle dinami-

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S.D.G. Sempre più violente manifestazioni sociali, anche a Roma, sembrano andare nel senso della “resistenza”. Pensi che le nostre città devono trovare una via “resiliente” cioè divenire capaci di duttilità per assorbire delle spinte distruttrici, o pensi che sia proprio la capacità tutta romana di “buttarla in caciara” l’arma segreta che assicurerà il perdurare di questa situazione? D. C. Io non vedo resistenza in giro. Quelli che lottano sono una sparuta minoranza e qualche volta vincono qualche battaglia. Dovremmo intraprendere una vera e propria guerra a sostegno della riorganizzazione della vita moderna e a favore di una sopravvivenza dignitosa garantita: la casa, il lavoro, la qualità dell’aria, delle acque, del suolo e dei cibi, dell’istruzione e della sanità. Una guerra da affrontare con tutto il popolo e non con solo quelli che storicamente “resistono”. A buttarla in caciara ci pensano dall’alto. Dal basso glielo permettono. La spinta distruttiva è sicuramente in vantaggio rispetto al buon senso.


S.D.G. Quale sarà il prezzo sociale di tutto questo? D. C. Il prezzo sociale è la depressione di ogni impulso verso lo sviluppo di una attività individuale e verso la procreazione. Certe politiche stanno estinguendo gli Italiani. Non so esattamente quale delle due personalità abbia risposto a questa domanda e non credo di vedere nessuno pronto con l’antidoto… almeno per i prossimi anni.

Momenti di un concerto de “Il Muro del Canto”, Roma, 14/01/2012 - foto: S. Di Guardo

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L’IO DELLA CITTA’ Intervista a Francesco Lipari, architetto emergente fra Sicilia, Roma e Los Angeles.

S.D.G. Quale percorso vi ha portato a pensare alla vostra idea personale di città del futuro? F. L. E’ stato un percorso molto naturale. Il nostro studio d’architettura OFL Architecture, coordinato insieme a Vanessa Todaro, si è fatto promotore di un’iniziativa importante in questi anni che porta il nome di Cityvision. Oltre ad immaginare differenti possibilità abitative studiando ed investigando città dal sapore antico ma con una loro vocazione al futuro, Cityvision si è posta l’obiettivo primario di migliorare la quotidianità dei cittadini partendo dallo studio della città di Roma nella quale abbiamo scelto di svolgere la nostra professione di architetti. Se vivi a Roma non puoi restare indifferente al degrado e alla disperazione in cui versano cittadini ed abitazioni da diversi anni a questa parte.

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Oltre all’infelicità dei loro abitanti che spesso utilizzano le strade per sfogare le proprie frustrazioni quotidiane, sembra quasi di sentire le voci strazianti di edifici trascurati o menomati da scarsa lungimiranza tecnico-creativa. Scopo di Cityvision è allora quello di compensare questi squilibri attraverso la diffusione di nuovi stimoli architettonici legati alla diffusione di una nuova cultura contemporanea, grazie alla bellezza grafica di un magazine cartaceo (free press per arrivare anche a chi non è architetto) e l’organizzazione di concorsi ed eventi internazionali che hanno coinvolto migliaia di architetti entusiasti da tutto il mondo e personaggi del calibro di Ai Weiwei solo per citare il nostro ultimo presidente di giuria. La città oggi dovrebbe essere la nostra prima preoccupazione quando ci svegliamo.


Il mondo corre ad una velocità che non sappiamo controllare, è evidente. Per questo ognuno di noi dovrebbe vivere la propria quotidianità seguendo due istinti: uno reale e uno utopico. In particolare l’utopia che non è, come facilmente si crede, pura fantasia. L’utopia sono i nostri sogni, i nostri limiti, le nostre ambizioni, quel posto intimo in cui tutti noi vorremmo vivere per sfuggire alla dura quotidianità. Ma allo stesso tempo l’utopia è qualcosa di reale; non è altro che l’esasperazione di un’idea concreta, un’ampia radura di creatività all’interno della quale andare alla ricerca e trovare la matrice del nostro progetto, del nostro sogno da realizzare. E’ come guardare il meraviglioso quadro di Bruegel “Salita al Calvario”, con un primo colpo d’occhio scandagliarne ogni singola veste rossa dei soldati e l’apparente tranquillità delle sue colline per poi essere morbosamente attratti da un piccolo mulino che sembra non aver nulla a che vedere con tutto il resto e che invece è il baricentro artistico di tutto il quadro e quindi l’idea che cercavamo e che con difficoltà avremmo potuto individuare senza tutto il resto. Dietro i progetti e i disegni delle avanguardie post moderniste, Superstudio e Archigram ad esempio, così come dietro l’intero progetto Cityvision c’è la denuncia di una condizione, soprattutto professionale, che vogliamo a tutti i costi migliorare. S.D.G. Dallo scorso dicembre, allo spazio Livreri e alla Farm Cultural Park di Favara (AG) avete esposto e presentato “La Città Emozionale”, il risultato del vostro straordinario percorso. Cos’è la Città Emozionale?

