Dialogo e accoglienza croazia

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DIALOGO E ACCOGLIENZA: POPOLI, RELIGIONI E CHIESE A CONFRONTO La sfida della fraternità universale

Carissimi amici, colleghi, studenti e fedeli, vi ringrazio sinceramente per avermi invitato a questo Convegno che si svolge nella bellissima Terra di Croazia che è tra due sponde, l’Oriente e l’Occidente, ove le speranze e il desiderio per la pace e l’unità tra i popoli e gli stessi cristiani, così come l’attesa per una convivenza fraterna, insieme a tanti conflitti e a tensioni del Novecento e degli inizi del nuovo millennio, costituiscono una memoria viva carica di autentici sentimenti di amicizia, di perdono, di dialogo, di accoglienza e di solidarietà1. C’è una fedeltà a Dio e alla terra che non possiamo disattendere e che non deve essere assolutamente tradita. Lì dove il cristiano è segno dell’amore di Dio per il bene del mondo e del prossimo, lì si costituisce concretamente – perché si rende visibile – la fraternità, quell’umano simbolico e relazionale, comunionale, capace di tessere sempre e nuove e autentiche relazioni interpersonali2. Abbiamo bisogno del dialogo tra le persone e le comunità di fedi differenti per rinsaldare il vincolo di amicizia e per lavorare assieme per la pace, l’unità, la solidarietà, soprattutto per aiutare le famiglie e le comunità di minoranza a integrarsi sul nostro territorio. In più occasioni, papa Francesco, prendendo a modello san Francesco e lo “spirito di Assisi”, ha affermato che «il dialogo ecumenico e interreligioso non è un lusso. Non è qualcosa di aggiuntivo o di opzionale, ma è essenziale, è qualcosa di cui il nostro mondo, ferito da conflitti e divisioni, ha sempre più bisogno. In effetti, le credenze religiose e la maniera di praticarle influenzano ciò che siamo e la comprensione del mondo circostante. Esse sono per noi fonte d’illuminazione, saggezza e solidarietà e in tal modo arricchiscono le società in cui viviamo». Infatti, prendendoci cura della crescita 1

Nell’ultimo sinodo pan-ortodosso che è stato celebrato a Creta dal 20 al 25 giugno 2016, sia nel Messaggio finale, sia nell’Enciclica conclusiva, si è posta l’attenzione all’unità dei cristiani, alla necessità del dialogo tra le religioni e dell’accoglienza dei migranti, come altresì al confronto con le minoranze religiose. Le Chiese ortodosse hanno deciso di convocare un Concilio ogni 7/10 anni e di mettersi in ascolto del dolore, delle angosce e del grido di giustizia e di pace dei popoli. Cf. Enciclica del santo e grande Sinodo della Chiesa ortodossa (Creta, 2016), nn. 6-18, in http://www.ortodossia.it/w/index.php?option=com_content&view=article&id=2301:enciclica-del-santoe-grande-sinodo-della-chiesa-ortodossa&catid=286:santo-e-grande-sinodo&Itemid=334&lang=it [ultimo accesso 4-4-2018]; Messaggio del grande e santo Sinodo ortodosso, nn. 2-8, in http://www.ortodossia.it/w/index.php?option=com_content&view=article&id=2296:messaggio-del-santoe-grande-sinodo-della-chiesa-ortodossa&catid=286:santo-e-grande-sinodo&Itemid=334&lang=it. Il Messaggio è stato firmato dai rappresentanti del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, del Patriarcato di Alessandria, del Patriarcato di Gerusalemme, della Chiesa di Serbia, della Chiesa di Romania, della Chiesa di Cipro, della Chiesa di Grecia, della Chiesa di Albania, della Chiesa di Cechia e di Slovacchia [ultimo accesso il 4-4-2018]. 2 «La Chiesa senza frontiere, madre di tutti, diffonde nel mondo la cultura dell’accoglienza e della solidarietà, secondo la quale nessuno va considerato inutile, fuori posto o da scartare. Se vive effettivamente la sua maternità, la comunità cristiana nutre, orienta e indica la strada, accompagna con pazienza, si fa vicina nella preghiera e nelle opere di misericordia»: (FRANCESCO, Messaggio per la 101ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato “Chiesa senza frontiere, Madre di tutti” [3-9-2014], in http://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/migration/documents/papafrancesco_20140903_world-migrants-day-2015.html [ultimo accesso 11-4-2018].

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spirituale delle nostre comunità, formando le menti e i cuori alla verità e ai valori insegnati dalle nostre tradizioni religiose, diventiamo una benedizione per le comunità nelle quali vive la nostra gente. «In una società democratica e pluralistica come questa, la cooperazione tra i leader religiosi e le loro comunità diviene un importante servizio al bene comune. In questa luce, e in un mondo sempre più interdipendente, si avverte con crescente chiarezza la necessità della comprensione interreligiosa, dell’amicizia e della collaborazione nel difendere la dignità conferita da Dio ai singoli individui e ai popoli, e il loro diritto di vivere in libertà e felicità. Promuovendo il rispetto di tale dignità e di tali diritti, le religioni interpretano un ruolo essenziale nel formare le coscienze, nell’instillare nei giovani i profondi valori spirituali delle rispettive tradizioni e nel preparare buoni cittadini, capaci di infondere nella società civile onestà, integrità e una visione del mondo che valorizzi la persona 3 umana rispetto al potere e al guadagno materiale» .

1. Partire dal basso Vorrei, nella mia relazione, questa volta, partire dal basso, ossia da quello che concretamente succede nel mondo. Essendo molto impegnato nel dialogo ecumenico e interreligioso sia in ambito accademico sia nel vissuto quotidiano4, non posso non ricordare e denunciare la grande persecuzione che le minoranze religiose stanno vivendo in questo momento nello Yemen, in Iraq, in Siria, in Iran. In particolare, il mio pensiero è per la comunità Bahà’ì che è perseguitata in Iran e, attualmente, nello Yemen. Qui, dando sfogo all’estremismo religioso, un fedele della comunità Bahà’ì è stato condannato a morte5. 3

FRANCESCO, Discorso a Nairobi per l’incontro ecumenico e interreligioso (26-11-2015), in https://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/november/documents/papafrancesco_20151126_kenya-incontro-interreligioso.pdf [ultimo accesso 12-4-2018]. 4 Mi permetto di rinviare ad alcune mie pubblicazioni: E. SCOGNAMIGLIO, Il volto di Dio nelle religioni. Una indagine storica, filosofica e teologica, Paoline, Milano 2001; ID., Catholica. Cum ecclesia et cum mundo, Edizioni Messaggero, Padova 2004; ID. [con B. NAAMAN], Volti dell’islâm post-moderno, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2006; I D. [con A. RUSSO], Vivere insieme nella nuova Europa. Il ruolo delle religioni, ECS, Napoli 2006; ID. [con A. TREVISIOL], Nel Convivio delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo millennio. Atti del Convegno Internazionale (Città del Vaticano 11/12-12007) organizzato dalla Pontificia Università Urbaniana e dal Pontificio Consiglio per la Cultura e per il Dialogo interreligioso, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2007; I D. [con B. NAAMAN], Islâm-îmân. Verso una comprensione, Messaggero, Padova 2009; ID., Dia-Logos. I. Prospettive. Verso una pedagogia del dialogo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2009; ID., Francesco e il Sultano. Lo spirito di Assisi e la profezia della pace, Messaggero, Padova 2011; ID., Dia-logos. Per una teologia del dialogo. II. Orientamenti, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2012; I D., Homo religiosus et symbolicus. Breve introduzione alla storia delle religioni, LDC, Leumann (Torino) 2012; ID. [con B. NAAMAN], Cristiani e musulmani in dialogo. Storia, teologia, spiritualità, LDC, Leumann (Torino) 2015; ID., Amate i vostri nemici. Utopia dell’amore o follia della croce? Celebrare la Misericordia, LDC, Leumann (Torino) 2015; ID. [con G. RAGOZZINO], I decreti supremi di Allâh. La morte, la fine dei tempi e l’aldilà nella fede islamica, Messaggero, Padova 2016. 5 Il 2 gennaio 2018, le milizie Houthi hanno condannato a morte Hamid bin Haydara, un membro della comunità Bahà’ì yemenita. La fede Bahà’ì, religione monoteista nata in Iran a metà del 1800, promuove principi come l’unità della razza umana e l’uguaglianza tra uomo e donna, fin dal suo sorgere. Attualmente, questa religione è sottoposta nello Yemen ma anche in Iran a pesanti persecuzioni, così come nel resto del mondo arabo. La sentenza ha provocato preoccupanti reazioni da parte di molte organizzazioni umanitarie che hanno chiesto l’immediata scarcerazione del condannato. Vale la pena ricordare che lo Yemen, a quasi tre anni dall’inizio della guerra civile, è tra i Paesi più poveri al mondo, e sta attraversando una crisi umanitaria senza precedenti. Quasi 17 milioni di persone sono considerate a

