Geaart n 10 gennaio febbraio 2015 2

Page 1

anno IV numero 10 gennaio-febbraio 2015 direttore Massimo Bignardi distribuzione gratuita

Periodico di cultura, arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative

Luoghi di contatto: le fiere d’arte e fiere, dalla storica Art Basel alla FIAC fino alla più giovane e rampante Art Miami, alle italiane ArteFiera L e MIART, hanno modificato nel tempo la loro struttura adattandosi, come del resto quelle presenti sul territorio nazionale, ad un pubblico sempre più vasto di fruitori identificabili, è da credere, con l’ingresso di nuovi mercati sulla scena globale.Proviamo allora attraverso tale istituzione a fare qualche riflessione, non certo a dare risposte, prendendo ad esempio alcuni casi di fiere italiane, scelte nel triangolo Torino-Verona-Bologna.

ISSN 2420-7934

alle pagine 12 -13 u Ada Patrizia Fiorillo

trans postindustriale di

MASSIMO BIGNARDI

immensa folla, due milioni di persone di generazioni, di razze e di religioni diverse, che gremiva place de la République ci ha restituito di colpo e dopo decenni, la forza del respiro corale. Con esso il desiderio di stare insieme, di immaginare e di disegnare un futuro nel quale la libertà e la solidarietà sono beni imprescindibili. Al centro della piazza la statua della Marianne, simbolo della Repubblica e dei suoi valori, domina metaforicamente sorretta dallo striscione nero sul quale campeggia la scritta: “Charlie / Je pense / donc / je suis”. Il richiamo cartesiano si fa monito e, al tempo stesso, necessità di riprendere il dialogo, quale effettiva misura di una comune prospettiva di futuro, in nome di un’umanità che non rinunzia a dar voce alla propria esistenza. “Pensare” ed “esistere” è il binomio che fa da sfondo all’identità di un secolo, quello lasciato alle spalle, le cui ombre e luci si spandono ancora visibili sull’attualità. È stato il secolo della società industriale ove lo scontro di classe si è radicalizzato, trovando però

L’

CONTROCOPERTINA

nel dialogo proprio delle democrazie, una forza progettuale. “Pensare”, “immaginare” erano le parole chiave degli slogan partiti proprio dai boulevards parigini, nei giorni del Maggio francese; diritto ad “esistere” era quanto sanciva, dal 1970, lo Statuto dei lavoratori, ancorando, nell’Italia che da poco aveva festeggiato il centenario dell’unità, il destino del singolo a quello dell’intera comunità. Un binomio che, solo pochi giorni fa prima che il fondamentalismo tornasse a falciare altre ed altre vittime, sembrava destinato all’archiviazione unitamente all’umanesimo che la cultura industriale aveva consegnato alla nostra generazione. La voce che sale da place de la République dà fiato a quella cultura, a quella coscienza, ponendo a chi ha il culto della rete la domanda: «Siamo proprio certi che la società industriale è stata oramai archiviata, lasciando il posto all’imperante scena della finanza che ha eletto la rete a luogo della comunicazione?». L’urgenza di libertà, di fraternità, di solidarietà profila la necessità di un nuovo umanesimo che riprenda i valori propri della cultura del fare, di mani che s’incontrano per progettare (pensare) e lavorare insieme: esistere.

CARTE SUL TAVOLO

ARTE MODERNA

ARCHITETTURA

Nino Tricarico Soglia, 2015

Economia, società e politica nell’era post-industriale

Le acqueforti del visionario Piranesi in mostra a Praga

Percorsi d’architettura nell’era postindustriale

Tecnica mista su cartoncino

L’idea secondo cui un altro mondo è possibile è il prerequisito di una economia e di una società alternative, in grado di superare in modo sostenibile la monodimensionalità del dogmatismo del mercato e le sue fatali conseguenze sociali e politiche.

Il Settecento vede impiegati eccellenti geni dedicarsi all’incisione. A Roma spicca Giovan Battista Piranesi sin dalla creazione della Calcografia Camerale. Lo storico palazzo Clam-Gallas di Praga ospita una mostra dell’opera grafica completa.