F. L. È un sogno. È una città fatta di cittadini che partecipano alla cosa pubblica e che soprattutto sono felici, si emozionano. La città emozionale non è una nuova città ma una “sovracittà”, un congegno da applicare alla città consolidata che convive con tutti i suoi difetti, ma che è pronta a cambiare e farsi accompagnare in un processo rigenerativo. Siccome non può farlo da sola, allora si affida a meccanismi (progetti) immersivi artificiali e naturali che, attraverso il loro messaggio immediato e naturale, costruito attraverso una partecipazione multidisciplinare nella quale musica, agricoltura, sociologia, matematica, psicologia, biologia e tecnologie social regalano al cittadino una nuova visione e quindi fiducia. La Città Emozionale è dunque un progetto sull’architettura delle emozioni. Scopo della sua ricerca è quello di realizzare architetture ancestrali e universali capaci di generare emozioni nelle persone e (ri)generare condizioni sociali e spaziali prive della capacità di creare relazioni positive (ho di recente letto “L’architettura della città” di Aldo Rossi ed ho ritrovato molte assonanze nella sua idea idea di città e archetipi). Per applicare concretamente la tesi de La Città Emozionale occorre dapprima effettuare una mappatura emozionale della città esistente allo scopo di identificare uno schema emozionale ricorrente grazie alla ricostruzione dei principali meccanismi comportamentali dell’uomo, frutto della raccolta di emozioni intime (positive o negative) che i luoghi visitati e le discipline investigate ci trasmetteranno, grazie anche alla partecipazione di professionisti e cittadini. Questi ultimi esprimeranno l’autentica sostenibilità del progetto, in quanto preziose “micro-infrastrutture”, capaci

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di interagire con la città e il progetto stesso, condividendo esperienze e informazioni fondamentali. Verranno così individuate quelle aree da rinnovare attraverso la giusta architettura emozionale che diventerà così uno strumento partecipativo di rigenerazione urbana dal grande carattere terapeutico. La Città Emozionale fonda le sue basi teoriche sugli studi condotti da OFL in sinergia con Cityvision e su precedenti esperienze architettoniche di successo come Sainthorto e Wunderbugs che ne sono le sue prime architetture emozionali. Esse sono rispettivamente un giardino interattivo e un auditorium per insetti ed esseri umani, entrambe architetture pluripremiate con l’Architizer Award per il carattere innovativo della sua interdisciplinarità e della sua esperienza collaborativa e protagoniste delle prime due edizioni della Maker Faire Europe a Roma. In entrambe le architetture vengono messe in relazione capacità ed esperienza dal passato con sistemi informatizzati e modalità architettoniche di oggi, sensibilizzando il cittadino verso il mondo di insetti e piante, insieme ad aspetti sociali, ecologici ed etici. Sia Sainthorto che Wundebugs sono come delle isole esperienziali che attivano i sensi per il benessere di persone, piante ed insetti. Spazi verdi dove incontrarsi e ritrovare se stessi che inviano messaggi sui social, si raccontano su internet e si innaffiano con un tweet. In un futuro immagino una città che all’inizio si doterà di tanti Sainthorto e Wunderbugs che, una volta aver guarito l’area che ne ha bisogno, verranno rimossi a vantaggio di nuove

aree da rigenerare. S.D.G. Mi sembra di capire che i vostri “superoggetti” non si limitano a esporre specie viventi , ma migliorano la percezione di esse? F. L. Un contesto globale come quello odierno, così irrisolto, determina uno straniamento corporale e sociale dell’uomo, unito ad un aumento dell’infelicità comune e ad una necessità di contatto umano non più rimandabile: l’automazione farà crescere la richiesta di intelligenza emotiva e sensibilità umana. Per questo avvicinarsi ed essere sempre più sensibili verso il mondo delle piante e soprattutto degli insetti (che rappresentano il 75 per cento degli esseri viventi e che potrebbe addirittura essere il cibo del futuro) è una cosa che non possiamo più permetterci di ignorare e per questo dovremmo integrarli sempre di più nei nostri progetti per sottolinearne appunto la loro importanza per la sussistenza di noi essere umani (o animali) su questa terra che vogliamo a tutti i costi consumare. S.D.G. Non bastava allora tornare alla natura, staccare la rete elettrica, vivere come nel passato? F. L. Ovviamente no. Il cambiamento va ricercato in una corretta progressione del futuro come mediazione fra umanità e tecnologia. Di questo argomento ci siamo occupati molto negli ultimi due anni e in particolare nei concorsi sul futuro di New York e Beijing. Il primo aveva lo scopo di individuare un’immagine diversa della Grande Mela attraverso un rapporto fra tempo e spazio. Mentre in Beijing abbiamo affrontato il tema dell’evoluzione dell’uomo come priorità all’evoluzione tecnologica. Il tutto con un taglio altamente architettonico. La natura è il punto di partenza di ognuno di

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noi, il primo punto di riferimento estetico che si insinua in maniera naturale nella nostra mente e che ci permette di iniziare un percorso di riconoscibilità che ci porterà ad identificare la Bellezza e in noi architetti a concepire edifici che abbiano la giusta sensibilità nell’impiego di materiali, forme, memoria e tecnologia. S.D.G. Come continuerà questo percorso? F. L. E’ questa solo la fase iniziale del progetto. Vogliamo ideare altre architetture emozionali e allo stesso tempo aprire il progetto a chiunque abbia voglia di condividere questa esperienza. S.D.G. Ma alla fine, verrà realizzata questa Città Emozionale, intendo, in pianta stabile? Sarebbe bello viverci! F. L. Magari! In realtà una città emozionale esiste già ed è dentro ognuno di noi. Basta essere attivi e attivisti della propria città e non considerarla solo come qualcosa da utilizzare e maltrattare senza dare nulla in cambio. La Città Emozionale non è una vera e propria città. Come detto la definisco più che altro un semplice plug-in da applicare ad una condizio-