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Da studioso che crede veramente nell’ecumenismo e nel sogno dell’unità tra tutti i cristiani, non posso non ricordare le sofferenze per le precarie condizioni di vita di tanti battezzati che sopravvivono nel Medio Oriente, e in special modo in 6 Libano, in Siria, in Palestina . Sono sempre più convinto che i princìpi del dialogo, dell’accoglienza e della fraternità universale hanno un buon fondamento biblico, teologico, spirituale, interreligioso, ma anche filosofico, pedagogico, socio-politico. Tuttavia, si può accogliere, dialogare e creare fraternità non solo per motivi teologici e interreligiosi, ma anche per fini umanitari, per creare armonia tra i popoli e scongiurare nuove forme di estremismo religioso. Però, dobbiamo prendere atto che, molte volte, i temi del dialogo e dell’accoglienza – che decliniamo in ambito accademico secondo la prospettiva teologica –, presentano alla radice delle problematiche di carattere geo-politico e di natura socio-politica ed economico-culturale che ci sfuggono di mano in quanto non siamo in grado d’illustrarne i contenuti in modo adeguato e soddisfacente per mancanza di studi e di approcci comparati che riguardano il complesso e vasto mondo religioso7. Non basta conoscere le dottrine e i dogmi di una religione per valutarne gli aspetti positivi e i limiti organizzativi. Occorre conoscere i modi concreti, gli stili di vita che una religione incarna in un territorio ben preciso attraverso i suoi fedeli. Perché, in tal senso, nessuna religione è violenta. La violenza e il terrorismo religioso non hanno semplicemente una radice teologica o, per l’appunto, “religiosa”, ma anche e soprattutto “culturale”, “economica”, “sociale” e “geo-politica”. Non si può uccidere nel nome di Allâh così come non si possono giustificare guerre o atti di violenza e di persecuzione nel nome di Gesù Cristo o di Buddha! Da’ molto a pensare l’antisemitismo che è ancora sparso nel mondo e, soprattutto, in Europa. È ancora viva la memoria dell’anziana Mireille Knoll, ebrea (85 anni), scampata ai campi di concentramento nazisti durante il rastrellamento del 1942 grazie al passaporto brasiliano della madre, ma che a Parigi, nello scorso mese di marzo, è stata ritrovata senza vita nella sua abitazione, in cui era divampato un incendio per motivi dolosi. Per la procura della capitale francese, l’antisemitismo è stato il movente dell’uccisione di Mireille Knoll, superstite della Shoah ma non dell’odio razziale8. rischio malnutrizione, mentre più di 3 milioni di bambini insieme a donne incinte o in fase di allattamento al seno sono significativamente malnutriti. C’è un aumento di povertà e di malnutrizione del 57% rispetto al 2015. Inoltre, due milioni sono i rifugiati internamente sfollati e ben 15 milioni di persone non hanno accesso ad acqua e ad altre risorse potabili. Nello Yemen c’è una preoccupante catastrofe umanitaria che è esasperata e aggravata dagli scontri tra i ribelli Houthi e la coalizione guidata dall’Arabia Saudita, fedele all’ex presidente Abd Rabbo Mansour Hadi: si sono accentuate ancora di più le divisioni settarie che hanno polarizzato il Paese. La mancanza di uno stato di diritto, già precario prima dell’inizio della guerra civile, ha creato le condizioni favorevoli per crescenti atti di estremismo religioso. 6 Cf. Sulla difficile condizione dei cristiani in Medio Oriente, cf. G.S. EID, Musulmani e cristiani. I nodi invisibili del dialogo, Carabà Edizioni, Milano 2005. 7 Su questo aspetto, cf. almeno R. TRIGG, Diversità religiosa. Dimensioni filosofiche e politiche, Queriniana, Brescia 2016. 8 Il delitto ha sconvolto la comunità ebraica di Parigi, già mobilitata negli ultimi mesi dopo l’omicidio di Sarah Halimi, un ebrea ortodossa di 65 anni uccisa dal suo vicino di casa nell’aprile 2017. Dopo mesi di lotta giudiziaria, il carattere antisemita di questo omicidio è stato riconosciuto all’inizio di marzo. La donna era stata gettata dalla finestra del suo appartamento al terzo piano da un giovane vicino di casa di religione musulmana. Le organizzazioni ebraiche avevano protestato con forza davanti

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Chiudendo questa mia premessa, che m’immette nella prospettiva dal basso – ossia di chi non semplicemente prova a teorizzare, ad analizzare, ma a “vedereosservare” e a “giudicare”, dopo aver valutato, restando con i piedi ben piantati per terra –, sento ancora di più il bisogno di parlare di pace, di comunione, di dialogo, di perdono, di accoglienza, di fraternità, in un mondo lacerato da guerre religiose, da rivendicazioni sociali, da gruppi razziali estremisti che negano la libertà religiosa delle minoranze 9 . Abbiamo bisogno di educare le nuove generazioni al dialogo, facendo dell’amicizia fraterna il nostro stile di vita! Sono sotto gli occhi di tutti gli ultimi attentati terroristici avvenuti il 23 marzo 10 11 2018 in Francia , il 21 marzo 2018 a Kabul, in Afghanistan , il 18 febbraio 12 2018 a Kizljar, in Russia . Potremmo continuare, andando con la memoria indietro nel tempo, e ricordare quelli avvenuti a Bruxelles (22 marzo 2016), a Beirut (giovedì, 12 novembre 2015), a Parigi (venerdì, 13 novembre 2015), a Mali (20 novembre 2015), senza dimenticare ancora quelli precedenti che si sono verificati in Egitto, in Kenya, e che continuamente avvengono – soprattutto a causa dell’Isis – in Siria, in Iraq, nell’Africa settentrionale e a Gerusalemme e in altri territori della Palestina e del Medio e Vicino Oriente. Così, per parlare di dialogo e di accoglienza, non possiamo non dire una parola sul terrorismo e sul contributo di tutte le religioni alla pace, all’accoglienza e al dialogo fraterno. 2. Che cosa significa concretamente “accogliere e dialogare”? “Accogliere e dialogare” avviene sempre in un contesto e non vuol dire solo non avere paura delle diversità religiose e culturali che ci circondano, ma, ancor di più, educarsi a leggere ogni differenza come una risorsa e non quale minaccia per la nostra identità o il vivere civile e comune. Se è vero, com’è vero, che il Vaticano II ci ha formato a saper leggere i “segni dei tempi”, è altrettanto vero che, soprattutto oggi, è indispensabile riuscire a capire i “luoghi dei tempi”. Una teologia è profetica nella misura in cui resta ancorata alla storia e ingaggiata in un luogo, ossia in un contesto ben determinato, in uno spazio che in sé è già abitato da più culture, religioni, comunità. all’iniziale decisione degli inquirenti di non considerare l’aggravante dell’antisemitismo nell’uccisione della donna Per la notizia, cf. almeno http://www.repubblica.it/esteri/2018/03/26/news/parigi_omicidio_mireille_knoll_reduce_shoah_antisemit ismo-192292785/ [ultimo accesso 12-4-2018]. 9 Circa i diritti delle minoranze, che sono violati anche in Occidente e non solo nei Paesi a maggioranza musulmana, e a volte poco considerati anche nella vita concreta delle Chiese cristiane, cf. gli articoli e i rimandi bibliografici presenti nel numero monografico di Concilium 3 (2017) che è dedicato proprio alle minoranze. Ci sono nazionalismi religiosi che mettono in serio pericolo i diritti delle minoranze che non sono mai percepite come una risorsa, ma sempre come un ostacolo al rafforzamento della propria identità, anche religiosa. Cf. N. CHANDHOKE, Laicità, democrazia e diritti delle minoranze, in Concilium 53 (3/2017) 35-46. 10 In Francia, un attentatore armato di pistola ha assalito un’automobile a Carcassonne, uccidendo uno degli occupanti e ferendone un altro, dopodiché è entrato in un supermercato nella vicina cittadina di Trèbes prendendo in ostaggio le persone all’interno; il bilancio finale è stato di 4 morti e 15 feriti; l’uomo ha definito se stesso come «un soldato dell’Isis», e lo Stato islamico ha in seguito rivendicato l’azione. 11 Anche qui un attentatore suicida si è fatto esplodere nei pressi di un santuario sciita durante i festeggiamenti per il capodanno persiano chiamato Nawrūz, uccidendo 32 persone e ferendone diverse decine. Anche in questo caso lo Stato islamico ne ha rivendicato l’atto. 12 Un attentatore, con un’arma da fuoco, ha sparato all’interno di una chiesa ortodossa, uccidendo cinque persone e ferendone altre cinque prima di essere ucciso dalla polizia. Lo Stato islamico ne ha rivendicato l’attentato.