Una riflessione sulle nuove ‘pratiche’ progettuali, alla luce delle esperienze di Eisenman. L’architetto statunitense utilizza lo strumento digitale per “sperimentare”, per andare oltre ma conservando un controllo complessivo della struttura.

a pagina 3 u Erich Fröschl

a pagina 9 u Luca Mansueto

a pagina 20 u Stella Cuomo

Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico (H. Marcuse)


carte sul tavolo

carte sul tavolo

La creatività nasce dallʼangoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. >>

È nella crisi che sorge lʼinventiva, le scoperte e le grandi strategie. >>

L’utopia concreta contro il dogmatismo del mercato

L’uomo massa si è

frantumato

La civiltà industriale non è morta, ha solo traslocato nel vortice di una curiosa regressione prefordista di

Riflessioni su economia, società e politica in Austria e nel mondo post-industriale di

DANILO MAESTOSI

S

arà che siamo tutti un po’ troppo invecchiati. Dieci anni in più di vita in meno di mezzo secolo. Niente male, ma il tempo rubato alla dea bendata non ci ha portato più saggezza. E ci ha regalato, tra i tanti ineliminabili acciacchi, anche un difetto di vista. Siamo diventati più miopi, non riusciamo a mettere a fuoco la distanza. Un bel casino perché i confini del mondo, lo si voglia o meno, si sono allargati. Ma i nuovi orizzonti ci appaiono indistinti e slabbrati, non ci stanno di fronte ma ci precipitano addosso come fari abbaglianti quando si guida di notte su strade di cui non si conoscono a memoria i rettifili e le curve e non c’è navigatore che tenga. E poi, maledetti lavori in corso, ad aumentare la nebbia continuano a cambiarci anche le strade note. Stentiamo a riconoscerle. Sappiamo da dove veniamo, il percorso ormai alle spalle, a volte siamo così tesi al volante che anche il ricordo del tragitto impallidisce. Ma non sappiamo dove stiamo andando. È in questo scarto che si insinua il dubbio che stiamo attraversando solo scenari di infiniti e offuscanti tramonti. Come quello della società industriale, su cui il nostro Novecento ha costruito e poi demolito teorie, ideologie e certezze. Se Dio lo abbiamo dato per morto da tempo, se ad ogni decennio l’arte si avvita in nuove fatali agonie, se abbiamo consegnato la filosofia al regno di fantasmi del pensiero debole, la politica all’eterno istante di uno show in tv o al pettegolezzo dei social network, perché non spedire al cimitero anche l’usurato sistema della produzione di beni con il suo corredo di riti, dagli scioperi alle intese sindacali, dai licenziamenti alle assunzioni? Di ripartizioni gerarchiche: in alto i padroni, in basso gli operai, in mezzo i colletti bianchi, fuori la gleba dei disoccupati? Non è forse questo il messaggio di sistema all’estrema unzione che ci trasmette la scena dell’Italia in crisi con tutte quelle fabbriche che stanno chiudendo, continuano a chiudere? Con tutti quei giovani a spasso? Ma è qui che entra in gioco la nostra miopia di spettatori che assistono e si rassegnano a prendere per buoni due vecchi numeri da illusionisti: quello della donna segata in due e quello dell’elefante che scompare dalla cassa in cui era stato chiuso. Il trucco non è altro che un trasloco: la fanciulla si salva raggomitolando le gambe in una cavità nascosta, l’animale svanisce inghiottito in una botola. Chiusa in un paese la fabbrica riapre in un altro, dove i salari sono