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ne esistente di disagio urbanistico e sociale. Non abbiamo bisogno di creare nuove città, ne tanto meno di creare delle comunità del tutto distaccate in stile hippy. Non dobbiamo isolarci all’interno di un recinto dal quale poi inevitabilmente guarderemmo tutti dall’alto perché la quotidianità della vita è un’altra cosa. Mi rendo conto che potrebbero sembrare solo belle parole ma oggi esistono molte possibilità che la tecnologia ci offre legate allo sviluppo di progetti partecipativi di e-goverment, ed è in questo settore che soprattutto noi architetti dovremmo fare la differenza, concependo molti più progetti partecipativi che includano la sinergia con altre discipline. Questo anche per una ormai necessaria ibridazione del nostro mestiere che da solo non basta visto che in Italia può svolgersi soltanto ritagliandoti una nicchia professionale con tanta fatica oppure avendo le mani in pasta con la politica con tanta facilità. S.D.G. La Città Emozionale sarà quindi piena di questi “superoggetti”. Ma le case degli esseri umani? F. L. Le case, internamente, devono continuare ad essere costruite allo stesso modo in cui vengono concepite da migliaia di anni. Non ri-


esco ad immaginare di dover dormire in un’altra posizione o di dovermi ricaricare all’interno di un sarcofago posto in verticale come nei film tipo Io Robot.. Dovrebbe probabilmente esserci uno studio più attento, da parte di chi le case le progetta, alle abitudini di chi le andrà a vivere per non ripetere gli errori post modernisti di pensare che tante case messe insieme fanno comunione ed aumentano l’empatia. L’umano è per sua natura individualista e difficilmente accetta delle scelte super imposte. Questo non vuol dire che le amministrazioni locali non debbano prendere scelte impopolari. Un’architettura non finisce mai con la fase di cantiere e perdura oltre gli anni e i secoli subendo cambiamenti ed adeguamenti sulla base di nuove abitudini e stili di vita dei suoi abitanti. S.D.G. Le case di oggi sono costruite da gran-

di imprese che possono concentrare i capitali necessari. Avete pensato a questo aspetto? A volte penso che la città non sia di chi davvero la abita. Secondo voi di chi è la città? F. L. Mi viene in mente JOCU un progetto animato con uno stile da bambino che abbiamo realizzato in occasione della nostra prima personale in Sicilia e che si ispirava inconsciamente ad un disegno che feci all’età di sei anni dal titolo “La città Felice”. Probabilmente il mio disegno è quel mulino del quadro di Bruegel che mi ha portato a concepire l’idea della Città Emozionale. L’animazione di Jocu era la denuncia di un vero e proprio stupro nei riguardi delle nostre città da parte di “palazzinari” schiavi delle loro ambizioni di conquista del territorio e senza alcuna vocazione e sensibilità nei riguardi della natura che spesso vanno a deturpare.

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Lo script del film recitava: “Esiste una città dove le persone vivono tra natura rigogliosa e un’architettura contemporanea che li rende felici. All’orizzonte incombe la città oscura: grigia e triste. E’ la città infelice, gente avvezza ad un’architettura di vecchio stampo e restia ad ogni cambiamento; schiavizzata dalla mediocrità di coloro che insistono in un conservatorismo sfrenato e che giorno dopo giorno ne rallentano il suo naturale divenire. L’unico scopo del loro capo, “Mister C”, è quello di distruggere la città felice. Dopo bombardamenti e fucilazioni, la città contemporanea (felice) è ormai ridotta ad un cumulo di macerie e i suoi abitanti fatti a pezzi. I sopravvissuti però non si perdono d’animo e decidono di ricostruire gli “OFL buildings” e i suoi abitanti. Decidono infine di vendicarsi, rendendo felici i loro carnefici.” Per comprendere a pieno il senso del film bisogna vederlo, questo è il link: www.bit.ly/jocu_ita I disegni del film, a cura di Emanuele Capponi, sono stati la nostra prima esperienza di animazione emozionale. Una città felice veniva rasa al suolo da un gruppo di strenui conservatori (i palazzinari), incapaci di vedere la bellezza dietro un’idea non convenzionale o un processo progettuale innovativo che gli avrebbe magari portato meno soldi in saccoccia ma avrebbe permesso alla città di respirare una boccata di nuovo ossigeno architettonico attraverso il quale vivere meglio dentro e fuori. JOCU è sostanzialmente la nostra amara quotidianità, un classico gioco delle parti in cui i potenti sono pronti a picchiare, mordere e fare a pezzi chiunque si opponga alle loro vecchie idee, disposti a veder bruciare la propria città pur di non consegnarla a chi vorrebbe renderla migliore.

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St. Horto visitato da una scolaresca, esposizione Maker Faire 2013, Roma, Palazzo dei Congressi - foto: S. Di Guardo

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THE (NEW) POPULAR CITY 2 In this issue of Parola d’Arte , we relied on outside assistance interviewing two young architects, Saverio Massaro (Esperimenti Architettonici) and Francesco Lipari (OFL; Cityvision), an archi¬tecture critic , Emmanuele Pilia and a songwriter, Daniele Coccia from Il muro del Canto . The four interviews represent an important contribution to the theme which we have chosen since the previous issue, the (new) Popular City whose reflections are topical and dramatic at the same time. It is amazing how four different personalities like those of the respondents emerge a series of answers very tied down by common feelings, a desire to react or interact with the city, although it possesses very different temperaments and modes. Negative effects of globalization and the suburbs as an unknown place

