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Numero 2/2017 - Trimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/CBPA/sud/BENEVENTO/109/2007
Rivista francescana fondata a Ravello nel 1925
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1917-2017: La Provincia religiosa di Napoli tra storia, cronaca e memoria
SOMMARIO Luce Serafica 2/2017
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EDITORIALE Ci scrivono... LUCE SERAFICA 90 ANNI DOPO Pagine che ancora parlano 1914-2014: Dalla guerra dei 30 anni alla Chiesa di Papa Francesco Ravello negli anni Venti Istituzioni e società 90 anni di storia e di vita francescana Andrea De Luca Tipografo dell’Arcivescovo LA PROVINCIA RELIGIOSA DI NAPOLI TRA STORIA CRONACA E MEMORIA LUCE SERAFICA 90 ANNI DOPO Dopo anni di attesa nel 2006... Due riviste per il beato Illuminare il mondo di oggi La riforma podestarile nell’età fascista La parola francescana scritta, predicata e vissuta Kolbe, Ravello e Luce Serafica Assisi, Santurario della Spoliazione Come Francesco: apostoli della misericordia L’ultimo sguardo prima del cielo P. Michele Abete vita e spiritualità EVENTI 2017
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Un secolo di serafica luce Editoriale
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Fissare questo cammino storico-spirituale e culturale era un dovere per LUCE SERAFICA, alla vigilia della celebrazione del 31° Capitolo provinciale ordinario (5-9 giugno 2017).
Gianfranco Grieco
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FICA ha saputo raccontare questa storia che ha spalancato le porte vero il futuro. Dal 1925 in poi, proponendo il fascino francescano e penitente del Beato Bonaventura da Potenza, ha raccontato passo dopo passo la storia gloriosa di questa Provincia di Napoli; ha fissato il suo sguardo sui suoi giganti, partendo dai tre fratelli Antonio, Giuseppe e Alfonso Palatucci; e poi i fratelli Antonio e Bonaventura Mansi, il “magnifico custode” che dopo aver salvato la città di Assisi dalla guerra e servito l’Ordine serafico al centro, ha raggiunto la periferia, dedicando per nove anni le sue ultime forze come Ministro provinciale di Napoli fino alla vigilia della sua morte avvenuta nel 1964; inoltre, i fratelli Benedetto e Guglielmo Salierno. Accanto a questi nomi la rivista ha associato anche altri: Proto, Gallo, Cava, D’Apice,fra Egidio, Di Monda, Palmese, Vassallo, Giustiniano, Nolè, Alfano, Scognamiglio. E poi, i tanti religiosi meno noti, che nel silenzio del chiostro dei conventi riaperti dopo la soppressione, hanno operato per la rinascita della Provincia partendo prima da Ravello per continuare nelle dimore francescane di Santa Anastasia, di Aversa, di Montella, di Nocera Inferiore e di Portici, quel cammino che ha portato la Provincia a quei traguardi che ha segnato la sua storia dal dopo guerra ad oggi. Fissare questo cammino storico-spirituale e culturale era un dovere per LUCE SERAFICA, alla vigilia della celebrazione del XXXI capitolo provinciale ordinario (5-9 giugno 2017). I lettori della rivista che camminano con noi, si uniscano al nostro rendimento di grazie e al nostro inno di lode a Francesco, che ha piantato questa sua vigna e la custodirà sempre perché ascolta la preghiera dei suoi figli.
uesto numero speciale di LUCE SERAFICA ha la pretesa di raccontare la storia, la sua storia, quella che le appartiene, quella costruita con fatica e con francescana dedizione da coloro che hanno attraversato le stagioni liete e tristi del secolo breve che ha lasciato in eredità al XXI secolo capitoli ancora da completare. Partiamo dalla storia recente della nostra Provincia religiosa OFMConv. della Campania e della Basilicata che in questo anno centenario della sua rinascita volge lo sguardo indietro per rileggere quanto i pionieri hanno detto, hanno scritto ed hanno fatto, traducendo così, in programmi concreti, le urgenze del tempo sociale e religioso di allora. Dal versante politico: prima (1915-1918) e seconda guerra mondiale (1939-1945), passando per l’era fascista prima e democristiana poi con tutti i risvolti che ben conosciamo. Poi, il versante Chiesa, con i papi giganti di questa luna stagione secolare: da Benedetto XV a Pio XI; da Pio XII a papa Giovanni XIII; da Paolo VI a Giovanni Paolo II; da Benedetto XVI a papa Francesco: cento anni e passa, di storia della Chiesa prima e dopo il Concilio Vaticano II, legata alla rinascita dell’Ordine serafico in Italia, in Europa e nel mondo. La tensione missionaria proposta dal “Papa delle missioni”- Pio XI- veniva accolta con fervore e con entusiasmo anche dai religiosi francescani conventuali italiani che rispondevano all’appello papale aprendo stazioni missionarie in Africa, in Cina e in Giappone. Padre Kolbe appartiene a questi pionieri della prima ora. Lasciava la sua Polonia dopo aver fondato nel 1927 la grande Città dell’Immacolata, per raggiungere il lontano Giappone ed inaugurare una nuova pagina missionaria francescana conventuale. Non era un fuga, la sua, la solo la risposta a quella voce mariana che ha guidato i passi della sua vita donata all’età di 47 anni nel famigerato campo di concentramento di Auschwitz. LUCE SERA5
La foto dei lettori
ci scrivono...
Roma , 25 marzo 2017 Festa dell’Annunciazione Caro p. Gianfranco, alcune settimane fa ho ricevuto il tuo saluto e gli auguri per il nuovo anno che mi hai mandato insieme all’ultimo numero del 2016 della rivista LUCE SERAFICA, al tuo libro più recente:”Ecco la generazione che cera il tuo volto, Signore” e alla rivista “Il Padre”, in gran parte dedicata- come il libro del resto- alla memoria del cardinale Fiorenzo Angelini. In precedenza avevo ricevuto anche una copia del tuo libro: “La Chiesa francescana di Papa Francesco”. Tutto questo materiale mi conferma che la tua attività di scrittore edi divulgatore continua senza sosta. Ti auguro serenità e salute per continuare a fare il bene nella volontà di Dio. Fraternamente Fra Marco Tasta Ministro generale
in memoria di mordicchio itinerante, samaritana e distaccata dalle cose di questo mondo. Lui ci offre l’esempio. Sta a noi accoglierlo e farlo nostro. Anche Gesù con la sua predicazione non ha cambiato il mondo. Ha dato alcune direttive essenziali. Chi crede nella sua parola, la traduce anche in pratica. Ma, chi non crede, resta a guardare. A papa Francesco non gli basta guardare il mondo così come cammina. Gli indica una meta: chi vuole seguirlo, lo segua. Ma, non si può abbracciare e servire un ideale di vita e poi accoglierlo secondo il nostro metro di misura e di giudizio. Chi ama papa Francesco, lo segua, e basta. Le chiacchiere e le critiche non portano da nessuna parte. Sono solo sterili e creano confusione, disorientamento e scandalo.
Napoli, 1 aprile 2017 Gentile direttore, leggo con attenzione i numeri della rivista e trovo interessanti tutti gli articoli che pubblica. Il taglio francescano in particolare, la predicazione di papa Francesco e la dimensione politica mondiale che riscontro in ogni numero mi legano a quella appartenenza francescana conventuale che si contra proprio in questa triplice dimensione: La Chiesa, Frate Francesco e il mondo. Grazie per questo dono che accolgo con gratitudine ogni volta che la rivista entra tra le parte di casa. Suo Gianni Prosperini
Risposta: Nel panorama culturale francescano italiano, la nostra rivista, come può toccare con mano leggendo gli articoli di questo Numero speciale, da 92 anni, cerca di fare la propria parte, proponendo sommessamente contributi che nel corso di questi anni hanno lasciato un segno. Se sfoglia le pagine di ogni annata di LUCE SERAFICA, si imbatte in articoli e studi che spaziano sui vari campi della cultura italiana ed europea tenendo in primo piano la consegna che san Francesco e i suoi discepoli ci hanno lasciato in questi otto secoli e passa di presenza francescana nel mondo. Il messaggio di Francesco è sempre vivo ed anche papa Francesco con la sua predicazione francescana riesce a trasmetterlo anche a quelle persone che sono lontane dalla proposta cristiana. La Laudato sì e la Amoris laetitia, confermano le sue scelte pastorali che riscuotono consenso in ogni angolo della terra. La recente visita in Egitto – mondo musulmano- e il pellegrinaggio a Fatima – mondo cattolico- confermano questa sua “politica” pastorale che riscuote consensi sempre più ampi.
COMITATO DI REDAZIONE Orlando Todisco Edoardo Scognamiglio Salvatore Amato Iman Sabbah Emanuela Vinai Assunta Cefola Luigi Buonocore Emiliano Amato Boutros Naaman Mohammad Djafarzadeh
Roma, Pasqua 2017 Stimato direttore, noto da alcuni mesi a questa parte una certa posizione critica nei riguardi di alcune scelte di papa Francesco anche da parte anche da parte di coloro che gli hanno promesso obbedienza e riverenza. Papa Francesco cammina per la sua strada, partendo prima dal fare e poi dal dire. Lei come la pensa? Grato per una risposta Suo Lamberto Dolci
Foto di copertina Archivio di Luce Serafica Hanno collaborato: Gianfranco Grieco Francesco Dante Salvatore Amato Giuseppe Gargano Edoardo Scognamiglio Giorgio Tufano Raffaele Di Muro Francesco Capobianco
Risposta: Papa Francesco porta il nome del santo di Assisi e cerca di imitarlo nel suo stile di vita povera, 6
Paolo D’Alessandro Donato Sarno Nicola Gori Vittorio Trani Giacomo Verrengia
luce serafica 90 anni
Pagine che ancora parlano GIANFRANCO GRIECO
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n che modo LUCE SERAFICA nei suoi 90 anni di vita e di storia ha camminato con gli eventi del secolo breve cercando non solo di leggerli ma anche di interpretarli e di trasmetterli ai suoi lettori con un linguaggio piano ed accessibile, nel rispetto delle convinzioni personali e delle attese delle comunità alle quali inviava ogni mese messaggi umani, religiosi e francescani? Il saggio dello storico Francesco Dante, nostro affezionato collaboratore, parte dall’ inizio del secolo breve -1914 – ed approda a Papa Francesco - 1913.
Tante, le stagioni, che, nel tempo, si sono succedute. Nata nel marzo del 1925, alla vigilia del VII centenario della morte di san Francesco, la parola che più ricorre sin dal primo numero è Mezzogiorno. “Siamo pronti a portare il nostro contributo e sicuri che, specialmente nel Mezzogiorno, il nostro Periodico sarà ben accolto dai figli e devoti e dagli amici tutti del Serafico Padre, non per merito nostro, ma per il santo entusiasmo che suscita in tutti i cuori S. Francesco, nel cui nome noi ci presentiamo” (p.6). E poi, i titoli:”S. Francesco e il Mezzogiorno” (pp-7-8-9): “Il primo convento francescano del Mezzogiorno” : San Lorenzo 7
Maggiore di Napoli (pp. 1114). Poi Roma, la città dell’anno del Giubileo 1925. “Dopo tanti anni di fatica e di dolore, di strazio e di morte – si legge a pagina 17 del primo numero della rivista – è bello e dolce poter dire: questo è un anno santo, l’anno della gioia e della vita”. (p.17). Inoltre lo sguardo sulla “Fioritura francescana nel Mezzogiorno” (maggio 1925, pp. 65-67). Gli anni di strazio e di morte che avevano preceduto l’anno di nascita di LUCE SERAFICA, sono ben noti a tutti. La prima guerra mondiale con il grido di Papa Benedetto XV sulla “inutile strage”; e poi, l’evento del comunismo nell’Urss; il fascismo in Italia e del nazio-
Luigi Pierno (19381998) Volto penitente del Beato Bonaventura da Potenza (1651-1711) olio su tela (1997)
nalsocialismo in Europa, il concordato in Italia del ’29; l’anno santo della redenzione del 1933; e poi la seconda grande guerra mondiale dal 1° settembre 1939 al 25 aprile 1945. In questa lunga stagione LUCE SERAFICA ha fatto la sua parte, ponendosi al servizio dell’annuncio francescano in Italia partendo dal VII° centenario della morte del padre serafico Francesco. Se è vero che la rivista francescana si è schierata subito dalla
parte di Mussolini pubblicando i suoi nobili messaggi (cfr. Dicembre 1925,pp. 237238), questo lo ha fatto soltanto dal punto di vista religiose o francescano. Si deve infatti al Duce la restituzione all’Ordine serafico del Sacro Convento di Assisi (Cfr LUCE SERAFICA, novembre 1925 , p.227; 4 ottobre 1927, p. 241-256); la riapertura della Basilica di san Lorenzo Maggiore a Napoli ( dicembre 1925, pp. 248-249 ) e di tante altre basiliche sparse nel ter8
ritorio italiano, da Brescia a Treviso, da Vicenza a Pistoia; da Messina a Palermo. Il magistero dei papi da Pio XI a Pio XII, da Papa Giovanni a Paolo VI; dal Concilio al dopo Concilio; da Giovanni Paolo II a Papa Benedetto XVI sino a Papa Francesco: ieri come oggi, LUCE SERAFICA ha fatto del magistero il suo vessillo e della narrazione francescana del sud Italia la sua scelta preferenziale. Sfogliare i primi 90 anni di LUCE SERAFICA vuol dire, allora, camminare con le vicende del Paese Italia e della Chiesa che è in Italia, mettendo al centro la vicenda francescana che affascina e che conquista. Tante, potrebbero essere, le tesi di laurea, che soprattutto i giovani, dovrebbero scegliere e preferire, sfogliando le pagine di LUCE SERAFICA. Gli eventi più significativi di ieri possono e devono diventare patrimonio comune delle nuove generazioni. Solo così, leggere il passato, vuol dire creare il futuro che è dietro l’angolo.
Dalla guerra dei 30 anni alla Chiesa di Papa Francesco nista: Nicolae Ceaușescu e la moglie Elena, dopo un processo sommario vennero giustiziati. Eleggere le guerre a spartiacque della storia mutila la storia, ha scritto Anna Bravo, quasi scusandosi come nello scrivere un manuale di storia si sia trovata a riempire pagine e pagine sulla guerra, e come abbia riservato invece solo poche righe agli sforzi diplomatici per evitarla. Quanti sono a conoscenza dei numerosi sforzi di evitare il conflitto del 1914-1918? E chi è a conoscenza dell’offerta dell’Austria – certo alle strette e pronta a tutto pur di evitare l’apertura di un ennesimo fronte di guerra a Sud – all’Italia il 16 marzo del 1915? L’Austria si impegnava, in cambio della neutralità, nemmeno di un’alleanza militare, a firmare un accordo che conteneva il raggiungimento dei confini a Salorno, e poi: la cessione di tutta la riva occidentale dell'Isonzo (che costerà, poi, all'Italia, più di 500.000 morti, per conquistarla con le armi), la concessione della piena autonomia amministrativa a Trieste; il proprio disinteresse per l'Albania; acconsentiva all'occupazione italiana a Valona ed infine si diceva disponibile ad esaminare benevolmente la situazione di Gorizia e di alcune isole della Dalmazia. La volontà italiana di arrivare fino al Brennero provocò il rifiuto austriaco. Ma il nazionalismo italiano aveva ormai ubriacato tanti – tranne i cattolici e i socialisti – che vedevano nella guerra l’occasione per raggiungere grandi e immensi orizzonti. Il conto sarebbe arrivato nel 1918: più di mezzo milione di morti. Tolstoj in Guerra e pace ha disegnato mirabili pagine nel raccontare l’angoscia, il dolore, la sofferenza dei soldati che al tramonto di un “qualunque” giorno di battaglia facevano sentire i propri strazianti lamenti, stesi in campi di battaglia ridotti ad un inferno umano. Terribile, scriveva il grande Tolstoj, ritrovarsi la sera a passare in qualche modo la serata tra una battaglia e l’altra, constatando l’assenza dell’amico perché quel giorno era morto. La guerra è la fine dell’innalzamento
FRANCESCO DANTE STORICO, UNIVERSITÀ LA SAPIENZA ROMA
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erché la storia degli uomini deve essere segnata dalla scansione terribile delle guerre? Non è un modo crudele e scontato di pensare alle vicende dell’uomo? Perché non spendere studi, ricerche, intelligenze per spiegare i numerosi tentativi di evitare le guerre da parte di uomini e donne che di tempo in tempo compresero la follia della guerra? Uno sguardo al Novecento Gli anni che vogliamo raccontare sono segnati da uno spartiacque molto chiaro, il 1989 che, però, marca una grande illusione, quella che, con la fine dell’Unione Sovietica e del sistema ad essa legato, tutto sia divenuto chiaro e gli uomini si trovino a vivere un’alba di un nuovo tempo felice. Così non è e non è stato. Riccardi ha messo in guardia la generazione di fine millennio affermando che non è affatto facile capire il mondo contemporaneo. E’ complesso, confuso. L’89 è piuttosto l’inizio di un tempo contrassegnato da un nuovo disordine mondiale. La generazione che si avvia all’età della pensione era stata abituata a pensare il mondo secondo le categorie del bene e del male; la guerra fredda metteva timore ma era anche rassicurante, aiutava a definire le coordinate dei rapporti tra gli uomini ed era facile leggere ciò che accadeva secondo una consolidata griglia: il male era ad Est e il bene ad Ovest. La lettura era rovesciata per chi pensava in maniera opposta dal momento che la posizione di ognuno dipendeva dalla opzione compiuta davanti ai due mondi che si contrapponevano. Il mondo sembrava ingessato tra due civiltà e niente sembrava smuoverlo, tanto che fino al novembre del 1989 nessuno, ma proprio nessuno, avrebbe immaginato la fine dell’impero sovietico, soprattutto senza spargimento di sangue, tranne in Romania dove un colpo di stato mise fine al regime comu9
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dell’uomo, è l’immagine dell’abbassamento dell’uomo che ha utilizzato la propria intelligenza per distruggere, non per costruire. Perché è l’uomo a scendere in battaglia? Tolstoj fa rispondere, sempre in Guerra e Pace, ad una giovane principessa: “E’ proprio quello che dico io: non capisco perché gli uomini non possono fare a meno della guerra. Com'è che noi donne non ne abbiamo bisogno, non ne proviamo alcun desiderio?”. Idea di nazione, idea d’Europa Quale è l’idea che sottende alla inevitabilità della guerra? Perché essa, ad un certo punto, appare come l’unica via per affrontare le crisi tra le nazioni? Per rispondere a questo quesito è necessario soffermarsi su questo termine – “nazione” - che si è appena utilizzato, perché fu proprio nel corso del XIX secolo che esso prese piede tanto da divenire la molla principale dell’azione di interi popoli. “L’idea di nazione di ”Federico Chabod aiuta a comprenderne le sue profonde radici nelle mentalità dei popoli europei nel corso del XIX secolo, ma anche la malattia che colpì quelle generazioni sfortunate di donne ed uomini quando da nazione si approdò a nazionalismo. Fu l’inizio della fine e già negli ultimi anni del XIX secolo si potevano scorgere, senza essere facili e sventurati profeti, le radici di quelle guerre e stermini che avrebbero colpito la culla della civiltà. Chabod aveva troppo innato il senso della storia per rappresentare l’idea di nazione solo come il momento negativo, antitetico dell’idea di Europa: le sue osservazioni più fini e penetranti toccano il punto di equilibrio e di complementarietà fra le due idee – nazione ed Europa. Mi colpisce il fatto che Chabod abbia riflettuto su questi temi con altri storici dell’Enciclopedia Italiana, meglio conosciuta come “La Treccani”. Scriveva Chabod che, proprio negli anni Trenta, veniva a maturazione, purtroppo, quel processo
nato a metà del XIX secolo, in cui veniva meno l’antica idea di nazione per giungere al nazionalismo. Chabod era convinto che l’idea di nazione, tanto cara ai pensatori del XIX secolo, non dovesse andare mai disgiunta dall’idea e dalla coscienza della comunità europea, anche se non si nascondeva i rischi di quell’itinerario. Egli rifiutava però di fare dell’idea di nazione una divinità suprema, che comportasse un misconoscimento di realtà più vaste, quali l’Europa e l’umanità intera. Chabod aveva fatto di queste riflessioni - nel pieno della guerra e nel cupo inverno del 1943 – il centro dei suoi corsi universitari a Milano e successivamente a Roma nel 1946-47. L’idea di nazione è, innanzitutto, per l’uomo moderno, un fatto spirituale; la nazione è anima, spirito e soltanto assai in subordine materia corporea. La storia dello sviluppo dell’idea di nazione dimostra come il carattere legato alle forze naturali abbia determinato tutto l’ulteriore sviluppo del pensiero di quelle generazioni fino a sboccare nel razzismo. L’esaltazione del sangue, del suolo, il richiamo pagano al “dio Po” (parafrasando Chabod, “questo custode delle virtù ataviche, questa vestale dell’acqua sacra della lealtà e della rettitudine”) hanno trasformato l’idea di nazione in quella di popolo come comunità di sangue. Ma tutto questo non è che la logica conclusione del metodo naturalistico di valutare il carattere delle nazioni: che è, poi, il modo più primitivo e rozzo. Non è disgiunto da tutto questo l’idea della purezza del sangue ben conosciuta e con tristi conseguenze in Spagna. L’idea di nazione si lega ben presto all’idea di libertà: ma anche qui occorre distinguere tra un’idea di libertà come valore da conquistare (gli italiani nel risorgimento) a valore proprio della conservazione e della chiusura di fronte all’altro. Mi spiego. Per gli svizzeri e i tedeschi la libertà è quella antica, avita, tradizionale, retaggio ormai di secoli, che occorre non conquistare ma difendere contro la minaccia dall’esterno. Quindi, difendere la propria libertà: non solo sul terreno propriamente politico, ma anche, e forse più, su quello morale, nei costumi, nelle credenze, nel modo di pensare, nella propria individualità spirituale e morale, insomma in ciò che costituisce propriamente la nazione. In tal modo la libertà diviene la caratteristica essen10
costruita con un motore a turbina (che sarebbe diventato il sistema di propulsione principale per tutte le navi). Le principali nazioni costruttrici di navi di battaglia di questo periodo furono la Gran Bretagna, la Francia, la Russia e le nuove arrivate Germania, Impero austro-ungarico e Italia la quale con la nave Duilio, la prima moderna corazzata d'altura a torri della storia, ottenne un breve periodo di primato tecnico, mentre la Turchia e la Spagna si dotarono di un piccolo numero di fregate corazzate e di incrociatori, perlopiù di costruzione estera, così come la Svezia, la Norvegia e l’Olanda che acquistarono o costruirono piccole "navi da battaglia costiere" ("Pantserschip" o "Panzerschiffe", a seconda della lingua) del tonnellaggio massimo di 5.000 t. Alcune marine sperimentarono anche navi da battaglia di seconda classe, vascelli più economici di una vera nave da battaglia, ma anche meno potenti; questi non furono comunque particolarmente popolari, specialmente nelle marine di nazioni con ambizioni globali. Gli Stati Uniti sperimentarono quattro di queste navi, tra cui le prime due navi da battaglia americane, la Maine e il Texas. La prima nave da battaglia somigliante alle navi da battaglia moderne venne costruita in Gran Bretagna intorno al 1870 con la classe Devastation caratterizzata da navi a vapore prive di vele. Comunque fu a partire dal 1880 che il progetto delle navi da battaglia si stabilizzò. Successivamente il dislocamento delle navi da battaglia crebbe rapidamente man mano che vennero aggiunti motori più potenti, corazze più spesse e cannoni di calibro inferiore. Le torrette, la corazzatura ed il motore a vapore vennero migliorati nel corso degli anni e venne introdotto il tubo lanciasiluri. Comunque gli eventi scatenarono una nuova corsa agli armamenti navali nel 1906. Ben pochi però (eccetto che in alcuni ambienti navali francesi) si accorsero che l'evento più straordinario della storia navale del tardo XIX secolo e dell'inizio del XX non era la comparsa di navi da battaglia sempre più avanzate, con cannoni e motori sempre più potenti, ma la rivoluzione concettuale portata avanti dal siluro (e dalla mina), armi molto economiche e capaci, per la prima volta nella storia della marineria, di permettere ad una nave molto piccola di affondare una nave molto grossa. I primi siluri erano troppo primitivi (e di cortissima gittata) per impensierire le corazzate, mentre nel corso degli anni '80-'90 del XIX secolo la minaccia delle tor-
La corsa agli armamenti Tra il 1870 ed il 1890 le navi da battaglia entrarono in una concitata fase sperimentale, numerose marine sperimentarono diversi arrangiamenti di torrette, dimensioni e numeri, con ogni nuovo progetto che rendeva in gran parte obsoleti i precedenti. Diversamente dagli inglesi, i francesi costruirono spesso un singolo esemplare di ogni nuovo progetto. La Marine nationale si guadagnò così il soprannome di "marina di esperimenti". Una serie di navi da battaglia tedesche venne progettata con numerosi piccoli cannoni per respingere navi di dimensioni minori, una inglese venne 11
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ziale del proprio passato nazionale: essa non è solo un ideale futuro ma è la propria storia stessa. Per gli italiani del secolo XIX è un ideale teorico da far trionfare, mentre per gli svizzeri del Settecento è una prassi da conservare. Ma, se si vuole analizzare bene questi concetti e questi anni, appare molto chiaro che simili appelli ed evocazioni costituiscono un motivo ornamentale, una sovrastruttura: l’ideale di libertà pensato da Mazzini, da Cavour e dai vari Cattaneo non erano puramente e semplicemente l’ideale delle antiche libertà comunali, ma era l’idea di una libertà moderna nata in Inghilterra e diffusasi nel continente europeo attraverso la Rivoluzione francese, fatta propria dai popoli, anche con qualche abbellimento locale. Il Risorgimento insomma ha nella sua radice un’idea e valori universali, non l’incistamento di un popolo dentro una propria tradizione, lingua, costume…. Quali che siano le differenze tra Mazzini e Cattaneo, Mazzini a Cavour c’era in tutti il senso oltre che dell’individualità (la nazione), dell’universalità (l’umanità e più precisamente l’Europa ) in modo che l’espandersi dell’individualità trovava un suo naturale, immediato limite nell’interesse degli altri e in quello generale dell’Europa. Quando questo scrupolo - il rischio di offendere l’interesse generale con il mio particolare – verrà meno, sarà la guerra. La nazione, profondamente connessa alla libertà e all’umanità, nell’ultimo decennio del XIX secolo, divenne un simbolo ideologico dal carattere forzatamente etnico. La nazione era ormai slegata da ogni altro sentimento europeo ed umanitario, si tramutò, si trasformò da missione educatrice a missione di predominio e il primato da civile e morale divenne primato delle armi.
pediniere fu efficacemente controbattuta aumentando a dismisura il numero dei piccoli pezzi d'artiglieria destinati esplicitamente a contrastarle prima che potessero lanciare i siluri. Quando però nel 1905 le corazzate furono pronte ad una vera rivoluzione della loro potenza erano già disponibili i mezzi in grado di batterle, mentre i cacciatorpediniere diventarono non solo delle unità destinate a coprire le corazzate, ma dei bastimenti pericolosi ed in grado, in determinate condizioni, di affondarle con una salva concentrata di siluri. La Guerra dei Trent’Anni del Novecento: 19141945 Un inedito senso del tempo si afferma all’inizio del XX secolo: se l’Ottocento si era soffermato sugli aspetti quotidiani dell’esistenza, sul racconto realistico dell’esperienza vissuta, nei primi anni del XX secolo si impongono nuovi fatti legati ad una nuova percezione del tempo, del passato come del presente, relativi proprio a quei decenni segnati da innovazioni e scoperte negli ambiti della scienza e della tecnica, elementi che indubbiamente hanno caratterizzato in modo nuovo la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Si apriva un terribile trentennio – 1915-1945, la Guerra dei Trent’anni del XX secolo – che ha cambiato la storia e ha segnato i rapporti umani, non solo di quelle generazioni che si sono trovate a vivere e a morire nei due conflitti mondiali: l’idea di progresso con le innumerevoli scoperte che migliorarono indubbiamente la vita di tante generazioni tra XIX e XX secolo avevano fatto credere all’idea che la storia dell’uomo fosse segnata da un destino ineluttabile che avrebbe dato spazio ad un progresso inarrestabile. Ebbene, proprio le due guerre mondiali, hanno segnato la più crudele e ampia smentita a questa idea delle sorti progressive dell’umanità intera. Per decenni, nella seconda metà del XX secolo, la storiografia è stata quasi ingabbiata da questo schema: la storia dell’uomo è storia dei propri conflitti. Papa Francesco, nella Evangeli Gaudium, si è soffermato sull’idea di tempo e di spazio, riconoscendo una superiorità al tempo con una motivazione che aiuta la nostra riflessione sul terremoto che sconvolse l’Europa e il mondo dal 1914, cent’anni fa: un tempo lungo, perché segna la vita biologica di un uomo, ma anche un tempo molto breve, se lo si osserva dalla fi-
nestra della storia dell’umanità. Scrive Papa Francesco che “il tempo”, considerato in senso ampio, fa riferimento alla pienezza come espressione dell’orizzonte che ci si apre dinanzi, e il momento è espressione del limite che si vive in uno spazio circoscritto. I cittadini vivono in tensione tra la congiuntura del momento e la luce del tempo, dell’orizzonte più grande, dell’utopia che ci apre al futuro come causa finale che attrae. Da qui emerge un primo principio per progredire nella costruzione di un popolo: il tempo è superiore allo spazio. Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci”. La Prima Guerra Mondiale La Grande Guerra si differenziò nettamente da tutte le altre guerre che la precedettero per molte ragioni: fu la guerra della “prima volta” e della “guerra totale”. Per la prima volta non si tratto di un conflitto locale: fu guerra totale sia riguardo agli uomini che alla terra. Non ci furono solo gli eserciti professionali, di mestiere ma venne coinvolta l’intera società civile. Le città con le loro rovine ne furono testimonianza. Guerra totale perché varcò i confini dell’Europa: venne coinvolto anche il Giappone. La scintilla della guerra scoccò il 28 giugno 1914, a Sarajevo, la capitale bosniaca. In un attentato, di matrice estremistica, persero la vita il granduca 12
alla Svizzera. La guerra di movimento si trasformò in guerra di posizione. I soldati furono costretti a vivere dentro trincee lunghe centinaia di chilometri, nella sporcizia e sotto le intemperie, su un Guerra inevitabile? fronte praticamente fermo. Si immaginava, infine, Da molti anni gli stati maggiori di Francia e Ger- questa guerra come le altre precedenti, con vitmania si stavano preparando a una guerra che ri- time, costi e conseguenze gravi, ma in qualche tenevano inevitabile. La Francia aveva fortificato modo limitate e prevedibili: con dei vincitori che il confine con la Germania, quest'ultima invece avrebbero acquistato nuovi territori e maggiori aveva pronti i piani per un attacco fulmineo che mercati e degli sconfitti che li avrebbero perduti. portasse le sue truppe a Parigi in poco tempo, così come era successo nel 1870. Appena dichiarata la Interventismo e neutralismo in Italia guerra ed iniziata la mobilitazione, il grosso delle La maggior parte degli Italiani era per non entrare truppe francesi fu ammassato lungo il confine te- in guerra a fianco degli Austriaci che occupavano desco. ancora i territori di Trento e Trieste. Predominante La mobilitazione delle forze russe avveniva invece era in Italia il partito dei neutralisti, ma la minomolto lentamente per la scarsezza di mezzi di tra- ranza interventista era comunque dell'avviso di sporto e l'insufficienza di strade e ferrovie. Così la cambiare alleanza e di schierarsi contro l'Austria. Germania pensò di riversare tutte le sue forze con- I cattolici e buona parte dei socialisti erano contro tro la Francia, di sconfiggerla rapidamente e poi ri- la guerra. I socialisti sostenevano che la guerra era volgersi contro la Russia sul fronte orientale. Per un affare tra capitalisti che lottavano per il predopoter effettuare questo piano di guerra lampo la minio imperialista dell'Europa, mentre i proletari Germania doveva evitare le potenti fortificazioni di tutto il mondo dovevano sentirsi fratelli. Giolitti, francesi costruite sul confine: perciò l'esercito te- che poco tempo prima aveva lasciato la presidenza desco invase il Belgio, che era neutrale, per assalire del consiglio, si era impegnato per mantenere la le truppe francesi alle spalle. I tedeschi, dopo un neutralità italiana. mese di aspri combattimenti, giunsero a quaranta Egli era sicuro che gran parte del territorio italiano chilometri da Parigi, ma sul fiume Marna furono ancora occupato dall'Austria ("parecchio", come lui bloccati e respinti alla fine di una battaglia duris- stesso affermò) poteva essere ottenuto mediante sima. La non prevista guerra di posizione fa svanire trattative diplomatiche e non aveva visto male, ben presto l'illusione della guerra lampo. come si è visto nell’offerta austriaca, sdegnosaQuesto succede perché scavando delle trincee e at- mente rifiutata da un’Italia con la mente ormai ritendendo l'assalto del nemico il difensore è forte- volta alla guerra. Le forze interne ed esterne che mente avvantaggiato sull'attaccante. Gli assalti, spingevano l'Italia verso la guerra erano molto infatti, sono ancora effettuate dal fante armato di forti. La grande industria vedeva nella guerra fucile che si scaglia contro le mitragliatrici nemi- un'occasione unica e grandiosa di espansione ecoche sistemate sui bordi della trincea o dietro un ri- nomica grazie alle forniture per l'esercito. I magparo ben munito. Dopo la battaglia della Marna le giori quotidiani italiani cavalcavano le tesi dei truppe tedesche e franco-britanniche si fronteg- nazionalisti e attaccavano in maniera violenta i giarono lungo una linea che andava dalla Manica neutralisti fino a definire traditore Giolitti. Molte 13
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Francesco Ferdinando, erede al trono d'Austria, e la consorte. L'Austria decise unilateralmente di considerare la Serbia responsabile dell'attentato perché essa dava rifugio agli indipendentisti slavi. Si intendeva dare un buon esempio di severità a tutti i popoli dell'Impero nella volontà di porre fine ai numerosi moti rivoluzionari della penisola balcanica, riducendo praticamente al silenzio la Serbia. I generali Austriaci prevedevano una rapida e semplice campagna militare priva di ostacoli significativi.