più bassi, il sindacato imbavagliato, evadere o pagar meno tasse più facile. Oppure si frantuma in uno spolverio di lavorazioni a domicilio. È la favola del mondo globalizzato, bellezza, la parabola della polvere che non viene spazzata via ma nascosta sotto il tappeto. Fatevi un giro fuori dalle rotte turistiche in Albania, nei Balcani, in Romania, spicchi di vecchia Europa. O in Oriente. Nella Cina ad esempio che è sempre più vicina. Muoversi nello spazio come un viaggio a ritroso nel tempo. Vedrete rianimarsi come zombie quelli che qui nelle città dell’Occidente avanzato siamo ormai abituati a classificare e riciclare come relitti d’archeologia industriale: le fabbriche come casermoni cupi e inospitali cintati da muraglie e filo spinato, enormi camini che lanciano in aria fumi maleodoranti, catene di montaggio e altiforni che sembrano macchinari d’inferno, e operai che varcano notte e giorno intristiti i cancelli, lavorano senza sosta come automi. L’oppressione del lavoro, lo spettacolo dello sfruttamento e della fatica, resuscitati da un romanzo di Dickens. No, la civiltà industriale non è morta, ha solo traslocato nel vortice di una curiosa regressione prefordista. Il ciclo di gestazione delle merci che continuano ad invadere negozi e supermarket si mantiene vivo così. Un trucco scontato da illusionisti che funziona assecondato da un secondo trucco meno visibile: per celar meglio l’inganno al pubblico è stato assegnato in platea un posto più lontano dalla ribalta. E dalla evidente complicità - altro segno d’invecchiamento - di chi assiste: lo spettatore che chiudendo gli occhi o rifiutando di aprirli diventa compare, spalla truffaldina come nel gioco delle tre carte. In realtà a nostra scusante, un cambiamento, almeno in Occidente, in quel modello di industrializzazione in cui ci era apparso più agevole assegnare le parti come in un western, è avvenuto. È la scomparsa di scena di due primattori, che l’enfasi delle ideologie aveva a volte trasformato in caricature. Il primo è l’uomo massa, quell’esercito di anonimi lavoratori in marcia, tute, inni e bandiere rosse, a rivendicare diritti e poteri, che per vie diverse l’enfasi del realismo socialista e la propaganda anticomunista della guerra fredda hanno finito per impietrire in una folla ottusa di golem. L’unione non fa più la forza, se non in piccole schermaglie di periferia: l’uomo massa si è frantumato, convertito in consumatore poi è regredito a uomo qualunque. Il secondo attore è il capitale. L’etica e le convenienze del libero

«A

“A senso unico” Orizzonti e attese di un futuro diverso nelle prospettive di una giovane liceale di

RITA BALDI*

2 geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

bbiamo più punti interrogativi che punti di riferimento [...], prigionieri del presente in un paese senza futuro» (Fedez, Generazione boh). Se l’opinione della popolazione italiana fosse la stessa del giovane rapper Fedez l’Italia sarebbe un paese di giovani senza speranza, sconfortati da una società che li accusa di superficialità, e con valigie piene di sogni. Se ci si fosse davvero interessati a capire cosa c’è al di là di un ragazzo che, spesso, poggia i suoi sogni su basi effimere e prive di reale valore, probabilmente si tirerebbero le somme di una complicata giovinezza, incentrata su sogni sormontati dalla speranza di riuscire a vivere del proprio lavoro. Si parla di sogni, speranze, ma, spesso, le due cose non coincidono, e sono rispettivamente sinonimi dell’ambizione di molti e dalla mancanza di mezzi per soddisfarla. Il lettore si chiederà quale sia la reale differenza tra sogno e speranza, ed è difficile per chiunque individuare il sottile filo che li collega. Il sogno si concretizza in rari casi, ed è espressione della fervida immaginazione di ogni uomo, la speranza è relativa ad un fine attuabile sul piano concreto della vita umana, quindi è più vicina alla realizzazione de propri obiettivi. Certo, è che i giovani sognano in grande, ma sono sogni a senso unico, perché non sono equiparabili alla speranza di una vita