to the city, the pheno¬menon of exclusion, feelings of anger, nostalgia, irony and positive alienation in art are some of the topics covered in these pages. People’s dullness for change is sometimes viewed as a positive value of self-defense, sometimes as a fatal flaw for the evolution of the city. There is an obvious refe¬rence to the cultural walls generated by fear which sometimes prevent a spontaneous mix of gender and therefore often a possible evolution of people and places. We talk about legislative engorgement that prevents the evolution process of the city or at least seems to push a disastrous evolution. It is always present the reference to the historical failure of city planning .We try to give a current connotation to the City looking for a possible meaning in its historical origins, considering how it manifests today as a complex of material and immaterial flows on one side and the venerable old towns to protect to the other. Popular Architecture, Popular City… trying once again to relate to these expressions, fun¬damental for our research , trying to understand their present sense, in the job, as well as in politics, in the management of the territory, laws and how this affects directly and indirectly the public space in particular. We also talk about processes of reactivation of the old towns through workshops and initia¬tives promoted by young professionals who want to approach the profession of Architecture in a new way. It will give a definition or it will try to outline the meanings of the difficult concepts of Reality and Utopia, with reference to new architectural and emotional incitement, competitions projects already won by the winners, also international, with the final incentive to take care of our city as our happiness. It emer¬ges a basic feeling sometimes explicit sometimes understood: nostalgia. And I have to mention one of the final scenes of The Great Beauty of Sorrentino when Carlo Verdone in his solo performance makes an eulogy of nostalgia as the only bulwark to redeem us, perhaps, by a present of mediocrity and aspire to the dream to overcome our limitations and our fears .It is a number of intense emotions. Enjoy the reading!

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BUT WHAT CITY?

Resilience VS Resistance Dialogue with Emmanuele Pilia, architecture critic talking about the past, present and future of the city S.D.G. Let’s firstly try to focus on the matter of the conversation. We are going to talk about the city: urban aggregate, an ensemble of people…a phenomenon. The city for the architect and for the architecture critic. What is for you Emmanuele? E.P. You are starting with a trivial question but only in appearance; it is like asking a mathematician what a number is. I may answer you that the city is the place where the flows are clotted. But before talking about this, I consider it an historic case. As we know, it born for military reasons, especially for defensive ones, such as intra moenia space where protection and concentrated forces can be received. S.D.G. It is interesting noting how during Renaissance the appearance of artillery on the battle field had as a consequence the construction of powerful walls from the star shaped plant which heavily gave a form to the city itself. E.P. For a short period of time, however, modern artillery made the walls useless. In the 19th century, Age of the Industrial Revolution, the walls were dismantled and the city assumed a new reason of existing as a market. Nowadays, the situation is more different and we should adopt other judgement criteria. S.D.G. A change of Age. E.P. It is easy to find out that in 800 eclecticism assumed a great importance regarding the architectonic style. In our times, many architects and city planners deal with the topic of language setting it up as a popular problem, a structured ensemble of ways of reacting and thinking that in some way of another these ways facilitate the choices but still trivialize them. When even the problem of sustainability becomes popular then I am not surprised at all if everyone seems allowed to follow their own and individual one. An emblematic case was the competition for the new museum of Helsinki for which many projects with an incredible variety of different languages had been carried out in the battle for victory. Practically, we still have a problem from an architectonic view. S.D.G. So, we agree that the architect should think in a more serious and engaged way and plunge more into inedited themes. On which dynamic contemporary themes do you especially concentrate? E.P. For instance, on geopolitical environments. You certainly know the wall that separates Palestine from Israel, or the one from Mexico to USA; but we must not look far away, a similar wall is to be found also in Padova and it separates the immigrants from the common people. S.D.G. In your latest book which you have written with Alessandro Melis, “Lezioni dalla fine del mondo”, you make us understand that our cities are not able to answer to their most actual problems,

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and the wall of Padova is an example, it is almost a metastasi urbana. Obviously, it is also, as we have said, the fault of our way of thinking. What does block the evolution of our cities? I seem to understand that the main characteristic of our aggregated urban is the resistance, which is the contrary of the resilience that you mention. E.P. It is indeed like that, but be careful: resistance of the things, but also of the people, non-adaptability. Even the legislative corpus, in Italy, is slightly able to evolve and improve itself in a short period of time by often complicating the situation and becoming obsolete immediately. It must be also clear that it is not only about the poor ability of the legislator: on the contrary, sometimes the law is established for the usage and consume of those who, with their methods, draw gain and therefore they are not interested in changes. In this way, our laws function very well! S.D.G. Should we therefore abolish any building rule? It is a temptation. Also the abusiveness, like any other thing, might have a quality. If any rule can assume a positive or negative value in a relative manner, we may trust our own good sense. E.P. No, I would exclude it. The city planning does not tolerate anarchy and many laws actually defend the public sanity from the speculation such as stupidity. But this does not eliminate the thing that our laws produce immobility and they make it deliberately. It is also a pervert game which consist of creating a sphere of protection but preventing also the way to dodge the control. An almost erotic pleasure. S.D.G. You remind me of My Masochism project which both of us have followed for City Vision. Perhaps thanks to that project, for the first time, we seriously start to comprehend how the sadomasochism mechanism is relevant in the architecture and urban field. E.P. It is a pleasure that I may define it voyeuristic when talking about legislation. I imagine it also as a pleasure for self-preservation. S.D.G. Regarding the decided measures, I remember that in “Lezioni…” we talk about, for example, collective houses and the story of Pruitt-Igoe and his failure really shocked me. What remained mostly imprinted for you from that episode? E.P. How little did he teach, mostly European city-planner. Pruitt Igoe was an urban aggregate for black people and constructed to eliminate shantytowns after the war and then demolished while actually in Italy Corviale was going to be built. It is a period of the American history in which law persecuted the racial segregation and therefore urban. S.D.G. Here a case of intervention which has unacceptable objects: segregation, restraint, and still, we have talked about economic and commercial reasons. What should we think of those who have these aims so far away from resistance we desire for the future of the city? E.P. I won’t formulate any judgement but we should remember the fact that these people are like me