manifestazioni di piazza si svolgevano a favore della guerra e molti interventisti tra cui Gabriele D'Annunzio vi pronunciavano infuocati discorsi patriottici. Anche dall'estero le spinte non mancavano: l'Italia importava il 90% del suo carbone dall'Inghilterra e dipendeva da Inghilterra e Francia anche per altre importanti materie prime: questo era un formidabile strumento di pressione nelle mani dell'Intesa. Nel mese di aprile 1915 il governo italiano firmò a Londra un patto segreto nel quale l'Italia s'impegnava ad entrare in guerra con Francia e Inghilterra. I giornali sottovalutavano i costi e le conseguenze della guerra. Il re era decisamente favorevole alla guerra. Il Parlamento, ancora contrario, fu praticamente obbligato ad approvare il patto di Londra. Il 24 maggio 1915 anche l'Italia entrò in guerra a fianco dell'Intesa. Ma, invece di guerra lampo, fu guerra lunga che ben presto si sarebbe mutata in guerra di posizione. Guerra totale, perché unificò più generazioni: a Caporetto, nel 1917 vennero chiamati a combattere i ragazzini del ’99, giovani diciottenni. E guerra totale per le armi: di tutti i tipi fino all’uso indiscriminato dei gas. Guerra totale perché non c’era scampo: alle prime linee a cui si somministrava abbondante grappa non si dava altra possibilità che procedere in avanti. Chi si girava indietro veniva colpito dal “fuoco amico”. Nel conflitto nato nel cuore dell'Europa vennero coinvolte anche le potenze extra-europee, come il Giappone e gli Stati Uniti. Inoltre la Prima Guerra Mondiale fu caratterizzata dall'utilizzo da parte di tutte le nazioni di uno spiegamento di forze senza precedenti e dall’utilizzo di nuove armi: gli aerei, inventati pochi decenni prima, i carri armati e i sottomarini. Fu introdotto anche l’utilizzo delle più devastanti armi chimiche e dei gas. Ma il motivo principale che differenziò la Prima Guerra Mondiale da tutti gli altri conflitti antecedenti furono gli effetti: si trattò di una guerra “totale”, che coinvolse tutta la compagine degli Stati belligeranti: non solo a livello bellico, ma anche economico, amministrativo e politico. Notevole, inoltre, l’utilizzo di mirate campagne propagandistiche. Le cause del conflitto sono da ricercarsi, da una parte, nella crisi dei rapporti internazionali europei, dall’altra, nella rapida e significativa ascesa della Germania a potenza navale, con conseguenti ripercussioni sul mondo coloniale. Inoltre, nei movimenti nazionalisti e irredentisti, specie nelle seguenti zone strategiche dell’Europa: Balcani,
Alsazia, Lorena, Trentino e Trieste. Ma, come si è visto, la Prima Guerra Mondiale ha radici nella corsa alle materie prime, prima fra tutte l’acciaio, per cui già a metà dell’Ottocento si poteva prefigurare una guerra. Il sistema delle alleanze fu presto stabilito. Da una parte si schierarono l’Austria e la Germania, dall’altra l’Inghilterra, la Francia e la Russia, mobilitate in difesa della Serbia. La Germania invase quindi la Francia, passando attraverso il Belgio e violandone così la neutralità, cosa che suscitò molto scalpore soprattutto in Inghilterra, che per questo motivo scese in campo al fianco delle truppe francesi. L’intenzione tedesca era di portare avanti una “guerra di movimento”, rapida e veloce, ma il tentativo fallì: il conflitto si rivelò lungo ed estenuante, in quel che fu definita una “Guerra di Trincea”. Dopo l’avanzata tedesca in Francia ed il blocco continentale operato dalla flotta inglese, nel 1915 anche l’Italia entrò in guerra. In quel periodo l’opinione pubblica era divisa i due fazioni, da una parte c’erano i “neutralisti”, dall’altra gli “interventisti”. La Germania sognava la formazione di un grande stato formato da tutte le nazioni di lingua tedesca. L'impero Russo, a sua volta, ambiva a riunire sotto di sé tutti i popoli di lingua slava, quindi scese in campo in aiuto della Serbia ordinando la mobilitazione del proprio esercito. Appena l'Austria dichiarò guerra alla Serbia fu messo in moto l'automatismo delle alleanze e delle mobilitazioni: in pochi giorni ebbero luogo le dichiarazioni di guerra. A fianco di Germania e Austria si schierarono Turchia e Bulgaria, il Giappone e la Romania si schierarono a fianco della Triplice Intesa. Socialisti e cattolici si schierarono decisamente per la pace, ma non furono presi in considerazione. Non fu presa in considerazione neanche la durissima condanna pronunciata dal papa Benedetto XV, che considerò la guerra come il risultato dell'egoismo, del materialismo e della mancanza di grandi valori morali e spirituali, “guerra inutile strage” affermò il papa. Soltanto l'Italia di Giolitti mantenne la calma: la Triplice Alleanza era un patto difensivo, e siccome Austria e Germania non erano state aggredite, ma avevano dichiarato guerra per prime, l'Italia sostenne di non avere alcun obbligo di schierarsi al loro fianco. Ma il 26 aprile del 1915, il governo italiano si alleò segretamente con la Triplice Intesa 14
Il Papa Benedetto XV continuava a lanciare appelli per la pace e per far finire la guerra, definita vergogna dell'Umanità. La popolazione europea era stanca per la fame e le sofferenze, inoltre aveva visto le migliaia di profughi tornato a casa orrendamente mutilati. Carro Armato MKI Inglese. Mancavano i contadini nei campi e gli operai nelle fabbriche, le donne, i vecchi e i bambini dovevano occuparsi di tutto. Non c'era una famiglia che non lamentasse qualche vittima della guerra. Mancavano quasi del tutto lo zucchero, il burro, la carne. Il pane, la pasta, la verdura vennero razionati. Al malcontento dei familiari dei soldati si univa il morale bassissimo di questi ultimi che trascorrevano il tempo nell'attesa di sanguinosi assalti di cui non si scorgeva lo scopo visto che non ottenevano alcun risultato. Numerosi furono gli episodi di diserzione, di automutilazione e di ammutinamento, molti giovani richiamati si rendevano colpevoli di renitenza alla leva. Numerosi furono i processi e le fucilazioni di militari. In Russia, il 1917 è data storica: nacque l’Unione Sovietica sulle ceneri dello zarismo, Nicola II abdicò e venne trucidato con tutta la sua famiglia. L'esercito stanco e sfiduciato si sfaldava, i soldati a milioni tornavano a casa. Il partito bolscevico di Lenin prendeva il potere e Lenin firmava l'armistizio di Brest-Litovsk (dicembre 1917) e poi il trattato di pace con la Germania. La Russia usciva così dal conflitto perdendo Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania, Finlandia. Il ritiro della Russia sembrava aver dato un duro colpo alle speranze di vittoria del fronte anglofrancese-italiano. Germania e Austria riversarono contro il fronte francese e quello italiano le truppe rese libere dal disimpegno della Russia. A questo punto avviene l'ingresso decisivo nel conflitto degli Stati Uniti d'America. Gli Americani erano rimasti molto colpiti dagli affondamenti delle navi civili operate dai tedeschi e in particolare dall'affondamento del transatlantico Lusitania che aveva provocato la morte di 124 cittadini americani. Nel mese di aprile del 1917 il governo USA dichiarò guerra alla Germania: questo comportò l'arrivo in Europa non solo di truppe fresche, ma di viveri, materiali, prestiti. L'esercito italiano era logorato dopo 12 inutili assalti sul fiume Isonzo. Il comando Austriaco scaglia contro gli Italiani le truppe che tornavano dal fronte orientale. L'attacco sfondò lo schieramento italiano a Caporetto tra il 24 e il 30 ottobre 1917. 15
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(Inghilterra, Francia, Russia), stipulando il Patto di Londra. Attraverso tale accordo, l’Italia si impegnava nella guerra contro l’Austria ed, in caso di vittoria, avrebbe dovuto ottenere le terre irredente di Trentino, l’Alto Adige, Trieste, Istria e della la città di Valona, in Albania. Sul fronte italo-austriaco, il conflitto si presentò subito estremamente lento, combattuto nelle trincee scavate nelle montagne del Friuli da soldati reclutati tra le fasce più povere della popolazione all’inseguimento di quel folle mito della conquista della vetta. Nel 1917, si ribaltò la situazione, con l’ingresso nel conflitto degli Stati Uniti a fianco della Triplice Intesa ed il ritiro della Russia, impegnata entro i propri confini con la Rivoluzione. La guerra di trincea rendeva determinanti fronti lunghi migliaia di chilometri che occupavano milioni di combattenti. Tutti gli stati belligeranti furono costretti ad adottare l'arruolamento obbligatorio. Milioni di donne furono impiegate nelle fabbriche addette alla produzione di materiale militare. Le due grandi e sanguinosissime battaglie combattute in Francia intorno alla fortezza di Verdun e sulla Somme non servirono a far avanzare di un metro le linee dei contendenti. Avviene l'esordio, ancora non decisivo per gli esiti della guerra, di nuove armi: gli aerei, i carri armati, i gas e i lanciafiamme. Gli aerei inizialmente combattevano tra loro e mitragliavano le trincee dall'alto, rarissimamente bombardarono le città. Gli inglesi, con la loro lotta, bloccavano i porti tedeschi per impedire i rifornimenti. Una sola battaglia navale fu combattuta nel 1916 tra la flotta inglese e quella tedesca. Gli Inglesi persero 3 corazzate e 3 incrociatori, i tedeschi persero 2 corazzate e 4 incrociatori.Alla fine della battaglia la flotta tedesca rientrò nei porti di partenza. Entrambi i contendenti si dichiararono vincitori, ma il controllo dei mari continuò a rimanere nelle mani degli Inglesi. I tedeschi furono pesantemente danneggiati dal blocco navale inglese. Dopo la battaglia dello Jutland i tedeschi combatterono la guerra sui mari solo con i sottomarini e con le navi corsare. Vittime di questi sottomarini furono le navi di rifornimenti provenienti dagli USA e destinati all'Inghilterra. Questo sarà uno dei motivi che alla lunga provocherà l'intervento diretto degli Stati Uniti nella guerra. Nel 1917 l'orrendo macello era ormai sotto gli occhi di tutti e non si vedevano sbocchi. Niente poteva giustificare tante stragi e sofferenze.
Tutto il fronte italiano dovette ritirarsi per evitare che parte delle truppe rimanessero accerchiate o isolate. Tale ritirata, non essendo stata programmata, si trasformò in una disfatta. Furono perse intere divisioni e una quantità ingente di materiali. Migliaia furono i profughi civili costretti ad abbandonare le loro case. Per fortuna, quando utto sembrava perduto, il paese seppe reagire con fermezza. Il generale Armando Diaz sostituì il generale Cadorna, a Roma fu costituito un governo di solidarietà nazionale presieduto da Vittorio Emanuele Orlando. L'intero parlamento appoggiò questo governo, l'esercito fu riorganizzato rapidamente, l'avanzata austriaca fu bloccata sul Piave, sull'altipiano Asiago e sul Monte Grappa. Ormai per l'Austria e la Germania non c'erano più speranze. L’offensiva austriaca divenne sempre più pressante, finché l’esercito italiano subì la sconfitta di Caporetto, il 24 ottobre del 1917, con gravi ripercussioni anche sulla vita economica e sociale del Paese. Ebbero infatti inizio una serie di scioperi e di manifestazioni, tali da costringere il governo a fare grandi promesse ai soldati, al fine di risollevarne il morale, evitando defezioni ed ammutinamenti. Sul fronte italo-austriaco, l’esercito italiano, guidato dal un nuovo generale, Armando Diaz, riuscì a conquistare Trento e Trieste, stipulando un armistizio con l’Austria e giungendo finalmente alla pace. La Conferenza di Pace di Parigi penalizzò duramente i paesi perdenti, in particolar modo la Germania, facendo prevalere gli interessi delle due potenze europee vincitrici: Francia ed Inghilterra. All’Italia furono concessi i territori di Trentino, Alto Adige, Trieste ed Istria. Dallo smembramento dell’impero austro-ungarico nacquero quindi nuove realtà territoriali e politiche: l’Ungheria, la Cecoslovacchia e la Jugoslavia. Rimase però sospesa la questione della città di Fiume, poiché non ne venne prevista l’annessione all’Italia. Fu così che, nel settembre del 1919, un gruppo di volontari guidato dal poeta Gabriele D’Annunzio, prese possesso della città, instaurandovi un governo definito “Reggenza del Carnaro”. In seguito, la città di Fiume venne liberata con il trattato di Rapallo, stipulato tra Italia e Jugoslavia.
parte dei caduti sono tra i combattenti: la seconda guerra mondiale sarà invece caratterizzata dall'enorme numero di vittime civili. Inoltre la fine della Grande Guerra lascia irrisolti gravissimi problemi che saranno alla radice della seconda guerra mondiale.
La Seconda Guerra Mondiale La seconda guerra mondiale ha una contabilità assurda: 46 milioni di morti: la maggior parte di questi morti erano del tutto sconosciuti, nel nome e nel volto, tranne che per quei pochi parenti ed amici. Ad essere cancellati non furono soltanto 46 milioni di donne ed uomini, la gran parte civili indifesi, ma la calda vita, la vitalità di un mondo di cui erano parte, una eredità di una generazione intera venne cancellata: un’eredità di lavoro, di affetti, di lotta, di creatività, di amore, di cultura, di speranze di felicità che, all’alba della primavera del 1945 nessuno avrebbe potuto più trasmettere. C’era un motivo che fa della seconda guerra mondiale, purtroppo, un apax nella storia dell’umanità: il nazismo. Le regole in base alle quali i nazisti agivano erano del tutto diverse da quelle che si erano andate evolvendo nel corso del secolo precedente. L’avanzata tedesca in Polonia il 1° settembre 1939 non fu una ripetizione delle tattiche della prima guerra mondiale: il metodo di Hitler, l’uomo più sanguinario della storia dell’uomo, fu quello della Blitzkrieg, della guerra lampo. Il mattino del 2 settembre aerei tedeschi bombardarono la stazione ferroviaria della città polacca Kolo. Vi era in sosta un treno di profughi : 111 di loro vennero uccisi. Misure di Tragico bilancio “ordine e polizia” vennero prese dalle SS dietro le Caduti italiani: 600.000, caduti francesi: 1.400.000, linee tedesche. Le SS avrebbero dovuto imprigiocaduti tedeschi: 1.800.000, caduti austro-ungarici: nare o, meglio, eliminare ogni nemico del nazismo: 1.300.000, russi 1.600.000.Comunque la maggior entro una settimana dal 1° settembre quasi 24.000 16
ufficiali e soldati dei reggimenti delle SS erano pronti ad assolvere al loro compito: interi villaggi vennero rasi al suolo. A Truskolasy il 3 settembre 55 contadini polacchi vennero circondati e fucilati, tra loro c’era un bambino di due anni. La Shoà L’antisemitismo ha radici profonde nella storia dell’Europa; Clemente VI nel 1348 dovette emettere un editto in difesa degli ebrei in Francia, ritenuti i responsabili della diffusione della peste nera e fatti oggetto di terribili persecuzioni. Questa mentalità che si fonda sul pregiudizio nei confronti degli ebrei ha reso possibile lo stravolgimento dell’uomo dentro il continente più “civile” del mondo. E’ vero però che ancora nei primi decenni del Novecento gli ebrei vivevano come i loro concittadini non ebrei, gli uni accanto agli altri. Non aveva senso distinguerli in una società come quella europea dove si viveva insieme, senza distinzioni. L’essere ebreo era legato alla vita privata, all’associazionismo e al rispetto delle principali festività. Nel 1848 il Regno di Sardegna aveva concesso, con lo Statuto Albertino, la piena emancipazione civile e politica agli ebrei piemontesi e dopo il 1861 essa veniva estesa a tutta la Penisola. Fino alle leggi razziali del 1938 – che sarebbe più corretto chiamare “leggi razziste” – non esistette una vera e proprio questione “ebraica”: la bella e monumentale sinagoga di Roma, costruita nei primi anni del Novecento, ne è un esempio concreto. Con le leggi razziste del ’38, il primo atto della legislazione era la definizione di ebreo. L’impostazione biologica del fascismo comportò che fosse il sangue a stabilire chi era ebreo. Particolarmente delicato era dunque il caso dei figli di matrimoni misti. In settembre furono emanati i primi decreti che allontanarono studenti e insegnanti dalle scuole e dalle università e imposero agli ebrei stra17
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nieri giunti in Italia dopo il 1918 di lasciare la penisola entro sei mesi. Il 17 novembre un nuovo decreto legge vietò agli ebrei di contrarre matrimoni misti; di possedere aziende di rilievo, perché ritenute strategiche per la difesa nazionale o con più di 99 dipendenti e di avere terreni o fabbricati che superassero i limiti stabiliti; di avere al proprio servizio domestici non ebrei; di prestare servizio alla dipendenza di amministrazioni pubbliche civili e militari. Nel giugno successivo la normativa sul lavoro dispose la loro cancellazione dall’albo per la maggior parte delle professioni. Nei mesi e negli anni successivi moltissimi altri divieti vennero imposti spesso attraverso atti amministrativi. Non fu nemmeno possibile vivere secondo i precetti mosaici dal momento che venne vietata la macellazione rituale kasher (ottobre 1938); entro la fine dell’anno fu sospesa la pubblicazione di tutta la stampa ebraica. L’applicazione delle leggi fu capillare grazie anche alla meticolosità con cui un’intera catena burocratica si impegnò per rispondere alle circolari con prontezza, per schedare e informare. Gli ebrei vennero allontanati da tutti i settori pubblici e privati: esercito, impieghi statali, gran parte dei posti di lavoro privati, il partito fascista e le sue organizzazioni, le associazioni culturali e per il tempo libero. Si volle cancellare la presenza degli ebrei nella vita nazionale il cui contributo doveva sparire in ogni manifestazione: non dovevano più essere pubblicati e diffusi libri di autore ebreo e allo stesso tempo vennero vietate le opere teatrali, le musiche, i film e, infine, vennero sostituiti persino i nomi delle strade intitolate ad ebrei. Il divieto di matrimoni fra ebrei e non ebrei costituì la più profonda violazione di una integrazione che passava attraverso i vincoli familiari, ma i divieti relativi alle occasioni di incontro arrivarono fino a proibire partite comuni sui campi da tennis. Gli ebrei dovevano poter essere individuati come tali e la dicitura "di razza ebraica" comparve su quasi tutti i documenti dagli atti di nascita: dalle pagelle, ai libretti di lavoro. I passaporti non riportarono tale dicitura allo scopo di favorire l’emigrazione. I nazisti concepirono e condussero il secondo conflitto mondiale come guerra razzista e di sterminio e come crociata contro il nemico bolscevico. La guerra, iniziata nel settembre 1939, avrebbe dovuto ridisegnare la carta geografica dell’Europa creando un immenso “spazio vitale” che garantisse
alla Germania le risorse necessarie e fosse abitato da una gerarchia di popoli su base razziale. In questo contesto fu reso possibile lo sterminio degli ebrei, conseguenza di un complesso processo decisionale in cui Hitler ebbe un ruolo fondamentale. Mentre gli ebrei polacchi vennero rinchiusi nei ghetti, quelli dei paesi occupati ad ovest furono vittime di misure legislative sempre più radicali. L’aggressione all’Unione Sovietica nell’estate del 1941 segnò l’avvio di massacri in massa di ebrei. Nell’autunno 1941, con la deportazione degli ebrei dalla Germania, ebbe inizio lo sterminio sistematico: l’eliminazione di milioni di ebrei europei in appositi centri di morte. La maggior parte delle vittime dell’Europa occidentale e - dopo l’8 settembre 1943, dell’Italia - fu destinata al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, ma furono attivi nella Polonia occupata molti altri campi di sterminio. Il genocidio ebbe come centro motore e massimo responsabile la Germania nazista. Lo sterminio degli ebrei d’Europa avrebbe dovuto realizzarsi, nelle intenzioni del governo nazista, nel più assoluto segreto. Ciò non avvenne poiché troppo ampio e complesso era il meccanismo di distruzione che era stato messo in atto. Anche il governo fascista era informato, pur se in modo parziale, di quanto stava accadendo, soprattutto grazie ai contatti diplomatici e alle informazioni della stampa. Nell’agosto 1942 un diplomatico tedesco che lavorava a Roma aveva fatto capire ai colleghi italiani che deportazione significava, in pratica, eliminazione. In tale occasione Mussolini aveva dato il suo "nulla osta" alla consegna ai tedeschi degli ebrei jugoslavi dei territori sotto occupazione italiana, ma le autorità diplomatiche e militari non la misero in atto. Tali conoscenze non riguardavano tanto la strutturazione e la sistematicità dello sterminio, quanto alcuni suoi elementi fondamentali come i massacri di bambini o l’uso letale dei gas. Notizie più vaghe
circolavano anche in strati più ampi della popolazione: le lettere dal fronte orientale e altre testimonianze lo confermano. Dopo l’ordinanza di polizia del 30 novembre 1943, il Ministero dell’Interno della RSI allestì decine di campi di concentramento provinciali. Spesso la prima tappa dopo l’arresto era nelle carceri più vicine, da cui spesso sono state inviate le ultime lettere dei deportati. Dal dicembre del 1943 a Fossoli, presso Carpi (Modena), fu approntato un grande campo di concentramento nazionale per ebrei. Dopo un periodo di gestione italiana, il campo passò alla Polizia di Sicurezza tedesca in Italia con sede a Verona. Nel 1944, a metà febbraio, da campo di concentramento per ebrei venne trasformato in campo di polizia e di transito dal quale vennero fatti partire i convogli di deportazione per Auschwitz e altri campi. In marzo a Fossoli venne aggiunto un settore per i prigionieri politici. Nell’agosto del 1944, di fronte all’avanzata degli Alleati, i tedeschi trasferirono il campo da Fossoli a Bolzano, nella zona di operazione Prealpi. Gli arrestati nella zona di operazione del Litorale Adriatico erano invece condotti dapprima nel carcere del Coroneo e poi nel campo della Risiera di San Sabba a Trieste, in attesa di deportazione. A San Sabba furono internati anche migliaia di prigionieri politici (soprattutto partigiani slavi), poi deportati o uccisi e cremati all’interno del campo stesso. Auschwitz è stato il più grande centro di concentramento e di sterminio nazista. Il primo campo, Auschwitz I, fu allestito nel 1940. Il campo Auschwitz II, Birkenau, fu aperto nel 1942 a tre chilometri di distanza da Auschwitz I e venne continuamente ampliato sino a raggiungere un’estensione di quasi 200 ettari. Esso venne suddiviso in vari settori, fra cui quello destinato agli zingari. Auschwitz III, Monowitz, fu costruito per l’industria chimica IG Farben alla fine del 1941, allo scopo di sfruttare il lavoro coatto per la produzione di materie sintetiche. A Birkenau gli ebrei venivano selezionati sulla banchina di arrivo: coloro che erano ritenuti incapaci di lavorare – la maggioranza, fra cui tutti i bambini e gli anziani - erano mandati a morte immediatamente nelle camere a gas, gli altri venivano immatricolati e fatti entrare nel campo per essere 18
Il conflitto fra palestinesi e israeliani Dopo l'Olocausto gli ebrei poterono finalmente tornare nella loro terra d'origine. Quando tornarono in Palestina però, si accorsero che quella che una volta era stata la loro patria ora era occupata da popoli arabi detti palestinesi. Questi ultimi non volevano spartire la loro terra con nessuno, tanto meno con una popolazione di lingua e religione diversa. Da allora nacque la cosiddetta questione palestinese perché - dopo diversi conflitti – rimase senza una sua patria e senza un suo stato il popolo palestinese. Invece gli ebrei costituirono e ingrandirono una loro nazione: Israele. Vediamo le tappe di questa lunga e complicata storia. Il 29 settembre 1947 l'Onu deliberò la divisione della Palestina (che era sotto il controllo della Gran Bretagna) in tre parti: • uno stato arabo (che comprendeva il 43% del territorio palestinese con una popolazione di 800.000 arabi e 10.000 ebrei) uno stato ebraico (che comprendeva il 56% del territorio palestinese con una popolazione di 500.000 ebrei e 400.000 arabi).• Gerusalemme (circa 1% del territorio palestinese) passava sotto il controllo internazionale in quanto città simbolo per tre religioni: ebraica, cristiana e musulmana. Il piano Onu fu accettato dagli ebrei ma respinto dai palestinesi e dagli Stati arabi che il 15 maggio 1948 attaccarono Israele. Scoppiò così la prima guerra arabo-israeliana che si concluse con la vittoria di Israele. Cosa cambiò dopo la vittoria israeliana? • L'80% del territorio arabo venne occupato dall'esercito israeliano • La Cisgiordania passò sotto il controllo della Giordania • La "striscia di Gaza" passò sotto il controllo dell'Egitto • La Palestina cessava di esistere come stato • Più di 700.000 palestinesi emigrarono nei paesi arabi vicini; rimase in Palestina la parte più povera e svantaggiata della popolazione. Israele, nel 1956 e nel 1967, attaccò l'Egitto, entrò in conflitto con ipaesi arabi confinanti e occupò: 19
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poi lentamente uccisi da condizioni e ritmi di lavoro disumani. Nel settembre del 1941 cominciarono ad Auschwitz le uccisioni sperimentali per gassazione con il Zyklon B. All’inizio del 1942 a Birkenau iniziò la costruzione di nuove e più grandi camere a gas per attuare l’eliminazione sistematica degli ebrei d’Europa. Con l’avvicinarsi delle truppe sovietiche, che entrarono nel campo il 27 gennaio 1945, i nazisti evacuarono gran parte degli internati con trasferimenti a piedi verso ovest, noti come “marce della morte”. Durante l’occupazione nazista e la Repubblica sociale italiana circolarono notizie sulle persecuzioni e sulla sorte degli ebrei deportati. In una relazione sugli ebrei nella Repubblica Sociale Italiana indirizzata nel febbraio 1945 a un comitato di soccorso in Svizzera, Giorgina Segre scriveva: “Del deportato in Germania non se ne sa più nulla; muore in qualche oscuro campo di concentramento dopo atroci sofferenze fisiche o morali, ridotto forse ad uno stato di abbrutimento animalesco”. In più occasioni i giornali clandestini, come l’organo del Partito d’azione “L’Italia Libera” e “L’Unità” denunciarono gli arresti e informarono che la deportazione degli ebrei nei campi dell’Europa dell’Est significava spesso morte. Gli italiani che portarono soccorso ai perseguitati, così come le autorità fasciste responsabili degli arresti e i singoli autori di delazioni, avevano qualche consapevolezza del destino che incombeva sulle vittime. Gradualmente gli ebrei si resero conto di quanto gravi fossero i pericoli che stavano correndo. Solo con l’intensificarsi degli arresti aumentarono coloro che si allontanarono dalla propria casa, procurandosi documenti falsi e cercando rifugio in luoghi più sicuri. Furono circa 22.000 le persone considerate di ‘razza ebraica’ che riuscirono a sfuggire agli arresti e alle deportazioni, vivendo in clandestinità fino alla Liberazione; alcuni di loro furono vittime di delazioni. Molti di loro si salvarono grazie all’aiuto di concittadini non ebrei. Circa 6.000 persone affrontarono un viaggio carico di pericoli e riuscirono a riparare in Svizzera; poco più di 500 fuggirono invece nelle regioni meridionali. Gli ebrei che parteciparono alla lotta partigiana furono un migliaio. Tra questi numerosi furono i caduti e vari partigiani ebrei furono poi insigniti delle più alte onorificenze nazionali. Sono solo alcuni cenni sulla Shoà su cui c’è ormai una consistente e vasta letteratura.