mercato su scala globale lo hanno smaterializzato, reso entità mercuriale, più sfuggente e potente come un supereroe da fumetto. La fabbrica, l’impresa non è più il suo punto d’arrivo, al massimo un punto di partenza. Se il profitto è ancora la sua ragione sociale, per massimizzarlo ha cambiato regno. Ora il suo territorio è la borsa e l’alta finanza. Non scommette più su se stesso, come i capitalisti old style, ma sugli altri. Non immobilizza ma sposta danaro. Tra i protagonisti dell’era postmoderna è l’unico che abbia capito come mettere a reddito le diversità che sono diventate orizzonte e futuro del mondo di oggi. Un differenziale matematico da mettere a frutto. Debiti sovrani, squilibri politici e monetari, catastrofi naturali o raccolti, crisi energetiche, persino guerre religiose e migrazioni come caselle di una roulette, che all’uopo da giocatore e croupier sa come indirizzare: vende o compra al momento giusto, ci punta su grosse somme e incassa il plusvalore. La liquidità, i soldi, non hanno odore, da qualunque parte provengono, basta che procurino altri soldi. Costruisce bolle, che possono esplodere e far danni peggio di un terremoto o un ciclone, travolgendo le vite degli altri. Come è avvenuto per quella immobiliare negli Usa che ha messo in ginocchio mezzo mondo, l’Italia ancora non ne è uscita fuori. Ma non paga mai o quasi mai dazio e può ricominciare a far danni da capo. La sua religione è il libero mercato. Senza se e senza ma. La spaccia come una ricetta ma è solo un veleno. Un presente da incubo che è riuscito ad imporci come futuro. Vera potenza sovranazionale governa per interposta persona anche le leve della politica, corrompendola se serve, il più delle volte convincendola di essere l’unica verità possibile di un pianeta senza verità. La sua menzogna più ignobile? È l’aver condannato a morte la morte. Vincerla è impossibile, non ci ha neanche provato, ma l’ha allontanata dalla nostra realtà quotidiana, ne ha rimosso lo scandalo, celebrandone come scabrosi incidenti di percorso le sue apparizioni ne ha fatto una presenza indigesta. E noi vecchi sempre più vecchi abbiamo abboccato all’amo. Privandoci dell’unico motore di senso che la nostra specie abbia saputo trovare per farci vivere meglio qui e ora, e immaginare non nell’aldilà il nostro futuro.

dignitosa, e sono destinati a rimanere tali, imprigionati nelle menti di giovani ragazzi senza punti di riferimento e, spesso, senza voglia di averne. Mente è impossibile definire un sogno comune a tutti i giovani, le speranze sono molto simili tra loro. Nella maggior parte dei casi, tutti i giovani sperano di trovare un lavoro e di vivere di esso, pur umile che sia. La speranza di trovare un’occupazione, si concretizza nelle start-up, nuove aziende informatiche in via di sviluppo in Italia, oppure in numerosi settori dell’ingegneria, per citare alcuni dei maggiori settori in cui c’è richiesta di giovani lavoratori. Eclatante, è il caso dei giovani fondatori della pugliese “Blackshape”, che hanno concretizzato la loro speranza di avere un lavoro, con la sola forza dell’ingegno e dell’impegno. La loro azienda di mezzi aerospaziali esporta prodotti in Russia ed Emirati Arabi, ed è un esempio lampante di quanto i giovani sperino ancora e rischino, anche se il mondo del lavoro di oggi richiede specializzazioni spesso selettive e limitate ad un solo settore di studi specifici. Enorme, è il problema dei giovani che non riescono a far conciliare sogni e speranze, perché si troveranno costretti in un universo lavorativo che non appartiene alle loro attitudini, e, al giorno d’oggi, la mas-

Le illustrazioni di pagina 2, 3 e 4 sono dell’artista UGO CORDASCO

sima che “si diventa famosi solo dopo la morte” come era accaduto all’artista Vincent Van Gogh, non è considerata tra le opzioni di vita. Dunque, sono numerosissimi i ragazzi che rinunciano ai propri sogni per sperare in un futuro concreto, sicuro, o, magari, per compiacere le proprie famiglie. Anche il nucleo familiare, potrebbe rivelarsi la più grande gabbia dorata in cui i giovani potrebbero essere rinchiusi , perché, spesso, i genitori fanno ricadere i propri sogni di gioventù sui figli, che si trovano a dover sostenere il volere della propria famiglia, a discapito di un grande sogno, destinato ad essere accantonato e svalorizzato dalla speranza di compiacere i propri familiari. Se sognare in grande è una prerogativa di noi giovani, sperare nel futuro lo è ancor di più. Se venisse a mancare questa speranza, e giovani si crogiolassero nei sogni di gloria, la loro personalità subirebbe un enorme calo di autostima. Ma, in un possibile futuro, saremo noi giovani a non sperare più e a “sigillarci” nei nostri sogni, o la società a deluderci e chiudere i sogni, senza darci sbocchi completi per realizzarli? * studentessa del Liceo Scientifico “A. Genoino” Cava de’ Tirreni