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and you and their purposes are the effects of the most profound human nature; we must pay attention when all of this comes to the light. S.D.G. At this point, I am interested in a matter: Must the city evolve and make it quickly, because otherwise it risks the collapse in front of the challenges of our age? E.P. I am absolutely convinced! S.D.G. Then another question arises: What will we preserve from the past by excluding it from this evolutionary process? E.P. I won’t answer this time because I believe that the question of this problem means an inevitable declining into the mechanism of nostalgia. This thing is inevitable and I think we need to be brave enough in order to imagine the future. S.D.G. In “Lezioni…” with Alessandro Melis, both of you have talked about the Zombiecity project, which is a city seen as a closed community in perpetual emergency created to face the global invasion of the zombies. Is it an excuse to talk about the pure state of resilience? E.P. Yes, in front of extreme and unthinkable situations too. In order to understand how to solve the matter of social and material resistance: Genova, Rosarno…these tragedies are the result of this problem which is not abstract at all, on the contrary, we already count the victims of these unhealthy attitudes. S.D.G. Are we going to have soon other publications on this topic? E.P. I might anticipate you some news: we are going to publish the new book written by Léopold Lambert, “Topie Impitoyable”, “Terrible Places”, concentrated on the pervert relationship between the political city and shapes…and a new book about Zombiecity with much more deepened reflections. There will be two “pure and raw” books. We want to be influential! S.D.G. And I do believe that it is time to be like that. Thank you Emmanuele.

POPULAR CITY, YESTERDAY TODAY AND TOMORROW Videochat with Saverio Massaro

O.C. – Let’s talk about you. Who are you , what kind of work do you do ? S.M. – I’m from Altamura in Puglia , I studied Architecture at Sapienza University, graduating in 2013 with Antonino Saggio and doing PhD in Theory and Design. I am also doing research and thus

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contributing to the teachings of Professor Anna Giovannelli, in the First Designing laboratory and Interior Designing course.In parallel with academic i have been continuing an activity that started in Puglia in 2011, when, together with two friends, students at time, we organized an unconference called “three-day of architecture” in wich we contextualized our passions; I remember that we suffered, in particular, from the lack of opportunities in our area.. Since then an unexpected world has opened to me. From these experiences was born the Architectural Experiments association of which i am president. Furthermore I belong to nlTro Information Technology Research Office group, founded by young architects formed together by Antonino Saggio, as social trainer and co – editor of the web On / Off Magazine and one of the members of Urban Esperience, a social promotion association.I tend not to deal specifically with architectural design, but most of the cultural dynamics, activation processes and I have developed skills and competencies mostly on the web rather than in the design tout court commonly understood . O.C. – Let’s talk about the city . In the past, as today, one often hears about popular architecture ; in the previous issue of Word Of Art , we approached instead the definition of popular city, trying to understand , in a broader way , both the domestic architectural scale than that of district . I mean, a broader view.. what do you think ? S.M. – Well, the popular adjective itself can create wrong judgments depending on how it is used: for example, it can refer exclusively to the scale of the building and may have a very specific historical reference, such as neorealism .. on the other hand , regarding to my experiences, it makes me think of a number of processes within the city, that is, the dynamics with which you live or transform the city itself. A concept such as proxemics seems relevant to the issue because it refers to the just interdependence that should be between the nature of a human being, of the people, and the the building characteristics, the public space, the greenery , etc. In design this is what counts: the right proportion, balance, the material and immaterial relationships; all that is important and contributes to the important results, because it is best acknowledged by the inhabitants.Another aspect to not forget is the craft with which a part of a building or the city was made. These handmade items enrich the context of history and meaning .Broadening the speech , we saying that the popular city is a place where you activate participating dynamic processes, co –design spaces, everything that can engage more awareness , more citizen participation. So, finally, we could say: popular city, means an acknowledged city. O.C. – In the project for your city Altamura , SOTTANINRETE (edited by teacher Marco Terranova , Marco Lampugnani , Domenico Di Siena ) of which you are the coordinator , you are trying to revalue the basements, namely the places that typically housed the craft shops or homes, especially in southern Italy .What function can basements have today in the city context ? Ideal connection between the building and the road , these are ( always ) a great place for relationships .. S.M. – First of all: the project was started by the Association Esperimenti Architettonici and other organizations working in Puglia (Pophub, Vuoti a Rendere, Coompany, Fork in Progress, LUP-Laboratorio di Urbanistica Partecipata, Hericool Digitools) with wich we promoted a laboratory from below, (funded by region) for activities, workshops, which gave an impetus to the creative and regional social levels of entrepreneurship. In 2013 this network, still active today, organized a workshop called

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Reactivicity Old Spaces / New Uses which focused on the creative reactivation of decommissioned urban heritage. During the first year of project in Altamura we started with brainstorming activities in an open yard of experimentation with relative urban walks and other proposals; (collaborating with Carlo Infante – Urban Experience and Fedele leave Fertile – City ), after which we made ​​some project proposals; one of these was the idea of working together on some parts of the peculiar historical center and particularly on the basements . These environments are a great resource now rarely used and have, therefore, lost value . We decided to focus on these areas that represent a real opportunity for all those young people who, like us, do creative professions and who have, rather than the past, thanks to new digital tools, more opportunities to start their own work. These places, at the same time, represent a connection with traditions and ancient crafts .Another level of research is the relationship with the urban space; for example, some of these basements are inside courtyards, cloisters, which have a good architectural quality in terms of proportion, neighborly relations, natural lighitng. If properly exploited, these spaces transformed the look of the old town which can serve as a resource for the entire city. Sottaninrete was one of the modules of laboratory Reactivicity Reloaded , (second edition in 2014) in which we tried to develop strategies for these spaces that were gradually mapped on the web platform pophub.it ,(project winner of MIUR competition Smart Cities and Social Innovation ). Moreover , with Marco Terranova we made a physical element, a reactivation polifunctional and open source kit, thanks to which we are building a reactivators community, creating conditions for which this huge social value emerges and create an improving process both for individuals and for public administration .The future that we see is manifold. We can talk about a link within the current creative professions, such as the makers movement, digital artisans, somehow combined with the crafts (gradually disappearing), as we imagine that the basements can become collaborative cellars. Anyway these spaces may remain functional to relationships or represent new opportunities for designers . O.C. – A difficult question : How should the young architects face an urban reality that is evolving more and more in a chaotic and uncontrolled way? S.M. – Since i was a student, I have always been interested in the process behind the creation of an architectural intervention , rather than to the final form of the latter. My role as teaching collaborator also helped me to understand how the university, often encourages the student to focus only on the final shape of the architectural product, neglected awareness of the process behind it, and its management. Everything penalizes designers, unable to meet the challenges of real life, and decreases in general the request of architecture . It is this that I would like to bring to the attention of younger architects: deal with processes, tactics, strategies, anything immaterial, that is how you can come to a project path between the difficulties it entails. All this, of course, without forgetting the quality of the project. We expect a role of space designers (rightly), but also of cultural designers. O.C. – Now an easy question : among all the places where you have lived , even for short periods , is there someone who has left a positive memory? If yes, how? S.M. -I was very impressed with my experience in Munich, in wich i lived for a year of Erasmus. This city, for me, is a great result compared to what the man, especially a good designer, can and should put in place. In Munich, public space has its own sacredness, you see on how the citizens use it, and