• la "striscia di Gaza" • la Cisgiordania • il Sinai (dell'Egitto) • le alture del Golan (della Siria) • Gerusalemme per intero. Una nuova guerra scoppiò nel 1973: Egitto e Siria attaccarono Israele per riprendersi i territori occupati da Israele. Ma senza riuscirci. I paesi arabi reagirono bloccando le esportazioni di petrolio verso gli stati occidentali che avevano appoggiato Israele. Nei successivi anni il Sinai venne restituito all'Egitto ma rimase il problema dei palestinesi senza una patria. Il numero dei profughi palestinesi dopo tutte queste guerre era aumentato. Nel 1987 iniziò la fase decisiva della resistenza palestinese all'occupazione israeliana nella striscia di Gaza e in Cisgiordania, attuata con dimostrazioni, scioperi, rivolte e atti di violenza. Ha caratteristiche di massa e la sua lunga durata nonostante le repressioni, dimostrò definitivamente all'opinione pubblica mondiale l'insostenibilità delle pretese israeliane al controllo dei territori occupati nel 1967 con la guerra dei Sei giorni. L'intifada (in arabo "rivolta") era una disobbedienza civile di massa che si diffuse rapidamente in tutti i territori occupati. Israele rispose dapprima con metodi repressivi, utilizzando la polizia e l'esercito, chiudendo le università e deportando i palestinesi, nonché con sanzioni economiche, con l'aumento della pressione fiscale e con un programma di insediamenti israeliani nei territori occupati. Tutto ciò non fece altro che provocare una recrudescenza degli scontri. L'intifada indusse molti israeliani a cercare una soluzione politica. Essa fu perciò uno dei fattori decisivi che portarono agli accordi di Oslo (1993) tra il leader dell'OLP Yasser Arafat e il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e, l'anno seguente, alla costituzione di un'Autorità nazionale palestinese con sovranità limitata a Gaza e a Gerico, dando così una svolta cruciale alla questione palestinese. Verso la pace I primi colloqui di pace tra Israele, le delegazioni palestinesi e i confinanti stati arabi iniziarono nell'ottobre del 1991. Nel 1993 il primo ministro Rabin e il leader dell'OLP Yasser Arafat firmarono a Washington uno storico trattato di pace (frutto di un lungo lavoro preparatorio svoltosi a Oslo). Il leader palestinese riconosceva a Israele il diritto a esistere come stato; Israele si impegnava a concedere l'autogoverno palestinese nei territori occu-
pati, prima nella striscia di Gaza e nella città di Gerico e successivamente in altre aree della Cisgiordania. Nel maggio dello stesso anno, le truppe israeliane si ritirarono da Gerico e dalla striscia di Gaza, che passarono sotto l'autorità palestinese. A luglio, Rabin e Hussein di Giordania firmarono a Washington un accordo di pace che pose fine a 46 anni di guerra tra i due paesi. Lo stallo Le trattative tra Israele e Siria nell'aprile del 1995 furono bloccate dal disaccordo sul possesso delle alture del Golan; nello stesso mese il governo annunciò l'espropriazione delle terre arabe a Gerusalemme orientale. La lentezza nell'applicazione degli accordi di Oslo intanto causava nei territori occupati un grande malcontento verso l'autorità palestinese e un rafforzamento delle forze ostili all'accordo di pace, in particolare i movimenti integralisti islamici Hamas e Jihad, che intensificarono l'attività terroristica compiendo gravi attentati nelle città israeliane. Anche in Israele si rafforzarono le posizioni di quanti erano ostili all'accordo di pace e furono commessi diversi attentati contro la comunità arabo-israeliana (ad esempio a Hebron, dove un militante della destra integralista ebrea fece un'irruzione armata in una moschea uccidendo 29 persone). Ma malgrado le proteste spesso violente, il processo di pace non si arrestò. L'assassinio di Rabin e la crisi del processo di pace Il 4 novembre 1995 il primo ministro Rabin fu assassinato da Yigal Amir, un estremista ebreo; l'episodio suscitò una profonda emozione. Si scoprì che i servizi segreti, pur a conoscenza del tentativo terroristico, non avevano preso le misure di sicurezza necessarie. Dal 1996 il governo israeliano ribadì più volte la necessità di rivedere gli accordi di Oslo, sia per quanto riguardava l'autonomia palestinese, sia, e soprattutto, per quanto riguardava la possibilità di insediare nuove colonie ebraiche nei territori occupati. Le crisi nelle relazioni israelo-palestinesi da allora si susseguirono, arrivando nel settembre allo scontro armato tra esercito israeliano e polizia dell'autorità palestinese, che causò 76 morti e centinaia di feriti. La situazione non migliorò nel 1997, quando il continuo rinvio dell'applicazione degli accordi di Oslo e ulteriori concessioni alla destra religiosa da parte del governo israeliano (come l'approvazione 20
Giovanni XXIII ha saputo cogliere e interpretare le attese di milioni di donne e uomini che, a diciotto anni dalla fine della seconda guerra mondiale, meno di due decenni, avvertivano l’esigenza di uno scatto in avanti che permettesse loro di godere di una nuova società, non più segnata dalle ferite della guerra e della violenza. L’anelito alla pace scavalcava le ideologie e univa idealmente popoli divisi dalla cortina di ferro tra Est e Ovest. La Pacem in Terris ha segnato il cammino compiuto dalla Chiesa sul terreno della guerra e della pace, una via antica. Già nella Bibbia si trovano forti motivazioni contro la guerra e a favore della pace, chiaramente indicata come opera e dono di Dio agli uomini. Purtroppo non è stato sempre così nel corso della storia. Ma nel XX secolo c’è stata una accelerazione che ha ispirato posizioni sempre più decise contro la guerra, sia perché l’umanità usciva drammaticamente segnata da due guerre mondiali che per la prima volta avevano coinvolto in maniera molto consistente anche le popolazioni civili causandone milioni di morti, sia a motivo della decisa presa di posizione in favore della pace dei pontefici che ne sono stati in qualche modo dolorosi testimoni, forti delle parole di condanna della guerra del primo dei papi del Novecento, Benedetto XV, che ne aveva parlato come di una “inutile strage”. La Pacem in Terris rappresenta insomma la felice sintesi di questa cultura dell’incontro che è alla radice e condizione al tempo stesso della pace; gli uomini si possono comprendere tra di loro e, al di là delle differenze, la pace è premessa per rifiutare la guerra. Nell’enciclica erano indicati tre grandi segni dei tempi che influenzavano il modo di accogliere la fede: la promozione della donna, la maturazione sociale e politica del mondo del lavoro, l'indipen-
Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II Angelo Roncalli, nuovo santo della chiesa universale, appartiene alla tradizione della diplomazia vaticana e ha maturato una vasta esperienza in questo campo, prima come Delegato apostolico a Sofia e Istanbul, poi come nunzio a Parigi tra il 1925 e il 1953. Come diplomatico Roncalli mostrò soprattutto doti di realismo e di equilibrio, che lo resero poco incline ad assumere toni profetici nei confronti dei grandi eventi contemporanei, compresa la guerra. Nei suoi lunghi anni di servizio aveva un suo metodo segnato dall’arte dell’incontro al fine di creare rapporti che lo avrebbero reso amico di tutti, credenti e non, anziani e giovani, provenienti da tutti i paesi e le culture dell’universo. La Pacem in Terris", firmata da Giovanni XXIII davanti alle televisioni di tutto il mondo il 3 aprile 1963, a 53 giorni dalla sua morte, ha segnato in profondità le generazioni della seconda metà del XX secolo ed è stata la prima enciclica indirizzata ufficialmente “a tutti gli uomini di buona volontà”. Voleva essere cioè una parola per tutti L’enciclica coglieva le attese di pace e di giustizia di quelle donne e uomini, credenti e non, che videro nel pontificato di S. Giovanni XXIII un segno per una decisiva svolta di una Chiesa che mostrava simpatia per l’uomo e la donna di quel decennio un po’ particolare: il Concilio Vaticano II e la contestazione del ’68 – quest’ultima espressione del mondo occidentale - hanno segnato quelle generazioni sulla soglia di un mondo globalizzato. Per papa Giovanni il mondo stava cambiando e questo pastore anziano, con pochi mesi di vita, seppe cogliere i "segni dei tempi" di quel nuovo mondo globalizzato le cui giovani generazioni non avevano diretta esperienza della Seconda Guerra Mondiale. 21
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di un'altra colonia, la sesta, a Gerusalemme Est) cacciarono il processo di pace in un vicolo cieco. Fino ad arrivare alla situazione attuale. Alla base della attuale tensione tra israeliani e palestinesi c'è la mancata attuazione dell'accordo di Oslo che aveva portato nel 1993 alla storica stretta di mano fra Arafat e Begin di fronte a Clinton a Washington. Quell'accordo prevedeva che entro 5 anni (quindi nel 1998) l'esercito israeliano dovesse ritirarsi e fossero raggiunti nuovi accordi per delineare la nascita dello stato palestinese. Invece di questi accordi il governo israeliano ha consentito che avvenissero nei territori occupati e a Gerusalemme nuovi insediamenti di coloni israeliani.
denza dei popoli. Si era ai tempi della fine del colonialismo politico, basti pensare che il 1960 vide una escalation delle lotte di liberazione, soprattutto nei Paesi africani. L’occasione che però spinse il pontefice a scrivere l'enciclica - non si dimentichi l’origine del nome “pontifex”, colui che costruisce ponti – ebbe origini più remote, i Caraibi. Fu la crisi dei missili sovietici a Cuba a spingere il mondo sull’orlo di un conflitto reso ancora più terribile dalla minaccia della distruzione atomica. Giovanni XXIII inviò una lettera a Kennedy e Krusciov – il primo Presidente degli Stati Uniti d’America, il secondo il Segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e quindi come tale, Capo del Governo - e rivolse loro un accorato appello per la pace dai microfoni della Radio Vaticana. Era il 22 ottobre 1962. Il presidente americano, John F. Kennedy, si rivolse al Paese attraverso la televisione con un annuncio drammatico: navi sovietiche si stavano dirigendo verso Cuba per armare con testate atomiche le installazioni presenti sull’isola caraibica a poche decine di chilometri dalle coste statunitensi. La crisi era iniziata in realtà il 15 ottobre, dopo che un aereo spia americano U2 aveva svelato la presenza di postazioni missilistiche a Cuba. Furono giorni di tensione spasmodica, il mondo sembrò precipitare nel baratro di un conflitto nucleare devastante. Da una parte, il presidente americano si mostrò deciso ad impedire il raggiungimento dell’isola, dall’altra il leader sovietico Krusciov sembrava intenzionato a non tornare sui propri passi. In questa situazione di stallo, intervenne con tutta la sua forza morale e spirituale Giovanni XXIII, maturata già nei quattro anni precedenti. Anzi, fu lo stesso Kennedy a chiedere a Roncalli di fare da ponte con il Cremlino, come ricorda Giovagnoli: “Il presidente americano Kennedy riteneva che un appello del Papa avrebbe potuto sbloccare la situazione. Naturalmente, Giovanni XXIII fu molto toccato da questa richiesta: sentì la responsabilità di agire ed agì attraverso un messaggio, un invito pubblico alla pace. Successivamente, la crisi si risolse felicemente”. Un messaggio che il Papa rivolse con parole accorate dai microfoni della Radio Vaticana. Un appello vibrante che fece presa sulle coscienze di milioni di persone, senza distinzione di credo religioso: “Pace! Pace! Noi rinnoviamo oggi questa solenne implorazione. Noi supplichiamo tutti i governanti a non restare sordi a questo grido dell’umanità.
Che facciano tutto quello che è in loro potere per salvare la pace. Eviteranno così al mondo gli orrori di una guerra, di cui non si può prevedere quali saranno le terribili conseguenze”. Le radici di questo “successo” risalgono alla decisione di Roncalli di coltivare il canale personale del rapporto con il leader sovietico, agenda che conteneva già molti segnali: gli auguri natalizi per il 1962, le felicitazioni per il premio Balzan, la partecipazione alla malattia del Papa, la liberazione del metropolita sovietico Slipyj, il ricevimento della figlia di Khruscev e del genero Adzubej, da parte del Papa, sono i passi di questo contatto diretto. Si voltava pagina rispetto alla dottrina antisovietica, mentre il Papa faceva precisare dal suo amico, Andrea Spada: “La cortesia, la buona educazione, il rispetto di un augurio sono già elementi nuovi che vanno registrati con soddisfazione in un mondo che sembrava aver instaurato solo la prepotenza, anche delle forme, l’arroganza del proprio potere, il disprezzo per ogni forza morale che non fosse sorretta dalle armi”. Al papa si riconosceva un ruolo internazionale, era percepito come una figura sopra le parti. Colpisce inoltre che la crisi di Cuba esploda proprio nei giorni in cui il mondo guarda con rinnovata speranza al futuro grazie all’inizio del Concilio Vaticano II, voluto con forza proprio da Giovanni XXIII. Ancora Giovagnoli: “Nel cuore e anche nel magistero di Giovanni XXIII, il Concilio e la pace erano due temi strettamente uniti. Se ricordiamo il famosissimo 'Discorso della luna', pronunciato la sera dell’11 ottobre 1962, c’è il senso emozionato di Giovanni XXIII davanti a un avvenimento che gli pareva talmente grande, per la sua portata mondiale, da creare una novità anche sul piano dei rapporti tra tutti gli esseri umani e, dunque, anche sul piano della pace”. L’esperienza drammatica della crisi di Cuba convince ancor più Giovanni XXIII dell’urgenza di un rinnovato impegno per la pace di tutte le persone di buona volontà. Mai come in quei 18 anni la guerra tornava ad essere una ipotesi concreta. L'intervento del papa, segretamente richiesto dai contendenti, sbloccò la grave crisi. Il Papa volle chiedere ai sovietici di far venire a Roma, per il Vaticano II i vescovi cattolici dell’Est, riaprendo i contatti tra il Vaticanoe il cattolicesimo sotto il potere sovietico. Del resto le direttive del Papa erano queste: “Esplorare tutte le vie del possibile, con rispetto e delicatezza…Far capire che la Chiesa e la Santa Sede non hanno mire di sorta, 22
chiedendo solo protezione, libertà: questo dobbiamo far capire ai sovietici”. Da questa consapevolezza, nasce - nell’aprile del 1963 - l’Enciclica Pacem in Terris, quasi un testamento spirituale di Angelo Roncalli, che morirà dopo solo due mesi: “La Pacem in Terris è uno straordinario documento, frutto anche di un lavoro piuttosto complesso. Il Papa stesso intervenne, personalmente, nella redazione, proprio perché si trattava di qualcosa di nuovo, che era difficile esprimere e che invece il Papa voleva fosse chiaro a tutti”. Il papa colse lo scampato pericolo come la conferma che sul tema ultimo della salvezza storica dell'umanità e dell'intera creazione si poteva e doveva realizzare una convergenza di sforzi al di là delle frontiere ideologiche e degli interessi partigiani. Giovanni XXIII si convinse a ripensare il problema della pace nel mondo. Importanti e innovative furono le distinzioni tra grandi ideologie e movimenti storici, tra errore che va combattuto ed errante che va accolto e compreso. L’intervento del papa si è sviluppato in relazione ad una significativa evoluzione dei rapporti tra il Vaticano e l’Unione Sovietica imperniato su una netta contrapposizione sulla questione della libertà religiosa ma connotato anche da una qualche convergenza per quanto riguarda la tutela della pace mondiale. Giovanni XXIII non appare quell’uomo ingenuo che spesso si è voluto descrivere ed è ben consapevole delle pesanti persecuzioni attuate dai regimi comunisti – in particolare dall’URSS di Khruscev – nei confronti dei credenti. Egli però intuisce che l’interesse sovietico a non fare precipitare le tensioni internazionali è reale e non intende disperdere le possibilità che ne scaturiscono per promuovere la pace. Altro aspetto di novità è il fatto che per la prima volta un documento della Chiesa si rivolgeva agli uomini di buona volontà e non solo ai vescovi, ai preti, alle suore e a tutti i cristiani. Dopo di allora tutte le encicliche sociali dei papi si sono rivolte agli uomini di buona volontà. La Costituzione conciliare sul mondo contemporaneo (la Gaudium et Spes) prese ispirazione dalla Pacem in Terris. Infatti nella prima parte si parla dei valori materiali e spirituali della persona umana, dei valori individuali e collettivi: si parla della famiglia, non della famiglia cristiana, si parla della cultura, non della cultura cristiana. La "Pacem in terris" è essa stessa un segno dei tempi: ha aiutato a capire che cosa è la guerra e che
cosa è la pace. La pace non è solo il tacere delle armi ma si fonda su quattro grandi pilastri: la verità, la giustizia, l'amore (solidarietà), la libertà. Per papa Giovanni la verità è quella dell'uomo, della persona nella sua complessità e diversità. Il punto centrale dell’enciclica segna anche la svolta nelle relazioni tra i popoli: è la distinzione già citata tra errore ed errante, corredata dall'intuizione che, se ogni teoria, anche falsa, è rigida, il movimento storico da essa ispirato è suscettibile di valori e mutamenti anche profondi. La distinzione tra errore ed errante ebbe un'influenza storica decisiva, non solo per il disgelo tra Santa Sede e regimi comunisti, ma soprattutto perché apriva al mondo lo strumento della “medicina della misericordia” più che la facile scorciatoia della condanna. La permanenza dei temi della Pacem in terris nel dibattito sulla convivenza internazionale ha contribuito al cambiamento di mentalità ripiegate da anni, tanto da individuare il genere umano come soggetto politico avente per fine il bene comune universale, bisognoso di un'autorità mondiale, e la necessità di rifondare la democrazia sulla giustizia economica. Ma anche il congedo della dottrina della "guerra giusta", considerata "aliena dalla ragione" in età atomica e lo sviluppo della cultura della pace per il disarmo "della psicosi bellica ", restano delle sfide dottrinali e politiche presenti negli anni successivi. Un primo elemento posto a fuoco nell’enciclica è quello della vedere il richiamo che Giovanni XXIII nell’Enciclica fa della Dichiarazione universale dei diritti della persona. Sembra utile riportarne alcuni passi: “Ogni essere umano ha diritto all’esistenza e a un tenore di vita dignitoso, ha il diritto al rispetto della sua persona e ha diritti riguardanti i valori morali e culturali” (N. 7) (Artt. 3-4-5), “Ha il diritto di onorare Dio secondo il dettame della sua coscienza, ha il diritto al culto di Dio privato e pubblico” (N. 8) (Art. 18)., ha il diritto alla libertà nella scelta del proprio stato”.(N. 9) (Art. 16)., “Ha il diritto al lavoro - (N. 10) e (Art. 23) – quale mezzo per provvedere alla vita propria e dei figli”.(Art. 25). “L’uomo ha il diritto di riunione e di associazione e di conferire alla medesima la struttura che ritiene idonea a perseguire gli obiettivi prefissati (N. 11). Come pure ha il diritto di libertà di movimento e di dimora nell’interno della comunità politica di 23
cui è cittadino e la verità di immigrare, quando legittimi interessi lo consiglino, in altre comunità politiche e stabilirsi in esse”.(N. 12). “L’uomo, come tale, lungi dall’essere l’oggetto e un elemento passivo nella vita sociale, ne è invece e deve esserne e rimanerne il soggetto, il fondamento e il fine” (N. 13) (Art. 27). E’ indissolubile il rapporto fra diritti e doveri nella stessa persona. Ad ogni diritto appena descritto corrisponde un dovere ed hanno entrambi nella legge naturale che li conferisce o che li impone, la loro radice, la loro forza indistruttibile. Il diritto, per esempio, di ogni essere umano all’esistenza è connesso con il suo dovere di conservarsi la vita.(N. 14) (Artt. 29-41). E’ chiaro, quindi, che nella convivenza umana ogni diritto naturale in una persona comporta un rispettivo dovere in tutte le altre persone: il dovere di riconoscere e rispettare quel diritto. Pertanto, coloro che rivendicano i propri diritti dimenticando i rispettivi doveri, corrono il pericolo di costruire con una mano e di distruggere con l’altra” (N. 15). “Gli esseri umani, essendo persone, sono sociali per natura. Sono nati per convivere quindi e operare per il bene degli altri. Ciò richiede che la convivenza umana sia ordinata e che quindi i vicendevoli diritti e doveri siano riconosciuti e promossi. Ciò significa che nelle singole comunità ciascuno deve farsi carico di venire incontro alle esigenze dei più deboli prima ancora che essi si trovino nella condizione di dover chiedere aiuto” (N. 16). (Questo è un modo per realizzare la sussidiarietà).“Perché tutto questo si realizzi nel rispetto della dignità della persona, è necessario che la medesima operi consapevolmente e liberamente, per convinzione in attitudine di responsabilità e non in forza di pressioni o forzature” (N. 17). La diplomazia della Santa Sede – soprattutto nella seconda metà del XX secolo – è stata al centro di un grande interesse degli analisti internazionali e degli storici contemporaneisti venendo considerata quasi la più antica diplomazia del mondo, così disse un diplomatico latino-americano suscitando l’ilarità di Tardini, Segretario di Stato di Giovanni XXIII. Roncalli è figlio di questa tradizione e viene da chiedersi come questa diplomazia di pace sia maturata nella Chiesa tanto da fare del cattolicesimo una realtà particolare rispetto alle altre chiese cristiane, non solo e non tanto per le esigenze di pace ma per il fatto di perseguirle su vari piani: dal mes-
saggio religioso alla riflessione sulla guerra e sulla pace in contatto con cristiani e non cristiani, sino a costruire una vera azione diplomatica con una rete diplomatica. Il cardinale Agostino Casaroli, Segretario di Stato, durante i pontificati di Giovanni XXIII e Paolo VI è stato il protagonista della politica di attenzione e di apertura verso il blocco comunista, negli anni difficili della guerra fredda, chiamata Ost-politik vaticana. Il suo approccio avviato nel 1963 con le autorità dell'Ungheria e della Cecoslovacchia ebbe l’obiettivo di portare a Roma il cardinale Josef Mindszenty, arcivescovo di Esztergom e primate d'Ungheria, rinchiuso dal 1956 nell'ambasciata americana di Budapest; nel secondo, ottenere la libertà di monsignor Beran, arcivescovo di Praga. La sua attività diplomatica si estese con la ripresa dei rapporti con il governo di Tito in Jugoslavia, dopo la rottura del 1952; senza dimenticare il laborioso e complesso negoziato con la Polonia, iniziato nel 1965, e quello con la Bulgaria. L’azione di Casaroli ben si inserisce e si accorda con il pensiero e l’azione che troviamo nelle pagine della Pacem in Terris di Giovanni XXIII e svela un itinerario diplomatico assieme alla sensibilità e acutezza di Giovanni XXIII e di Paolo VI poi, pontificati legati assieme dallo straordinario evento del Concilio Vaticano II. La diplomazia del papa è quella del “padre comune”, per usare una espressione che torna sovente nei documenti e nel linguaggio della S. Sede. Leone XIII ebbe il merito di non aver rinunciato alla diplomazia vaticana dopo il 1870. La diplomazia del “padre comune” non si limita ai cattolici e papa Pecci dichiara nell’enciclica Annum Sacrum, alla fine del XIX secolo: “L’impero di Cristo non si estende soltanto sui popoli cattolici o a coloro che , rigenerati nel fonte battesimale, appartengono, a rigore di diritto alla Chiesa, sebbene le erronee opinioni li allontanino o il dissenso li divida dalla carità; ma abbraccia anche quanti sono privi della fede cristiana, di modo che tutto il genere umano è sotto la potestà di Gesù Cristo”. Nel Novecento la diplomazia della pace si urta spesso con le passioni nazionali dei popoli, come si vede nelle guerre mondiali. Jean Marc Ticchi ha studiato le mediazioni, i buoni uffici e gli arbitrati della Santa Sede, a partire da Leone XIII e dall’episodio più riuscito, la controversia sulle Isole Caroline tra la Spagna e la Germania. Questi interventi sono stati considerati, in modo eccessivo, come 24
strumenti per l’affermazione della Santa Sede quale soggetto internazionale: ma hanno un loro valore nel proporre un’azione di pace preventiva su questioni territoriali, in Africa o in America Latina, su problemi umanitari, come l’intervento presso il Negus per gli italiani, nei confronti della Sublime Porta e via dicendo. Infine, alla conclusione di questo breve excursus su vicende così di rilievo per la storia del XX secolo, vorrei concludere con alcune parole del Segretario di Stato di Giovanni XXIII e di Paolo VI pronunciate ai rappresentanti del Corpo Diplomatico presso la S. Sede nel gennaio del 1980, sul ruolo ed il senso dell’azione diplomatica che, a tanti anni di distanza, mi sembra conservino la vivacità e la ricchezza di un contributo per contribuire ad un mondo in pace da parte di credenti e non credenti: “Questo resta, senza dubbio, il maggior titolo di nobiltà e di utilità del servizio diplomatico; l’essere strumento di pace. La S. Sede non può che guardare ad esso con tutta la simpatia e con speranza: soprattutto quando, come oggi, oscure nubi si addensano sull'orizzonte e il mondo, stupito e quasi incredulo, sente, con improvvisa angoscia, di dover seriamente trepidare per la pace. Come, in simili situazioni, la Santa Sede, che della pace ha, per usare una vecchia e cara espressione di Paolo VI, « la passione”, potrebbe non richiamare gli operatori della diplomazia, a riflettere seriamente e ad agire vigorosamente per stornare la minaccia? Né il richiamo vale solo per la diplomazia delle grandi Potenze, sulla quale grava, naturalmente, il peso delle più gravi responsabilità. Oggi, e per l'appartenenza anche di quelle che possono, in ceto senso, considerarsi fra le minori Potenze, ad alleanze di blocco, o per il loro confluire nel grande movimento del non-allineamento, e, se non altro, per la voce e il voto che hanno nei consessi internazionali – primo fra tutti l'ONU — hanno la possibilità, e quindi la responsabilità di agire, in favore (o, purtroppo, anche a danno) della pace. E' vero che le grandi decisioni non toccano alla diplomazia, ma al potere politico. Ma spetta agli agenti diplomatici, innanzitutto conoscere esattamente, dal loro luogo di osservazione, l’evolversi delle situazioni; studiarne le cause, con la profondità che la loro privilegiata posizione permette e con 1’oggettività che deve essere loro caratteristica,
prevederne i probabili sviluppi e indicare le possibili vie, per orientarli in senso positivo o, almeno, meno negativo, cercando così di influire sulle decisioni dei Governi. Sul piano operativo, spetta poi ai diplomatici cercar di mantenere in loco, con i Governi presso i quali rappresentano il proprio, relazioni corrette e che consentano più possibile, anche nei momenti di peggiore deterioramento delle situazioni, quel dialogo che deve permettere alla ragione e alla volontà di pace di far ascoltare la propria voce, prima che essa debba esser forse, malauguratamente, soffocata da quella delle armi. Ecco un compito grande e difficile, ma che deve essere affrontato con una decisione e un coraggio tenaci ed instancabili che, in certi momenti, può diventare persino eroico. La Santa Sede, per parte sua e per il tramite dei propri Rappresentanti, sparsi nel mondo, non mancherà di compiere tutto il proprio dovere in questo campo. Ed a voi si rivolge, come ai suoi naturali alleati, in un'azione di interesse cosi vitale per i Vostri Paesi e per il mondo. Nel ripetervi, quindi, il ringraziamento mio e dei miei collaboratori per il vostro gentile invito, brindo alle vostre persone e alla vostra attività, ai vostri Paesi, i loro Capi di Stato e i loro Governi; e v'invito ad alzare, insieme a noi, il vostro bicchiere e il vostro cuore, vorrei anzi permettermi d'esortare ad elevare anche la nostra comune preghiera, perché l'umanità sappia saggiamente non abbandonare il cammino della pace — una pace solida, giusta, duratura — e continuare a consacrare le sue preziose energie di mente, il suo dominio di tecniche sempre più avanzate, non a scopi di distruzione, ma per gettarle vittoriosamente nelle nobili battaglie per la sempre maggiore e migliore elevazione, materiale, culturale, spirituale di tutti i popoli e di tutti gli uomini”. Giovanni Paolo II Il pontificato di papa Woityla, uno dei più lunghi della storia della Chiesa, segna una svolta importante per la storia dei decenni a cavallo tra due se25
coli e due millenni. Con la fine del pontificato di Paolo VI era scontato discutere sulla crisi della Chiesa e sull’imminente fine della centralità della vita religiosa nel mondo occidentale. Gli ultimi venticinque anni del secolo sembravano segnare la crisi definitiva del cristianesimo in Europa. La fine del pontificato di Paolo VI era segnata dal volto preoccupato di papa Montini di fronte alla crisi delle vocazioni della Chiesa e alla contestazione nei confronti del papato che toccava molti ambienti, ben oltre i confini della contestazione ecclesiale. Il grido angosciato della preghiera di Paolo VI ai funerali di Aldo Moro in S. Giovanni in Laterano nel 1978 divenne il simbolo di questa crisi. Molti analisti si soffermarono a descrivere la marginalità crescente del cristianesimo nella evoluta società occidentale che si avviava ad assumere sempre più caratteristiche di laicità. Pochi si accorsero che solo l’anno successivo la rivoluzione iraniana fu marcata da una figura religiosa che da Parigi fece un’entrata trionfante a Teheran dopo la rivoluzione contro il re di Persia: Komeini. La storia subiva allora – e negli anni immediatamente successivi - una prima di tante accelerazioni che molti non si aspettavano. L’anno prima era divenuto papa Karol Woytila, un vescovo polacco, primo papa non italiano dopo secoli ma, soprattutto, il primo papa che veniva dall’Est, da “oltre cortina” come si soleva dire in quegli anni in cui l’Europa era segnata da una profonda divisione tra occidente e Paesi retti dall’ideologia comunista. Giovanni Paolo II sarebbe stato il principale artefice della fine - inaspettata per tutti solo undici anni dopo - del sistema comunista nel continente
europeo. Il suo grido rivolto a tutti gli uomini al momento della sua elezione “Non abbiate paura”, mosse le coscienze di tanti e suscitò un movimento, prima sotterraneo e successivamente sempre più evidente che portò al cambiamento pacifico per una nuova Europa. Solo in Romania ci fu un colpo di stato che portò alla esecuzione sommaria di Ceausescu e la moglie. In tutti gli altri Paesi della Unione Sovietica vi fu una evoluzione che ha del miracoloso e portò alla nascita dei nuovi Stati senza nessuna rivoluzione violenta. Una seconda accelerazione fu “lo Spirito di Assisi”: Giovanni Paolo II il 27 ottobre 1986 invitò ad Assisi i rappresentanti di tutte le religioni per pregare per la pace nel mondo: è stato il primo gesto che ha posto, di nuovo in maniera fortemente simbolico, la religione come protagonista della storia degli uomini. La Chiesa, alla fine del secondo millennio, si mostrava in grado di parlare alle donne e agli uomini del nuovo millennio. Con papa Francesco, siamo al 2013, si sta vivendo una nuova rivoluzione di cui non sono ancora noti i confini e gli orizzonti. Con il viaggio in Terra Santa del 25 e 26 maggio 2014, papa Francesco ha rilanciato la sfida religiosa nel conflitto più carico di significati nel mondo attuale: ha invitato nella sua casa a Roma i due presidenti, Peres e Abu Mazen, per pregare per la pace. E’ una provocazione, un segnale forte che sicuramente è carico di speranza per il futuro e che può essere una via – di cui non siamo ancora del tutto consapevoli - in direzione del raggiungimento di una pace. Ma c’è una certezza: se in Medio Oriente arriva la pace, tutto il mondo trarrà beneficio da questa pace. Siamo al termine di questo lungo cammino in cui si sono messi in evidenza alcuni degli avvenimenti in cui le generazioni di questo secolo sono nate, cresciute e morte. Si è compiuta una scelta nel descrivere alcune delle vicende di questi cento anni. Questo particolare viaggio dentro un secolo di storia, il nostro secolo, è segnato da una concreta speranza: il secolo che è nato con una guerra, termina con la speranza di un futuro nuovo grazie a papa Francesco. 26
SALVATORE AMATO ARCHIVISTA
Il testo che presentiamo non ha subito modificazioni di rilievo rispetto a quello letto il 24 ottobre 2015. Per coerenza scientifica di chi scrive sarebbe stato opportuno corredarlo in maniera puntuale da un apparato critico, con particolare riferimento alle fonti conservate presso l’Archivio Storico Comunale di Ravello, di cui si auspica una celere ripresa dei lavori di riordinamento, per non condannare al silenzio la memoria identitaria della Città.