L’

economia e la società austriaca sono drasticamente cambiate negli ultimi cinque decenni. Da paese diviso dalla guerra civile e devastato nella seconda guerra mondiale, con i poveri generati dallo sviluppo industriale, l’Austria è diventata una fiorente nazione postindustriale. Per quanto riguarda la performance economica, gli standard sociali e la qualità della vita l’Austria è oggi uno degli stati leader in Europa. Proprio le fasi del passaggio dalla Repubblica alpina allo stato sociale post-industriale moderno sono oggetto del mio recente libro Von der konkreten Utopie zur Höllenfahrtpolka [Dall’utopia concreta alla polka della discesa agli inferi], nel quale ho raccolto articoli e saggi apparsi a partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso ad oggi. Essi riflettono quali temi e problemi sono stati rilevanti nella società austriaca, ma indicano anche le possibilità di sviluppo nel senso di una politica sociale democratica attiva, possibilità che hanno svolto un ruolo determinante nella società austriaca fin dagli anni Settanta. Il movimento studentesco di critica globale del 1968, con le sue utopie concrete e le richieste di una società non autoritaria, democratica e giusta, ha avuto un’influenza decisiva sulla mia consapevolezza. Così come il progetto di riforma detto la “via austriaca”, un capolavoro di trasformazione sociale riformista durante il governo del socialdemocratico Bruno Kreisky (1970-1983), avente l’obiettivo di una buona società nella quale tutti sono occupati, hanno la possibilità di vivere bene, in tutta sicurezza e con un alto grado di uguaglianza di opportunità per la realizzazione dei propri sogni di vita. In questo contesto, è comprensibile che una parte sostanziale del libro si concentri nell’esame delle forze sociali distruttive della controriforma liberal-conservatrice attuale, che è la principale responsabile della “discesa agli inferi” del mercato finanziario e della crisi bancaria, della nuova disoccupazione di massa, delle guerre, dei flussi migratori e della miseria dei rifugiati. Una economia incontrollata minaccia la democrazia La minaccia alla democrazia da parte di processi economici incontrollati e le loro conseguenze – le crisi sociali e politiche – costituisce la mia più grande preoccupazione quando si guarda la situazione globale attuale. Sappiamo peraltro a sufficienza dalle esperienze storiche del XX secolo che le crisi economiche portano con sé crisi politiche le quali spesso finiscono in catastrofi. Ma no-

ERICH FRÖSCHL*

nostante una vasta cultura storica commemorativa, che cerca di mantenere vive nella memoria queste catastrofi e le loro cause – la Prima guerra mondiale, il crollo del mercato azionario e la crisi bancaria della fine degli anni Venti, il fascismo e la Seconda guerra mondiale, lo stalinismo – non ho avuto l’impressione che si sia appreso a sufficienza dalla storia. Il predominio ideologico delle politiche fondamentaliste del mercato negli ultimi tre decenni ha condotto ancora una volta, come già nelle fasi precedenti della storia, ad una grave riduzione delle possibilità di controllo della politica sull'economia, ma anche ad una delegittimazione e ad un discredito della politica come elemento democratico di controllo formale della società. Gli studiosi contemporanei di scienze sociali come David Held, Colin Crouch, Jürgen Habermas, Ulrich Beck, per esempio, hanno avuto molto da dire a questo proposito, ed hanno anche posto sul tavolo della discussione proposte concrete per ridisegnare la governance democratica in Europa e in un mondo globalizzato. Il cosiddetto “vincolo dei mercati” sostenuto dal mondo economico e dai suoi portatori di interesse (stakeholder) – un modo di dire retorico che a ciascuno di noi capita di ascoltare quotidianamente – detta le regole. Detto in altri termini, come ha apertamente dichiarato un miliardario e politico della destra populista austriaco: “Chi possiede l’oro determina le regole”. Attualmente la politica è gradita soltanto a partire da questa prospettiva dell’interesse economico, quando è necessario “liberare” dalle limitazioni il profitto, o quando l’anarchia del mercato ha condotto al massimo incidente ipotizzabile nel corso di una crisi finanziaria e bancaria – come è accaduto a partire dal 2008 – e proprio attraverso la politica deve essere evitato il tracollo del sistema economico con ingenti somme di denaro tratto dalle entrate fiscali.