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a common urban decor and design attention to detail. Also there are no architectural barriers that we are used in Italy. There is no concept of the fence, that luck has had and continues to have instead in Italy, especially in the fields of theoretical and poetic architecture. The fence creates many limitations and real inconveniences to the city and people. In Italy, we focus attention on the more private space than on the public; There is almost a kind of reticence towards society in general and the state itself, it is often perceived as an enemy. In short, I mean: there is a great cultural work to be carried out .So, the culture of the public space, with regard to popular city, is very important. I realize that by just looking out the door one will see how we have progressively forgotten what it is and how to build a city and are left with only an overlooked public space. From every detail crafted to the macro scale, everything outside seems to be uncontrolled, wild .

FROM CITY TO MUSIC

Interview to Daniele Coccia, roman songwriter. S.D.G. The lyrics of Surgery and Il Muro del Canto concerned several times the theme of the city, I think of ‘Siamo animali’ (‘We are animals’) and ‘500’ above all. In what place did you grow up and what about its influence, if so, over your artistic career? D.C. I grew up and still live in Province of Rome. In Guidonia. This has definitely influenced over my personal life and artistic career. The absence of cultural and meeting spaces has been, in the adolescence, the cause of a sort of positive alienation around my passions: writing and music. A fortunate reaction against the surrounding nothingness. In province, compared to big cities, young people who approach art do it with bigger fury and excessive passion. Moreover this sort of isolation, the lack of an exchange of views with other authors or musicians often help to develop very original features. Maybe it’s not my case, but I’ve got a lot of good examples. S.D.G. The song ‘Palazzinari’ (‘Apartment Blocks Builders’), in your last album ‘Ancora ridi’ (‘You Still Laugh’), refers to dormitory suburbs of Rome and how those are fences of indifference and detachment from the rest of the city for those who live there… Do you think suburbs are part of the city, although they are often lost and dismay places? What did suburbs of Rome teach you in general? D.C. I answer this question acting as author and singer of Il Muro del Canto, specifying that Alessandro Pieravanti (drummer and narrator of the band) did write the lyrics of ‘Palazzinari’. Suburbs should be part of the city, but many of these are actually poorly served adrift satellites, forgotten by the Government. Those places which twenty or thirty years ago were considered suburbs have been fortunately absorbed by the city, growing up together with the stupidity of this process. What I’ve learnt by watching closely these areas is a popular awakening made of solidarity and self-management. In these urban oblivions many people are working to make up for the guilty absence of the Government, building the future for something better which will bear fruit in the Rome of tomorrow. S.D.G. Sometimes in some lyrics, such us ‘Erba cattiva’ (‘Weed’) or ‘Habitat’ as well as their videos,

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the city seems a gloomy place, a sideshow of distorting mirrors, and the masks of Surgery ‘signs of war’. What is the difference in this case with your experience in Il Muro del Canto? D.C. In Il Muro del Canto the language and the imaginary try to commemorate a past and a civilization which are irremediably lost ‘cause of globalization. There is almost an obstinate commemoration of what we have lost: humanity, civilization and sense of belonging to community. In Surgery we sang closely this decline showing its still open wounds. Two completely different visions of the city. In the first one you used to leave your door key on, almost like the city were an extension of the family. In the Surgery’s imaginary the city is in the grip of new epidemics at the end of human civilization’s days. S.D.G. What is in your lyrics more dominant, a sense of fury or nostalgia? D.C. Both of them go hand in hand. They are innate part of my character and fortunately not the only ones. S.D.G. In the recent interview for La Repubblica you talk about positivity and irony which mark Romans and Italians in general. All this can be, after all, a mechanism of self-defence, a very creative way to defeat evil or obscure it… D.C. Ironic approach helps individual in his everyday life. It helps the Roman as well as the Eskimo, but the big problems of people cannot be defeated by minimizing. Irony can help us for problems, can make us lovable in the eyes of others, but cannot rebuild a society, nor defeat or obscure evil. S.D.G. Have you ever imagined an ideal (and positive) Rome of the future? If so, please, tell us how you imagine it, if not, tell us why. D.C. I imagine my ideal Rome like in August, when, without the thousands of cars which everyday storm it, everything is clearer. I like to ideally associate Rome to the night, because by night it has been frame of many nice adventures. I’d like to find still the city of the old films, the old people. It’s not like this anymore, we can commemorate it, but times have changed and in our favour we have nostalgia and archeology. I don’t see any good future because in the time I have known only worsening and I think to be realistic to envisage further. S.D.G. Several times talking about architecture we explored the role of suburbs in the evolution of social fabric. This theme seems not to concern you, but talking about ‘curse’, an immutable and ‘magic’ mechanism in the negative, actually you approach what we have recently called ‘resistance’: resistance to mentality change, to those social dynamics (like bar chats) that absorb everything and everybody. Do you want to tell us about this ‘cause you hope in awareness or because it fascinates you as you consider it an immutable reality? D.C. A collective awareness at this point of the history of our Country should be obvious, but I haven’t got any expectation about. I don’t expect any mind-changing because in the present system the