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lla fine di ottobre del 1920, si tennero a Ravello le elezioni per il rinnovo del Consiglio Comunale cittadino, che nella seduta del 14 novembre, dopo aver valutato le condizioni di eleggibilità a consigliere del sacerdote Pasquale Mansi, procedeva alla nomina del Sindaco e della Giunta Municipale in seduta pubblica e a votazione segreta. Per la carica di Sindaco venne riconfermato il Commendatore Nicola Mansi, ben noto direttore dei lavori di costruzione della Villa Cimbrone, agli inizi del XX secolo, quale procuratore di Lord Grimpthorpe, Ernest William Becket. Il nuovo Consiglio, agli inizi del 1921, provvedeva alla revisione e sistemazione degli stipendi degli impiegati e salariati comunali, a seguito dell’aumento del costo dei generi di prima necessità. Nella pianta organica dell’ente comunale vi era allora anche il medico condotto ed ufficiale sanitario, Dott. Pasquale Cappuccio, che a causa della malattia fu costretto a lasciare anzitempo l’incarico, privando la municipalità del servizio medico. Per tale motivo, nel 1924, fu proposto al Consiglio Comunale di consorziare la condotta medica con il dirimpettaio Comune di Scala. Infruttuose trattative e la volontà del Comune di Ravello di gestire autonomamente il servizio sanitario, fecero naufragare, nonostante le prescrizioni prefettizie, l’idea consorziale. Nel 1925, perciò, si procedette alla pubblicazione
del bando di concorso per il nuovo medico condotto e il Consiglio Comunale, chiamato a votare a scrutinio segreto uno dei candidati, nominava il Dott. Bonaventura Gambardella – il cui ricordo è ancora forte e vivo in tante generazioni di ravellesi – che la spuntò con un voto di scarto su Vincenzo D’Amato, padre del futuro Vescovo Cesario, monaco benedettino, Segretario del cardinale Ildefonso Schuster e Abate di San Paolo fuori le Mura. Tra le motivazione per cui la comunità ravellese richiese la gestione autonoma del servizio sanitario, oltre all’impervia morfologia del territorio, c’erano innanzitutto implicazioni di carattere turistico, con almeno tre alberghi in attività (Palumbo, Belvedere e Toro) e un flusso di circa 20.000 presenze annue. Fu proprio lo sviluppo turistico uno dei lasciti più tangibili che il decennio oggetto della nostra attenzione, ha consegnato alla Ravello contemporanea. Alla fine di dicembre 1920, infatti, veniva deliberata dal Consiglio Comunale l’introduzione della tassa di soggiorno, il cui introito sarebbe servito per il completamento dell’impianto di illuminazione elettrica e per il miglioramento della viabilità interna. Per procedere all’applicazione della nuova tassa, bisognava ottenere la dichiarazione di stazione climatica di primo ordine, che avvenne il 31 marzo 1921. Si proce27
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Ravello negli anni Venti Istituzioni e società
dette, di conseguenza, nel luglio successivo, all’approvazione del connesso regolamento applicativo, che all’art. 18 ribadiva l’utilizzo del ricavato per le opere di miglioramento ampliamento, abbellimento e sviluppo della cittadina. Il miglioramento della qualità della vita della popolazione locale e dei servizi per i turisti che frequentavano la Città, doveva per forza passare attraverso la realizzazione di opere strategiche, di cui non si poteva fare più a meno, come ad esempio la costruzione dell’acquedotto. Agli inizi del 1922, fu nominata una commissione per trovare una soluzione al problema, nelle persone del sindaco Nicola Mansi e dei consiglieri Pantaleone Mansi, Alessio Mansi e Pantaleone Caruso. Essa fu incaricata, tra l’altro, di affidare ad un altro ingegnere i progetti per la conduttura dell’Acqua sambucana e dell’Acqua della Noce. Nella seduta consiliare del 10 giugno 1923, a scrutinio segreto, l’incarico fu affidato a Enrico Caizzi De Marinis, napoletano, che doveva occuparsi del progetto di conduttura delle acque po-
tabili derivanti dalla sorgente detta “Acqua della Noce”, approvato dal Consiglio Comunale nel 1925, in attesa di analoga pronuncia del Regio Genio Civile. Una vertenza sorta con l’Ing. Caizzi, riguardante il pagamento dell’onorario per la progettazione, bloccò l’avanzamento della pratica presso gli organi competenti, per cui nello stesso anno il Sindaco Mansi chiese al Barone Giuseppe Compagna, originario di Corigliano Calabro, cittadino onorario di Ravello dal 1922, di interessare il Governo nazionale per la risoluzione dell’annosa questione. Così, alla fine del 1927, a seguito dell’approvazione del progetto esecutivo dell’acquedotto per 800.000 lire, venne contratto mutuo con la Cassa Nazionale di Previdenza Sociale da restituire in trentacinque annualità, ma il Barone Compagna, grazie all’amicizia con il Ministro delle Finanze Giuseppe Volpi, ottenne il finanziamento dell’opera e il 3 luglio 1928 il nobiluomo calabrese fu celebrato con grande giubilo dall’intera popolazione e nel Duomo, dopo il canto del Te Deum e l’esposizione del Santissimo Sacramento, il Canonico 28
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chio strade, canali idrici e molti terreni agricoli del territorio costiero. Per tale motivo la Giunta Municipale incaricò l’ingegnere Renato de Crescenzo per la redazione di un progetto riguardante le opere da ripararsi, in particolare per il canale dell’acqua sambucana, che fu quasi distrutto ed ostruito per circa dodici chilometri. Solo alla fine del decennio, a partire dal 1929, fu avviata un’organica trasformazione di Piazza Vescovado, con conseguente spostamento di opere preesistenti, come il monumento a Umberto I, e la demolizione di altre, come l’edificio che insisteva quasi al centro dell’antico largo, di proprietà dell’ex sindaco Nicola Mansi. Per quanto riguarda il problema dei collegamenti con le città costiere e con altri territori contermini, la municipalità ravellese approvò e sostenne progetti strategici per i collegamenti ferroviari e funiviari, come testimoniano le continue deliberazioni consiliari. Un altro punto su cui l’attività amministrativa aveva ritenuto d’intervenire per lo sviluppo dell’offerta turistica era la valorizzazione dei luoghi di culto, come la Cat-
Pantaleone Cerrato tenne un lungo discorso in suo onore. Superate le difficoltà burocratiche, nel maggio 1929, fu posta la prima pietra dell’acquedotto, con la partecipazione del sottosegretario di Stato del Ministero delle Comunicazioni, Filippo Pennavaria. Il miglioramento dei servizi connessi allo sviluppo turistico passava innanzitutto attraverso una serie di continui interventi regolamentari e infrastrutturali. Per il primo aspetto, nonostante uno sforzo prodotto tra il 1920 e il 1921, si deve soprattutto ai commissari prefettizi, a partire dal 1926, un’intensa attività normativa che riguardò tutti gli aspetti di competenza dell’ente locale. Per quanto riguarda, invece, il miglioramento della viabilità e dell’urbanistica cittadina, un altro problema che attanagliava il territorio era il collegamento stradale del centro cittadino con le frazioni, che non avrebbe trovato soluzione nel decennio dal 1920 al 1930. Progetti che probabilmente naufragarono, mi si perdoni il non felice gioco di parole, a causa del terribile nubifragio del 26 marzo 1924, che mise in ginoc-
tedrale e il Convento di San Francesco. Per la Cattedrale, il regime commissariale aveva previsto, ritengo con grande oculatezza, di mettere a bando la figura di un Conservatore dei monumenti, a carico del Comune, e l’introduzione di un biglietto d’ingresso all’ex Cattedrale, il cui ricavo doveva essere destinato alla manutenzione e conservazione del patrimonio monumentale. Per giungere, poi, al Convento francescano bisogna ricordare, che a seguito delle due soppressioni della comunità religiosa, avvenute nel corso dell’Ottocento, il complesso monastico era stato concesso dall’Amministrazione del Demanio al Comune di Ravello, che vi aveva insediato la sede municipale e la scuola. Nel 1924, l’assise consiliare cittadina, avendo constatato il lodevole lavoro nella manutenzione e nella conservazione del convento da parte del
rettore, Antonio Palatucci, concesse allo stesso e ai suoi successori il fitto per ventinove anni di quasi tutta la struttura, ad eccezione dei locali occupati dall’ente locale e dalla scuola. Queste ed altre iniziative, come la riorganizzazione del complesso bandistico cittadino, l’attenzione all’igiene pubblica, il regolamento della Nettezza Urbana, l’introduzione dell’Imposta di cura, il Regolamento per l’applicazione della tassa sulle macchine per caffè espresso, di cui l’unica presente sul territorio comunale era quella del Caffè aperto da Luigi Schiavo, l’attuale Bar San Domingo, contribuirono al riconoscimento di Ravello a Stazione di Cura, Soggiorno e Turismo, la cui dichiarazione, dopo un iter serrato condotto dal solerte Commissario Prefettizio Giuseppe Simonetti, avvenne con decreto del Ministero dell’Interno dell’8 marzo 1927. L’am30
luce serafica 90 anni Arte e di Storia” e il testo di Carlo Lacaita intitolato “Ravello e le sue bellezze”. Soltanto un volume, artisticamente rilegato in pelle, con fregi e iscrizioni dorate, venne risparmiato dal furto dei collezionisti, e ritornò al Comune di Ravello: era l’annata del 1926 di Luce Serafica.
bito e prestigioso riconoscimento permise al Comune di Ravello di partecipare alla I Mostra Nazionale delle Stazioni di Cura, Soggiorno e Turismo, che si tenne a Padova, dal 5 al 20 giugno 1927. Le città partecipanti dovevano esporre il materiale più idoneo a mettere in evidenza le bellezze naturali ed idroclimatiche dei loro territori, e il Comune di Ravello, come risulta dall’elenco del materiale spedito a Padova, espose quadri, album fotografici, cartoline e pubblicazioni simbolo di Ravello nel mondo. La mostra con il materiale ravellese ebbe enorme successo, forse troppo, al punto che tre pubblicazioni furono trafugate dallo stand e mai più trovate: Ravello Sacra – Monumentale, autore il sacerdote Luigi Mansi (1887); un “Libro fotografico sui monumenti di
--------------------------------------FONTI Archivio Storico Comunale di Ravello Comune di Ravello Deliberazioni degli organi di governo Deliberazioni del Consiglio Comunale, Deliberazioni della Giunta Municipale, Deliberazioni del Commissario Prefettizio Carteggio Sezione II, Categorie I-XV. 31
90 anni di storia e di vita francescana GIANFRANCO GRIECO
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na rivista che si rispetti, è in grado, nel suo lungo arco di vita, di scrivere o meglio anche di riscrivere e di interpretare la storia civile e religiosa che guida il suo cammino. Luce Serafica nei suoi giorni di luce e di tenebra ( la seconda guerra mondiale in particolare- 1 settembre 1939- 25 aprile 1945 ) ha scritto una vera e lunga storia francescana che parte dal mese di marzo del 1925 ed approda all’oggi della nostra storia: anno di grazia 2015. 90 anni di vita francescana ed ecclesiale, quindi; di storia e di arte; di agiografie e di cronache conventuali. Sfogliare queste pagine, come ho cercato di fare nello stendere questo lungo racconto, è stato a dir poco piacevole ed avvincente . Mi soni imbattuto in figure e in testi che hanno aperto e spaziato sugli orizzonti francescani conventuali della Terra di Lavoro- la Campania felix -. Luce Serafica nasce tra le due guerre (1915-1918; 1939- 1945). Sette anni dopo la conclusione della prima guerra mondiale e quattordici anni prima della seconda tragedia europea e mondiale. Luce Serafica è il segno della rinascita della Provincia religiosa di Napoli. Anzi , ne interpreta la voglia del fare; del francescanesimo in uscita dopo le varie barbarie ( soppressione innocenziana del XVII secolo a quella piemontese 1815- 1866); della crescita. Diventa, in quell’epoca, il punto di riferimento culturale e francescano del Mezzogiorno d’Italia. Della seconda guerra mondiale Luce Serafica ne fa solo alcuni brevi cenni. Non era nella logica e nella missione della rivista. Ad alcune voci amiche del regime fascista più per rispetto che per devozionefacevano seguito pagine di accorati appelli alla pace e alla solidarietà tra i popoli nella fedeltà al magistero di Pio XI e di Pio XII. Luce Serafica cammina con la storia del dopo guerra e con la rinascita e la crescita del Paese Ita-
lia degli anni cinquanta sino ai traguardi degli anni settanta - ottanta non cambiando il suo volto e il suo mandato, ma aprendo anche spazi alle nuove esigenze culturali, economiche e sociali. Luce Serafica cammina ed individua i segni dei tempi: Concilio Vaticano II ( 1962-1965) e dopo Concilio sono la bussola quotidiana della informazione religiosa, culturale e francescana che raccoglie tra le sue pagine. Pio XII, Papa Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II illuminano con il loro fecondo magistero il nuovo cammino ecclesiale. Dal 1963 al 2005: inizio e fine del ministero di Papa Montini (1963-1978) sino alla morte di Giovanni Paolo II (2 aprile 2005) Luce Serafica resta fedele al suo mandato: quello di illuminare un “cammino” nuovo, segnato dalla testimonianza di santità dei santi antichi e nuovi: san Francesco, sant’Antonio, Beato Bonaventura da Potenza, Francesco Antonio Fasani, Antonio 32
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luce serafica 90 anni
che cosa vogliamo perché LUCE perché serafica E la risposta era: è un dovere. Questa l’impaginazione del primo numero: san Francesco e il mezzogiorno d’Italia; il primo convento francescano del mezzogiorno san Lorenzo Maggiore; pensieri per la Vergine e per san Giuseppe Sposo; una riflessione su Roma che vive il Giubileo del 1925 e un articolo alla vigilia del VII centenario del transito del serafico padre san Francesco ( 3-4 ottobre 1226- 4 ottobre 1826). Al termine del primo anno, il primo bilancio (pubblichiamo in queste pagine i due fogli storici!). Dopo due anni un secondo bilancio; dieci anni dopo un terzo bilancio; nel gennaio-febbraio 1989, 62 anni dopo un quarto bilancio; ed oggi, 90 anni dopo, un quinto bilancio con gli interventi di queLa storia di LUCE SERAFICA e i precedenti Le tre lettere tra i fratelli padre Antonio e padre sta Giornata di studio. Giuseppe Palatucci, provinciale il primo , e rettore del collegio serafico di Ravello il secondo, indi- I direttori e i primi anni di vita cano molto bene il traguardi da raggiungere; il Bastano i loro nomi: Palatucci per 12 anni e poi, primo numero di 20 paginette (marzo 1925) con Cava, Gallo, Di Monda, Ciappetta, Gallo, Giustitre domande che conservano ancora oggi , dopo niano, Sapere, Di Muro, Scognamiglio, D’ Alessandro, Grieco. 90 anni, una scottante attualità: Lucci, Massimiliano Kolbe ecc.. e da nuovi studi di storia e di arte francescana (Ravello, Montella, san Lorenzo Maggiore e santa Chiara a Napoli) che hanno contribuito alla conoscenza artistica e monumentale di un mondo francescano oggi ormai lontano ma pur sempre a noi vicino. Tra momenti alti e nuove situazioni complesse, dopo alcuni anni di abbandono dal 1989 ( numero 1-2) al 2006, dopo 16 anni di “cosa fare” Luce Serafica riprendeva a vivere con il contributo di religiosi della Provincia religiosa di Napoli attenti alle dinamiche ecclesiali e pastorali e di fedeli laici legati alla nostra spiritualità francescana ed ecclesiale. Dal 2014 Luce Serafica ha intrapreso una nuova strada. E’ sotto i nostri occhi e guardiamo al futuro.
Annata 1925- 26-27: 228 pagine, con articoli sull’ Anno Francescano firmato da padre Semeria; e poi articolo su Girardelli da Muro Lucano (p. 913- 1926) e su Donato del Quercio (p. 133-135, 1927). Articolo poi su La lingua di sant’Antonio di Padova (15 febbraio) e sul rapporto Antonio di Padova e l’Italia nella rinnovazione morale del secolo XIII; studi di storia e di arte come il monastero di Montella e il bel san Lorenzo maggiore di Napoli , e il notiziario: informazioni brevi. Giungevano i primi applausi dai vescovi Elia Dalla Costa (Padova); cardinale La Fontaine, patriarca di Venezia; dei cardinali Mery del Val ed Ascalesi; il commento dell’antifona “Patriae lux”; e nel giugno 26 l’enciclica “Rite espletis” per VII centenario della morte di san Francesco (p. 121- 140). Copertina a colori quella del mese di ottobre 1926 e articolo sulla città di Assisi e del suo santo; san Francesco e le virtù della obbedienza, della povertà e della castità; e, nel mese di novembre tutte le cronache delle celebrazioni francescane e un contributo su san Francesco in gloria e, nel mese di dicembre la rivista ospita un articolo su fra Francesco da Atrani) p.273-276). Nel gennaio de 1927, due anni dopo la nascita, i
primi vagiti: “Ecco: nel nostro mezzogiorno si sente il bisogno di una rivista do cultura generale e noi, da vario tempo, pensiamo do trasformare a tale scopo LUCE SERAFICA che pur conservando la sua impronta francescana, risponde a quel bisogno. Deus et dies! Lasciamo fare a Dio e aspettiamo il tempo e l’ora” (p.10-11). Da Chieti giungeva nel frattempo il plauso dell’arcivescovo Monterisi, datata 22 novembre 1925, che poi sarà eletto arcivescovo di Salerno. Si complimentava con il direttore per il “calore umano che le ha dato” “Nel meridione- rilevava il presule pugliese - pur non mancando gli elementi, manchiamo di organizzazione e di iniziative. Solo una rivista può “preparare e accelerare l’auspicata fusione morale con le altre regioni italiane (p. 12). Iniziava così la vita di san Francesco a puntate. “Segni di gloria” era il titolo del capitolo primo (p. 13- 15). Seguivano articoli su San Giacomo della Marca, protettore di Napoli; il seguito sul monastero- convento di Montella dello storico, la notizia del beatificazione di Gian Francesco Burté, OFMConv., (17 ottobre 1926) martire della rivoluzione francese (p. 50-54) e un contributo storico sul beato Giovanni da Montecorvino (1247-1331), 34
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apostolo missionaria in terra di Cina. I tre numeri estivi: luglio, agosto, settembre 1927, ospitavano articoli sul Fasani (p. 146-152), su sant’Antonio la la Madonna e su santa Veronica Giuliani (p. 170174). E’ nell’agosto del 1927 che il direttore padre Giuseppe Palatucci, scrive il bel testo su “Ravello, gemma della divina costiera” (p. 175-183), riproposta da padre Francesco Capobianco nel numero di gennaio-giugno 2015 della rivista il beato Bonaventura da Potenza. Ripercorrere questi 90 anni di vita di Luce Serafica nei particolari è facile e difficile insieme. E’ una lunga storia fatta di volti, di fatiche, di sacrifici, di profezia. Guardare al passato vuol dire soprattutto proiettarsi sul futuro. 1. Attorno a Luce Serafica si sono ritrovate le migliori intelligenze della religiosa provincia francescana della Campania e della Basilicata, partendo da padre Palatucci – era nato il 25 aprile 1892- che
viene elevato alla dignità episcopale all’età di 45 anni, vescovo di Campagna 16 agosto 1937 sino al 31 marzo 1961, venerdì santo, 24 anni di ministero episcopale. 2. Da Ravello parte per l’intero Ordine serafico un messaggio culturale di notevole portata: Le edizioni di Luce Serafica con la pubblicazione de Il Serafico sentiero (1929) (edizione rivista e aggiornata nel 2014, p.352, a cura di padre Renato Sapere) ; la vita del Beato Bonaventura da Potenza (1930) ; il diario spirituale francescano (1934). (Diario spirituale francescano, riproposto negli anni 80 da padre Renato Sapere e poi raccolto in un volume). Testi e grafica, quelli degli anni trenta, di incomparabile bellezza. 3. I numeri speciali. Ne cito solo alcuni: 1962, numero di sessanta pagine, dedicato alla Peregrinatio del beato Bonaventura da Potenza (25 agosto -23 settembre 1962); i numeri dedicati al XX della morte) 14 agosto 1941- 1961) alla introduzione della causa (1960 -15 marzo) alla beatificazione 1971 e alla canonizzazione del Kolbe (ottobre-novembre 1982), di san Francesco Antonio Fasani da Lucera (maggio giugno 1986); e il numero speciale dedicato a “Santa chiara a Napoli tra fede e arte” (gennaiofebbraio 1987). 4. La rivista oggi: come farla e prima ancora perché farla, dopo le recenti crisi editoriali cattoliche? Fedeli alla nostra storia e al nostro carisma, perché come francescani conventuali abbiamo ancora tante cose da raccontare al mondo. 5. La Laudato si’ di papa Francesco è l’ultima testimonianza che camminiamo sulla retta strada. Abbiamo ancora tante cose da raccontare su san Francesco e sui suoi innumerevoli discepoli. Abbiamo il dovere di raccontare queste nuove pagine di storia francescana. 6. I Mirabilia Dei compiuti da frate Francesco non possono essere ripresi da altri. Lo Spirito di Assisi è nostro e non possiamo disperderlo o consegnarlo nelle altrui mani. Per questo lavoriamo e nella fedeltà a questo nostro messaggio sempre verde, che non appassisce riprogrammiamo il nostro futuro. 36
Una testimonianza di produzione culturale e religiosa nella Costa di Amalfi degli ani trenta GIUSEPPE GARGANO STORICO, PRESIDENTE ONORARIO DEL CENTRO DI CULTURA E STORIA AMALFITANA
L
’arte tipografica in Amalfi ebbe origine nei primi anni Venti del XX secolo; due furono allora le tipografie operanti in loco: quella istituita dal cartaro Antonio Amatruda nella Valle dei Mulini, che utilizzava quale materia prima proprio la celebre “carta a mano”, e quella denominata “Fusco-Dipino”, specializzata in particolare nella stampa delle cartoline, divenute ormai storiche e molto ricercate. Antonio Amatruda fu il primo a pubblicare testi dell’arcivescovo Ercolano Marini, che resse l’archidiocesi di Amalfi per trent’anni, dal 1915 al 1945, curando con grande dedizione, amore e preoccupazione la comunità amalfitana soprattutto in occasione delle due grandi guerre. Il testo edito dall’Amatruda aveva per titolo: “Dopo il primo Congresso Eucaristico Diocesano Decima terza Lettera Pastorale. Gli
splendori. I ringraziamenti. I ricordi”. Anno di edizione fu il 1923. Grande impulso all’arte tipografica amalfitana fu fornito proprio da Mons. Marini e dalla Curia arcivescovile, emulati, come si noterà fra poco, da qualche ente religioso del territorio. Allo scorrere degli anni Venti Amalfi si preparava a vivere una felice stagione di ripresa culturale, derivata da vari fattori concomitanti. Allora il decisionismo, la determinazione e l’intraprendenza del podestà Francesco Gargano, che utilizzò a pieno l’amicizia consolidata con un gerarca del tempo, il quale sceglieva Amalfi per i suoi incontri “extraconiugali”, consentirono la realizzazione dell’acquedotto pubblico e l’istituzione del Regio Ginnasio “Matteo Camera”, intitolato al massimo storico amalfitano. Così la scuola media-ginnasio aprì i battenti ai primi di settembre del 1932; il 24 dello stesso mese vi prese servizio il preside, Giuseppe Fornari. I locali, allestiti in un edificio attiguo al palazzo comunale, furono consegnati il 3 otto-
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Andrea De Luca Tipografo dell’Arcivescovo
RAVELLO 1940 Ferdinando Schiavo con due ospiti di riguardo. A destra fra Ludovico Di Nardo (1852-1942) apostolo della costiera, mentre scende dal convento di san Francesco casione, la tipografia amalfitana Umberto Dipino pubblicò alcuni numeri di annuari del ginnasio “Matteo Camera”. I libri di testo usati dagli studenti, che avevano un costo non trascurabile, potevano essere acquistati presso la Libreria “Antonio Savo”, che da allora e per molti decenni divenne il punto d’incontro culturale di professionisti, lettori accaniti, scrittori, giornalisti, tipografi. I programmi di studio del Ginnasio amalfitano relativi alla Letteratura Greca e Latina erano piuttosto vasti, ma la preparazione di alcuni discenti era così elevata che essi sapevano già tradurre con esiti eccellenti testi alquanto impegnativi. Il Regio Ginnasio di Amalfi era frequentato pure da studenti provenienti da altri centri
bre, con un arredamento “ottimo, si direbbe quasi elegante”. Il numero degli allievi fu di 43 residenti ad Amalfi e 23 provenienti da altri centri della costa. Nel 1936 i locali del Ginnasio furono ampliati, mediante lavori di sopraelevazione, in conseguenza dell’aumento degli studenti: il certificato di collaudo fu rilasciato dall’ingegnere Ruggiero Francese, al quale aveva affidato il delicato compito, considerando sicuramente le sue eccelse qualità professionali, benché fosse un dichiarato antifascista, il collega podestà Salvatore Esposito, ingegnere a 23 anni, podestà a ventotto. Nel contempo fu potenziata sensibilmente la biblioteca dell’istituto, distinta in due sezioni, una dei professori, l ‘altra degli alunni. Per l’oc38
studi, su iniziativa dell’ Ente per le Antichità e i Monumenti della Provincia di Salerno e a cura del Comitato per le celebrazioni di Amalfi imperiale, che recava il titolo di “Studi sulla Repubblica Marinara di Amalfi”, nonché l‘allestimento di una “mostra bibliografica del diritto marittimo medievale”. Intanto Mons. Marini convinceva lo studioso Pietro Pirri a portare a compimento uno studio sul complesso della cattedrale di Amalfi, che fu puntualmente edito nel 1941 dalla Scuola Tipografica “Don Luigi Guanella”, i cui padri servivano egregiamente e umilmente in questo orfanotrofio voluto proprio dal presule amalfitano. Ercolano Marini intuì per primo la necessità, in quegli anni lontani e difficili, di creare ad Amalfi, faro di civiltà nel Medioevo, un centro culturale ( Centro Diocesano di Studi Storici ) che potesse studiare, ricercare, divulgare le gloriose memorie patrie. Quell’ associazione culturale da lui tanto auspicata si realizzava soltanto più tardi, nel 1975, per volontà di un gruppo di giovani collaborati da amalfitani più maturi, ma non per questo meno motivati. Questo era il contesto culturale, editoriale e tipografico nel quale andava a calarsi un giovane imprenditore amalfitano, formatosi alla scuola della vita, offrendo il suo costantemente laborioso, infaticabile e appassionato contributo. Verso la prima parte degli anni Venti rientrava dagli Stati Uniti un giovane avventuroso, che aveva imparato nel Nuovo Mondo l‘arte della tipografia: era un amalfitano purosangue, devoto e fedele di S. Andrea Apostolo, Andrea De Luca. Egli tentò l’impresa della creazione di una nuova tipografia, forte dell’ esperienza americana, in alcuni locali attigui all’arsenale di Amalfi. Nasceva, in tal modo, la Stamperia Andrea De Luca, nel solco della tradizione, acclarata sin dal Rinascimento, della corporazione degli stampatori italiani. Si circondò, così, di un gruppo di operai che lo collaboravano nell’attività, impegnandosi affinché ognuno di loro si specializzasse in un settore dell’arte tipografica, dalla parte meccanica alla composizione, alla preparazione degli inchiostri, alla realizzazione dei clichet. Stabilì subito, pregno dell’esperienza del lavoro solidale appresa negli Stati Uniti, un amorevole e 39
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della Campania o da altre regioni d’Italia: per la loro ospitalità fu allora istituito il “Convitto Pietro Scoppetta”, gestito dai fratelli Proto. Ad Amalfi esisteva, comunque, in quegli anni un ginnasio parallelo: esso rappresentava il glorioso retaggio della medievale scuola ecclesiastica amalfitana, era attivo nei locali del Seminario Diocesano ed era retto da insegnanti sacerdoti; vi si iscrivevano giovani destinati alla vita ecclesiastico-religiosa o indirizzati dai genitori semplicemente ad una seria preparazione culturale e ad una formazione morale di primo piano. Parallela ai ginnasi vi era una scuola professionale e artigianale, istituita dal presule Ercolano Marini e direttamente collegata ad una delle sue più nobili fondazioni, l’orfanotrofio “Anna e Natalia”. Gli anni Trenta furono per Amalfi quelli della sua rinascita storica e culturale, nonché della presa di coscienza della sua vocazione turisticoculturale. In tale ottica di riqualificazione e di progresso prestarono la loro qualificata opera amministratori pubblici attenti e l’eccelsa figura di Ercolano Marini, pastore socialmente impegnato e rinnovatore della spiritualità religiosa. Il pellegrinaggio in Terra Santa effettuato dall’insigne presule nell’anno di grazia 1933, dal 4 agosto al 2 settembre, in compagnia di alcuni arcivescovi e vescovi, di padre Giuseppe Palatucci – che proprio sulla rivista Luce Serafica, nel numero settembre-ottobre 1933, iniziava a raccontare con una serie di articoli questa esperienza biblico- storico e spirituale – e del podestà Francesco Gargano favorirono la riscoperta del grande ruolo assistenziale e diplomatico svolto dalla repubblica marinara di Amalfi nei lontani secoli del Medioevo e l’allacciamento di rapporti proficui con una sua creatura, il Sovrano Ordine Militare di Malta, fondato dallo scalese fra Gerardo Sasso con il titolo di San Giovanni di Gerusalemme. Il restauro dell’ arsenale, l’unica reminiscenza di cantiere navale medievale almeno in Italia meridionale, e l’organizzazione in esso di convegni e di mostre a carattere eminentemente storico esaltarono ulteriormente quel faro di civiltà che aveva acceso Amalfi “imperiale e repubblicana” nel bacino del Mediterraneo. A tal proposito di particolare rilevanza furono l’edizione a stampa di un volume miscellaneo di
caloroso rapporto fraterno e paterno con i suoi dipendenti. Pertanto, la sua azienda divenne un’autentica famiglia, unita e compatta contro ogni avversità e sempre pronta a recepire le innovazioni tecnologiche. La sua tipografia non si impegnava soltanto nella semplice stampa di carte intestate, manifesti di ogni genere, particolari menù di nozze o nella confezione dei sacchetti di carta, affidata alle donne; volle con coraggio tentare il cimento in altre più elevate esperienze di produzione culturale. Con singolare immediatezza, segnato sensibilmente dalla sua fede religiosa, mise a disposizione della curia arcivescovile le potenzialità della sua tipografia. Così nel 1929 pubblicava le memorie di Ercolano Marini relative al suo primo viaggio in Terra Santa, dal 15 maggio al 16 giugno 1928, inteso come solenne pellegrinaggio (E. Marini, La Terra Santa. Elevazioni sul mio pellegrinaggio (15 maggio, 16 giugno), Amalfi, Tip. Andrea de Luca, 1929)1. Quindi seguiva passo dopo passo l’evoluzione del pensiero del presule scrittore di teologia nella difficile interpretazione del sacro mistero della SS. Trinità. Gloria tibi, Trinitas! curata nelle sue sette edizioni, opera insigne di alta spiritualità e di sublime filosofia metafisica e teologica, fu il suo fiore all’occhiello, insieme agli “Splendori del Credo”. L’apostolato di Mons. Marini passava per le sue mani, anzi attraverso i suoi “tipi” di piombo. Tra il 1937 e il 1939 componeva, sempre per l’esimio arcivescovo, “La SS. Trinità nei Sacramenti della Chiesa” e “La SS. Trinità e la morte cristiana”, pietre miliari nel progresso dell’interpretazione religiosa del più grande mistero della Cristianità: quei volumi sono oggi un’indelebile testimonianza della missione pastorale del Marini, insieme alla sua tomba collocata lungo la scala che dalla cattedrale porta alla
cripta, sulla cui lastra marmorea è raffigurato il triangolo della Trinità. Ma questi furono traguardi notevoli raggiunti da Andrea De Luca quando ormai era riconosciuto come un tipografo rinomato; la sua storia editoriale comincia nel decennio precedente con saggi apparentemente di importanza minore, in realtà di silente spessore culturale e religioso, quasi l’opera continua e crescente destinata a volare nei cieli elevati di una editoria dalla manifesta vocazione di tassello incorruttibile e di gran pregio. Già nel 1925 egli si presta alla pubblicazione periodica della rivista francescana Luce Serafica, voluta dal suo direttore padre Giuseppe Maria Palatucci, primo rettore del Collegio serafico del convento di San Francesco a Ponticeto di Ravello. Sin dai primi numeri si può individuare sul retro la menzione: “A. De Luca – Tipografo dell‘Arcivescovo – Amalfi”; così Andrea De Luca era diventato, a giusta ragione, il tipografo editore per eccellenza dell’arcivescovo di Amalfi Ercolano Marini, per gentile concessione dello stesso presule. Sin dagli inizi degli anni Trenta il giovane figlioccio di Andrea De Luca, il compositore tipografico Saverio Gargano, mio padre, collaborava fianco a fianco con Padre Giuseppe nella pubblicazione del periodico. Il Padre apprezzava molto le qualità del mio genitore, classificatosi terzo in un concorso regionale di composizione, al punto tale, per non privarsi della sua collaborazione, da intercedere presso il principe Umberto, affinché gli riducesse la leva militare, allora piuttosto lunga. Nel 1937 Giuseppe Palatucci venne eletto vescovo di Campagna, dove svolse la sua missione sotto il profilo eminentemente francescano, vivendo in condizioni di povertà e offrendo quanto aveva ai poveri e ai bisognosi. Il periodico francescano mensile “Luce Serafica” presentava una elegante e nello stesso tempo
1) I pellegrinaggi compiuti dall’Arcivescovo Ercolano Marini in Terra Santa furono otto: (15 maggio – 16 giugno 1928; agosto - settembre 1929; 5 agosto – 6 settembre 1930; 18 agosto – 20 settembre 1931; 31 luglio – 30 agosto 1932; 4 agosto – 2 settembre 1933; 12 – 27 agosto 1934; 1935). Cfr. Rivista Ecclesiastica Amalfitana, Anno XIV, n. 4-5 (124-125), Maggio – Giugno – Luglio – Agosto 1929, p. 79; Anno XV – n.