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Quest’aspetto fu ricordato proprio da papa Francesco nella visita privata del 10 settembre 2013 al “Centro Astalli” di Roma per il servizio ai rifugiati. Rileggendo il discorso del Santo Padre, per questo Convegno, possiamo dire che ognuno di noi, e non solo i migranti o i rifugiati, porta una storia di vita che parla di drammi e di guerre, di conflitti, spesso legati non solo alle politiche internazionali, ma molto più semplicemente a noi stessi, al nostro modo di pensare, di agire, di rapportarci agli altri. Tuttavia, ognuno di noi porta, soprattutto, una ricchezza umana e religiosa, una ricchezza interiore da accogliere, non da temere. Papa Francesco, poi, affermò con una certa insistenza: «Molti di voi siete musulmani, di altre religioni; venite da vari Paesi, da situazioni diverse. Non dobbiamo avere paura delle differenze! La fraternità ci fa scoprire che sono una ricchezza, un dono per tutti! Viviamo la fraternità!». Concretamente, ciò significa che chi si prodiga per l’accoglienza e il dialogo è costruttore di fraternità allargate in cui, nonostante, i conflitti e le tensioni in atto, si apre alla via del perdono e della riconciliazione. “Accogliere” porta con sé altri tre verbi, “proteggere, promuovere e integrare”, che papa Francesco ha ben chiarito nel Messaggio per la 104ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato celebrata il 14 gennaio 2018: «accogliere significa innanzitutto offrire a migranti e rifugiati possibilità più ampie di ingresso sicuro e legale nei paesi di destinazione […]. Proteggere, si declina in tutta una serie di azioni in difesa dei diritti e della dignità dei migranti e dei rifugiati, indipendentemente dal loro status migratorio […].Promuovere vuol dire essenzialmente adoperarsi affinché tutti i migranti e i rifugiati così come le comunità che li accolgono siano messi in condizione di realizzarsi come persone in tutte le dimensioni che compongono l’umanità voluta dal Creatore […]. Integrare, si pone sul piano delle opportunità di arricchimento interculturale generate dalla presenza di migranti e rifugiati. L’integrazione non è un’assimilazione, che induce a sopprimere o a dimenticare la propria identità culturale. Il contatto con l’altro porta piuttosto a scoprirne il “segreto”, ad aprirsi a lui per accoglierne gli aspetti validi e contribuire così ad una maggior conoscenza reciproca. È un processo prolungato che mira a formare società e culture, rendendole sempre più riflesso dei multiformi doni di Dio agli uomini»13. Ultimamente, papa Francesco, ha declinato il tema dell’accoglienza, del soccorso all’altro, della condivisione del dolore altrui, attraverso la categoria della santità. Infatti, nella recente esortazione apostolica Gaudete et exsultate (19-3-2018), al n. 76, afferma che la vita ha senso nel soccorrere un altro nel suo dolore, nel comprendere l’angoscia altrui, nel dare sollievo agli altri. Questa persona sente che l’altro è carne della sua carne, non teme di avvicinarsi fino a toccare la sua ferita, ha compassione fino a sperimentare che le distanze si annullano. Così è possibile accogliere quell’esortazione di san Paolo: “Piangete

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FRANCESCO, Messaggio per la 104ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato “Accogliere, proteggere, promuovere e integrare i migranti e i rifugiati” (15-8-2017), in http://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/migration/documents/papafrancesco_20170815_world-migrants-day-2018.html [ultimo accesso 11-4-2018].

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con quelli che sono nel pianto» (Rm 12,15). Saper piangere con gli altri, questo è 14 santità”» . 2.1. La prospettiva cristiana Si può accogliere l’altro solo nella misura in cui facciamo nostra la logica dell’incarnazione del Verbo e la dinamica del Dio-crocifisso, di quel Logos che, nella morte infame e terribile del Venerdì santo e maledetto, si è fatto silenzio, non-Parola, ossia in tutto simile al Padre, mostrando nella consegna estrema dello Spirito – la Vita – il volto misterioso eppur tangibile del Padre eterno, buono e misericordioso. “Accogliere” e “dialogare” significano superare ogni grado di separazione tra il nostro volto e quello del prossimo, pur permanendo nella distinzione fontale che è data già nella nostra e altrui identità, anche quando l’io e il tu si trovano concretamente l’uno accanto all’altro o, meglio, l’uno di fronte all’altro. “Accogliere”, nella prospettiva teologica della kenosis (“svuotamento” cf. Fil 2,6-11), non equivale semplicemente ad “accettare” qualcuno con una buona disposizione d’animo, né ad “approvare” o a “tollerare” la presenza d’altri, né può essere – riduttivamente – il “contenere” in uno spazio o luogo delimitato la presenza dello straniero, vuoi dell’immigrato, vuoi del clandestino, o del prossimo-rifugiato diverso da me, fuori da qualsiasi legame sociale e conviviale, politico ed economico, culturale e religioso. “Accogliere” vuol dire, cristianamente, “ricevere” o “condividere” un dono, nella consapevolezza che l’altro – chiunque egli sia – è per me sempre un fratello, una sorella, perché tutti siamo figli e figlie di un solo Padre che è nei cieli15. Chi è capace di “accogliere” è consapevole di ricevere un dono prezioso e di essere e di sentirsi come uno “straniero tra gli stranieri”, come uno che abita in una casa che si trova in esilio tra le altre abitazioni del mondo, in quell’unico spazio (oikumene) che è la terra abitata da tutti. È la “radice abramitica” dell’accogliere stando fuori (di sé), dal proprio mondo, proiettati in uno spazio più grande, quello della diversità e dell’alterità a ogni livello. In quest’ordine, l’accoglienza ha un significato sponsale, sacrale («io accolgo te»), e diviene convivium che va oltre le parole, ossia esige una comunione profonda dei nostri vissuti di fede e di storia, delle nostre risorse, dei beni, delle speranze che ci abitano insieme alle nostre povertà e fragilità.

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FRANCESCO, Esortazione apostolica Gaudete et exsultate (19-3-2018), n. 72, in http://w2.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazioneap_20180319_gaudete-et-exsultate.html [ultimo accesso 11-4-2018]. 15 “Accogliere”, fece notare papa Francesco nel discorso tenuto al Centro Astalli di Roma, equivale a servire «la persona che arriva, con attenzione; significa chinarsi su chi ha bisogno e tendergli la mano, senza calcoli, senza timore, con tenerezza e comprensione, come Gesù si è chinato a lavare i piedi agli apostoli. Servire significa lavorare a fianco dei più bisognosi, stabilire con loro prima di tutto relazioni umane, di vicinanza, legami di solidarietà. Solidarietà, questa parola che fa paura per il mondo più sviluppato. Cercano di non dirla. È quasi una parolaccia per loro. Ma è la nostra parola! Servire significa riconoscere e accogliere le domande di giustizia, di speranza, e cercare insieme delle strade, dei percorsi concreti di liberazione»: (FRANCESCO, Discorso [10-9-2013], in http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2013/september/documents/papafrancesco_20130910_centro-astalli.html [ultimo accesso 11-4-2018].

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Secondo tale prospettiva, il dialogo interreligioso ci pone gli uni di fronte agli altri – gli occhi negli occhi – in una comunicazione anche tacita, «perché nell’amore e nell’accoglienza i silenzi sono spesso più eloquenti delle parole. È 16 l’incontro con un volto, un “tu” che riflette l’amore divino» , pur consapevoli delle differenze che ci abitano e ci co-costituiscono. Perché il dialogo non è una forma retorica della conversazione, né un discorso alternativo fra due o più persone, e neppure una semplice informazione o comunicazione tra più soggetti diversi, bensì un evento di comunione, d’incontro fraterno con l’altro. Accogliere, allora, significherà, cristianamente, fare del dialogo e dell’amicizia fraterna il nostro stile di vita, riconoscendo che i sospetti e i pregiudizi nei confronti dell’altro «si pongono in conflitto con il comandamento biblico di 17 accogliere con rispetto e solidarietà lo straniero bisognoso» e che è necessario passare «da un atteggiamento di difesa e di paura, di disinteresse o di emarginazione […] a un atteggiamento» che ha alla base la cultura dell’incontro, «l’unica capace di costruire un mondo più giusto e fraterno»18. 2.2. Diventare protagonisti del dialogo e non semplici spettatori del male Nel contesto della globalizzazione, ove viaggiamo su autostrade d’informazioni e siamo tutti più vicini – ma anche più lontani, perché abbiamo sostituito, grazie a Dio non del tutto, all’incontro con il volto d’altri la conoscenza virtuale (chattando, linkando, wappando…), vivendo una sorta di solitudine globale –, davanti allo spettacolo del male, alle sue tante manifestazioni, ci sentiamo tutti spettatori, quindi disorientati, e predisposti passivamente a subire i cambiamenti in atto, anche il passaggio dalla fiducia alla sfiducia sociale e globale. Non viviamo più, infatti, all’aperto ma barricati in casa, chiusi sulle nostre posizioni, certi e arroccati attorno al nostro guscio o focolare che è diventato sempre più una tana (una postazione) e non una casa che accoglie. Non possiamo più vivere senza metal-detector, pass-word, spam e circuiti antivirali: i sistemi di sicurezza si moltiplicano e sono sempre più sofisticati non solo per salvaguardare la privacy, ma anche e soprattutto per custodire con maggiore sicurezza la nostra vita. Tuttavia, nessuno può garantirci la totale sicurezza. Così, aumenta la sfiducia nell’altro e nel potere organizzativo e di difesa che gli Stati cercano di garantire ai propri cittadini. C’è stato un gap anche nella gestione della sicurezza e del panico suscitato dagli attentati terroristici e dalle avvisaglie dell’Isis anche da parte dell’Onu. In questo contesto di crisi globale, la sfida del dialogo non riguarda solo il riconoscimento degli altri ma anche e soprattutto il lavoro di ogni credente per la pace e per il superamento di ogni forma di paura, di pregiudizio, di barriera 16

FRANCESCO, Esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia (8-4-2016), n. 12, in Il RegnoDocumenti 5 (2016) 129-200, qui 131. 17 FRANCESCO, Messaggio per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato [3-9-2014] Chiesa senza frontiere, madre di tutti, in http://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/migration/documents/papafrancesco_20140903_world-migrants-day-2015.html. [ultimo accesso 4-3-2018]. 18 FRANCESCO, Messaggio per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato [5-8-2013] Migranti e rifugiati: verso un mondo migliore, in http://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/migration/documents/papafrancesco_20130805_world-migrants-day.html. [ultimo accesso 5-4-2018].