e internazionale di individui ricchi e una nobile “nuova classe” manageriale che si preoccupa poco di legittimità democratica e che inoltre ottiene introiti finanziari mai visti prima, decide come la grande massa della popolazione deve vivere. Al contrario, è di aiuto soltanto l’efficace organizzazione di sufficienti forze democratiche antagoniste – partiti progressisti, sindacati, organizzazioni non governative (ONG), “Union of Concerned Scientists” (UCS), cittadini attivi organizzati, operatori dei media critici – che si oppongono a questa involuzione non desiderabile ed hanno la possibilità di suscitare un ampio dibattito pubblico. Esse portano alla luce i problemi del nostro tempo nel loro contenuto critico e nella loro aspra retorica ed hanno l’impegno, la passione e la perseveranza, ma anche il potere istituzionale necessario per reindirizzare le nostre società. Strettamente collegato a ciò è lo sviluppo e la promozione dei valori necessari e dei concetti contenutisticamente alternativi per la soluzione dei problemi attuali.

Spinta democratica o nuovo potere autoritario Credo dunque che in questa situazione vi sia un urgente bisogno di una nuova, più profonda, “spinta democratica” per superare i dettami dei “mercati”, per recuperare di nuovo la capacità di agire sull’economia da parte di una politica democraticamente legittimata. In mancanza di ciò, ci stiamo muovendo verso nuove forme di governo autoritario, in cui, sotto la maschera della democrazia formale, mediante l’informazione-spettacolo (l’Infotainment) e la messa in scena di pseudo-eventi, una piccola minoranza nazionale

Traduzione dal tedesco di Angelo Maria Vitale

Un altro mondo è possibile Dalle utopie concrete degli anni Sessanta di un mondo più giusto e pacifico e di una buona vita per tutte le persone, oggi siamo – dopo le battute d’arresto della controriforma liberal-conservatrice – più lontani che mai. Proprio per questo mi sembra ancora più importante richiamare alla memoria queste utopie concrete. Il pensiero secondo cui un altro mondo è possibile va mantenuto vivo come prerequisito per portare il progetto di una economia e di una società alternative critiche del capitalismo nel più ampio discorso accademico e politico, e per sviluppare la forza politica necessaria per superare in modo sostenibile la monodimensionalità del dogmatismo del mercato e le sue fatali conseguenze sociali.

*Erich Fröschl, studioso di Scienza della politica, è stato, dopo molti anni di lavoro giornalistico e politico, direttore del Karl Renner Institut di Vienna dal 1980 al 1999 e direttore della Scuola di Relazioni Internazionali dell'Istituto dal 1999 al 2009. Per venti anni ha insegnato come docente di Scienze politiche presso l’Università di Vienna. Il suo ultimo libro è Von der konkreten Utopie zur Höllenfahrtpolka. Überlegungen zum politischen und wissenschaftlichen Diskurs aus vier Jahrzehnten, Edition Ausblick, Vienna 2014.