6 (132), Settembre – Ottobre 1930, pp. 192-193; Anno XVI – n. 5-6, (137-138), Settembre – Ottobre 1931, pp. 76-80; Anno XVII – n. 6 (144), Settembre – Ottobre 1932, p. 111-114; 117-119; Anno XVIII – n. 6 (150), Settembre – Ottobre 1933, p. 99; A. Colavolpe, Quasi aquila nell’infinito. Ercolano Marini. L’Uomo, il Pastore, il Teologo, Salerno, De Luca, 2000, pp. 125139. 40
sione. Naturalmente questo scritto era in relazione con la festività del Padre putativo di Cristo. In questa riflessione S. Giuseppe diventa il simbolo dell’uomo nuovo, del padre amorevole che, fatto a immagine e somiglianza del Massimo Fattore, incarna nella sua realtà di uomo lo spirito divino, per cui Gesù è figlio dell‘Uomo. Questo pensiero riporta la mia mente di storico agli anni della guerra e della fame che vissero Andrea De Luca e i suoi operai: ognuno di loro dovette, non senza sforzo e sacrificio, assumersi il delicato e difficile compito di padre amabile, carico di paziente sopportazione e sempre pronto a mostrare ottimismo e fiduciosa volontà di non mollare. “L’ Isola della Preghiera”, lirica scritta da Francesca Castellino, condirettrice della rivista “Cuor d’oro”, richiama, con i versi: San Francesco tornava di Sorìa/ ed era stanco della lunga via....Le disse forte che l’udisse il mare/ e l’onde
sobria copertina grigia, illustrata di volta in volta da disegni d’impronta mistica, rievocanti scene e avvenimenti della vita miracolosa del Poverello di Assisi. I caratteri tipografici erano ben curati con un gusto artistico che ho sempre ritrovato nelle composizioni di mio padre. Alcuni articoli erano corredati da illustrazioni in bianco e nero, ricavate da clichet piuttosto fini e ricercati. Voglio, ora, soffermarmi su due numeri della nostra rivista, in possesso della biblioteca del Centro di Cultura e Storia Amalfitana. Il primo è del marzo 1926 (anno II, n. 3). In esso si leggono alcuni spunti interessanti di riflessione religiosa e culturale. In un articolo a firma “JOSEPH” si legge: Il male delle anime è il naturalismo, “che attenua il desiderio dei beni celesti e sottrae l’uomo alla grazia sanante ed elevante di Cristo”; e S. Giuseppe uomo tutto soprannaturale nella sua vita e nella sua mis41
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Amalfi – La famiglia di Gaetano Afeltra (Amalfi 11 marzo 1015 - Milano 9 ottobre 2005) conserva gelosamente tre le mura di casa che si trova al centro della città, questa stampa dell’Ottocento che presenta il Venerabile Domenico Girardelli da Muro Lucano che “richiama in vita il defunto Matteo Anastasio suo penitente, che stava per subire l’eterna dannazione per non essersi confessato di una grave colpa commessa nella sua giovinezza”.
stetter ferme ad ascoltare....E con gli uccelletti a ripeton l’onde,/ e li accompagna un mormorìo di fronde./ E dalle fronde un alito di vento/ la porta ai fraticelli del convento; il ritorno di San Francesco dalla visita al sultano Al Camil e la sua permanenza, intorno al 1220, ad Amalfi, dove avrebbe dato il primo impulso per la fondazione dei conventi di S. Maria degli Angeli a Capo di Croce e di Ponticeto a Ravello. Un articolo eminentemente storico ricordava poi fra Landolfo Caracciolo, arcivescovo di Amalfi negli anni intorno alla metà del Trecento, attraverso le sue opere religiose e letterarie. In un numero di Luce Serafica del 1931 (anno VII, nn. 9 e 10) appare un breve studio sul Beato Gerardo Sasso di Scala del canonico prof. Lampo, proprio in concomitanza con i viaggi apostolici di Mons. Marini a Gerusalemme. Ancora una lirica, “Ravello un nido di pace”, esalta l ‘atmosfera di purezza, pace e spiritualità della città amalfitana che tuttora conserva la testimonianza viva della missione di Francesco. Passava, intanto, come una frotta di tempestosi e minacciosi nuvoloni neri, la triste temperie della guerra, lasciando, comunque, dietro di sé la piaga della carestia. Con l’arcobaleno della pace tornava “al travaglio usato” anche la stamperia Andrea De Luca, “tipografo dell’Arcivescovo”, sempre pronta ad
offrire la sua qualificata collaborazione alla Chiesa di Amalfi, quale devoto omaggio al Primo Chiamato. Rientravano, miracolati reduci del conflitto infame, molti amalfitani e tra questi pure i giovani tipografi reclutati per l’onore della patria o “per spezzare le reni alla Grecia”. Increduli di avere scampato indenni campi di lavoro e di concentramento, si accanivano a lavorare tra i banchi della composizione, estremamente vigili a ridurre quanto possibile i refusi tipografici e a non far cadere per terra la pagina di piombo composta, ad azionare le nuove macchine da stampa, a tagliare fogli di carta e a cucire e incollare copertine di libri. L’istituzione voluta da Andrea De Luca continua la sua tradizionale attività: i suoi figli Antonio, Giuseppe e Carlo hanno saputo ampliare il raggio di azione dell’azienda paterna, mentre oggi un novello Andrea De Luca, insieme al fratello Raffaele, vince la sfida dei tempi moderni e avanza con il determinato decisionismo dell’illustre avo verso il nuovo millennio. Intanto una nuova ma antica Luce Serafica riappare, questa volta ricca di colori, sulla scena del teatro del mondo attenta agli insegnamenti di un nuovo Francesco, servus servorum Dei, fortemente voluta e sostenuta da due eredi del Poverello e cari nostri fratelli: Gianfranco Grieco e Francesco Capobianco. 42
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Ravello, Fra Ludovico Di Nardo con il piccolo Alfonso Schiavo e le bimbe Maria Schiavo e Maria Mansi (1939)
una scintilla nel Collegio di Ravello, preso la tomba del Beato Bonaventura da Potenza, di là si è poi irradiata, come serafico fuoco, nel noviziato di Sant’Anastasia e nel Collegio filosofico - teologico apertosi ultimamente in Aversa “. “Facciano voti- scriveva LUCE SERAFICA nel numero di novembre del 1928 (anno IV,n .11, p. 323-324) – che, con l’ aiuto di Dio e con la protezione dell’Immacolata Vergine e del Serafico Padre, egli possa svolgere pienamente il programma di risurrezione completa di questa Provincia francescana, già tanto gloriosa in passato e possa attuare segnatamente quel punto additato dal Rev.mo P. Generale, l’espansione. In modo che, in un domani più o meno prossimo, la nostra Provincia, non solo possa riaprir numerosi conventi in tutte queste regioni meridionali, ma anche una propria missione all’estero”. “Un voto particolare poi, una vera preghiera a Dio facciamo che presto torni alla Provincia l’antico conventocapo, il bel San Lorenzo Maggiore di Napoli. Così- non pèr stupida vanagloria, ma perché questo è lo scopo dell’Ordine, queste le tradizioni gloriose della nostra Provincia, - così, si rinnoveranno le antiche glorie in perenne fioritura di pace e di bene, come quando l’antico Ministro Provinciale, dal nostro convento di San Lorenzo Maggiore, non solo trasmetteva ai numerosi conventi di Terra di Lavoro il verbo francescano, qui portato dal primo Provinciale il Beato Agostino da Assisi, nel 1217, e quel verbo suscitava una legione di santi e di dotti francescani ed echeggiavano in tutto il Mezzogiorno, raccoglieva nel bel San Lorenzo tutti i figli di san Francesco di queste nostre mirabili terre; ma inviava anche, numerosi, di drappelli di missionari francescani ovunque e soprattutto in Terra Santa- la perla delle Missioni- che dai tempi di san Francesco fino al ‘400 dipendeva appunto dal Ministro Provinciale dei Frati Minori Conventuali a San Lorenzo Maggiore. Così si rinnovi l’antico spirito francescano e si moltiplicheranno santi e dotti francescani nel Mezzogiorno, eroi e martiri delle missioni”. (Luce Serafica, anno IV, novembre 1928, n.11, p. 323-324 ).
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a bufera rivoluzionaria francese prima (18061809) e la soppressione italiana dopo (7 luglio 1866) arrecavano un gravissimo danno alla vota religiosa anche nel sud Italia. Circa 80 conventi e 600 religiosi: questa la cifra prima degli anni bui. E dopo il 1820, dei 150 religiosi che lavoravano nei 10 conventi e nei 3 ospizi riaperti, solo 9 sacerdoti e 8 fratelli riuscivano ad ottenere qualche stanza in conventi di Ravello, Santa Anastasia, Barra, Portici, Montefusco, ove rimanevano per tenere aperta le chiese conventuali. All’inizio del Novecento i primi segni della rinascita con il primo Capitolo provinciale si celebrava nel 1919. L’ultimo prima della soppressione era stato celebrato solo nel 1859. Nei 60 anni intermedi, i Ministri provinciali venivano nominati direttamente dai Ministri generali. Dal 1923 al 1928, per 6 anni, il Ministro Provinciale padre Antonio Palatucci rieletto nel corso del capitolo provinciale del 1928 svoltosi nei giorni 10,11 e 12 ottobre 1928, “ha saputo ridare alla Provincia Francescana di Napoli una vita nuova e veramente fiorente, come con parola di magnifica lode fece notare lo stesso P. Generale Alfonso Orlini, che ringraziando a nome dell’Ordine il P. Provinciale, rilevava come l’opera svolta da lui finora per sei anni, giovò a risanare e consolidare la Provincia, in modo che questa oggi ha preso molto bene l’inquadramento generale del programma di rifiorimento dell’Ordine intero e che la stessa opera deve ora avere un altro compito, quello cioè della espansione, compito non meno difficile ma necessario per la maggior gloria di Dio e per l’incremento del nostro Ordine in queste province meridionali, per farvi rifiorire le antiche glorie. E a bene sperare in questa riuscita ci è cagione- continuava il Rev.mo P. Generale – la belle rifioritura dei collegi della Provincia che, sorti per opera del P. Provinciale, in pochi anni hanno raccolto numerosissimi giovani in eletta schiera sempre più crescente che, sviluppatasi, sei anni or sono, come
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La Provincia religiosa di Napoli tra storia, cronaca e memoria
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al 5 al 9 giugno 2017, i frati minori conventuali della Provincia religiosa di Napoli e Basilicata si riuniranno a Baia Domizia (Ce), presso il Park Hotel, per celebrare il 31° Capitolo provinciale ordinario, durante il quale sarà eletto in nuovo ministro provinciale e, cosa ancora più importante, avverrà la progettazione per la formazione e la missione dei frati per il prossimo quadriennio. Abbiamo chiesto a fra Edoardo Scognamiglio, ministro provinciale uscente, che conclude il suo secondo mandato, di delineare le prospettive e le aspettative per il prossimo Capitolo provinciale.
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ci troviamo e operiamo, con le nostre risorse, capacità, paure, desideri, limiti e fragilità, ma anche con i nostri sogni e le nostre speranze. Siamo, inoltre, in cammino sempre per strada, su un territorio. È qui da riconsiderare la presenza delle nostre fraternità nelle Diocesi. Una terza grande sfida riguarda la riconversione di alcune strutture che ci creano difficoltà per la gestione economica. Non possiamo essere segno di povertà e di umanità se non siamo in grado di donare tutto quello che abbiamo. Ci sono conventi e strutture fatiscenti che vanno donate o, per lo meno, affidate a persone competenti per il bene degli ultimi. La collaborazione con i laici deve essere sempre più convinta e propositiva, mai improvvisata.
Che cos’è la celebrazione di un Capitolo provinciale? La celebrazione del Capitolo provinciale ordinario è tempo di grazia, di discernimento: Dio parla e noi dobbiamo metterci in ascolto della sua volontà. Il Capitolo serve per fare la verifica dell’ultimo quadriennio e prendere atto della realizzazione del programma che avevamo stabilito nel 2013. Tuttavia, ancor di più, il Capitolo è celebrazione della fraternità, ossia tempo di riconciliazione, di ringraziamento: siamo chiamati a lodare il Signore e a ringraziarlo per il dono della comunità, della nostra vocazione, della missione che egli stesso ci ha affidato sulle orme di san Francesco, secondo il carisma proprio del Poverello.
Come vivere l’esperienza della missione e dell’evangelizzazione in fraternità? Nel celebrare questo 31° Capitolo provinciale ordinario, dobbiamo tenere conto della volontà del Ministro generale che spinge le Province dell’Italia Meridionale ad accorparsi e a fare unità nella missione, sentendo di più l’urgenza di riprogettare fraternità in senso dinamico, a mo’ d’irradiazione, che possono, sul medesimo territorio, gestire più presenze e attività, avendo come punto di riferimento comunità più grandi di appartenenza. Non sottovalutiamo la possibilità di accorpare piccole fraternità su uno stesso territorio, come pure la possibilità di rinunciare a qualche parrocchia e di dedicarci a un altro tipo di apostolato. Penso, in questo momento, al grande contributo di noi francescani per il dialogo interreligioso, per l’accoglienza degli ultimi, dei migranti, per l’ecumenismo, la mediazione e la formazione alla pace. Ogni giorno, sui giornali, si pone la questione a livello politico, sociale, culturale, religioso ed economico degli immigrati, del dialogo tra cristiani e musulmani. La sfida di progettare una missione più dinamica non è solo o anzitutto la questione del numero dei frati, bensì la possibilità di vivere in fraternità più grandi che diventano punti o centri d’irradiazione missionaria ed evangelica. Se è vero, come ha affermato papa Francesco, che la missione è la “grammatica della fede”, ossia l’essenza della nostra identità di battezzati, allora, come frati, per conoscere la qualità della nostra fede dobbiamo necessariamente interrogarci sulla qualità della nostra missione. È come affermare: “Dimmi chi e come annunci e ti dirò chi sei!”. Lo stile di una fraternità missionaria parla oggi alla gente e rivela chi siamo concretamente. Per fare unità nella missione, ossia per vivere il carisma francescano in modo autentico, è necessario recuperare le due caratteristiche della missione francescana: l’essere tra la gente e testimoniare con la vita un vissuto fraterno esemplare.
Quali sono le sfide più importanti per voi frati oggi? Una prima sfida, che è valida per tutti, è la conversione di noi stessi al Signore, al Vangelo, alla misericordia di Dio. Se riusciamo ad essere persone riconciliate, allora, potremo diventare strumento di pace per gli altri ed essere credibili come testimoni di Gesù risorto per il bene del mondo. Una seconda sfida riguarda l’apertura al mondo: vivere in fraternità per annunciare alla gente la bellezza di essere cristiani, ossia discepoli di Gesù. È l’impegno della nuova evangelizzazione che noi frati possiamo vivere riscoprendo la nostra vocazione al dialogo, all’incontro con l’altro, all’unità, alla salvaguardia del creato, alla lode di Dio nella bellezza dell’arte, della musica, del canto, del cinema... Il nostro impegno missionario si esprime soprattutto attraverso la missione in parrocchia: maggiore spazio dobbiamo dare alle attività culturali, alla predicazione, alla pratica della lectio divina, al dialogo interreligioso, ai poveri. Ci si consacra, forma e converte per gli altri, per annunciare il Vangelo, per il bene del popolo santo di Dio! È come dire che l’identità del cristiano è anche nel suo agire, nel manifestare storicamente il Vangelo di là delle strutture, delle situazioni personali che viviamo, senza mai dimenticare il contesto di provenienza ma anche la propria esistenza concreta. Noi siamo in cammino lì ove
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Dopo anni di attesa nel 2006... RAFFAELE DI MURO
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on gioia offro il mio breve e sentito contributo alla commemorazione del novantesimo anniversario di Luce Serafica, ripercorrendo i momenti della ripresa delle pubblicazioni dopo una sosta di molti anni, ben 42 (dal marzo 1974 al gennaio 2006). Anzitutto, il Capitolo Provinciale di Napoli mi affidava, il 14 luglio 2005, il mandato di “riaprire” la stagione di Luce Serafica dopo la lunga inattività. In quel tempo vivevo nel convento di Benevento, presso il quale era attivo l’Istituto Francescano di Spiritualità da me diretto. Con i collaboratori di questa istituzione accademica e con il Definitorio della Provincia Napoletana, in un incontro del 30 luglio 2005, in quel di Baia Domizia, si stabiliva un piano editoriale, basato essenzialmente sul far “brillare” la santità francescana in Campania e nel Sud Italia in genere. Per questa ragione i primi numeri della rinata rivista sono stati dedicati a figure illustri della famiglia serafica della “nostra” Terra di Lavoro. In verità, secondo gli iniziali intendimenti, il taglio scientifico doveva essere piuttosto accentuato. La nuova Luce Serafica, seguendo soprattutto molte fasi della sua nobile tradizione, era chiamata a specializzarsi su uomini e donne illustri dell’universo dei Francescani. Questo ovviamente escludeva uno stile prettamente “popolare”, anche per realizzare una valida differenziazione rispetto a riviste della stessa estrazione. Nell’editoriale del terzo numero avevo modo di scrivere: «È il nuovo orizzonte che Luce Serafica si propone di sondare! Dalle segnalazioni avanzate dai nostri lettori (già in crescita dopo le due pubblicazioni del numero zero e del numero uno) ci siamo convinti che è estremamente significativo illustrare il panorama della santità e della tradizione francescane, con particolare riferimento all’Italia Meridionale. Le famiglie francescane hanno una ricchissima fioritura di santità in questo am-
bito territoriale, che merita di essere scoperta e valorizzata». Prima di giungere alla redazione, alla stampa e alla diffusione di Luce Serafica ho dovuto risolvere importanti questioni di natura burocratica. Ad esempio, a causa della pluriennale sosta, si rendeva necessario registrare nuovamente in Tribunale la testata giornalista che nel frattempo era stata ovviamente cancellata. Di qui l’obbligo della numerazione a partire dallo “zero” e non dall’ultima uscita della rivista. Ricordo ancora con piacere la gioia e la concitazione di quei momenti. Queste le parole di apertura del numero “zero” (del 1° gennaio 2006) che inaugurava la ripresa della rivista: «Ritorna “Luce Serafica”! Ritorna dopo un tempo di vacanza prolungato, che termina con questo primo numero della nuova edizione della gloriosa rivista della Provincia Religiosa di Napoli dei Frati Minori Conventuali. “Luce Serafica”, dall’ultimo Capitolo Provinciale, è stata “adottata” dall’appena nato Istituto di Studi Francescani, una istituzione, curata dai frati del nostro convento di Benevento, con il supporto di religiosi, religiose e laici, interessata alla ricerca ed alla riflessione in tema di storia e spiritualità francescane. Quali i contenuti di “Luce Serafica”? La rivista proporrà riflessioni sulla teologia e la spiritualità francescane, la storia del francescanesimo con particolare riferimento alla Campania, le realtà apostoliche della Provincia di Napoli dei Frati Minori Conventuali». Il compianto P. Antonio Di Monda era tra i sostenitori della ripresa delle attività di Luce Serafica e così si esprimeva nel numero di apertura: « Ricompare “Luce Serafica”, la rivista mensile dei Frati Minori Conventuali della Provincia Religiosa Francescana di Napoli, dopo una interruzione - se non si vuol parlare di coma - di tanti anni. Da più parti se ne auspicava da tempo la ripresa. “Luce Se64
RENATO SAPERE
Nel 1971 padre Renato Sapere che faceva già parte del Comitato di redazione diventata direttpre di LUCE SERAFICA. Egli pensava doveroso di impostare il contento rispettando le origini della stessa come periodico del Mezzogiorno d’Italia nello spirito dei fratelli Antonio e Giuseppe Palatucci , per cui nell’ottobre di quello stesso anno dava vita ad un Inserto speciale che chiamava Diario Spirituale Francescano con riflessioni su documenti della Chiesa del post Concilio e dell’Ordine serafico e con figure di santi, di beati e di venerabili francescani partendo dalle origini. Questo Inserto nel 1989 veniva raccolto in un volume e diffuso nelle fraternità conventuali della Provincia religiosa di Napoli e dell’Ordine Serafico. Negli anni a seguire veniva cambiato il formato e l’impaginazione della rivista rendendola più agile e più accessibile con l’ inserimento di forze nuove con nuovi collaboratori e con rubriche dedicate all’arte, allo spettacolo e allo sport. Nel triennio successivo – 1991- 1994 la rivista pubblicava l ‘ Inserto LS di Comunione che diventava sussidio formativo e informativo delle varie attività della Provincia religiosa. Dal 1991 al 1998 la rivista tornava nelle esperte mani di padre Guido Giustiniano fino alla sua prematura scomparsa. La pubblicazione veniva sospesa fino al mese di ottobre 2006, quando iniziava la nuova serie, con scadenza trimestrale diretta da padre Raffaele di Muro.