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sociale, di smarrimento. Si tratta di decidere se vogliamo subire o orientare il cambiamento in atto, diventando così protagonisti del dialogo. L’impegno per il dialogo interreligioso ci sprona a diventare protagonisti della speranza, della fiducia, del bene, e a non restare in questo mondo come vittime ammutolite del male che si manifesta, talvolta, in modo tragico e drammatico. Essere protagonisti del dialogo significa prendere in mano la nostra vita e dare un contributo concreto alla pace, alla fratellanza, all’incontro, al bene, con la propria 19 fede, umanizzando il mondo . Non vogliamo subire i cambiamenti e restare – per costrizioni – barricati in casa, in parrocchia, nel nostro territorio, ma aprirci agli altri, per la costruzione di un mondo migliore, vivendo la sfida dell’integrazione e quella altrettanto complessa del confronto e dell’incontro tra fedi e culture e tradizioni religiose differenti.

3. La forza del terrorismo Il terrorismo è un’ideologia e ha la sua forza nell’imprevedibilità e nella capacità di incutere paura – appunto “terrore” – nella società internazionale. Coloro che si tolgono la vita nel nome di Dio – chiunque egli sia – si lasciano prendere dal desiderio di onnipotenza e diventano vittime della stessa ideologia in atto, del fondamentalismo religioso che non ha niente di santo o di sacro. Chi si toglie la vita uccidendo gli altri non è cristiano, né ebreo né musulmano, e neanche buddhista o shintoista o appartenente al complesso mondo religioso hindu. Chi decide di bruciare o di far saltare la propria esistenza agisce contro la ragione e cade nella spirale del male e del totalitarismo con l’assurda pretesa di farsi giustizia da solo e di rivendicare il proprio ideale attraverso la morte. Solo chi è esaltato o preso dal raptus della violenza può fare questo. Spesso i terroristi sono persone che provengono da buone famiglie, formati nelle migliori scuole occidentali, asserviti a falsi ideali di giustizia, di verità, di bene, di rispetto della propria visione del mondo. In realtà, i terroristi sono schiavi della loro concezione del mondo e della giustizia e hanno riposto la loro fede in se stessi e non in Dio. Ogni attacco terroristico – e non solo quello dell’11 settembre 2001 – crea un senso di angoscia e di smarrimento in tutti noi, nella società civile mondiale. È questo senso di smarrimento, di vuoto, di paura, di angoscia, di prostrazione e di sventura, di rassegnazione davanti al male – di passività – che noi tutti dobbiamo vincere impegnandoci, a ogni livello, a mettere in movimento il bene. Certamente, gli Stati devono garantire ai propri cittadini un livello di sicurezza sociale più alto. Tuttavia, il ripristino o l’ausilio di misure di controllo e di accesso ai servizi e luoghi pubblici deve avvenire evitando di incutere paura e angoscia sul territorio. Perché lo scopo di ogni attacco terroristico è di mettere paura tra la gente disorientando i cittadini, fino a bloccare la società civile nel panico e nella paura di “con-vivere” tutti assieme nelle piazze e negli spazi pubblici. Tanto si sa: il male si muove da solo e fa tanto rumore, il bene, invece – che si esprime attraverso la solidarietà, il sostegno reciproco, la fiducia, gesti 19

Per questi aspetti, cf. M.L. FITZGERALD, Dialogo interreligioso. Il punto di vista cattolico, Paoline, Milano 2007; SCOGNAMIGLIO, Il volto di Dio nelle religioni, 10-30; ID., Dia-Logos, I, 40-65; ID., DiaLogos, II, 50-80; ID., Francesco e il Sultano, 3-15.

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concreti di carità e di aiuto, il perdono, l’amicizia, il dialogo, il venirsi incontro – , ha bisogno del nostro impegno per essere manifestato. Se ci liberiamo dai luoghi comuni e dai giudizi superficiali e affrettati degli apocalittici e dei profeti di sventura – per i quali non abbiamo scampo e il male imperversa nel mondo senza alcuna tregua o possibilità di controllo o di frenarlo –, e facciamo una lettura a carattere storico-critico e geo-politico di ogni strage rivendicata nel nome di Dio, scopriamo non solo che il terrorismo c’è sempre stato ma, ancor di più, ci rendiamo conto che non ha futuro, perché non ha mai vinto – si è limitato, in tutte le sue forme, a spargere vittime e a mietere violenza in ogni angolo della terra senza raggiungere alcun risultato a livello geo-politico e sociale – e che chiama in causa altre con-cause, come ad esempio il capitalismo, la globalizzazione, il commercio delle armi, gli interessi bellici ed economici di Paesi più potenti, la lotta per la sopravvivenza, il controllo del petrolio e dell’acqua nelle zone desertiche o nei Paesi che hanno problemi di risorse energetiche e idriche o che dipendono economicamente da multinazionali europee e occidentali. Per questo, occorre una lettura non solo religiosa degli attacchi terroristici ma anche storico-critica e geo-politica. Per sé, il terrorismo è un atto stupido perché provoca il male e viene dal male e, si sa, il male è banale, non ha senso, è vuoto di contenuto: ha la sua radice nel cuore dell’uomo – perché è un atto irresponsabile della libertà umana – e non in Dio o in una dottrina religiosa. Tuttavia, questo giudizio etico – e teologico – non deve essere manifestato senza considerare le motivazioni socio-politiche che si nascondono dietro ogni attacco terroristico che, in sé, non trova alcuna giustificazione! Ma, ancor di più, questo giudizio etico-teologico sugli attacchi terroristici non deve essere sottovalutato, anzi, ha bisogno di essere messo in circolo per aiutare la società mondiale a non cadere vittima del male. Lo ripetiamo ancora una volta: è chiaro che la forza dei terroristi consiste nell’imprevedibilità dell’attentato che mette in subbuglio ogni sistema di sicurezza. Nasce da qui, certo, il bisogno di tutti gli Stati e delle Organizzazioni internazionali di migliorare ogni sistema di controllo e di verifica per tutelare la libertà e la vita stessa dei cittadini che hanno il diritto di continuare a vivere in tranquillità. Tuttavia, contro questa ideologia del male – perché il terrorismo è solo un’ideologia perpetrata nei secoli con i vari volti di Dio – occorre impegnarsi subito e pienamente per il dialogo, per la formazione all’incontro con l’altro, alla condivisione degli stessi spazi, favorendo una convivenza pacifica tra popoli, comunità interetniche e multi-religiose. Il dialogo non solo interreligioso – ma come pedagogia di vita – è quanto mai necessario. Nelle nostre comunità, famiglie, scuole, parrocchie, come in ogni centro di aggregazione giovanile e culturale, è impellente la formazione alla pace, al superamento del male con il bene, al dialogo fraterno, cercando di non identificare tutto l’islam con la violenza e il terrorismo, e stimolando allo stesso tempo le comunità islamiche a prendere con coraggio la parola e a denunciare ogni sorta di violenza e di terrorismo. Ci sono ancora troppe stragi che avvengono nel nome di Dio. Questo vuol dire che la fede nell’ideologia e nel fondamentalismo prende il sopravvento sulla fede in Dio che è Clemente e Misericordioso, Onnipotente e Santo. Dobbiamo anche combattere quel senso di sfiducia e disperazione che subentra inconsciamente in noi tutte le volte che il 9


male prende forma negli attentati terroristici e si manifesta anche grazie alla fin troppa attenzione che riceve dai mass-media.