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typical Italian has got all that all along sits well with him: a good dose of endurable personal corruption, a hypocritical adhesion to current traditions and a sense of future which survives hand-to-mouth building a chasm for generations to come. S.D.G. Increasingly violent social demonstrations, also in Rome, seem to go in the direction of “resistance.” Do you think that our cities have to find a “resilient” way that is becoming capable of adaptability to absorb destructive pushes, or do you think the secret weapon which will ensure the continuation of this situation is just the Roman ability to skirt the matter? D.C. I can’t see any resistance around. Those who struggle are a small minority and sometimes they win some battles. We should start a real war in support of the reorganization of modern life and in favor of a decent guaranteed life: house, job, quality of air, water, soil and food, education and health. A war to deal with all the people, not just with those who historically ‘resist’. From above they skirt the matter. Bottom allows. The destructive push is definitely ahead compared to common sense. S.D.G. Please tell us what will be the social price of all this. D.C. The social price is the depression of each impulse to the development of an individual activity and to procreation. Certain policies are extinguishing the Italians. I don’t know exactly which of the two personalities have answered this question and I reckon not to see anyone ready with the antidote… at least for the next few years.

THE I OF CITY

Interview to Francesco Lipari, architect. S.D.G. What was the path which led you to think about your personal idea of city of the future? F.L. It was a very natural path. Our architectural firm, OFL Architecture, coordinated with Vanessa Todaro, has promoted an important initiative in recent years called Cityvision. In addition to imagine different housing opportunities, studying and investigating cities from the ancient taste, but with a vocation to the future, Cityvision aims primarily to improve the daily lives of people starting from the study of the city of Rome, where we chose to practice as an architect. If you live in Rome, you cannot remain indifferent to the degradation and desperation of people and buildings for several years now. In addition to unhappiness of their inhabitants who often use roads to vent their daily frustrations, it seems to hear the buildings’ harrowing voices, neglected or damaged by poor technical-creative vision. Purpose of Cityvision then is to offset these imbalances spreading new architectural ideas related to

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the spread of a new contemporary culture, thanks to the graphical beauty of a paper magazine (free press to get to those who is not an architect) and the organization of international competitions and events which have involved thousands of enthusiastic architects from all over the world and personalities like Ai Weiwei just to mention our last president of the jury. The city today should be our first concern when we wake up. The world runs at such a speed that we evidently cannot control. This is why everyone should live their daily lives according to two instincts: a real one and an Utopian one. In particular, the Utopia which isn’t, as we easily suppose, pure fantasy. Utopia is our dreams, our limitations, our ambitions, that intimate place where we all want to live to escape the harsh everyday life. But at the same time Utopia is something real; it is nothing more than the exasperation of a concrete idea, a large clearing of creativity in which to go to research and find the matrix of our project, our dream to be realized. It’s like watching the Bruegel’s beautiful picture “The Procession to Calvary”, at first sight fathoming each soldiers’ red robe and the apparent tranquility of the hills and then being morbidly attracted by a small mill which seems to have nothing to do with everything else. That instead is the artistic center of gravity of the whole picture and therefore the idea we were looking for, that we would have hardly find without the rest. Behind the projects and designs of the post modernist avant-garde, Superstudio and Archigram, for example, as well as behind the whole Cityvision project there is the notification of a condition, especially professional, that we want at all costs to improve. S.D.G. Since last December, at Livreri space and at Cultural Park Farm in Favara (Agrigento – Sicily) you have exposed and presented “The Emotional City”, the result of your extraordinary path. What is the Emotional City? F.L. A dream. It’s a city made up of people who participate in public affairs who above all are happy, excited. The emotional city is not a new city but an “upper-city”, a device to be applied to the consolidated city which lives together with all its faults, but ready to change in a regenerative process. Since it can’t do it alone, then relies on artificial and natural immersive mechanisms (projects) which give the people a new vision and therefore confidence by their instant and natural message, built

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through a multidisciplinary participation such as music, agriculture, sociology, mathematics, psychology, biology, and social technologies. The Emotional City is therefore a project about the architecture of emotions. The aim of his research is to achieve universal and ancestral architectures capable of generating emotions in people and (re)generate social and spatial conditions without the capability to create positive relationships (I recently read “The Architecture of the City” by Aldo Rossi and I found many similarities in his idea of city and archetypes). Actually, to implement the thesis of The Emotional City first we must make an emotional mapping of the existing city to identify a recurrent emotional pattern thanks to the reconstruction of the main human behavioral mechanisms, the result of intimate emotions collection (positive or negative) that visited places and investigated disciplines will transmit to us, even thanks to professionals and people’s participation. The people will express the authentic sustainability of the project, since precious “micro-infrastructure”, able to interact with the city and the project itself, sharing experiences and vital information. The areas to be renewed will be identified through the right emotional architecture that will become an urban regeneration participatory tool with a great therapeutic character. The Emotional City theoretically bases on studies conducted by OFL in synergy with Cityvision and on previous successful architectural experiences such as Sainthorto and Wunderbugs which are its first emotional architectures. They are, respectively, an interactive garden and an auditorium for insects and human beings, both award-winning architectures with Architizer Award for the innovative nature of its interdisciplinary and its collaborative experience and protagonist of the first two editions of the Maker Faire Europe in Rome. In both architectures, skills and experience from the past relate with computer systems and today’s architectural modalities, sensitizing people to the insects and plants world, along with social, ecological and ethical aspects. Both Sainthorto and Wundebugs are like experiential islands which activate senses for insects, plants and people’s well-being. Green spaces where they can meet and find themselves which send messages to social networks and tell about themselves on the Internet with a tweet. In future I imagine a city that at first will set up many Sainthorto and Wunderbugs and that, once it had healed the area which needs to be healed, these will be removed in favor of new areas to regenerate. S.D.G. I think to understand your “super-objects” do not just expose living species, but improve the perception of them?