rafica”, un periodico come tanti altri, era un po’ il portavoce della Provincia Francescana dei Frati Minori Conventuali di Napoli che da sempre, e cioè dal Serafico Padre in poi, abbracciava grosso modo - con leggere varianti dovute soprattutto a tempi e situazioni politiche e alla rarefazione dei Religiosi dispersi dalle varie soppressioni statali la Campania e la Basilicata». Nei primi tre anni dalla ripresa Luce Serafica si è occupata della storia del francescanesimo in Campania, della spiritualità di francescani esemplari quali il venerabile Giuseppe Cesa, fra’ Antonio Mansi, fra’ Alessio Pacifico, padre Antonio Maglione e fra’ Isaia Columbro (OFM). Pubblicava gli atti di convegni in Francescanesimo, delineava scenari futuri di vita spirituale in ambito missionario. Un discreto spazio era riservato alle attività apostoliche della Provincia napoletana dei frati minori conventuali. Inoltre, vi era spazio per l’arte, la liturgia e l’attualità ecclesiale. P. Antonio Di Monda è stato il grande protagonista della novella rivista, prima come collaboratore, poi come personaggio-testimone da ricordare subito dopo la sua dipartita. Il secondo numero del marzo 2007 è stato integralmente dedicato alla figura di questo splendido personaggio, con articoli e testimonianze che ne “ritraevano” vita e opere. Tra i valenti collaboratori di quel periodo, ricordo, tra gli altri, padre Zdzislaw Kijas (allora Preside della Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura”), suor Daniela Del Gaudio, padre Felice Autieri, Adele Cerreta Dopo questa incoraggiante ripresa, il 15 luglio 2009 il Ministro Generale mi trasferiva a Roma e mi affidava la direzione del Miles Immaculatae, rivista fondata da S. Massimiliano Kolbe e organo ufficiale della Milizia dell’Immacolata Internazionale (della quale diventavo l’Assistente spirituale) ed ho lasciato quella di Luce Serafica che, in seguito, per
volontà dei frati, cambiava indirizzo proponendo con maggiore evidenza la vita provinciale (in verità questa tendenza si registrava già negli ultimi tempi del mio mandato). Al mio posto subentrava padre Paolo D’Alessandro, direttore per il successivo quadriennio. Dal luglio 2009 collaboro assiduamente con questa rivista che continuo a sentire un po’ “figlia” e ad amare in modo particolare. Oggi gioisco particolarmente perché la vedo mirabilmente diretta da p. Gianfranco Grieco, ancora oggi “monumento” e autorevole espressione del giornalismo cattolico mondiale. In mani migliori Luce Serafica non poteva essere affidata. Ciò è visibile dall’elevatissima qualità del prodotto editoriale che è sotto gli occhi di tutti. Colgo l’occasione per formulare i migliori auguri a padre Gianfranco e alla nostra rivista perché possa continuare a brillare nel panorama editoriale francescano ed ecclesiale. 65
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Dal 1970 al 1978
Due riviste per il Beato FRANCESCO CAPOBIANCO
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uando nasce una rivista è come piantare un albero! E un albero è sempre crescita, sviluppo, dispensa di frutti. Nel marzo 1925 fu piantato a Ravello un albero francescano che non tradì le aspettative: la rivista Luce Serafica. Nella prefazione del primo numero leggiamo la giustificazione del titolo: “luce, perché la conoscenza è opera di luce, perché San Francesco stesso è luce. Dante nell’immortale canto XI del Paradiso, chiama oriente Assisi e San Francesco un sole. Serafica: perché San Francesco stesso “fu tutto serafico in ardore”( è sempre Dante) e fu destinato da Dio a riportare nei cuori stanchi e nei cuori freddi il vero amore, amore che Francesco attinse dalla luce perforante del Serafino crocifisso”. Si aprì così un canale che veicolò nel Mezzogiorno d’Italia il luminoso messaggio di amore di Francesco e dei suoi figli migliori. La fondazione della rivista Luce Serafica rientra nell’ambito delle molteplici ed efficaci iniziative prese dai tre fratelli Palatucci di Montella: Padre Antonio, Padre Giuseppe, Padre Alfonso. Figure prestigiose e benemerite, di grande statura spirituale e culturale. I tre - scriveva Padre Gianfranco Grieco su L’Osservatore Romano del 31 marzo 1966 - con la loro autorità giuridica ( Padre Antonio e Padre Alfonso sono stati Ministri Provinciali della Provincia di Napoli: Padre Antonio dal 1922 al 1934 e Padre Alfonso dal 1934 al 1949) ma soprattutto morale, hanno saputo guidare schiere di giovani delle Regioni del Mezzogiorno, sulla strada che porta alla vocazione conventuale e sacerdotale”. Padre Giuseppe venne designato Vescovo di Campagna il 16 agosto 1937 dal Papa Pio XI. Vi rimase 23 anni, amato e venerato da tutti. Con profonda riconoscenza viene ricordata la sua rischiosa protezione offerta, durante l’ultima guerra, a migliaia di ebrei che ospitò a Campagna, dove veni-
vano dirottati dal nipote Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume, “il questore giusto” “lo Schindler italiano, dichiarato Servo di Dio dalla Chiesa. E’ in corso il processo di Beatificazione. Il servo di Dio Giovanni Palatucci è morto nel campo di concentramento di Dachau il 10 febbraio 1945. I fratelli Palatucci furono veri colossi della diffusione del francescanesimo nel Mezzogiorno e rifondarono la Provincia Religiosa dei Frati Minori Conventuali di Napoli. Misero in primo piano la ricca e affascinante figura del Beato. Al Padre Antonio, Ministro Provinciale, si deve l’apertura, nel 1922, del collegio a Ravello, rimasto aperto fino agli anni settanta. (ultimo rettore-educatore il caro ed indimenticabile Padre Andrea Sorrentino). Fu di Padre Antonio la proposta e l’incoraggiamento per la fondazione della rivista Luce Serafica, realizzata dal fratello P. Giuseppe, primo e ammirato direttore della rivista, che suscitò tanti autorevoli consensi e che diresse per 12 anni. Nel 1934 veniva eletto al governo della Provincia un altro dei tre fondatori del francescanesimo nel Mezzogiorno, il Padre Alfonso. Il Padre Cristoforo Bove, la cui immatura scomparsa ancora ci addolora profondamente, scriveva di lui:” Durante il suo governo fu incrementato il collegio serafico a Ravello, fu resa più intensa l’attività culturale e più forte e impegnativa l’attenzione al Beato Bonaventura da Potenza; e così l’umile casa religiosa di Ravello. arroccata su un promontorio digradante, divenne il faro per l’intera fraternità dei conventuali napoletani/pugliesi/calabresi. Fisionomia della rivista Luce Serafica era il titolo della testata. “Periodico francescano mensile illustrato del Mezzogiorno d’Italia. Direttore responsabile: Padre Giuseppe Palatucci, Direzione e Amministrazione: Convento 66
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che è tutto un poema di luce e di amore. Al Beato vengono applicate le parole di un poeta: “la vita di un santo può rassomigliarsi ad una lunga fascia luminosa sfavillante di mille piccole stelle, distesa sulle tenebre del mondo”. E infatti la missione del Beato fu un intenso apostolato di luce che trascinava e illuminava le anime. Nello stesso numero di ottobre vengono riportate per la prima volta alcune massime del Beato: Osservate la grande virtù dell’obbedienza; sentono il potere di questo nome anche gli animali irragionevoli. Imparate come senza replica e senza indugio, contro ogni naturale inclinazione e con allegrezza si deve lasciar sempre tutto per obbedire. Oh! Se gli uomini sapessero con quanto amore sono amati da Dio, tutti si sforzerebbero di amarlo con tutto il cuore e con tutta l’anima, anzi impazzirebbero per troppo amarlo. Nel 1962 viene pubblicato un numero speciale della rivista Luce Serafica. di sessanta pagine, dedicato interamente al Beato, in occasione del 250.mo anniversario della morte del Beato e della ricognizione canonica delle Reliquie , in vista della Peregrinatio ( 25 agosto – 23 settembre 1962 ) delle medesime reliquie da Ravello a Potenza e alle città
S. Francesco - Ravello. Tipografia: De Luca-Amalfi. Formato 15/22, pag. 24; abbonamento: sei lire annue ( ogni fascicolo 50 centesimi). Laici ed ecclesiastici manifestarono plausi e compiacimento per la rivista che come voce nuova altamente qualificata diffondeva e faceva conoscere il messaggio francescano, presentando figure francescane insigni per santità e dottrina. Tra questa figure spicca il Beato Bonaventura: la sua storia la sua figura il suo apostolato fecero da catalizzatore per la rinascita spirituale e culturale della Provincia e Ravello divenne il centro francescano dell’intero mezzogiorno d’Italia. L’avvertita e vissuta premura della rivista Luce Serafica fu quella di trasmettere e far conoscere l’eroica storia del Beato. Il Beato viene così veicolato in questa rivista, attraverso articoli edificanti e saggi illuminati. Particolare attenzione viene prestata alla registrazione di grazie e miracoli ottenuti per intercessione del Beato e puntualmente riportati nella rivista. Il primo articolo sulla figura del Beato è apparso nel numero di ottobre 1925 di Luce Serafica. Viene messa in evidenza che l’orma di Dio, infinita bellezza e bontà, è più possente nel Santo, che porta in sé stampata la vita stessa di Lui,
nuova serie del Bollettino del Beato, trasformato in rivista semestrale, con la Testata : il Beato Bonaventura da Potenza – Periodico del Santuario francescano- bonaventuriano di Ravello. Questo nuovo periodico ( primo numero: dicembre 1994) conserva lo spirito del Bollettino. Il taglio rimane fondamentalmente semplice, quasi devozionale, privilegiando la conoscenza, l’interesse e la devozione verso il Beato Bonaventura, anche attraverso le migliaia del diffusissimo opuscolo (oltre duecentomila copie) edito dal nuovo periodico, con il titolo “Santuario del Beato Bonaventura da Potenza” – Ravello. Solo per deferenza verso i lettori e i simpatizzanti del nuovo Periodico, si fa menzione di una particolare quasi marginale rubrica di detto Periodico, dal titolo ”Frammenti”, riportata in ogni numero. Rubrica richiesta e condivisa con simpatia oltre che da laici anche da ecclesiastici. Questi frammenti sono come gocce di rugiada che fanno sorridere il deserto: nell’animo umano c’è attesa di una goccia di rugiada per l’arsura che rende deserto il cuore. E il cuore si fa deserto quando siamo arsi dalla solitudine, macerati dal graffio delle delusioni, tristi per la caduta della speranza. Quando un buio senza uscita ci piega, quando note segrete spinose ci inchiodano, quando l’abbandono ci brucia dentro! Abbiamo bisogno di una goccia di rugiada: il nostro respiro, almeno per un momento, andrà al di là dell’abbraccio del tempo e dello spazio. Qualcuna di queste “gocce!...si poserà forse, come nel deserto, sull’animo del lettore ed anche lui sorriderà! Negli opuscoli “Frammenti uno” e “Frammenti due”, editi dalla Biblioteca S. Francesco – Ravello, sono raccolte queste “gocce”: selezionati pensieri, come briciole sparse di sapienza, forse granelli di sabbia, ma pur sempre punte e gocce dello spirito, atti a sollecitare e a illuminare pensiero e sentimento. Nel numero di giugno 2011 della rivista del Beato è stata pubblicata la notizia della ristampa anastatica, già pronta, della prima biografia del Beato, del 1754, scritta dal conterraneo Padre Giuseppe Maria Rugilo, presentata a Ravello il 29 settembre 2012 insieme con altre nuove pubblicazioni che riguardano il Beato Bonaventura da Potenza nel III centenario della morte beata.
che beneficiarono della presenza e del santo apostolato del Beato. Vengono messi in risalto, in questo numero, vari aspetti della personalità del Beato e soprattutto l’attualità del suo messaggio sempre valido, il fascino della santità che non invecchia mai, la purezza splendente dell’ideale evangelico che richiama i cuori in ogni tempo, il canto gioioso della suprema speranza che rasserena gli animi oppressi. La pubblicazione della rivista Luce Serafica è durata fino al 1996. Ricordiamo i direttori, i direttori responsabili e i capo redattori: Cava, Gallo, Di Monda, Ciappetta, D’Acunti, Giustiniano, Sapere, Grieco. La pubblicazione tra alti e bassi ha cercato di sopravvivere pubblicando anche alcuni numeri speciali come quello dedicato alla canonizzazione del Kolbe (ottobre-novembre 1982); alla canonizzazione di san Francesco Antonio Fasani (maggiogiugno 1986); e il numero speciale <Santa Chiara a Napoli tra fede e arte> (gennaio-febbraio 1987) fino a quando i Provinciali Michele Alfano e Edoardo Scognamiglio, prima con Padre Raffaele Di Muro e poi con Padre Paolo D’Alessandro davano alla rivista un nuovo volto francescano ed ecclesiale. Ma, la voce del Beato è giunta ai fedeli e ai suoi devoti anche attraverso un semplice foglietto mensile, riproposto nel 1962, nel fervore delle celebrazioni per la ricognizione del corpo del Beato e della Peregrinatio. Questo foglietto è conosciuto come il “Bollettino del Beato” curato dai vari Padri Guardiani succedutisi nel convento di Ravello. Nel 1994 viene eletto Provinciale il Padre Francesco Nolè, ora Vescovo di Tursi – Lagonegro. Il nuovo Padre Provinciale, pur scommettendo, nominava il Padre Francesco Capobianco guardiano del convento, assegnandogli, fra l’altro, il compito di diffondere la conoscenza del Beato, incrementandone l’interesse e la devozione. Nasceva così la 68
PAOLO D’ALESSANDRO
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uce Serafica è la rivista della Provincia Religiosa di San Francesco dei Frati Minori Conventuali di Napoli che fin dal secondo decennio del Novecento ha diffuso in Campania e Basilicata la Parola di Cristo e della Chiesa alla luce del francescanesimo. La rivista nasceva a Ravello, sotto l’ombra del Beato Bonaventura da Potenza, nel marzo del 1925 fondata e diretta da p. Giuseppe Palatucci, poi vescovo di Campagna (1936), anche se l’idea era nata da suo fratello verso la fine del 1924 p. Antonio Palatucci (1883-1941) che fu Ministro Provinciale dal 1922 al 1934. La rivista ridava voce ai conventi della rinata Provincia religiosa di Napoli con articoli di vita sociale, ecclesiale, di spiritualità e storia francescana. Rappresentava un mezzo per rilanciare l’ideale francescano ricordando gli antichi luoghi toccati dalla presenza del Serafico Padre, e presentare le figure più rappresentative della santità francescana. Nel 1937 la direzione e redazione della rivista si trasferì a Napoli nel convento di San Lorenzo Maggiore, l’anno in cui veniva riaperto questo nostro glorioso convento. Nel 1938 succederà come direttore p. Ludovico Cava fino al 1947 dove per eventi bellici si in-
terruppe la pubblicazione una prima volta nel 1943 con il numero 6/7 e una seconda volta dal gennaio 1947 fino al numero 6/7 riprendendo poi nel gennaio 1948 con l’annata XXI. Subentrerà come direttore p. Antonio 69
Gallo dal 1950 al maggio del 1951. Nel 1951 il direttore fu padre Antonio di Monda e dal 1955 al 1961 p. Agostino Ciappetta. Il taglio della rivista divenne più culturale e teologico. Nel 1961 subentrò come diret-
speciale luce serafica
Illuminare il mondo di oggi
tore p. Antonio Gallo, aiutato da collaboratori non solo religiosi ma anche laici e nel 1980 fino al 1988 fu direttore p. Guido Giustiniani che fece spaziare la rivista sempre più nella cultura teologico, letteraria, scientifica ed artistica. Da marzo 1988 passò alla direzione di p. Renato Sapere. Nel 1991 si affiancherà anche il giornale Luce Serafica di Comunione fino a gennaio-febbraio 1992, che tratterà più specificamente della vita religiosa provinciale. Nello stesso anno Luce Serafica al n. 6-8 prenderà lo stesso formato di “Luce Serafica di Comunione”, sostituendolo. Nel 1994 Luce Serafica resterà ferma. Riprenderà la pubblicazione nel 1995 fino a giugno dello stesso anno con la direzione di padre Guido Giustiniani. Fin dall’inizio hanno collaborato alla rivista le penne migliori della Provincia e dell’Ordine, ma anche laici affermati nei più diversi settori.
Dopo un lungo sonno Luce Serafica ricompare riqualificata nel gennaio 2006 con uscita trimestrale sotto la direzione di padre Raffaele di Muro del convento di San Francesco di Benevento a cui va tutto il nostro ringraziamento. La Provincia religiosa di Napoli nel capitolo provinciale celebrato a giugno del 2009, ha ritenuto valido il lavoro che sta dietro Luce Serafica, nominandomi così direttore. Con l’aiuto non solo dei frati e dei laici ma soprattutto del Ministro Provinciale p. Edoardo Scognamiglio e del grafico Boutros Naaman la rivista è notevolmente migliorata non solo nella varietà delle rubriche e nei contenuti ma anche nell’aspetto grafico, divenendo sempre più un utilissimo strumento di comunione, informazione e formazione tra i frati, tra frati e laici e tra i laici stessi. Curarne la direzione è stato per me un onore ed un peso che solo l’obbedienza mi ha spinto ad accettare. L’espe-
rienza maturata finora è da considerarsi positiva sia per il gradimento dei lettori, sia per la collaborazione dei frati e dei laici autori degli articoli. Giuridicamente la rivista ha tutti i documenti ( Sede, tribunale, CCP, spedizione) a Benevento. Ogni numero viene stampato in 1200 copie con il costo di 1400 euro (compreso l’incellofanatura e la spedizione di 430 copie. Occorre però maggiore collaborazione da parte dei frati della provincia nell’inviare per tempo articoli, foto delle attività svolte, ma anche nel sostenere la rivista non solo economicamente ma anche nel divulgarla (ogni convento potrebbe impegnarsi a far fare almeno dieci abbonamenti). Ci auguriamo quindi che Luce Serafica possa continuare ad essere sempre più irradiazione di quella luce che ormai da più duemila anni ha illuminato il mondo “che stava nelle tenebre” secondo lo stile di san Francesco.
Alcune opere di Fra Edoardo Scognamiglio
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evento di rottura rispetto al passato e tutti gli eventi di rottura, di regola, non si prestano ad essere ricostruiti, per dirla con Tacito (Annales 1, 1, 3), sine ira et studio, ossia senza animosità e simpatia, quando da essi è decorso poco tempo e almeno fino a che i principali protagonisti degli stessi (sia fautori che avversari) sono ancora in vita. Emblematico in tal senso è quanto accadde, nel 1975, con il libro Intervista sul fascismo: le affermazioni dello storico Renzo De Felice (1929 - 1996) ivi contenute, benché fondate e tutt’altro che di stampo nostalgico, solo perché venivano a porsi in parziale contrasto con la vulgata allora corrente e ne smontavano luoghi comuni, suscitarono polemiche e disappunti in un Paese ancora incline a rimuovere dalla memoria collettiva quel periodo ovvero ad acriticamente demonizzarlo o esaltarlo, senza comprenderne le cause e le ragioni profonde1. Oggi peraltro, ad ormai più di settanta anni dal crollo del Fascismo, sussistono i presupposti per affrontare l’argomento in maniera tendenzialmente oggettiva, come pure
DONATO SARNO STORICO-CENTRO DI CULTURA E STORIA AMALFITANA
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on è certamente fuori luogo, nell’ambito del presente convegno volto a celebrare i novanta anni del periodico francescano “Luce Serafica”, fornire alcuni cenni, sia pur nei limiti di spazio e di tempo concessi, sulla riforma podestarile nell’età fascista nonché sugli effetti che essa produsse, in ambito sia religioso che civile, in Costa d’Amalfi. L’introduzione della figura del Podestà è infatti quasi contemporanea alla nascita del ricordato periodico, il cui primo numero fu pubblicato a Ravello nel marzo 1925, e ne ha inevitabilmente influenzato i contenuti negli anni successivi per quasi un ventennio. Non è stato invero facile, negli scorsi decenni, trattare il Fascismo - e gli aspetti ad esso legati – in maniera meramente scientifica, senza lasciarsi influenzare da passioni e/o pregiudizi di natura politica. In effetti il Fascismo ha costituito un
1) Cfr. R. DE FELICE, Intervista sul fascismo (a cura di
M. A. LEDEEN), Bari 1975.
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La riforma podestarile nell’età fascista
è possibile, in modo particolare, esaminare il rapporto che è esistito tra la Chiesa e il Fascismo stesso, tematica questa finora sovente oggetto o di silenzi più o meno imbarazzati o di giudizi fortemente e frettolosamente negativi. Anche gli storici locali possono finalmente dedicarsi a studiare ed illustrare compiutamente il Fascismo in Costa d’Amalfi, sulla scia dei primi accenni contenuti in recenti opere di più ampio contenuto2.
certe regole, e dipendenze, in particolare società»5. Anche l’ordinamento comunale imposto da Giuseppe Napoleone nel 1806 (Legge 8 agosto 1806, n. 132) e poi quello borbonico (Legge 12 dicembre 1816, n. 570) continuarono a prevedere il Sindaco e lo stesso avvenne dopo l’Unità d’Italia con la Legge comunale provinciale 20 marzo 1865, n. 2248, all. A, la quale, in conformità alla previgente normativa sarda, stabilì per ciascun Comune del Regno tre organi: il Consiglio Comunale, la Giunta Comunale ed il Sindaco. Il Consiglio Comunale era eletto dai cittadini maschi maggiorenni - purché in possesso di un dato reddito - in un numero di Consiglieri variabile in base alla popolazione del Comune; i Consiglieri eleggevano nel loro seno i componenti della Giunta (Assessori); il Sindaco, capo dell’amministrazione, era infine nominato con decreto reale tra i Consiglieri comunali e durava in carica per un triennio6.
L'evento del fascismo Fino all’avvento del Fascismo, la parola Podestà richiamava alla mente essenzialmente le vicende dei Comuni medioevali del Centro – Nord ed indicava, per l’appunto, quei magistrati unici, subentrati, tra il XIII e il XIV secolo, ai precedenti consoli nel reggimento dei Comuni medesimi3. Il Regno di Napoli non conobbe tale figura, in quanto in esso fin dall’epoca normanna, tra le varie denominazioni adoperate per indicare i soggetti posti a capo dei Comuni, si impose e si generalizzò quella di Sindaco (vocabolo di origine greca, avente il significato di difensore)4 ed anzi neppure fu in uso, per tutto l’antico regime e fino agli inizi del XIX secolo, il termine Comune: l’ente locale era detto invece Università, espressione con cui si voleva indicare l’insieme dei cittadini ricompresi in un dato territorio (in latino universitas indica un insieme di persone), ossia «un Popolo (…) unito in uno stesso luogo (…) un numero di uomini di diverso ceto, congregato in uno stesso territorio, per vivere con
La nomina governativa del sindaco La nomina governativa del Sindaco, introdotta fin dagli inizi del XIX durante l’occupazione francese e mantenuta quindi dai sovrani degli antichi Stati ripristinati con la Restaurazione del 1815, ben rispondeva al principio dell’accentramento amministrativo, ma contrastava con l’uso - consolidato ed osservato nei Comuni per tutto l’antico regime - di far eleggere dai cittadini i propri amministratori. Più voci si levarono perciò contro la nomina
2) Cfr. G. CAMELIA (a cura di), 1884 - 1946 dal Viv’ ‘o Re al boogie-woogie, Amalfi, 2006, passim, e AA.VV., I giorni della civetta e quelli della cicala. L’Archivio Storico Comunale di Amalfi dal Decennio Francese alla Prima Repubblica, Amalfi, 2009, passim. 3) V., amplius, G. MILANI, I Comuni italiani, Bari, 2005. Il termine Podestà rimase peraltro in uso anche in seguito e fino al 1918 per designare il capo dell’amministrazione comunale nei territori italiani soggetti all’Impero austroungarico. 4) La parola Sindaco (in latino Syndicus) deriva dal greco Συνδικος (patrocinatore, da συν = insieme e δικη = giustizia) ed indicava, in origine, il rappresentante processuale di una comunità. 5) I. CARLI, Dell’amministrazione comunale e provinciale, Parte I, Sezione I, Aquila, 1818, pp. 1 – 2. Sull’uso del termine Università per designare i Comuni nel Regno di Napoli, v. anche M. PALUMBO, I Comuni meridionali prima e dopo le
leggi eversive della feudalità, I, s.l., 1999, pp. 231 – 232. La denominazione Comune, in luogo di quella di Università, si diffuse nel Regno di Napoli subito dopo il 1806 quale traduzione del francese “commune”, venendo all’inizio utilizzata ora al maschile ora al femminile (v. G. LANDI, Istituzioni di diritto pubblico del Regno delle Due Sicilie, II, Milano, 1977, p. 675, nt. 193). Già peraltro la Costituzione della Repubblica Napoletana del 1799 e poi un dispaccio di Ferdinando IV del 13 settembre 1800 avevano adoperato, nell’odierna accezione, il termine Comune, che fino ad allora si era invece usato «solamente nel significato del patrimonio della Università, e specialmente delle terre destinate al pascolo comune» (N. ALIANELLI, Delle Consuetudini e degli Statuti Municipali nelle provincie napolitane, I, Napoli, 1873, p. 16). 6) V., amplius, L. RINERI – F. LOCATELLI (a cura di), Manuale pratico di amministrazione comunale e provinciale, Biella, 1865. 72
bre 1922, assunse il governo d’Italia. Il descritto ordinamento, imperniato su una pluralità di organi (Consiglio, Giunta e Sindaco) eletti dai cittadini o in via diretta o in via indiretta, cozzava con la concezione ed i principi cardini del nuovo Regime, che richiedevano, sia in campo pubblico sia in campo privato, azioni rapide e decise, pienamente conformi alle direttive del potere centrale. Invero, specialmente dopo la Grande Guerra, i Comuni italiani, oltre che in gran parte afflitti da problemi finanziari, erano dilaniati e resi inefficienti da lotte di partito e di fazioni locali, talvolta anche aspre, favorite ed accresciute a seguito dell’introduzione, nel 1919, del suffragio universale maschile, che aveva allargato il corpo elettorale e quindi la stessa partecipazione alle competizioni elettorali. C’era dunque bisogno di una riforma, atteso che il «Comune è la cellula dello Stato» e che «non si può concepire una nazione grande, forte, prosperosa, se gli organismi locali non sono vitali e da essi non si sprigionano forze gagliarde, quelle forze che, opportunamente coordinate, concorrono potentemente alla formazione del tessuto connettivo della nazione»8. Alcuni lievi correttivi
7) E. MAZZOCCOLO, La nuova Legge comunale e provinciale, Milano, 1912, p. 383. Trattasi della Legge comunale e provinciale 21 maggio 1908, n. 269, che, confermando l’elezione del Sindaco in seno
al Consiglio Comunale, ne elevò da tre a quattro anni la durata in carica. 8) S. MOLINARI, Il Podestà e la Consulta Municipale, Milano, 1926, p. 52.
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governativa del Sindaco, considerata come contraria alla libertà nonché lesiva dell’indipendenza e della autonomia comunale, ed il Parlamento in progresso di tempo le condivise ed accolse, stabilendo che il Sindaco (al pari degli Assessori) fosse eletto dal Consiglio Comunale nel suo seno e non venisse più nominato dall’alto. Il Sindaco elettivo – previsto prima dalla Legge 30 dicembre 1888, n. 5865, (cd. legge Crispi) solo nei Comuni capoluogo o con almeno 10.000 abitanti e poi esteso in tutti i restanti Comuni dalla successiva Legge 29 luglio 1896, n. 346, (legge di Rudinì) – fu salutato con soddisfazione da quanti videro in ciò una istituzione che «si rannoda alle tradizioni più gloriose nella storia dei Comuni italiani, e costituisce una delle più preziose ed ambite prerogative, per le quali tante lotte sostennero»7. Il suddetto impianto ordinamentale venne quindi confermato dai successivi Testi Unici in materia (Legge comunale e provinciale 4 maggio 1898, n.164, e Legge comunale e provinciale 21 maggio 1908, n. 269) ed infine dalla Legge comunale e provinciale 4 febbraio 1915, n. 148, la quale era in vigore nel momento in cui il Fascismo, a seguito della marcia su Roma del 28 otto-
tanti, anche se già contemplò la possibilità di addivenire alla sua nomina nei Comuni con popolazione superiore, qualora essi, per ripetuto scioglimento dei Consigli Comunali, avessero dimostrato la loro incapacità a reggersi con gli organi tradizionali10. Dopo poco tempo il Regio Decreto Legge 15 aprile 1926, n. 765, applicò l’istituto podestarile, indipendentemente dal numero degli abitanti, anche ai Comuni che fossero stazione di cura, soggiorno e turismo; infine il Regio Decreto Legge 3 settembre 1926, n. 1910, lo estese a tutti i restanti Comuni del Regno11. Da quel momento in poi sparirono dovunque gli organi comunali preesistenti e con essi sparirono le elezioni locali. Il Podestà, nominato con decreto reale su proposta del Ministro degli Interni, durava in carica cinque anni e - obbligatoriamente nei Comuni più popolosi ovvero negli altri solo se ritenuto possibile dal Prefetto - era assistito da una Consulta municipale, ossia da un organo collegiale con funzioni meramente consultive. Il ruolo del Podestà e la sua stretta funzionalità rispetto al Regime e all’attuazione dei suoi programmi furono subito messi in luce: la nuova figura era rispondente «ad una vera necessità del momento storico che la Nazione attraversa; al bisogno di accentrare il potere nelle mani di una sola persona che sia superiore alle passioni di parte; che vigili all’osservanza delle leggi; che risponda, insomma, in tutto a quell’ideale del pubblico ufficiale, in cui risiede una forza tale da far La riforma podestarile tacere le discordie, da far trionfare la giustizia, La riforma podestarile fu introdotta subito dopo da diffondere intorno a sé una pace feconda di la trasformazione del Regno d’Italia da Stato li- bene e di progresso»12. berale a Stato autoritario e dittatoriale, attuata tra la fine del 1925 e gli inizi del 1926 per effetto L'istituto del Podestà delle cosiddette “Leggi fascistissime” - e dunque L’istituto del Podestà si inquadrava dunque «perquando ogni forma di opposizione era stata neu- fettamente nel programma del Governo Naziotralizzata -, e si attuò con gradualità, sia pur in nale, inteso alla costruzione di uno Stato materialmente e moralmente forte; semplice neltempi comunque alquanto stretti. La Legge 4 febbraio 1926, n. 237, istituì infatti il l’organizzazione, rapido nei movimenti, efficace Podestà solo nei Comuni fino a cinquemila abi- nell’azione. E non è chi non veda come nel Pofurono già introdotti con Regio Decreto 30 dicembre 1923, n. 2839, ma essi non potevano bastare al Fascismo, che volle operare una riforma profonda e conforme ai suoi ideali, ossia volle concentrare tutte le attribuzioni comunali in una unica autorità. Tale autorità doveva essere istituita in ciascun Comune, doveva essere costituita da una sola persona (organo monocratico) e doveva essere nominata dal Governo, di cui avrebbe avuto la fiducia ed a cui solo sarebbe stata chiamata a rispondere, senza più dipendere dagli umori, dagli interessi e dalle pressioni elettorali locali: i Comuni avrebbero sì mantenuto un proprio amministratore, ma quest’ultimo avrebbe opportunamente operato in armonia con le direttive dello Stato centrale, assicurando processi decisionali energici, veloci ed in sintonia con gli ideali del Regime. I tre organi tradizionali comunali (Consiglio, Giunta e Sindaco) furono perciò soppressi e la nuova ed unica autorità comunale che, assommandone in sé tutte le attribuzioni, subentrò ad essi fu chiamata Podestà. Ovviamente vi era una profonda diversità giuridica tra il Podestà fascista e il Podestà dei Comuni medioevali9, ma si volle usare lo stesso nome, in quanto esso non solo esprimeva in sé il concetto di potestas, ossia di potere, tanto valorizzato dal Fascismo, ma rievocava, in senso patriottico, la lotta di indipendenza degli Italiani contro l’Imperatore tedesco e dunque contro lo straniero.
9) G. LEIBHOLTZ, Il diritto costituzionale fascista, Napoli, 2007, p. 64. 10) La Legge 237/1926 demandò al Governo del Re lo stabilimento della data in cui dovevano cessare le amministrazioni precedenti nei Comuni «per far luogo all’inizio delle funzioni del Podestà»: in Provincia di Salerno le funzioni del Podestà ebbero inizio dal 26 settembre 1926, come stabilito
con Regio Decreto 16 settembre 1926, n. 1619. 11) Il Podestà di Roma fu peraltro detto Governatore ed entrò in funzione già a gennaio 1926 (cfr., amplius, P. SALVATORI, Il Governatorato di Roma. L’amministrazione della capitale durante il fascismo, Milano, 2006). 12) S. MOLINARI, Il Podestà cit., p. 74
13) S. MOLINARI, op. ult. cit., pp. 42 – 43 e 97. 14) G. INGROSSO, La crisi dello Stato, Napoli, 1925, pp. 142 e ss.. 15) Archivio Storico Comune di Ravello (ASCR), Deliberazioni degli Organi di Governo. Registri delle Deliberazioni del Consiglio Comunale. Registro
Deliberazioni Consiglio dal 27.3.1919 a tutto il 14.6.1927, p. 162. Ringrazio l’amico dott. Salvatore Amato, che ha curato la sistemazione del predetto archivio, per la segnalazione e la trascrizione della delibera, integralmente riportata in Appendice.
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destà si riassuma gerarchia, autorevolezza, prestigio; nonché sana libertà garantita dalla disciplina, nell’interesse nazionale e nell’interesse della legge (…) Il Podestà è, dev’essere uno dei principali collaboratori del movimento che tende al rinnovellamento della vita nazionale»13. Il venir meno dei vecchi organi comunali non incontrò ostacoli o resistenze di sorta, in quanto essi, ove già non sciolti e sostituiti da Commissari Prefettizi, erano in quel tempo tutti composti da elementi di sicura e provata fede fascista che salutarono con entusiasmo l’operata riforma voluta dal Governo14. A riguardo basti considerare che, già due anni prima dell’introduzione del Podestà, il 24 maggio 1924 - anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale e giorno di inaugurazione della nuova Camera ormai profondamente fascistizzata - moltissimi Consigli Comunali conferirono a Mussolini la cittadinanza onoraria e a lui inneggiarono con ripetute ed enfatiche espressioni di stima e di lode. Il fatto si registrò anche in Costa d’Amalfi e, in particolare, a Ravello. Qui infatti il Consiglio Comunale, nella seduta del 24 maggio 1924, «dopo aver tessito con ele-
vate parole le tante benemerenze private e pubbliche che Sua Eccellenza Benito Mussolini possiede in rapporto alla cara Patria nostra», la quale era stata elevata «mercé l’opera ininterrotta e feconda del prelodato Duce», di cui il popolo era «eminentemente entusiasta», ritenne, in segno di doveroso omaggio verso tanto «insigne patriota» e «Salvatore della Patria», di nominarlo «cittadino onorario di Ravello», nella certezza «che l’occhio vigile del magnanimo uomo non avrebbe trascurato i precisi e veri bisogni di questo paese» e «con il caldo augurio» di poter quanto prima «avere la fortuna di acclamare personalmente de visu il ricordato cittadino». Scioltasi la seduta, il Presidente della stessa invitò tutti i presenti ad inneggiare al Re e a Benito Mussolini e quindi ad esclamare «Alalà», facendo proprio l’antico grido di battaglia degli opliti greci che prima D’Annunzio e poi il fascismo avevano ripreso ed adoperato quale grido collettivo di incitamento e di esultanza15. Dal 1926 in poi il Regime celebrò ripetutamente ad ogni occasione la «maschia» azione amministrativa dei Podestà e le varie opere pubbliche realizzate nei Comuni, in contrapposizione a quanto prima avveniva con i vecchi organi comunali soppressi, accusati di debolezza, corruzione, inettitudine ed inefficacia. In quegli anni, d’altronde, il pensiero fascista si diffuse e si rafforzò ulteriormente in tutta Italia e specialmente tra le giovani generazioni, tramite la scuola, la retorica, le associazioni, le sfilate in divisa e le adunate, e così avvenne in Costa d’Amalfi; dal 1930 in poi si generalizzò inoltre
l’indicazione, in tutti gli atti pubblici e perciò anche nelle deliberazioni podestarili, dell’anno dell’Era Fascista, «cioè di quel ciclo costruttivo che s’inizia il 29 ottobre per concludersi il 28 ottobre successivo»16. Il Fascismo, da subito, esaltò l’amor patrio, l’ordine e la disciplina, apparendo altresì come un valido baluardo contro i temuti pericoli di rivoluzioni di stampo anarchico o comunista, e ciò gli fece ottenere l’appoggio delle classi dirigenti, che accettarono, quanto meno a titolo di male minore, la progressiva compressione delle precedenti libertà. Altro decisivo fattore grazie al quale il Fascismo riuscì a radicarsi nel tessuto sociale e ad ottenere un alto e diffuso grado di consensi e di adesioni fu sicuramente la sottoscrizione dei Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929, con cui si pose fine al grave ed annoso dissidio tra l’Italia e la Santa Sede, originato nel 1870 con la conquista di Roma17.