4. La risposta cristiana al male La risposta cristiana al male, alla violenza, a ogni terrorismo, è data solo dall’amore, dalla volontà di continuare ad amare e ad accogliere nonostante tutta la violenza sparsa per il mondo (cf. Mt 5,44; Rm 12,21). Prendiamo queste nostre parole da un brano che qui riportiamo in forma libera della grande filosofa e poetessa ebrea Simone Weil la quale sostiene che “il grande enigma della vita umana non è la sofferenza, è la sventura”. Per Simone Weil, non c’è da stupirsi che degli innocenti siano uccisi, torturati, cacciati dal proprio paese, ridotti in miseria o in schiavitù, chiusi nei campi di concentramento o in carcere, dal momento che esistono i criminali capaci di compiere tali azioni. Non c’è nemmeno da stupirsi che la malattia infligga lunghe sofferenze che paralizzano la vita e ne fanno un’immagine della morte, dal momento che la natura soggiace a un cieco gioco di necessità meccaniche. Ma c’è, invece, da stupirsi che Dio abbia dato alla sventura il potere di afferrare l’anima degli innocenti e di appropriarsene da padrona assoluta20. Nel migliore dei casi, chi è segnato dal marchio della sventura riuscirà a salvaguardare solo metà della propria anima. Chi è stato raggiunto da uno di quei colpi che lasciano l’essere umano a terra, a contorcersi come un verme mezzo schiacciato, non è in grado di trovare le parole per esprimere quanto gli succede. Le persone che lo incontrano, pur avendo molto sofferto, se non hanno mai toccato con mano la vera sventura non possono comprendere ciò a cui si trovano di fronte. Essa è qualcosa di particolare, che non si può rapportare a null’altro, come in nessun modo si può dare a un sordomuto l’idea dei suoni. E coloro che sono stati mutilati dalla sventura non sono in condizioni di soccorrere nessuno; sono quasi persino incapaci di provarne il desiderio. Quindi, la compassione nei riguardi degli sventurati è cosa impossibile. Quando la cosa si verifica veramente, è un miracolo più sorprendente che camminare sulle acque, guarire gli infermi e persino risuscitare i morti. La sventura ha costretto Cristo a supplicare di essere risparmiato, a cercare conforto fra gli uomini, a credersi abbandonato dal Padre. La sventura ha costretto Giobbe a imprecare contro Dio che si fa gioco della sventura degli innocenti. Nella sventura Dio è assente, più assente di un morto, più assente della luce di un sotterraneo completamente buio. Una specie di orrore sommerge completamente l’anima. Durante questa assenza non c’è nulla da amare. La cosa terribile è che, se in queste tenebre in cui non c’è nulla da amare l’anima cessa di amare, l’assenza di Dio diventa definitiva. Bisogna che l’anima continui ad amare a vuoto, o almeno a voler amare, sia pure con una parte infinitesimale di se stessa. Allora viene il giorno in cui Dio si mostra e le rivela la bellezza del mondo, come avvenne per Giobbe. Ma se l’anima cessa di amare, cade, già in questo mondo, in qualcosa che assomiglia molto all’inferno. La sventura uccide l’anima e porta alla disperazione perché imprime nell’uomo, come con un ferro 20

Cf. S. WEIL, Attesa di Dio [1966], traduzione di O. Nemi, Adelphi Edizioni, Milano 1972, 81-101.

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rovente, quel disprezzo, quel disgusto e persino quella ripugnanza di se stessi, quel senso di colpa e di abiezione che dovrebbero essere la logica conseguenza del delitto, ma non lo sono mai. La risposta di Gesù, crocifisso e maledetto da Dio e dagli uomini, dinanzi al male e alla sventura, è di continuare ad amare, ad accogliere, nonostante tutto, sempre e fino in fondo, sino alla fine, versando l’ultima goccia di sangue. Gesù non è stato uno sventurato: perché ha continuato ad amare, a perdonare, a compatire, rimettendo tutto nelle mani del Padre. Non si può accettare l’esistenza della sventura se non considerandola come una distanza. Dio ha creato per amore e ai fini dell’amore e ama a tutte le distanze, anche mentre il Figlio è sulla croce. Ogni atto di violenza, qualsiasi azione disumana – guerre, soprusi, attentati – va combattuta con l’amore, con la forza di Cristo che sulla croce ha compatito con i derelitti del mondo e ogni giusto perseguitato e calunniato, ucciso e sfigurato nel volto e nell’anima. Dio ci ha creati come esseri capaci di amare a tutte le distanze possibili. Egli stesso, in Cristo, poiché nessuno poteva farlo, è andato alla distanza massima, alla distanza infinita. Questa distanza infinita fra Dio e Dio, strazio supremo, dolore che non ha pari, miracolo d’amore, è la crocifissione. Nulla può essere più lontano da Dio di ciò che è stato reso maledizione. Il Crocifisso è l’unione suprema tra Dio e il mondo, tra la vita e la morte, tra la giustizia e il male, la grazia e il peccato. Così, gli uomini e le donne colpite dalla sventura – come le vittime degli ultimi attentati in Afghanistan, o a Parigi e a Beirut, ad Aleppo, a Damasco e a Gerusalemme – sono ai piedi della croce, quasi alla massima distanza possibile da Dio. Non bisogna, però, credere che il peccato sia una distanza maggiore. Il peccato è una distanza. Il male è la distanza assoluta, un cattivo orientamento dello sguardo e delle nostre intenzioni. Per vincere questa distanza dobbiamo ricondurre i nostri sguardi e pensieri, azioni e gesti, a colui che hanno trafitto e posto sulla croce. Durante gli attacchi bruschi del male dobbiamo ancor di più mantenere gli occhi rivolti a Dio: perché la Provvidenza non è assente, ma opera in noi e con noi tutte le volte che pensiamo con fiducia e stiamo dalla parte del bene che non fa rumore e chiede il nostro contributo per muoversi, per accendersi e riscaldare i cuori sia degli innocenti che dei malfattori. Nonostante tutto, dobbiamo continuare ad amare, a confidare nel Signore, a condannare il male e la morte, la violenza e i soprusi, ma continuare a compatire, a donare la nostra vita per Cristo e per i fratelli… Il Crocifisso è la misura del nostro amore, ossia amare senza misura nonostante tutto, nonostante il male nel mondo. Bisogna convincersi che l’amore è un orientamento e non uno stato d’animo. San Paolo pensava forse a cose di questo genere quando diceva: «Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nell’amore, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,17-19).

5. Religioni e violenza Non possiamo negare che le religioni hanno assunto e possono ancora prendere delle forme distorte e disumane che determinano violenza e generano 11


perversione, fino a provocare la morte dell’uomo e la corruzione della loro stessa identità. Le religioni possono generare violenza ma sono anche in grado di essere strumento di pace e di perdono. Se consideriamo il cammino intellettuale dell’Occidente ci rendiamo conto che la stessa ragione emancipata – l’illuminismo – ha determinato quel processo per alcuni aspetti irreversibile della secolarizzazione che ha avuto un influsso devastante anche su Dio e le strutture sociali delle comunità religiose. Possiamo ritenere per vero che il processo di secolarizzazione ancora in atto ha messo in crisi le concezioni delle religioni in ambito dottrinale e la stessa visione del 21 mondo e dell’uomo ad esse collegate . Si può riconoscere anche un certo parallelismo tra le religioni e la scienza e la tecnica rispetto al mondo e all’uomo. Di fatti, da quando la tecnica ha assorbito la ricerca scientifica, la volontà di dominare il mondo ha preso il sopravvento sulla ricerca scientifica fondamentale. La tecnica ha preso il sopravvento su tutte le discipline del mondo, anche sulla religione nella sua universalità orizzontale o intra-mondana. Certo, le religioni non rispondono alle domande dell’esistenza umana allo stesso modo della scienza e della tecnica. Le religioni considerano l’uomo e il suo mondo su un piano simbolicospirituale, offrendo una percezione più profonda della realtà che è sempre una realtà spirituale. C’è bisogno di operare il discernimento spirituale per l’uso equilibrato degli strumenti della tecnica e della scienza oggi, così come dei valori e della visione di ogni religione. Quando una religione pretende di stabilire un contatto tecnico con l’Assoluto diventa violenta e si trasforma in una vera e propria ideologia. Le religioni non parlano dell’uomo che ha bisogno di Dio ma di Dio, dell’Assoluto, del trascendente, che si rivela al mondo. Non c’è spazio del mondo in cui non ci sia la presenza del trascendente così come già nel nostro stesso respiro. La religione ci riporta alla nostra origine perché presenta le domande fondamentale dell’uomo: “Chi siamo? Da dove veniamo? Perché ci troviamo qui? Dove andiamo?”. Oggi aumenta, con la scienza, il permanere della vita fisica, tuttavia, scompaiono la speranza e la fede in un futuro migliore. È quella percezione di sfiducia, di smarrimento, che lo stesso terrorismo diffonde continuamente! Sembra che la scienza ci dica che non serve sperare perché è importante solamente sopravvivere con la tecnica. La vita sociale fissa le nostre rappresentazioni del mondo. È la forza della tecnica e della scienza a prevalere sulla dimensione spirituale dell’esistenza umana. È bene chiarire la caratteristica del pensiero tecnico. La finalità di una pratica tecnica è sempre determinata anticipatamente con un progetto già stabilito. Tale progetto è poi posseduto. La tecnica è spinta dal desiderio di possedere il mondo. La pratica scientifica non mira al possesso della terra ma alla conoscenza di ciò che esiste. Così, il matematico vuole risolvere i problemi nati dalla conoscenza, ma non vuole 21

Il Secolo dei lumi, nella sua spietata critica, ha ripetutamente sostenuto che la religione è causa di violenza e con ciò ha fomentato l’ostilità contro le religioni. Sembra, per la critica serrata di un certo laicismo esasperato – divenuto esso stesso mera ideologia e pericoloso fondamentalismo –, che la democrazia degli Stati e delle società esiga l’eclissi di Dio o comunque il suo esilio negli abissi più reconditi del pensiero umano e dell’agire sociale. Tuttavia, lo scontro di civiltà per causa delle confessioni di fede e delle diverse culture che coabitano sul medesimo territorio è stato in parte scongiurato: molti profeti di sventura non hanno trovato alcun riscontro effettivo delle loro tesi circa la fine delle esperienze religiose e dell’esclusione del sacro dal nostro tempo.