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F.L. A global context such as nowadays, so unresolved, causes a physical and social alienation of humans, combined with an increase of common unhappiness and a need for human contact you can’t postpone anymore : the automation will increase the demand for emotional intelligence and human sensitivity. That’s why approaching and being more sensitive to the world of plants and especially of insects (which represent 75 percent of the living beings and that may even be the food of the future) is something that we can no longer afford to ignore. That’s why we should integrate them more and more in our projects to underline precisely their importance for our (human beings or animals) subsistence on this planet we want at all costs to consume. S.D.G. Wasn’t it enough to get back to the nature than, to unplug power, living like in the past? F.L. Obviously not. The change has to be sought in a proper progression of the future as mediation between humanity and technology. In the last two years we have been dealing a lot with this subject, particularly for New York and Beijing competition for the future. The first one aimed to identify a different conception of the Big Apple through a relationship between time and space. Whereas in Beijing we have addressed the issue of the human evolution as a priority to technological evolution. All with a highly architectural slant. Nature is the starting point of each one of us, the first aesthetic reference point that creeps naturally into our mind and that allows us to begin a process of recognition that will lead us to identify the Beauty and in us architects to design buildings that have the right sensitivity in the use of materials, shapes, memory and technology. S.D.G. How will this path continue? F.L. This is only the initial step of the project. We want to design other emotional architectures and in the same time open the project to anyone who wants to share this experience. S.D.G. But eventually, will this Emotional City be realized, I mean, permanently? It would be nice to live there! F.L. Maybe! Actually an emotional city already exists and it is inside each of us. It’s enough being active and activists from his own town and considering it not only as something to use and mistreat without giving anything in return. The Emotional City is not a real city. As said before I call it a simple plug-in to apply to an existing condition of urban and social disadvantage.

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We don’t need to create new cities, nor to create completely detached hippie style communities. We must not isolate ourselves within an enclosure from which then inevitably we would watch everybody from above because everyday life is something else. I realize they might seem just beautiful words, but today there are many possibilities that technology offers to us related to e-government participatory projects making and it is right in this area that above all we architects should make a difference, conceiving many more participatory projects that include synergy with other disciplines. This is also now necessary for a hybridization of our business that is not enough because in Italy it can take place only by conquering a professional space with so much effort or having your hands dirty with politics so easily. S.D.G. The Emotional City will be therefore full of these “super-objects”. But what about humans’ houses? F.L. The houses, inside, should continue to be built in the same way they are designed for thousands of years. I cannot imagine having to sleep in a different position or having to recharge myself inside a sarcophagus placed vertically as in “I Robot”… There should be probably a more proper study, by those who design homes, about the habits of those who will live in them, not to repeat the post-modernist mistakes thinking that so many houses put together make communion and increase empathy. The human being is by nature individualistic and will hardly accept orders. I don’t mean local governments don’t have to take unpopular decisions. Architecture never ends with the construction phase and continues over the years and centuries undergoing changes and adjustments based on new habits and lifestyles of its inhabitants. S.D.G. Today houses are built by big Companies that can focus the necessary capital. Have you thought about this? Sometimes I think city is not for those who really live there. In your opinion who is the city? F.L. I think of JOCU a child style animation project we made ​​during our first solo show in Sicily which was inspired unconsciously to a drawing I did when I was six entitled “Happy city”. Probably my design is the mill of Bruegel painting that led me to conceive the idea of the Emotional City. The animation of JOCU was the complaint of an actual rape in regards of our cities by “building speculators”, slaves of their ambition of conquerors of territory and without any vocation and sensitivity towards nature that often go to disfigure.

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The film script says: “There is a city where people live between lush nature and contemporary architecture that makes them happy. The dark city looms on the horizon: gray and sad. It’s the unhappy city, people accustomed to an old architecture and reluctant to any change ; enslaved by the mediocrity of those who insist on an unbridled conservatism and who day by day slow down its natural evolution. The only purpose of their leader, “Mr. C”, is to destroy the happy city. After bombings and shootings, the contemporary city (happy) is now reduced to a pile of rubble and its people torn apart. The survivors, however, do not despond and decide to rebuild the “OFL buildings” and its inhabitants. Finally they decide to take revenge, making happy their executioners”. To fully understand the meaning of the film you need to watch it, this is the link: www.bit.ly/jocu_ita The designs of the film, edited by Emanuele Capponi, have been our first experience of emotional animation. A happy city was razed to the ground by a group of strenuous conservators (the building speculators), unable to see the beauty behind an unconventional idea or innovative design process that would have taken perhaps less money in their pocket, but would have allowed the city to breathe fresh architectural oxygen living better inside and outside thanks to it. JOCU is basically our bitter daily life, a classic party game in which the powerful is ready to hit, bite and tear apart anyone opposed to their old ideas, willing to see their city burn rather than hand it over to those who would make it better.

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A SPECIAL THANKS TO OUR GUESTS Emmanuele J. Pilia

Daniele Coccia Saverio Massaro

Francesco Lipari Francesca Marinelli

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www.paroladarte.altervista.org The independent blog of Parola d’Arte

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