I Patti Lateranensi Il Regime ebbe subito cura di evidenziare, attraverso le numerose pubblicazione date alle stampe, come a Mussolini spettava «il merito di ristabilire in Italia la tanto auspicata pace religiosa dopo le vicende risorgimentali che avevano visto contrapposti tra loro la Chiesa e lo Stato»18. I Patti Lateranensi vennero perciò salutati con entusiasmo anche dall’Arcivescovo di Amalfi monsignor Ercolano Marini; infatti, su sua precisa disposizione, in tutte le chiese dell’Arcidiocesi nei giorni 14, 15 e 16 febbraio 1929 furono suonate a festa le campane e nella successiva domenica del 17 febbraio 1929 si celebrarono solenni funzioni di ringraziamento, durante le quali all’orazione pro gratiarum actione si aggiunsero quelle pro Papa e pro Rege19. L’Arcivescovo stesso, dopo la Messa celebrata nel Duomo di Amalfi «con molta solennità (…) con intervento delle Autorità, degli Istituti,
16) Così “Il Foglio di Disposizioni” n. 1219 del 20.12.1938 – XVIII, a firma del Ministro Starace, citato in R. LAZZARO, Il Partito Nazionale Fascista, Milano, 1985, p. 80. L’inizio dell’Era Fascista fu fissato al 29 ottobre 1922, giorno successivo alla marcia su Roma (anno I: dal 29 ottobre 1922 al 28 ottobre 1923); l’anno era segnato in numeri romani subito dopo l’anno civile. 17) Non a caso gli anni del maggiore consenso vanno proprio dal 1929 in avanti (R. DE FELICE, Inter-
vista cit., p. 51). 18) G. SALE, La Chiesa di Mussolini. I rapporti tra fascismo e religione, Milano, 2011, p. 11. Tra le pubblicazioni elogiative che videro la luce subito dopo la Conciliazione cfr., per tutti, F. PAOLONI, Da Costantino a Mussolini. Note di un fascista sulla Conciliazione, Napoli, 1929. 19) Cfr. Rivista Ecclesiastica Amalfitana, anno XIV, n. 2 (122), Gennaio – Febbraio 1929, pp. 38 – 41. 76
Il complesso monumentale Convento san Francesco Seguirono ulteriori azioni distensive e di pacificazione, di cui, a livello locale, i Podestà si fecero promotori e/o attuatori; tra esse vanno segnalate, in Costiera Amalfitana, quelle volte a riparare ai danni patiti dagli Ordini religiosi per effetto delle soppressioni postunitarie. Limitando l’attenzione alla sola Ravello, non può non farsi menzione di quel che accadde riguardo al convento francescano dei Minori Conventuali. Il complesso immobiliare, a seguito della soppressione del 1866, era passato in proprietà del Comune di Ravello, che in una parte aveva collocato i propri uffici e le scuole elementari, lasciando la parte restante in uso ai Frati. Questi ultimi già l’11 luglio 1925 avevano sottoscritto con il Comune un contratto di fitto di lunga durata (29 anni) e a condizioni vantaggiose, ma l’istituzione di un Collegio, voluto nel 1922 da Padre Giuseppe Maria Palatucci (1892 – 1961) - fondatore nel 1925 della rivista “Luce Serafica” – rendeva necessario poter disporre anche della restante parte, giacché quel Collegio era divenuto un frequentatissimo ed importante centro vocazionale. Pertanto nel 1931 il Podestà di Ravello Francesco Colavolpe – succeduto al primo Podestà Pietro Rubino - con atto del 28 luglio cedette l’intero stabile conventuale all’Ordine, ottenendo da esso in permuta l’antico palazzo gentilizio detto Casa Tolla, che fu destinato a sede municipale e scolastica21. L’operazione si rese possibile grazie all’in-
teressamento e alla collaborazione delle superiori autorità religiose e civili, tra cui il Prefetto Soprano e il barone Giuseppe Compagna22. Il mutato clima in Italia, dopo decenni caratterizzati, in sede politica, da atteggiamenti e normative anticlericali di sapore massonico, spiega l’atteggiamento nutrito dalla Chiesa, dopo un periodo di iniziale diffidenza ed anche di contrasto, nei confronti del Fascismo: un atteggiamento, salvi casi minoritari, complessivamente improntato - pur con diversi accenti - a benevolo favore, come emerge anche dalla lettura dello stesso periodico “Luce Serafica” di quegli anni, e, talvolta, addirittura ad entusiastico appoggio,. La religione e i suoi ministri apparivano infatti di nuovo tutelati ed onorati ed il potere civile stesso non si contrapponeva più all’azione pastorale né vi era indifferente, ma mostrava di cooperare ad essa e dunque al bene supremo della salus animarum (reprimendo, ad esempio, con misure di polizia le mode invereconde contro cui energicamente predicava ad Amalfi monsignor Marini23). Non mancarono perciò prelati che sperarono di poter
20) Rivista cit., ibid. 21) Il contratto fu sottoscritto, per parte dell’Ordine, dal Padre Provinciale Francesco Proto e dallo stesso Padre Palatucci, quale locale. Guardiano. Su Padre Palatucci, nominato nel 1937 Vescovo di Campagna v., amplius, F. CELETTA (a cura di), Mons. Giuseppe Maria Palatucci, o.f.m. conv., Vescovo di Campagna, s.l., 2010. 22) Particolarmente si adoperò, per parte ecclesiastica, anche l’Arcivescovo Marini. Sul convento dei Minori Conventuali di Ravello, che la tradizione vuole essere stato fondato da San Francesco in persona, cfr. G. IMPERATO, Vita religiosa nella Costa di Amalfi, Monasteri, conventi e confraternite, Maiori, 1981, pp. 490 – 503, e G. IMPERATO, Ravello
nella storia civile e religiosa, Cava de’ Tirreni, 1990, pp. 429 – 437. 23) V. Rivista Ecclesiastica Amalfitana, anno XIII, n. 4 – 5 – 6 (118 – 119 - 120), Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre 1928, pp. 135- 136, e Rivista Ecclesiastica Amalfitana, anno XVIII, n. 4 – 5 (148 – 149), Maggio, Giugno, Luglio, Agosto 1933, pp. 77 – 78. Su mons. Marini si rinvia al testo di A. COLAVOLPE, Quasi aquila nell’infinito. Ercolano Marini: l’uomo, il pastore, il teologo, Salerno, 2000, evidenziando peraltro che manca ancora uno studio approfondito sull’atteggiamento del detto presule e, più in generale, della Chiesa amalfitana nei confronti del Fascismo.
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delle Scuole, della Milizia e di gran folla di popolo», tenne dal trono un discorso in lode dell’avvenuta Conciliazione e dell’operato di Mussolini20.
vedere restaurata, proprio per il tramite del Regime, la res publica christiana dei secoli precedenti, quando leggi e istituzioni erano sottomessi agli insegnamenti della Chiesa, secondo il modello nuovamente auspicato da Pio XI, proprio in quel periodo, nell’enciclica Quas primas del 1925, istitutiva della festa di Cristo Re24. Si trattava, in realtà, di una pia illusione, in quanto il Fascismo, che pur ebbe tra le sue fila sinceri credenti, considerava la religione essenzialmente solo come un utile strumento per unire gli Italiani, per acquisirne i consensi ed avere cittadini obbedienti al Governo; quando però il suo programma entrava in contrasto con la Chiesa, ne rivendicava con forza la superiorità rispetto ad essa, come fu comprovato dagli scontri che il Regime ebbe con la Santa Sede e con lo stesso Pio XI prima nel 1931 per la disciplina dell’Azione Cattolica e poi nel 1938 a motivo delle leggi razziali. Nell’ambito della intensa azione legislativa attuata dal Fascismo, che ebbe la sua più alta espressione nell’elaborazione dei cinque codici (penale, di procedura penale, civile, di procedura civile e della navigazione), non poteva non essere incluso anche l’ordinamento degli Enti Locali. Pertanto venne approvata la nuova Legge comunale provinciale 3 marzo 1934, n. 383, la quale confermò la figura del Podestà, disciplinandola agli articoli 38 e seguenti25.
Tra il 1927 e il 1929 erano peraltro mutate le circoscrizioni territoriali di molti Comuni e più di duemila piccoli Comuni erano stati soppressi d’autorità, in quanto ritenuti espressione di una irrazionale ed inutile frammentazione, nociva al buon andamento dell’azione amministrativa ed in contrasto con il modello di Stato centralizzato e fortemente unitario. Il Regio Decreto 17 marzo 1927, n. 383, aveva infatti conferito al Governo «i poteri necessari per una generale revisione delle circoscrizioni dei Comuni del Regno, al fine di adeguarne la efficienza alle nuove ed accresciute esigenze della vita nazionale». La soppressione riguardò anche alcuni Comuni della Costa d’Amalfi: con Regio Decreto del 6 settembre 1928, n. 2202, il Comune di Furore fu soppresso ed il suo territorio incorporato al Comune di Conca dei Marini; con Regio Decreto 4 febbraio 1929, n. 156, fu soppresso il Comune di Scala ed il suo territorio incorporato al Comune di Ravello, con l’eccezione delle frazioni di Pontone e Minuta, entrambe incorporate, come il territorio del Comune di Atrani, pure soppresso, al Comune di Amalfi. Ovviamente il Podestà, in quanto organo creato dal Fascismo, non poteva ad esso sopravvivere. Quando pertanto nel 1943 il Fascismo, dopo aver sciaguratamente trascinato l’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, cadde, anche l’ordinamento podestarile venne meno. Già dopo lo sbarco degli Alleati del 9 settembre 1943, i Podestà furono
24) Con riferimento al Sud Italia, v. R. P. VIOLI, Episcopato e società meridionale durante il fascismo (1922 – 1939), Roma, 1990, pp. 140 e ss.. Sull’enciclica Quas primas e le sue implicazioni v. D. MENOZZI, La Chiesa Cattolica e la secolarizzazione, Torino, 1993, pp. 149 e ss..
25) F. D’ALESSIO, Commento del Testo Unico delle Legge comunale e provinciale (3 Marzo 1934, N. 383), Torino, 1936
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ASCR, Deliberazioni degli Organi di Governo, Registri delle Deliberazioni del Consiglio Comunale, Registro Deliberazioni Consiglio dal 27.3.1919 a tutto il 14.6.1927, p. 162. Verbale di adunanza straordinaria del Consiglio Comunale di Ravello nella sessione ordinaria primaverile. L’anno millenovecentoventiquattro, il giorno ventiquattro maggio, alle ore 18 nella Sala Comunale di Ravello, previo regolare invito si è riunito il Consiglio Comunale nelle persone dei signori: Ruocco Bonaventrura, Assessore anziano, funzionante per il Sindaco Assente, Presidente; 2 Amato Assuero; 3 Sorrentino Luigi; 4 Romano Antonio; 5 Mansi Sac. Pasquale; 6 De Iuliis Carlo Filippo; 7 Mansi Cav. Alessio; 8 Caruso Pantaleone; 9 Mansi Cav. Pantaleone; e furono assenti 1 Pisacane Bonaventura; 2 Fraulo Pasquale; 3 Cioffi Luigi; 4 Comm. Mansi Nicola; 5 Conte Rodolfo; 6 Di Palma Antonio, perché morto. Assiste il segretario Comunale Sig. Mansi Gerardo. La maggior parte dei Consiglieri mancanti, nel giustificare le loro assenze per legittimi impedimenti, concordemente hanno affermato di aderire pienamente all’ordine del giorno in discussione, che è il seguente. Il Presidente nel cominciare la seduta la dichiara aperta. Il Presidente dopo aver tessito con elevate parole le tante benemerenze private e pubbliche che Sua Eccellenza Benito Mussolini possiede in rapporto alla cara Patria Nostra di fronte a tutte le altre Nazioni del Mondo, ciascun paese dell’Italia, che è stata elevata mercè l’opera ininterrotta e feconda del prelodato Duce, dovrebbe additare alle future generazioni l’opera compiuta in tempi così difficili dall’eccelso luminoso della politica e di qualsiasi branca di scienza. Per la qualcosa, dovendosi tramandare alla storia di dare il vero giudizio di sì meraviglioso cittadino, vero discendente della nobile stirpe
26) Così G. IMPERATO, Ravello cit., p. 435, che attribuisce proprio alla secolarizzazione la chiusura, operata alcuni decenni or sono, del Collegio di Ravello voluto da Padre Palatucci e già « semensaio di tantissime ferventi vocazioni».
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APPENDICE
sostituiti in Costa d’Amalfi con Commissari Straordinari, finché la figura podestarile fu eliminata dal Decreto Legislativo Luogotenenziale 4 aprile 1944, n. 111, che ripristinò, quali organi del Comune, il Sindaco e la Giunta, entrambi peraltro di nomina prefettizia, nell’attesa che, una volta finita la guerra ancora in corso, venissero ripristinate le elezioni, tanto a livello nazionale che locale, e dunque si ristabilissero i Consigli Comunali. La formale ricostituzione dei tre organi comunali fu disposta con Decreto Legislativo Luogotenenziale 7 gennaio 1946, n.1, e le elezioni dei Consigli Comunali si tennero in gran parte dei Comuni a marzo 1946, prima ancora del referendum istituzionale monarchia/repubblica e con la partecipazione delle donne, ammesse in Italia per la prima volta al voto. Al pari del Podestà, neppure la fusione dei piccoli Comuni, voluta ed imposta dal Fascismo, poteva sopravvivere ad esso, tanto più che questa appariva lesiva delle autonomie locali e – specie in Costa d’Amalfi - della plurisecolare storia delle rispettive comunità. Conseguentemente, già prima del 1948 molti dei Comuni soppressi furono ricostituiti: così avvenne per il Comune di Atrani, ricostituito con Decreto Legislativo Luogotenenziale 7 giugno 1945, n. 384, per il Comune di Scala, ricostituito con Decreto Legislativo Luogotenenziale 29 marzo 1946, n. 187, e per il Comune di Furore, ricostituito con Decreto Legislativo Presidenziale del 20 agosto 1947, n. 1038. Rispetto alla figura del Podestà, durata meno di un ventennio, ben più lunga vita ha invece avuto il periodico “Luce Serafica”, che anche dopo il periodo fascista ha continuato a stamparsi, attraversando anni pieni di cambiamenti profondi e di vario genere. Ancora oggi la rivista, pur avendo conosciuto momenti di difficoltà, legati sia alla crisi dell’editoria, specie religiosa, sia, soprattutto, alla «diffusa secolarizzazione, che caratterizza il mondo moderno»26, si presenta come il periodico francescano dei Frati Minori Conventuali della Provincia Napoletana e si prefigge il lodevole fine di contribuire a diffondere il messaggio radioso del Santo Poverello di Assisi.
romana, occorre che ogni città d’Italia tenga e conservi gelosamente le tradizioni di lui. L’unico omaggio che questo paese possa rendere all’insigne patriota è quello di nominarlo cittadino onorario di Ravello, che rappresenta un’antica città ricca di preziosi monumenti, fondati dai Romani. Il Consiglio, plaudendo alla relazione proposta dal Presidente che rappresenta la pura e sincera espressione del paese intero; considerando che le spiccate qualità di mente e di cuore del prelodato Duce non possono dimenticarsi da questo popolo che ne è eminentemente entusiasta; considerando che l’unico ricordo che si possa tramandare alle future generazioni è quello di aver
nominato cittadino onorario il Salvatore della patria, in tempi così turbinosi; considerando che l’occhio vigile del magnanimo uomo non potrà trascurare i precisi e veri bisogni di questo paese; a totalità di voti espressi per acclamazione, delibera di conferire a Sua Eccellenza Benito Mussolini la cittadinanza onoraria di questo Comune, con il caldo augurio in tempi non lontani di avere la fortuna di acclamare personalmente de visu il ricordato concittadino. Dopo di che il Presidente, nel dichiarare sciolta la seduta, invita gli astanti a gridare: “Viva il Re. Viva Benito Mussolini. Alalà”!
La parola francescana scritta, predicata e vissuta
Francesco da Assisi da oltre otto secoli continua a portare in Italia e nel mondo. Assisi- Ravello, Ravello -Assisi: due città che parlano di bellezza, di bontà, di cura della casa comune. Due fari che, nel nome di Francesco, continuano ad illuminare il cammino della società plurale in cui viviamo. San Francesco e il suo discepolo beato Bonaventura da Potenza, continuano a guidare, mano nella mano, le donne e gli uomini del nostro tempo. Dai chiostri francescani di Assisi e di Ravello si leva il Cantico di frate Sole. Spiritualità francescana e bellezza inondano i cuori e le anime di quanti approdano tra le mura di questa due città uniche al mondo. (g.g.)
La parola francescana scritta, predicata e vissuta: è stato questo il percorso del convengo del 24 ottobre 2015, celebrato a Ravello, nella biblioteca san Francesco. Gli interventi pubblicati ripropongono pagine di storia europea, nazionale e locale che dimostrano come anche la vita degli uomini di Dio cammina con quella quotidiana della società civile che apre le sue porte a quella civiltà cristiana e francescana che sin dal medio evo ha segnato il cammino delle comunità della Costa d’Amalfi. A conclusione del convengo, moderato dal prof. Luigi Buonocore, storico dell’arte e direttore del museo dell’opera del duomo di Ravello, interveniva padre Enzo Fortunato, portavoce del Sacro Convento di Assisi e direttore della rivista san Francesco Patrono d’Italia, il quale legava i 90 anni delle vista Luce Serafica con il messaggio che san 80
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Kolbe, Ravello e Luce Serafica GIANFRANCO GRIECO
A
veva solo cinque anni di vita LUCE SERAFICA, nata nel mese marzo del 1925 a Ravello per la tenacia dei benemeriti fratelli francescani conventuali di Montella (Avellino) Antonio e Giuseppe Palatucci, quando nel settembre 1930, a cinque mesi dall’arrivo del Kolbe nella “terra dei ciliegi in fiore”, pubblicava la seguente notizia dal Giappone:”Un convento a Nagasaki, ove lavorano vari nostri frati polacchi, con una nuova forma di apostolato mis-
sionario: la stampa sotto il patrocinio dell’Immacolata. Infatti, il P. Massimiliano Kolbe, fondatore della Milizia di Maria Immacolata, è andato in Giappone già nel marzo ultimo scorso (1930 ndr.) e vi ha impiantato una tipografia con cui stampa il periodico della Milizia dell’Immacolata in lingua giapponese e cinese. E’ ammirabile lo slancio di questi zelanti missionari che vogliono al più presto portare la parola di Cristo a molte anime e, per moltiplicar la loro opera, si sforzano di arrivare con la stampa a mille e mille cuori insieme. Il Signore benedica questa santa fretta ispirata 81
dalla carità che nono conosce indugi e che vuol arrivare a tempo” (Luce Serafica, settembre 1930, anno V, n. 9, p.274). Appena un mese dopo- ottobre 1930- il periodico ritornava sulla missione giapponese, rilevando come” la realizzazione di queste grandi Missioni si deve alla Provincia francescana di Polonia, la quale, dopo soli quattro anni di lavoro ha raggiunto 250.000 associati e vanta un periodico di ben 200.000 abbonati. Questa provincia francescana poteva dunque con fiducia lanciarci nel mondo infedele dopo una si felice preparazione!... Tra i popoli infe-
deli –rilevava ancora- quello che presenta maggiori difficoltà è senza dubbio il Giappone. Perciò, la Provincia polacca pensò subito a questo immenso Paese; e già nel maggio, del corrente anno, cinque religiosi di detta Provinciastabilitisi in Giappone - potevano mandare da Nagasaki al periodico polacco Il Milite dell’Immacolata il seguente telegramma di P. Massimiliano Kolbe: Nagasaki, 22 maggio 1930. “Oggi diffondiamo il periodico giapponese dell’Immacolata. Abbiamo la tipografia. Gloria all’Immacolata! - Padre Massimiliano”. Continuava LUCE SERAFICA: “Questo bravo Padre, in due mesi, aveva saputo organizzare una missione di tal genere!... Il giorno 18 gennaio del corrente anno, veniva a Roma per avere delle informazioni presso la Sacra Congregazione di Propaganda Fide, e il giorno 25 dello stesso mese, otteneva l’approvazione dal Rev.mo P.M. Alfonso Orlini, Ministro generale dell’Ordine. Così, dopo due soli mesi, in marzo poteva partire con quattro religiosi per quest’ardua missione. Nell’aprile giungeva in Nagasaki (Giappone) presso la curia
vescovile, dove riceveva vitto e alloggio. E seppe guadagnarsi la stima di S.E. il Vescovo di Nagasaki , talmente che ottenne di stampare il periodico della Milizia di Maria Immacolata nella stessa tipografia vescovile; così, nel mese di maggio dedicato alla Vergine Santissima, usciva il primo numero del periodico mariano in giapponese con 10.000 copie. Il secondo numero di giugno già 12.000 lettori, mentre il terzo numero vedeva la luce nella tipografia propria della nostra missione”. “Nello stesso tempo – si poteva ancora leggere - alcuni giovani giapponesi, vedendo tanto fervore in questi nostri religiosi, chiedevano di farsi pure essi propagandisti della Milizia di Maria Immacolata, iscrivendosi al nostro Ordine francescano. Ecco i primi consolatissimi frutti di questa nuova Missione che onora altamente la Milizia di Maria Immacolata e che – come la definì il Card. Laurenti – ‘il fiorente sodalizio mariano che beneficamente si allarga nel popolo devoto quasi propaggine spirituale dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali”. (Luce Serafica, ot82
tobre 1930, n.10, pp. 300-301). Nel numero di dicembre 1930, la rubrica missionaria di LUCE SERAFICA, dedicava altre due pagine (361-362) alla missione giapponese di P. Kolbe. “E’ stata una impresa veramente meravigliosa non tanto per la rapidità con cui è riuscita, quanto per la speciale benedizione di Dio che l’ha voluta e per la protezione evidente dell’Immacolata che l’ha aiutata” (p.361). La pagina missionaria informava ancora: “ Un insigne benefattore , il dottor Mayahara, cattolico giapponese, comprò al P. Massimiliano non solo una tipografia con macchinario al completo, ma anche la carta ed ecco che con gioia veramente celeste, il pio Padre, poté lanciare, subito, dopo un mese, il primo numero del Milite dell’Immacolata, in lingua giapponese, in ben diecimila copie” (p.361). E in ottobre 18.000 copie! “Ancora della Missione dell’Immacolata in Giappone” era il titolo de La Pagina Missionaria dei mesi di luglio-agosto 1931. Dopo aver accostato la Città dell’Immacolata polacca, fondata da P. Kolbe nel 1927 alla nascente città giapponese, i lettori venivano
(205-206) nel numero del mese di giugno del 1933 e di luglioagosto dello stesso anno. Padre Giuseppe Palatucci aveva conosciuto il Kolbe a Roma negli anni dei suoi studi – 1912- 1918 e lo aveva rivisto a Ravello nel 1919 durante la lunga sosta estiva - 4 giugno - 8 luglio 1919 -. Stima ed affetto li legavano profondamente. A Nagasaki - si legge a p. 252 di LUCE SERAFICA . luglio-agosto 1933 – “alla pubblicazione attendono alla tipografia 19 persone tra padri e fratelli laici, e due chierici che sono stati convertiti da questo apostolato della stampa. “ Il giapponese- testimoniava il Kolbe – è avidissimo della lettura e i pagani, a cui si rivolge il periodico, lo accolgono quindi volentieri: leggono, meditano, scrivono su appositi moduli allegati, chiedendo spiegazioni, e domandano di conoscere la religione; vengono allora indirizzati alla missione più vicina e la grazia compie l’opera”. Ancora una notizia kolbiana nel numero di novembre 1933, p.335: “Tornato da pochi giorni dal Giappone per partecipare al Capitolo provinciale, P. Kolbe ha
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avuto la grazia di disporre alla conversione il sig. Kavaii, Ministro plenipotenziario del Giappone a Varsavia; il battesimo fu conferito da S.E. il Nunzio Apostolico Mons. Marmaggi, in agosto, poco prima che il Ministro morisse. Già la moglie e i figli erano cattolici; gli altri della famiglia dal P.. Massimiliano furono preparati al battesimo, prima che egli, l’8 settembre, si imbarcasse per il Giappone”. Pagine di storia, queste, da leggere e da meditare. Rileggere il passato vuol dire calarsi nel presente e programmare il futuro!