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possedere il mondo. Ora, la fede scientifica non ha uno scopo finale. Sa che l’intelligibilità del mondo è infinita. La scienza sa che ha bisogno della tecnica per andare avanti e che può essere contaminata dalla tecnica per possedere il mondo. C’è un parallelismo con le religioni. Se queste ultime sono considerate in senso tecnico, cioè per possedere il divino, allora conducono alla violenza. La differenza tra idolo e icona non è da sottovalutare. L’idolo è lo strumento asservito ai nostri desideri. L’icona ci ricorda che Dio è mistero e che nessuno essere umano può possederlo. L’icona rivela, ci guarda, rinvia al Mistero nascosto. Le religioni dell’icona sono mistiche. Le religioni dell’idolo, invece, conducono al possesso e non danno speranza, sono prive della dimensione escatologica. La scienza e la tecnica si collocano in posizioni opposte quando la tecnica vuole impossessarsi della scienza. Così, le religioni diventano idolatria quando si riducono a un fatto tecnico. Certamente, l’uso della tecnica ha i suoi benefici. Tuttavia, la scienza e la tecnica non devono ridurre l’uomo al suo stesso desiderio, così come le religioni devono far emergere la parte più profonda o spirituale della realtà del credente e non voler assoggettare a sé l’Assoluto o Dio nel quale credono. S’instilla il germe del terrorismo o del fondamentalismo quando si vuole possedere e strumentalizzare il nome di Dio per una propria teoria, quando cioè una comunità religiosa o gruppi estremisti pretendo di imporre agli altri il proprio credo religioso. È qui la fonte della violenza religiosa22. Soprattutto oggi, le religioni sembrano essere state parte del problema e non strumento per la pace e la riconciliazione. La violenza in nome della religione è una dissacrazione della religione. Ci sono persone nel mondo che credono che la violenza sia ciò che Dio chieda da loro. Anche nel giudaismo è detto che la Torah può essere la pozione della vita o della morte. La religione può essere la forza più potente di vivificazione o di morte. Che cosa porta alla violenza religiosa? Per alcuni, il cattivo uso della religione è dovuto all’abuso dell’uomo che ne tradisce il suo scopo. La violenza della religione deriva anche dalla mancanza di potere. La stessa religione può avere caratteristiche diverse in spazi geografici diversi. Nella lingua inglese si riconoscono tre grandi B delle religioni: credo, comportamento e appartenenza. L’abuso della religione è spesso correlato al credo e al comportamento. Sembra che molto dipenda anche dall’appartenenza socio-politica e culturale di un popolo o di un’etnia. Tutte le componenti dell’identità umana costituiscono i fattori del nostro benessere psico-spirituale. Se si perdono queste componenti non sappiamo più chi siamo e chi non siamo. Quando, ad esempio, viene meno una delle esigenze più importante dell’essere umano, la sicurezza, si può generare violenza. Così, in un contesto di conflitto, l’identità è veicolo dell’auto-affermazione e può generare violenza. Il comportamento di “buono e cattivo” ha la forma della spirale, ossia dei “cerchi nei cerchi”. Quando ci si sente sicuri nel contesto più ampio si è più aperti (nazioni, comunità). Quando le componenti dell’identità 22

Cf. le belle riflessioni di J. SACKS, Non nel nome di Dio. Confrontarsi con la violenza religiosa, Giuntina, Firenze 2017. Per questo autore, la rivalità fraterna, e quindi la violenza religiosa, si forma nel momento in cui si afferma il dualismo che divide le persone in buone e cattive (figli della luce e figli delle tenebre). L’uso della religione a fini politici non è rettitudine ma idolatria, e invocare Dio per giustificare la violenza contro gli innocenti non è un atto di santità ma un sacrilegio. È usare il nome di Dio invano.

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umana non sono armoniche e si isolano, si finisce per denigrare gli altri e si limita ogni forma di dialogo. La religione è legata al senso dell’identità e, dunque, anche ai nostri comportamenti quotidiani. Quando è minacciata la sicurezza, le religioni tendono a diventare parte della denigrazione dell’altro. Per far si che le religioni siano ciò che devono essere, ossia elisir di vita e veicolo di pace, le fonti delle alienazioni che le sovvertono vanno affrontate. Le religioni non possono usare violenza per rispondere alla violenza. Il Talmud afferma che il vero eroe è colui che trasforma il nemico in amico. Bisogna pensare alla fonte dell’alienazione che porta alla corruzione delle religioni. Non c’è collegamento tra gruppi militanti e il loro credo di appartenenza. Dobbiamo estenderci e raggiungere gli altri nello spirito abramitico dell’accoglienza e del benvenuto cercando di ripristinare un cerchio più ampio di sicurezza e di pace. Spesso i rabbini fanno riferimento a Gen 18, ossia ad Abramo che, seduto nell’ingresso della tenda, alzò i suoi occhi e vide tre uomini e andò verso di loro. Abramo non fece domande sulla loro origine e scopri che quei tre uomini erano messaggeri divini, segno della presenza del Signore. In Gen 19, poi, si fa riferimento ai due angeli che andarono a Sodoma e si recarono in casa di Lot. La tradizione talmudica afferma che Abramo e Lot vedono in quei due uomini la presenza degli angeli. Abramo vede gli angeli in tutti gli esseri umani. Ecco l’accoglienza e il dialogo tra le religioni e i popoli come espressione della religione abramitica autentica così com’è ricordato in NA 5 in cui si afferma che non possiamo chiamare Dio come Padre se non ci sentiamo tutti fratelli. Questo spirito di fraternità universale consente la vera pace. Benedetto XVI, nella giornata di riflessione, di dialogo e di preghiera per la pace e la giustizia nel mondo – che fu celebrata ad Assisi (27-10-2011) con i leader religiosi di spessore internazionale –, affermò che la religione è al servizio della pace e della verità e che mai può giustificare la violenza. La preghiera interreligiosa, senza alcuna forma di sincretisimo o di relativismo, diviene espressione concreta del dialogo e della ricerca dell’unità tra comunità religiose e popoli di ogni cultura e nazionalità. Infatti, ad Assisi i leader mondiali delle più grandi religioni si ritrovarono insieme per pregare alla presenza dell’unico Dio misericordioso e onnipotente, creatore e bon Signore, Padre di tutti, presentando le necessità di quanti sono schiacciati dal male, segnati dalla schiavitù, dalla guerra, da ogni forma di sopruso e di violenza23.

6. La profezia del dialogo e della pace È in questa prospettiva che abbiamo celebrato qualche anno fa il 50° di NA e il dialogo tra ebrei, cristiani, musulmani e le altre comunità religiose24. Siamo passati alla sostituzione di un insegnamento di disprezzo e di rifiuto – violenza 23

Ha affermato papa FRANCESCO, Esortazione apostolica Evangelii gaudium (24-11-2013), n. 250, in Il Regno-Documenti 21 (2013) 641-693, qui 686: «Un atteggiamento di apertura nella verità e nell’amore deve caratterizzare il dialogo con i credenti delle religioni non cristiane, nonostante i vari ostacoli e le difficoltà, particolarmente i fondamentalismi da ambo le parti. Questo dialogo interreligioso è una condizione necessaria per la pace nel mondo, e pertanto è un dovere per i cristiani, come per le altre comunità religiose». 24 Cf. E. SCOGNAMIGLIO, Nel 50° anniversario della Nostra aetate, in Asprenas 62 (4/2015) 526-532.

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ideologica – con una riscoperta dello spirito di fraternità teologica: se Dio è Padre di tutti, noi siamo tutti fratelli. Ciò richiede apertura spirituale agli altri. La trasformazione della visione della Chiesa cattolica verso il giudaismo, ad esempio, è senza paralleli. NA ha portato a un capovolgimento della situazione. NA ispira le relazioni umane al dialogo interreligioso e sottolinea il legame dei cristiani con il popolo ebraico. Il rapporto tra il popolo ebraico e la Chiesa cattolica ha delle ramificazioni profonde. NA ha aperto la via a una risposta e a un’ospitalità teologica che consistono nel rifiuto della violenza e nella promozione della fraternità universale a beneficio dell’umanità. Vi sono valori sublimi che le religioni affermano: la pace, la giustizia, la libertà religiosa. Noi siamo chiamati ad essere più grandi delle somme delle diverse parti. La Torah è per la pace. Molto resta da fare per l’ospitalità teologica e per l’accoglienza abramitica. In quanto figli di Abramo, siamo una benedizione per gli altri, per la realizzazione del regno della pace sulla terra. Anche nel dialogo con l’islam, NA afferma che la Chiesa cattolica guarda cum estimatione quei musulmani che in sincerità vivono la fede nell’unico Dio. Circa il dialogo tra cristiani e musulmani, riprendiamo alcune affermazioni condivisibili di Abdellah Redouane (direttore della moschea di Roma) che, in più occasioni, ha affermato che islâm e salam sono due sostantivi che indicano salvezza, sicurezza e tranquillità. Il profeta Maometto aveva già definito le vere caratteristiche dell’islâm quando identificò il musulmano così: “è quella persona dalla cui lingua e dalla cui mano è salva”. Il credente è quella persona da cui la gente non ha niente da temere. Islâm significa remissione totale a Dio, Signore dell’universo, che ha creato l’uomo e l’ha nobilitato per fare il bene sulla terra. La pace è custodia di tutti i passi dell’uomo nella sua vita 25. Il saluto dei musulmani è salam, ossia pace, ed è un pilastro della loro preghiera. Pace è uno dei nomi del paradiso che Allâh ha promesso a coloro che vivono nella pace sulla terra. Vivere senza pace porta al caos, alla distruzione, alla morte. L’islâm ha indotto alla pace con Allâh e con gli uomini, come pure alla pace interiore, cioè all’assenza di odio e alla purezza. «Nessuno di voi è vero credente se non desidera per il fratello ciò che desidera per se stesso». Allâh ha assegnato alla pace la parte più importante della vita. La pace è parte integrante degli atti di culto, delle parole e dei comportamenti dei musulmani. La pace è assolutamente necessaria per vivere ancor più dell’acqua, dell’aria e del cibo. Senza questi elementi l’umanità non può vivere. La mancanza di acqua, come anche di cibo e di aria, incide sul corpo. Invece, l’assenza di pace conduce all’ostilità, alla devastazione, all’odio tra i singoli e i popoli. Abramo chiese a Dio pace e sicurezza, facendo allusione al bere e al mangiare. La pace è come il mangiare e come il bere. L’islam proibisce il terrorismo, l’intimidazione e la minaccia perché il bene delle persone è da tutelare. Chi uccide anche una sola persona o compie nei suoi confronti atti intimidatori o terroristici è come se lo facesse a tutta l’umanità. La pace non può essere un’utopia, ma un modo di pensare e di vivere nel quotidiano. Dovrebbe essere una convinzione simile alla fede. Avere pace è come avere fede. Nessuna pace è possibile tra gli uomini quando si negano i diritti fondamentali ai più deboli. La giustizia e la libertà offrono un nome concreto alla pace. Dobbiamo conoscerci a vicenda per collaborare alla causa 25

Cf. NAAMAN - SCOGNAMIGLIO, Cristiani e musulmani in dialogo, 23-45.

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della pace. Dobbiamo difendere l’umanità dal pericolo della guerra e del terrorismo. Il futuro migliore dell’umanità dipende in gran parte non solo dalla risoluzione dei conflitti ma anche da altri mali quali crisi ambientale, povertà, sfruttamento. I mali dell’uomo e del mondo privano la pace del suo significato più profondo. Le tensioni e le guerre attuali spingono al pessimismo ma noi non abbiamo il diritto di cedere bensì il dovere di continuare a cercare le vie della pace. Redouane, di recente, in un convegno celebrativo per NA che si è svolto alla Pontificia Università Gregoriana, ha affermato che l’iniziativa di celebrare il cinquantesimo di Nostra aetate è un aiuto concreto per la causa della pace. Se il saluto dell’islâm è la pace e i musulmani hanno il dovere di pregare per la pace, è perché l’islâm è una religione di pace. “O voi che credete entrate nella pace con tutto il vostro cuore e non seguite le orme di satana”. Dobbiamo renderci conto dell’attualità di NA e del suo spirito profetico: è come una piccola perla con un grande messaggio. Per capirne l’importanza dobbiamo rileggere questa dichiarazione in due contesti storici: quello degli anni Sessanta del secolo scorso e quello del nostro tempo segnato dal terrorismo internazionale e da nuove guerre locali. NA ha dato uno statuto teologico al dialogo interreligioso affermando che il dialogo promuove la pace. Uno dei frutti più belli di NA è proprio lo “spirito di Assisi”. Che cosa significa oggi NA e che cosa ha significato nel 1965? Nel 1965, il “nostro tempo” era segnato dalla rivoluzione culturale, dalla liberazione della Palestina, dalla guerra in Vietnam. Nelle Filippine, il presidente Marcos divenne presidente. Il 1965 fu anche l’anno della rivendicazione dei diritti umani: è sufficiente ricordare che il 4 ottobre del 1965 Paolo VI parlò all’Onu. Nel 1965 il mondo era diviso in due blocchi: Usa e Urss. È in confronto a “questi tempi” che la Chiesa cattolica volle aprirsi per promuovere la pace e un dialogo sereno con gli uomini. Il quadro di riferimento era diverso da quello di oggi, così come pure le risposte. Seguirono grandi manifestazioni per la pace, per i diritti dei lavoratori. Paolo VI istituì, nel 1968, la prima giornata mondiale per la pace. Fu un invito rivolto non solo ai cattolici ma a tutti i veri amici della pace. La NA di oggi trova un altro contesto: c’è una violenza largamente diffusa nella nostra società. I fenomeni di terrorismo e di razzismo si moltiplicano, come pure le guerre. La violenza e l’ingiustizia hanno sempre interpellato le religioni. Così simboleggia la storia di Caino e di Abele. Caino è l’egocentrico, l’autoreferenziale, colui che cura solo i propri interessi. In chi cura solo i propri interessi c’è sempre un inizio di omicidio dell’altro. La NA di oggi deve fare i conti con la violenza. Le religioni devono reggere il confronto con una violenza che si manifesta in modo globale. Infatti, da un lato cresce la spettacolarizzazione della violenza e, dall’altro, c’è un’esperienza quotidiana e locale della violenza. C’è una portata trans-nazionale della violenza che appare anche organizzata. La lotta alla violenza e la costruzione della pace sono il fine del dialogo interreligioso che non può ridursi a un fatto culturale o solo intellettuale. È venuto il tempo in cui le religioni spendano con entusiasmo e audacia le loro forze per trasformare il mondo con il dialogo. Nessuna guerra è santa. Solo la pace è santa. In questa prospettiva si pone lo “spirito di Assisi” per la costruzione della pace e del dialogo tra le religioni e i popoli. Le religioni hanno un potere, una forza interiore, una grande energia per sradicare ogni forma di violenza dal cuore dell’uomo. Le religioni possono 16


promuovere e animare il dialogo interreligioso tra gli uomini e le donne di ogni cultura. Le religioni hanno la forza di entusiasmare il dialogo, cioè di porre Dio nel dialogo, superando ogni divisione o contrasto. Solo cambiando i cuori e le menti sarà possibile cambiare il mondo. La storia è piena di sorprese: lo Spirito agisce nel cuore degli uomini e delle donne che si aprono a Dio. Sono trent’anni dello “spirito di Assisi”. Si è sviluppato un vero e proprio vocabolario del dialogo e della pace proprio grazie a NA e allo “spirito di Assisi”. Si può ritenere per certo che lo “spirito di Assisi” sia il frutto più maturo di NA. La pace è sempre possibile e la guerra è sempre evitabile. Certamente, l’impegno per la pace e il dialogo da parte delle religioni è solo all’inizio. Tuttavia, proprio lo “spirito di Assisi” ci ricorda che innanzi a noi c’è tanta energia di dialogo e di pace ancora da esprimere. Lo “spirito di Assisi” è forte perché ce ne bisogno. Ne hanno bisogno tutti. C’è bisogno dello “spirito di Assisi” perché, come ha detto papa Francesco volando verso Cuba, oggi il mondo ha sete di pace. Proprio lo “spirito di Assisi” ci ricorda che i leader religiosi hanno un ruolo molto positivo e centrale per la mediazione per la pace e la riconciliazione. Negli ultimi quarant’anni tante organizzazioni interreligiose sono sorte nel mondo. La diversità delle credenze religiose non è solo una questione importante per la coesistenza pacifica della società ma anche per le relazioni internazionali. La violenza è stata sempre una caratteristica dell’umanità e d’ogni società a qualsiasi livello (domestico, regionale, mondiale). Qualunque forma di violenza determina un impatto negativo sulle vittime e sulla società nel suo insieme. Anche se siamo pienamente consapevoli di questa negatività, continuiamo a vedere la violenza nella nostra vita giornaliera. I titoli dei giornali sono pieni di riferimenti alla criminalità e alla violenza nel mondo. Noi ripetiamo la stessa domanda: “Ci sarà mai una fine a tutto questo?”. In genere, le religioni mondiali hanno sempre parlato contro la violenza nel mondo. Eppure, la violenza continua ad essere molto diffusa. I motivi sono tanti: concentrazione della povertà, disuguaglianza economica, ricerca di potere, l’abuso di sostanze. Giovanni Paolo II disse che la giustizia sociale non è raggiungibile mediante la violenza perché la violenza uccide quello che intende creare. Qualsiasi forma di violenza è una malattia per l’umanità. Come cittadini responsabili del mondo, possiamo assicurare solo che la violenza sia contenuta e diminuita. Le religioni mondiali predicano l’amore, la compassione e la coesistenza. Lo stesso Budda ha ripetuto costantemente che l’odio non si può vincere con l’odio. Questo insegnamento è presente anche nei Vangeli e nel NT come pure nell’AT. Le religioni predicano l’amore e la pace. Tuttavia, anche se apparentemente la religione è una forza unificatrice che promuove la pace e la giustizia, purtroppo la storia ci ha parlato in modo diverso. Il rapporto tra religione e violenza è complesso. Si può incitare alla divisione e alla violenza anche con i movimenti religiosi che sono di tre forme: apocalittica (si evidenzia il male, si auspica la fine del mondo, la distruzione di tutto, anche dell’ambiente e degli esseri umani; politica (si lotta per l’abolizione dello stato laico e per sottomettere le persone e le comunità al credo professato); etnofobica (nel senso che non danno spazio alla diversità e quindi tendono a sopprimere con la violenza ogni gruppo religioso diverso). È chiaro che il problema non è la religione in sé ma la sua interpretazione estremistica. La violenza religiosa è un sottoprodotto di chi genera ideologie estremiste. L’estremismo esiste in quasi tutte le religioni. In base all’indice 17