speciale luce serafica
così informati: “ E’ già stato acquistato un gran campo su cui sorgerà tale caratteristica Città col suo insieme di edifici e di opere missionarie. Intanto la missione per mezzo della stampa, per mezzo del giornaletto Il Cavaliere dell’ Immacolata – ne parlammo già l’anno scorsocontinua mirabilmente: la tiratura del giornaletto cresce mirabilmente e i giapponesi leggono e imparano attirati da Gesù Cristo e dalla sua Chiesa; le conversioni si moltiplicano, meglio se cento missionari andassero in giro a predicare … Davvero caratteristica questa missione! – annotava LUCE SERAFICA -. Caratterista per il mezzo che è la stampa; per gli aiuti che vengono talvolta anche dai pagani stessi e dai protestanti; per lo sviluppo straordinario che ha preso in poco tempo, e per lo zelo che anima tutti questi missionari in questa attività specializzata. E’ davvero la Missione dell’Immacolata, e perciò è destinata a crescere e a portare molti frutti” (p.235). Sulla Missione del’Immacolata in Giappone ritornava lo stesso direttore P. Giuseppe M. Palatucci con un articolo di due pagine
ASSISI Santurario della Spoliazione Pubblichiamo di seguito la Lettera che il Santo Padre Francesco ha inviato al Vescovo di AssisiNocera Umbra-Gualdo Tadino, S.E. Mons. Domenico Sorrentino, per l’inaugurazione del Santuario della Spoliazione nella chiesa di Santa Maria Maggiore, antica cattedrale di Assisi:
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l Venerato Fratello Mons. Domenico Sorrentino Vescovo di Assisi -Nocera Umbra -Gualdo Tadino i hai informato, caro fratello, di una tua iniziativa, che si lega in modo speciale alla visita che feci ad Assisi il 4 ottobre 2013 quando, nel Vescovado, sostai nella Sala della Spogliazione. Ivi si ricorda il gesto del giovane Francesco, che si spogliò, fino alla nudità, di tutti i beni terreni, per donarsi interamente a Dio e ai fratelli. Per mettere in luce quel singolare episodio, hai voluto erigere, nella chiesa di Santa Maria Maggiore, antica cattedrale di Assisi, e nei luoghi del Vescovado che furono testimoni dell’evento, il Santuario della Spogliazione. Hai così aggiunto una perla al panorama religioso della “Città serafica”, offrendo alla comunità cristiana e ai pellegrini un’altra grande opportunità, dalla quale si possono giustamente sperare frutti spirituali e pastorali. Sono lieto pertanto di accompagnare con una riflessione e una benedizione l’inaugurazione ufficiale che ne farai il prossimo 20 maggio. Ricordo bene l’emozione della mia prima visita ad Assisi. Avendo scelto, quale ispirazione ideale del mio pontificato, il nome di Francesco, la Sala della Spogliazione mi faceva rivivere con particolare intensità quel momento della vita del Santo. Rinunciando a tutti i beni terreni, egli si svincolava dall’incantesimo del diodenaro che aveva irretito la sua famiglia, in particolare il padre Pietro di Bernardone. Certamente il giovane convertito non intendeva mancare del dovuto rispetto a suo padre, ma si ricordò che un battezzato deve mettere l’amore per Cristo al di sopra degli affetti più cari. In un dipinto che decora la Sala della Spogliazione è ben visibile lo sguardo contrariato del genitore, che si allontana con il denaro e le vesti del figlio, mentre questi, nudo ma ormai libero, si getta tra le braccia del vescovo Guido. Lo stesso episodio, nella Basilica Superiore di San Francesco, è ricordato da un affresco di Giotto,
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che sottolinea lo slancio mistico del giovane ormai proiettato verso il Padre celeste, mentre il vescovo lo copre col suo mantello, ad esprimere l’abbraccio materno della Chiesa. Venendo a visitare la Sala della Spogliazione, ti chiesi di farmi incontrare soprattutto una rappresentanza di poveri. In quella Sala così eloquente essi erano testimonianza della scandalosa realtà di un mondo ancora tanto segnato dal divario tra lo sterminato numero di indigenti, spesso privi dello stretto necessario, e la minuscola porzione di possidenti che detengono la massima parte della ricchezza e pretendono di determinare i destini dell’umanità. Purtroppo, a duemila anni dall’annuncio del vangelo e dopo otto secoli dalla testimonianza di Francesco, siamo di fronte a un fenomeno di “inequità globale” e di “economia che uccide” (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 52-60). Proprio il giorno precedente il mio arrivo ad Assisi, nelle acque di Lampedusa, si era consumata una grande strage di migranti. Parlando, nel luogo della “spogliazione”, anche con la commozione determinata da quell’evento luttuoso, sentivo tutta la verità di ciò che aveva testimoniato il giovane Francesco: solo quando si avvicinò ai più poveri, al suo tempo rappresentati soprattutto dai malati di lebbra, esercitando verso di loro la misericordia, sperimentò «dolcezza di animo e di corpo» (Testamento, FF 110). Il nuovo Santuario assisano nasce come profezia di una società più giusta e solidale, mentre ricorda alla Chiesa il suo dovere di vivere, sulle orme di Francesco, spogliandosi della mondanità e rivestendosi dei valori del Vangelo. Ribadisco quanto dissi nella Sala della Spogliazione: «Tutti siamo chiamati ad essere poveri, a spogliarci di noi stessi; e per questo dobbiamo imparare a stare con i poveri, condividere con chi è privo del necessario, toccare la carne di Cristo! Il cristiano non è uno che si riempie la bocca coi poveri, no! E’ uno che li incontra, che li guarda negli occhi, che li tocca». Oggi è più che mai necessario che le parole di Cristo carat84
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posto. Ci si deve spogliare, in sostanza, più che di cose, di sé stessi, mettendo da parte l’egoismo che ci fa arroccare nei nostri interessi e nei nostri beni, impedendoci di scoprire la bellezza dell’altro e la gioia di aprirgli il cuore. Un cammino cristiano autentico non porta alla tristezza, ma alla gioia. In un mondo segnato da tanta «tristezza individualista» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 2), il Santuario della Spogliazione si propone di alimentare nella Chiesa e nella società la gioia evangelica, semplice e solidale. Un aspetto bello del nuovo Santuario è dato dal fatto che, nell’evento della spogliazione di Francesco, emerge anche la figura di un Pastore, il vescovo Guido, che lo aveva probabilmente conosciuto, se non addirittura accompagnato nel suo cammino di conversione, ed ora lo accoglieva nella sua scelta decisiva. È un’immagine di maternità della Chiesa che merita di essere riscoperta, mentre la condizione giovanile, in un quadro generale di crisi della società, pone interrogativi seri che ho voluto mettere a fuoco indicendo un apposito Sinodo. I giovani hanno bisogno di essere accolti, valorizzati e accompagnati. Non bisogna temere di proporre a loro Cristo e gli ideali esigenti del vangelo. Ma occorre per questo mettersi in mezzo a loro e camminare con loro. Il nuovo Santuario acquista così anche il valore di un luogo prezioso dove i giovani possano essere aiutati nel discernimento della loro vocazione. Al tempo stesso gli adulti vi sono chiamati a stringersi in unità di intenti e di sentimenti, perché la Chiesa faccia emergere sempre più il suo carattere di famiglia, e le nuove generazioni si sentano sostenute nel loro cammino. Benedico pertanto di cuore il nuovo Santuario, estendendo la mia benedizione ai pellegrini che lo visiteranno e all’intera comunità diocesana. La Vergine Santa, alla quale il Santuario resta dedicato, faccia sentire tutta la sua materna protezione. 16 aprile 2017, Pasqua di Risurrezione
terizzino il cammino e lo stile della Chiesa. Se in tante regioni del mondo tradizionalmente cristiane si verifica un allontanamento dalla fede, e siamo pertanto chiamati a una nuova evangelizzazione, il segreto della nostra predicazione non sta tanto nella forza delle nostre parole, ma nel fascino della testimonianza, sostenuta dalla grazia. E la condizione è che non disattendiamo le indicazioni che il Maestro diede ai suoi apostoli nel discorso sulla missione, facendo insieme appello alla generosità degli evangelizzatori e alla premura fraterna nei loro confronti: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento» (Mt 10,8-10). Francesco di Assisi lo aveva ben chiaro. Lo aveva assimilato nella meditazione del vangelo, ma soprattutto dalla contemplazione del volto di Cristo nei lebbrosi e nel Crocifisso di San Damiano, dal quale aveva ricevuto il mandato: “Francesco, va’, ripara la mia casa”. Sì, come al tempo di Francesco, la Chiesa ha sempre bisogno di essere “riparata”. Essa infatti è santa nei doni che riceve dall’alto, ma è formata da peccatori, e pertanto è sempre bisognosa di penitenza e di rinnovamento. E come potrebbe rinnovarsi, se non guardando al suo “nudo” Signore? Cristo è il modello originario della “spogliazione”, come tu, caro fratello, hai voluto evidenziare, promulgando la tua lettera di istituzione del nuovo Santuario nella solennità del Natale. Nel Bimbo di Betlemme la gloria divina si è come nascosta. Sarà ancor più velata sul Golgota. «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,5-8). Dal Natale alla Pasqua, il cammino di Cristo è tutto un mistero di “spogliazione”. L’Onnipotenza, in qualche modo, si eclissa, affinché la gloria del Verbo fatto carne si esprima soprattutto nell’amore e nella misericordia. La spogliazione è un mistero di amore! Essa non dice disprezzo per le realtà del mondo. E come potrebbe? Il mondo viene tutto dalle mani di Dio. Francesco stesso ci invita, nel Cantico di Frate Sole, a cantare e a custodire la bellezza di tutte le creature. La spogliazione ci fa fruire di esse in modo sobrio e solidale, con una gerarchia di valori che mette l’amore al primo
A colloquio con padre Rocco Rizzo, rettore del collegio dei penitenzieri vaticani
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E RV Come Francesco: IST A apostoli della misericordia “In passato nella mia provincia napoletana dei Frati Minori Conventuali ne ho visti tanti di confessori modello. Alcuni trascorrevano giornate intere nel confessionale e accoglievano i fedeli sempre con il sorriso. Ne ricordo alcuni di questi, come padre Stefano Macario. Era un bravo pittore: al mattino rimaneva nel studio - laboratorio a dipingere e nel pomeriggio scendeva nella basilica di san Lorenzo Maggiore e sostava a lungo nel confessionale, dove lo attendeva una lunga fila di penitenti. Lo stesso si dica del caro padre Andrea Sorrentino, cuore sempre aperto alle necessità del popolo di Ravello delle clarisse e delle redentorista della Costiera amalfitana”.
NICOLA GORI
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Com’è stato l’afflusso dei penitenti durante l’anno santo? È stato notevole all’inizio, poi c’è stata una stabilizzazione come avviene di solito, con picchi a Pasqua e a Natale. Il sabato e la domenica abbiamo riscontrato la presenza soprattutto di gruppi organizzati di pellegrini, provenienti per lo più dalle parrocchie romane, ma non solo. Anche nei vari incontri giubilari del mercoledì e del sabato si è notata una forte partecipazione.
ersone che non si confessavano da sessant’anni hanno ritrovato la gioia del perdono sacramentale durante il giubileo della misericordia. Ma anche musulmani, ebrei, indù, buddisti, atei o agnostici si sono accostati ai confessionali della basilica di San Pietro in questo anno santo straordinario: naturalmente «solo per parlare, per ascoltare una buona parola, per un consiglio, o per sapere qualcosa di più sulla religione cattolica», spiega il frate minore E riguardo alla provenienza? conventuale Rocco Rizzo, rettore del Collegio In maggioranza i penitenti erano soprattutto italiani, seguiti da quelli di lingua spagnola, specialdei penitenzieri vaticani, in questa intervista.. mente dei Paesi latinoamericani, e di espressione Si può fare qualche statistica delle confessioni del inglese, soprattutto statunitensi. Molti anche i giubileo? polacchi. Posso dire qualcosa riguardo alla mia esperienza personale. Durante l’anno santo ho confessato Dopo la chiusura della porta santa, che cosa è 6383 fedeli, di cui 2445 di lingua spagnola. Mol- cambiato? tissimi di loro si sono riavvicinati al sacramento L’affluenza è diminuita. Adesso con la quaresima dopo tanti anni. Ci sono stati molti casi di per- è riaumentata un po’: soprattutto c’è maggiore presone che non si confessavano da almeno 30 anni, senza di preti e di suore, mentre i laici sono pochi. alcuni anche da 60. Però, in quasi tutti vi era il D’altronde i pellegrinaggi numerosi sono meno e desiderio di incominciare un cammino nuovo. non sono più così frequenti come nell’anno santo. Poi alcuni sono venuti solo per parlare, per ascoltare una buona parola, per un consiglio, o per sa- Da quanti penitenzieri è composto il collegio? pere qualcosa di più sulla religione cattolica e sul Il numero attuale è di quattordici frati, in magsacramento della confessione: molti di questi non gioranza polacchi. In due siamo italiani. Anche erano cristiani, ma musulmani, ebrei, indù, bud- gli altri parlano l’italiano e dunque possono confessare in questa lingua. Durante l’anno santo il disti, anche atei o agnostici. 86
scere i peccati. Non hanno una coscienza formata. Il relativismo ormai ha preso il sopravvento e quindi si è perso il senso del peccato. Alcune questioni per molti non rappresentano un problema, per cui non vengono considerate nemmeno materia di confessione.
numero dei penitenzieri è aumentato: ai quattordici stabili che formano il Collegio vaticano se ne sono aggiunti una trentina a disposizione. Alcuni sono rimasti solo cinque mesi, altri per tutto l’anno. Con il loro aiuto siamo riusciti a essere presenti in quasi tutti i confessionali, specialmente nella fascia oraria dalle 10 alle 13. Per venire incontro alle esigenze dei penitenti, compatibilmente con la disponibilità delle lingue, abbiamo anche cambiato l’orario ordinario, allargando le fasce di presenza.
C’è una tipologia di giovane che frequenta i vostri confessionali? La basilica vaticana è come un “porto di mare”, dove giungono giovani da tutto il mondo. La maggioranza sono italiani, in particolare romani, eccetto in alcuni giorni come il mercoledì e la domenica, quando vediamo un aumento delle provenienze da altre regioni, legato alla maggiore affluenza in San Pietro. In alcuni casi riusciamo anche a fare una direzione spirituale. Più facile con i seminaristi e con le suore. Impossibile con i giovani di passaggio, meno complicato con quelli che vivono a Roma. Consigliamo a tutti di rivolgersi sempre allo stesso confessore, in modo che possano essere seguiti meglio. Diciamo loro di presentarsi con il nome, in modo che poi possiamo ricordarli. Nel messaggio papale per la quaresima 2017 si parlava dell’altro come di un dono.
Come vivono oggi i giovani il sacramento della confessione? C’è una buona percentuale che si confessa da noi. Alcuni provengono da comunità, gruppi, associazioni laicali e sono più preparati alla confessione. Molti invece si sono accostati al sacramento in occasione della prima comunione e si sono fermati lì. Quando capitano questi casi, la confessione diventa molto difficile, soprattutto perché bisogna aiutare il penitente a scavare un po’ dentro la coscienza. Qual è la principale difficoltà? Per i giovani di oggi è proprio quella di ricono87
Il Pontefice scrive anche che ognuno di noi è un dono per l’altro. Ci chiede inoltre di non essere prigionieri del denaro. Dobbiamo avere la consapevolezza che quando incontriamo qualcuno, ci troviamo davanti non a un individuo qualsiasi, ma a una persona con un nome e un cognome. Papa Francesco riporta l’esempio del ricco epulone e di Lazzaro: di quest’ultimo conosciamo il nome, dell’altro no, a significare che il povero è una persona che va aiutata, amata e consolata. In varie occasioni il Pontefice ha indicato un modello di confessore. Il Papa cerca di invitare noi confessori e penitenzieri ad accogliere con paternità i penitenti. A essere chiari nel far capire e riconoscere i peccati, ma nello stesso tempo a trasmettere il messaggio che al di là del peccato c’è un Padre misericordioso che ci accoglie sempre, nonostante tutto. Quindi da parte del confessore ci devono essere accoglienza, benevolenza, misericordia; e da parte del penitente un po’ più di umiltà e docilità nel capire che Dio non castiga. Bisogna lavorare su questa mentalità del “castigo” e della “punizione” di Dio, purtroppo ancora presente in alcuni penitenti.
Nella sua esperienza ha conosciuto confessori con questo stile suggerito dal Papa? In passato ne ho visti tanti nella mia provincia napoletana dei Frati Minori Conventuali.. Alcuni trascorrevano giornate intere nel confessionale e accoglievano i fedeli sempre con il sorriso. Ricordo uno di questi, padre Stefano Macario. Era anche un bravo pittore: al mattino rimaneva nel laboratorio a dipingere e nel pomeriggio scendeva nella chiesa napoletana di San Lorenzo Maggiore e si sedeva nel confessionale, dove lo attendeva una lunga fila di penitenti. Oggi sono cambiate anche le penitenze imposte? Per quanto mi riguarda, nei tempi forti come la quaresima e l’avvento cerco di suggerire una penitenza più sociale, legata cioè alle opere di misericordia spirituali e corporali. In pratica chiedo di fare un’opera buona: per esempio, chi vive in un condominio può aiutare un vecchietto a fare la spesa, oppure cercare di consolare chi è afflitto e offrire una parola buona a chi ne ha bisogno. E questo è anche il tema del messaggio quaresimale di quest’anno.
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L’ultimo sguardo prima del cielo VITTORIO TRANI
cordo con gratitudine e con affetto il padre Ernesto Piancenti, vice postulatore, che con la sua Collectio Pilensis ci ha riproposto il pensiero cristologico, marianokolbiano e francescano del padre Maestro. Dal 1984 ad oggi, tante e benemerite sono state le pubblicazioni di padre Piacentini riguardanti padre Quirico. E’ stata questa fonte iniziale, a rendere più spedito il cammino verso la conoscenza del padre Maestro. Al padre Piacentini sino sono aggiunti, nel corso degli anni, padre Stefano Maria Pellegrini 89
con la pubblicazione del volume nel 1993 Padre Quirico; padre Paolo Scotti, Quirico racconta Quirico, nel 1994; padre Felice Rossetti, Vita di P. Quirico Pignalberi 1891-1982, pubblicata nell’agosto del 2006; Padre Angelo Di Giorgio, instancabile apostolo e divulgatore della vita di Padre Quirico con le sue numerose pubblicazioni. Ultima, in ordine di tempo, quella del 2016 all’indomani del decreto del 3 marzo sulla eroicità delle virtù firmato da papa Francesco, dal titolo Il Venerabile P. Quirico Pi-
speciale luce serafica
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ome san Massimiliano Maria Kolbe è stato il santo del XX secolo, così il nostro padre Quirico Pignalberi sarà il santo del XXI secolo. Lo sento e me lo auguro. Siamo stati discepoli di questo Maestro esemplare che nel corso della sua lunga vita ha formato dal 1925 al 1964 una lunga generazione di giovani alla vita francescana conventuale. Duecento settanta i novizi da lui guidati . Di questi, circa duecento superavano la prova. Dal 18 luglio 1982, anno della sua morte beata, tanti suoi discepoli della nostra Provincia romana, hanno avvertito l’urgenza di mettere per iscritto il rapporto umano e religioso con il loro padre Maestro. Credo, che nessun frate dell’Ordine, abbia avuto, in questi 35 anni che ci separano dal suo transito, tante testimonianze di affetto e tante pubblicazioni che hanno tenuto vivo il ricordo della sua vita di frate penitente, silenzioso, contemplativo, esemplare, tutto dedito alla imitazione di Cristo, del serafico padre Francesco e del beato Andrea Conti che dal convento del Piglio, continua con il venerabile padre Maestro a tener viva la memoria di una presenza santificante che continua a spargere prodigi. Dei religiosi francescani conventuali che all’ indomani della morte di padre Quirico hanno dedicato anni di ricerca e di studio alla sua santità di vita, ri-
gnalberi “San Francesco redivivo” 1891-1982. A questi significativi contributi si aggiunge ora il volume scritto dal nostro Padre Gianfranco Grieco, edito dalla Libreria Editrice Vaticana. Insieme con il Definitorio della Provincia, svoltosi il 27 giugno 2016, incaricavo padre Grieco, a scrivere una vita nuova di padre Quirico legando la sua storia e il suo intinerario francescano; la sua vita civile e il suo cammino ecclesiale non dimenticando come padre Quirico abbia attraversato tutta la storia secolare e religiosa del “secolo breve”: due guerre mondiali; tre anni santi e un anno mariano; il bombardamento di Monte Cassino e del nostro convento di Piglio; lo sbarco di Anzio, la celebrazione del Concilio Vaticano II. E, in
mezzo a difficoltà di ogni genere, la vita religiosa francescana conventuale con i suoi novizi per 40 anni, guidati da lassù, nel bel mezzo del monte Scalambra, con quella visione francescana della sua esistenza che ha segnato e testimoniato la sua quotidiana tensione alla santità. Padre Grieco, con il suo stile giornalistico narrativo, è riuscito ad entrare nel cuore e nell’anima di padre Quirico legando la sua vita a quella del Kolbe e ai tanti religiosi che, alla loro scuola, hanno percorso un cammino nel segno della disponibilità mariana e del farsi dono. Ho avuto il privilegio di essere Ministro provinciale, sia quando padre Quirico moriva nel 1982, sia quando il 3 marzo 2016, Papa Francesco riconosceva le sue virtù
eroiche e la sua venerabilità. Considero questi due momenti della mia vita, una grazia e un impegno per il futuro. Ed è quanto, come Provincia religiosa, abbiamo compiuto nel corso del 2016. Voglio ringraziare di cuore i Ministri provinciali che si sono succeduti in questi 30 :i padre Quintino Rocchi, padre Agostino Mallucci e padre Pier Giorgio Vitelli che tanta passione hanno lavorato perché il nome e la santità di padre Quirico fossero sempre più conosciuti ed amati dal popolo di Serrone, di Piglio, di Trevi nel Lazio e, tra i fedeli delle comunità della nostra religiosa Provincia romana. Il venerabile padre Quirico guidi i nostri passi verso il nostro futuro francescano, in attesa dalla sua beatificazione.
Opere di Fra Edoardo Scognamiglio
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P. Michele Abete vita e spiritualità GIACOMO VERRENGIA PARROCO DELLA PARROCCHIA DI SANT’ANTONIO DI SANTA ANASTASIA (NA)
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bbiamo appena finito di celebrare solennemente il 50° anniversario della morte di p. Michele Abete, sia nella comunità di Barra che in quella di S. Anastasia, e come già nelle precedenti commemorazioni abbiamo rivissuto e sottolineato più volte quelli che sono i pilastri della vita spirituale di questo nostro confratello, morto in concetto di santità e il cui profumo ancora non è svanito, ma può essere percepito chiaramente da tutti quelli che lo imparano a conoscere. Umile frate francescano La vita e l’azione di padre Michele sono state marcate da un inconfondibile spirito francescano, da cui era tutto permeato nel suo aspetto esteriore e ancor più nel carisma interiore. Dire francescano significa soprattutto parlare della “povertà”, della semplicità, della umiltà, del sentirsi veramente “frate minore” tra la gente, sono tutte virtù e caratteristiche che S. Francesco sognava per qualsiasi frate... e per p. Michele erano tanto connaturali che a volte non ci si accorgeva di trovarsi di fronte ad un religioso veramente santo. Si distingueva soprattutto per lo spirito di povertà: una povertà amata e sempre ricercata in tutte le situazioni: non sciupava mai nulla e utilizzava tutto con semplicità; aveva una ricercata scrupolosità e distacco nell’uso del denaro, anche quando l’ufficio gli richiedeva ciò. Nel testamento lascerà scritto. “Sono nato povero, sono povero di tutto, di mio non ho neppure un centesimo; mi sono spogliato di tutto e ciò che potrà stare nella camera è tutto del convento”.
ricorrevano a lui perché trovavano in lui quella “sorgente della grazia”, e quell’acqua sempre fresca dello Spirito che zampillava e portava vita nuova. I suoi consigli spirituali, le sue direttive hanno generato tante anime “belle”, che si sono consacrate a Dio con voti o almeno con generosi propositi. Tra i tanti penitenti c’è da ricordare la Venerabile Claudia Russo, la cui santità e la cui opera caritativa è nata dal cuore di p. Michele. In quanto sacerdote p. Michele è stato un vero “artista delle anime ” cioè colui che ha avuto la capacità di formare le coscienze e di infondere nelle anime quell’annonioso equilibrio di sentimenti e di emozioni; la volontà di voler aiutare tutte le persone ad avere fiducia in Dio amore e provvidenza; indicare a tutti di seguire un cammino di santità at- traverso la pratica delle virtù e l’amore all’Eucaristia e alla Madonna. Egli stesso, con la sua testimonianza di vita, era il modello vivente quale segno “fedele e operoso” del Vangelo e invitava tutti a mettersi a servizio dei fratelli e così costruire una fraternità ben legata da vincoli di amore.
Sacerdote di Cristo Padre Michele venne ordinato sacerdote ad Amalfi il 25 febbraio 1906, all’età di 27 anni. In quanto sacerdote e ministro di Dio p. Michele cominciò ad avere i primi contatti con i fedeli e soprattutto con quelle anime che si rivolgevano a Lui per la direzione spirituale; cominciò così ad essere il “buon seminatore” della Parola di Dio, attraverso la confessione e la direzione spirituale. Tanti fedeli e tante anime pie si sono lasciate guidare spiritualmente da p. Michele; molte anime consacrate
Maestro di formazione dei chierici Padre Michele fu chiamato prestissimo al delicato compito formatore” dei giovani chiamati alla vita religiosa e sacerdotale sia come maestro dei novizi, sia come maestro dei chierici professi, proprio per questo nella provincia religiosa veniva chiamato da tutti “Padre maestro Dalle testimonianze raccolte sappiamo che egli riusciva a parlare ai giovani senza ricorrere a lunghi discorsi o a noiose prediche, perché parlava sempre con
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il cuore e con l’esempio. Perciò molti novizi da lui formati hanno sottolineato la dolcezza, la paternità, la tenerezza con cui egli riusciva a raggiungere tutti e a leggere nei loro cuori. Attraverso il richiamo allo spirito di preghiera, di sacrificio, di povertà insegnava a seguire San Francesco con gioia ricordando molte volte lo “spirito della perfetta letizia”. Tutti i suoi chierici sono concordi nel riconoscere al loro Maestro padre Michele il merito di una guida sapiente e di un religioso fedele osservante della Regola e della puntualità a tutti gli atti comuni della fraternità. Gesù Bambino e l’Immacolata i due grandi amori Lo spirito francescano di padre Michele si rivelava anche nelle sue devozioni più care: l’amore verso Gesù Bambino e verso l’Immacolata. Il suo cuore si scioglieva in canti di lode, proprio come succedeva a S. Francesco, quando nel periodo di Natale aveva l’occasione di contemplare, di pregare e di parlare di Gesù fattosi uomo e divenuto un tenero bambino. Si conserva ancora, nel convento di S. Anastasia, la bellissima statua di Gesù Bambino che padre Michele poteva stringere nelle sue braccia e lo baciava con tanto amore prima di farlo baciare dai fedeli. Un testimone afferma: “Quando arrivava il Natale era fuori di se&#39; dalla gioia; preparava il Natale con canti e brevi meditazioni ed esprimeva tutta la sua dolcezza e tenerezza per il Bambino di Betlemme, per Gesù Figlio di Dio fattosi uomo per salvarci e per condividere la nostra povertà e la nostra umanità” L’altro grande amore era per l’Immacolata; seguendo il “filo d’oro” della tradizione francescana e soprattutto l’insegnamento d san Massimiliano Kolbe, egli indirizzava a Lei tante anime, soprattutto le giovinette, e voleva che si consacrassero a Lei nello spirito della Milizia dell’Immacolata, di cui è stato un fervente direttore spirituale. Fu proprio padre Michele a commissionare e ad acquistare la bella statua dell’Immacolata, in marmo bianco, che troneggia sull’altare maggiore della chiesa di Sant’Antonio in S. Anastasia e a voler far mettere sotto il soffitto la tela del “trionfo dell’Immacolata con i Santi francescani”. Lo sguardo della Madonna è sempre rivolto verso il basso, verso i fedeli che continuamente ricorrono a Lei per invocarla come mamma e per chiederle aiuto. Anche p. Michele aveva sempre sulla bocca l’invocazione: “per Maria, la dolce mamma mia” e nel Testamento spirituale ha lasciato scritto: “La medaglia (miracolosa) della Madonna che tengo al collo non mi venga tolta, e avrei piacere se potessi avere nella mia bara qualche cosa della Madonna mia, una pergamena o una carta cosi scritta: “Madonna mia, custodite voi il mio corpo mentre
aspetto il giorno del trionfo finale. Ed io vi prego di man- dare di tanto in tanto un angelo a conforto del mio corpo che va in sfacelo”. Una suora testimone afferma: “L’Immacolata era per padre Michele il suo fascino, il suo ideale, la sua creatura prediletta, la innamorata. Tutti hanno potuto constatare che padre Michele era sempre ai piedi della Madonna e che da Lei riceveva le grazie che chiedeva. Martire di Cristo La grandezza e la profondità della santità di p. Michele rifulse soprattutto nell’ultima grande prova: la sofferenza fisica che lo porterà alla morte. Intorno a l 1960 p. Michele fil colpito da una malattia grave, il così detto morbo di Kaposi. Iniziava cosi il suo calvario. La malattia progrediva rapidamente e cominciarono per lui i giorni di ansia, di attesa, di sofferenze indicibili accolte e accettate con grande sopportazione e con lo sguardo continuamente rivolto al Crocifisso alla Madonna Addolorata. P. Michele, da ammalato, aiutato dai confratelli fece anche un pellegrinaggio a Lourdes dove ebbe occasione di fare della malattia un’offerta sacrificale dicendo: “Desidero unirmi al Signore per espiare il male degli uomini” La medaglia miracolosa che stingeva al petto e le invocazioni continue: “Madonna mia... mamma mia” erano il suo conforto e il suo fogo quando il dolore si faceva sentire sempre più forte. L’8 agosto del 1961 gli si dovette amputare la gamba sinistra e il medico curante ricorda che non si trattò solo di un intervento doloroso sopportato pazientemente, ma anche che padre Michele fil di tale esempio da riportare alla fede qualche altro medico o infermiere che lo aveva in cura e che forse si erano allontanai dalla pratica della fede. Sempre nel corso della malattia gli si dovette asportare anche l’occhio destro, ma mai un lamento uscì dalla sua bocca e nonostante tutto continuava ad avere il suo bel sorriso sulle labbra. Lui stesso scriveva così ad una suora: “Il mio stato fisico materialmente è affliggente, perché così ha voluto il Signore, però l’ho accettato con pazienza e tranquillità. Posso far di meno nel mio apostolato, faccio però già abbastanza nel sopportare il mio male”. Certamente questo fu apostolato fecondo e padre Michele divenne l’ostia sacrificale sul letto del dolore e il discepolo fedele che ha saputo prendere la croce e seguire il Maestro Gesù. Gli interventi chirurgici, le sofferenze, il dolore fortissimo lo resero trasparente come l’acqua di un ruscello e lo innalzarono sorridente sulla croce che abbracciò per amore di Dio e per il bene dei fratelli. è stata questa la bella testimonianza di p. Michele “martire” per amore di Cristo e dei fratelli. 92
“Tutto per Dio” “‘Tutto per Dio”, è il nuovo titolo con cui padre Raffaele Di Muro ha voluto indicare il cammino di santità percorso da p. Michele. E’ un cammino vissuto in comunione con Dio; l’unione con Dio è l’aria pura che respira il “santo”; contemplazione e azione, preghiera e apostolato, ascolto e am1unci o si fondono in p. Michele in un armonioso equilibrio proprio perché egli si è lasciato guidare da Dio, plasmare dalla sua Parola, santificare dalla sua Presenza. Padre Michele ha saputo orientare la sua vita alla ricerca di un amore sempre più grande che lo teneva immerso nel mistero di Dio, un amore
che si è reso visibile in Gesù “povero e crocifisso”, un amore che lo ha spinto ad avere sempre un cuore tenero e materno verso i poveri, i malati, le anime bisognose di consigli o di un sostegno spirituale. Leggendo i numerosi episodi della sua vita di frate minore conventuale ci accorgiamo subito dei quatto pilastri su cui ha voluto costruire tutta la sua vita religiosa: amore a Cristo, amore alla Chiesa, amore all’Ordine francescano, amore alle anime. “Tutta la vita di p. Michele è stata una missione, senza soste, senza tentennamenti, senza scoraggiamenti, con indicibile coraggiosa intepretrato la sua vocazione come un continuo percorso missionario nel quale si consuma con immensa generosità” (p. Raffaele Di Muro) Concludendo, voglio ringraziare p. Raffaele per il dono di questa nuova biografia di padre Michele Abete; mi voglio congratulare con lui perché ci ha indicato con chiarezza il “percorso di vita spirituale” fallo da p. Michele, un percorso vissuto nella santità quotidiana. Ci auguriamo ancora una volta che questa splendida figura di frate e di sacerdote possa essere riconosciuta nella Chiesa come “dono prezioso” offertoci dallo Spirito; così pure ci auguriamo che questo “chicco di grano” caduto in terra oggi più che mai possa portare il suo frutto abbondante. Si possono applicare a p. Michele i detti biblici dei Pro verbi: “La memoria del giusto è in benedizione, le sue labbra nutriscono molti la sua bocca proclama la sapienza e la sua lingua esprime la giustizia il ricordo degli empi scompare mentre il giusto resterà saldo per sempre” (Prov. 10 ss.) Qui, a Santa Anastasia suo paese natale, padre Michele è già una luce che risplende, è già una fiamma che riscalda i cuori dei suoi devoti, è sale vero capace di dare sapore a chi lo conosce e a chi lo ama, è sorgente di acqua cristallina che purifica e disseta, è il “padre maestro” che continua ad indicarci la strada della santità.
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Uomo delle Beatitudini Padre Gianfianco Grieco, che ha conosciuto personalmente padre Michele, nell’occasione del 50° anniversario della sua morte (2014) , ha voluto ricordarlo e presentarlo a tutti come “Uomo delle Bealitudini”. Sappiamo bene come il Vangelo delle Beatitudini è la “magna Charta”; cioè il programma di vita che Gesù ha proposto a tutti i suoi discepoli e tutti siamo chiamati a seguire la via delle Beatitudini se vogliamo essere “beati” fin da ora e se vogliamo far parte del Regno di Dio nella pienezza della gloria celeste. La vita spirituale di p. Michele ha sempre seguito la strada delle Beatitudini e tutto il racconto della sua vita potrebbe riassumersi attraverso il racconto delle beatitudini vissute con gioia e con amore: povertà, pianto, mitezza, fame di giustizia, misericordia, purezza di cuore, operatore di pace persecuzione sono tutte esperienze di “vita vissuta”, di storie da raccontare nella vita di p. Michele; proprio per questo è senz’altro ben appropriato e molto significativo pensare padre Michele come “Uomo delle Beatitudini”, così come Gesù ha chiesto di essere ad ognuno dei suoi discepoli.
E V E N T I 2017
Forum sulla famiglia 2017 Centro Studi Francescani Maddaloni (Ce)
Ofs incontro regionale Arienzo il 22 aprile 2017
Promessa Gifra 1 maggio 2017 a Maddaloni (Ce)
Reliquie di San Giovanni Paolo II a S. Lorenzo Maggiore in Napoli
Reliquie in visita al primo policlinico di Napoli
IX edizione del cammino di Riconciliazione e Pace da Benevento a Pietrelcina; evento gemellato con Assisi Domenica 21 maggio presso la chiesa di San Francesco a Baia Domizia la celebrazione con il vescovo Orazio Francesco Piazza, per la cresima e la comunione
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