globale del terrorismo (analisi del 2014), il terrorismo si è qualificato soprattutto in ambito religioso, per interpretazioni errate della religione. Coloro che partecipano alla violenza religiosa sono una piccola minoranza della popolazione. Una visione laica non aiuta a risolvere il problema del terrorismo religioso. È necessario il contributo delle religioni alla pace e al dialogo. Il ruolo dei leader religiosi nella riconciliazione dei conflitti non è un fenomeno nuovo. Ad esempio, Mahatma Gandhi, Martin Luther King, Giovanni Paolo II, madre Teresa di Calcutta, Chiara Lubich e tanti altri profeti della pace, del dialogo e dell’unità, hanno avuto un ruolo religioso importante nella risoluzione dei conflitti. Il ruolo dei leader nella risoluzione dei conflitti è complesso, multifunzionale e non si può ridurre solo a condannare gli atti di terrorismo. È necessario combattere l’ideologia religiosa estremista e impegnarsi per la formazione al dialogo. I leader religiosi devono anche lavorare in modo strategico con i massmedia per criticare gli estremisti religiosi. La tensione che ricevono da parte dei media accordano loro una certa legittimità e un senso di superiorità e popolarità. Questa presa sul pubblico deve essere negata agli estremisti religiosi. I media hanno un ruolo centrale nell’informazione pubblica. I media stampati ed elettronici possono essere utilizzati come strumenti potenti per condurre una campagna intensa e continua per informare il pubblico sulle conseguenze sociali e religiose delle violenze confessionali. Bisogna dire pubblicamente che la gran parte della violenza religiosa non è contenuta all’interno della religione stessa. La religione non è una delle cause di base della violenza, lo è, invece, la sua interpretazione estremista che accetta, giustifica e promuove la violenza. La grande sfida affidataci da NA, proprio nel cinquantesimo della sua promulgazione, è di educare le nuove generazioni alla pace, alla cultura dell’accoglienza e dell’incontro. L’essere umano è strutturalmente segnato dal bisogno di relazione con l’alterità (rappresentata da Dio, dagli altri esseri umani e dal mondo). Il dialogo, quando si svolge tra persone diverse per lingua, cultura e religioni, sopporta il peso e il limite di una non immediata convergenza. Il rapporto si qualifica anzitutto nella parola e nella libertà. Nella parola e nella libertà l’essere umano, per la Bibbia, si apre alla vera relazione. Tale prospettiva è presente nei libri sapienziali che individuano proprio nella sapienza divina quel terreno comune e quella strada che conduce alla vita e porta al bene di tutti, alla terra di ogni uomo e popolo. La sapienza fa proprio questo motto: “Non rispondere prima di avere ascoltato”. Così il sapiente istruisce i suoi lettori nel libro del Siracide. La sapienza dice che l’ascolto è il primo elemento per costruire una relazione. È un imperativo, un dovere etico e spirituale per vivere la propria dimensione di essere umano. Il dialogo è fatto di ascolto, di attenzione sincera di ciò che l’altro vuole dire. Ascoltare non è semplicemente udire ma entrare in sintonia e comunione con chi parla, aprendo la propria intelligenza e capacità di comprensione. L’ascolto richiede silenzio per far parlare l’altro per uscire dalle proprie categorie in un atteggiamento di umiltà. Allora il rispondere potrà far progredire il discorso e le diverse posizioni, anche distanti, potranno avvicinarsi e il dialogo porterà del bene. Potersi ascoltare è un’esperienza prodigiosa ed è il primo fondamentale passo verso la comunione. Nel dialogo interreligioso l’ascolto è un elemento 18


fondamentale. Quando il proprio parlare non lascia sufficiente spazio all’altro, allora diventa inutile. A causa della violenza e del terrorismo si è diffuso un atteggiamento di sospetto o addirittura di condanna delle religioni. In realtà, benché nessuna religione sia immune dal rischio di deviazioni fondamentalistiche o estremistiche in individui o gruppi, bisogna guardare ai valori positivi che esse vivono e che esse propongono, e che sono sorgenti di speranza. Si tratta di alzare lo sguardo per andare oltre. Il dialogo basato sul fiducioso rispetto può portare semi di bene che a loro volta diventano germogli di amicizia e di collaborazione in tanti campi, e soprattutto nel servizio ai poveri, ai piccoli, agli anziani, nell’accoglienza dei migranti, nell’attenzione a chi è escluso. Possiamo camminare insieme prendendoci cura gli uni degli altri e del creato. Tutti i credenti di ogni religione. Insieme possiamo lodare il Creatore per averci donato il giardino del mondo da coltivare e custodire come un bene comune, e possiamo realizzare progetti condivisi per combattere la povertà e assicurare a ogni uomo e donna condizioni dignitose di vita. Nel 2019 celebreremo l’ottavo centenario dello storico incontro tra san Francesco d’Assisi e il Sultano d’Egitto. Francesco volle formare i suoi frati alla missione per un dialogo sereno e sincero con il mondo e le altre religioni. Egli raccomandò ai frati d’amare e di stimare gli infedeli (non solo i saraceni, ma ogni pagano, qualsiasi persona non battezzata) e di non credersi affatto migliori di loro, poiché se gli infedeli avessero ricevuto le grazie date ai missionari, essi sarebbero diventati migliori di loro. L’amore e la stima non devono venir meno né per i loro peccati né per la loro malizia, perché i frati sono destinati a liberare coloro che sono nell’errore.

7. Le tre dimensioni dell’“aprirsi” Se è vero che la nuova evangelizzazione è il coraggio di osare sentieri nuovi, di fronte alle mutate condizioni dentro le quali la Chiesa è chiamata a vivere oggi l’annuncio del Vangelo, ed è anche è un’azione anzitutto spirituale – ossia la capacità di fare nostri nel presente il coraggio e la forza dei primi cristiani, dei primi missionari –, allora la testimonianza viva di san Francesco e il suo carisma vissuto nelle nostre Chiese e Comunità cristiane hanno ancora molto da dire al mondo e possono contribuire in misura significativa alla missione della Chiesa. Il Poverello sapeva di “essere posseduto” dall’amore di Dio e da una verità più grande, quella di Cristo che salva, e di “non essere la verità”. È questo lo stile cristiano dell’annuncio e del dialogo con il mondo e le altre religioni. I cristiani sono testimoni dell’Amore e della Verità che rende liberi. Essi non si sentono migliori degli altri: provano a testimoniarla, a condividerla, a renderla così com’è, ossia relazionale, partecipativa, interpersonale. La Verità, poi, non s’impone: perché si rende credibile nel vissuto quotidiano dei discepoli. Una verità che avesse bisogno d’essere dimostrata sarebbe solo una “mezza verità”. La Verità che ci conquista – forma storica dell’Amore, suo volto – ci rende pieni di zelo per gli uomini e le donne del nostro tempo e ci accende il cuore fino a quando tutti i popoli della terra non conosceranno il Cristo, Signore del tempo e della storia. Francesco si sentiva posseduto da una Verità più grande delle sue 19


stesse forze, della sua parola, della sua stessa fede e del suo medesimo amore verso Cristo e i fratelli. San Francesco, come ogni vero testimone del Vangelo, porta dentro di sé le tre «dimensioni dell’“aprirsi”, o della “coscienza ecumenica”: l’apertura del cuore, 26 l’apertura all’altro, e l’apertura al creato» . La ricerca della giustizia (desiderio di bontà) è un atteggiamento interiore che deve accompagnare il dialogo interreligioso per il bene di tutti. Il reciproco conoscersi e la possibilità di trovarsi su un terreno comune può portare frutti di pace. L’instabilità dell’attuale situazione mondiale segnata dalla violenza richiede l’intervento di uomini e donne di buona volontà che sanno far prevalere l’uso della ragione sulle armi e la forza dell’amore su quella dell’odio. Così, poter veramente dialogare significherà accogliersi reciprocamente e gettare semi sulla terra che germoglieranno. Procedere nel cammino del dialogo vuol dire diventare segno di speranza per il mondo, operatori di concordia in una società assestata di pace, profeti credibili capaci di sognare, che credono che la pace prevarrà sulla guerra e che la terra si aprirà finalmente alle dimensioni del cielo: «Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno, la verità germoglierà dalla terra» (Sal 85 [84],11-13).

Prof. Edoardo Scognamiglio Ordinario di Teologia dogmatica Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale – Napoli Direttore del Centro Studi Francescani per il Dialogo interreligioso e le Culture – Maddaloni (Ce).

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BARTOLOMEO I, La via del dialogo e della pace, Edizioni Qiqajon, Magnano (Biella) 2014, 14-15.

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