Una pioggia molto forte sta per cadere di

FRANCO MATTEO

a ancora senso parlare di cultura industriale e in che forme? E cosa H rappresenta il concetto di produzione nelle dinamiche della società informatizzata, cibernetizzata del nostro tempo? Dal tempo in cui il sapere tecnicoscientifico è entrato massicciamente negli ingranaggi della macchina produttiva e non solo in Occidente (basti pensare al ruolo del Giappone negli anni Sessanta e Settanta), è di uso comune la parola “postindustriale”, per descrivere il modo di produrre nei paesi economicamente più avanzati, vale a dire con un alto tasso di tecnologia. Fino ad arrivare ai nostri giorni, in cui la ricerca applicata alla produzione di merci e servizi è diventata la fonte di quel valore aggiunto che dovrebbe contraddistinguere il modo di produrre dei paesi più sviluppati, rispetto a quelli che, nel riparto dei compiti del mondo globalizzato, si occupano di manifatturiero, sono in altre parole la fucina del mondo. O la fabbrica in senso più o meno tradizionale, se preferite. Certo è che lo sviluppo delle

Lo sviluppo delle tecnologie, più che le ideologie e le utopie più o meno “scientifiche”, hanno cambiato e stanno cambiando il volto del mondo tecnologie, più che le ideologie e le utopie più o meno “scientifiche”, hanno cambiato il volto del mondo soprattutto nel periodo che va dall’ultima guerra mondiale ai nostri anni. E soprattutto l’ultimo periodo ha introdotto prepotentemente le merci immateriali come elemento forte della produzione in tutto il mondo. Basta guardare a quanti utenti aveva internet venti anni fa e quanti ne ha oggi. E la rete, oltre a elemento produttivo diretto, sta vincendo anche la battaglia per diventare cervello della produzione e della distribuzione delle merci intese nel senso materiale e tradizionale della parola. Basti pensare ai sistemi computerizzati nelle fabbriche, alla robotizzazione delle catene di montaggio. Per non parlare dei colossi della distribuzione come Amazon o Ali Baba. Ma ciò che è più importante è la funzione di organizzazione dei consumi cui la rete oggi assolve raccogliendo una quantità enorme di dati

dagli oltre due miliardi di utenti sparsi nel mondo. E cosa sono i social network se non un enorme contenitore di individui di cui è facile comprendere gusti e opinioni attraverso i loro “post” o il loro “tweet”? A cosa somiglia allora questo nuovo mondo caratterizzato da una fabbrica diffusa e capillare di merci materiali e immateriali e da una rete globale di consumatori, ognuno dei quali inquadrato nel suo algoritmo e programmato persino nei suoi gusti musicali e nei suoi orientamenti politici? Pare proprio il mondo burroughsiano “comandato” da sistemi di controllo autoregolati, l’evoluzione naturale della “clinica” di Foucault e dei suoi “sorvegliati e puniti”. Ma c’è un altro destino possibile per il mondo transindustriale, un altro “valore d’uso” fuori dalla verticalità dei sistemi di controllo. Naturalmente tutto appartiene ancora al mondo delle possibilità. E tuttavia ci credono, per esempio, i fautori dell’Accelera-

zionismo”, in primis Alex Williams e Nick Srnicek, autori del manifesto del movimento in cui, tra le altre cose, in modo significativo si dice: «…una politica accelerazionista cerca di preservare le conquiste del tardo capitalismo, e allo stesso tempo di andare oltre ciò che il suo sistema di valore, le sue strutture di governance e le sue patologie di massa permettano». Ma è una parte sostanziosa della sinistra o di quello che originariamente si definiva come tale, a cominciare per esempio dallo stesso Habermas, a non credere che la soluzione possa essere il tornare indietro verso un’idea tradizionale di spazi territoriali, politiche territoriali e mercati in qualche modo protetti da norme e monete nazionali. La sfida aperta e ancora per molti versi irrisolta è quali contenuti veicolare e soprattutto su quali linguaggi far viaggiare un mondo nuovo che guarda con fiducia al sapere tecnico-scientifico ma che aspira alla libertà, alla co-

struzione orizzontale di un reticolo di relazioni sociali ed economiche contro le piramidi del potere della società del controllo. La sfida non è affatto nuova: è l’eterno conflitto tra l’idea dell’uomo liberato e quella dell’uomo schiavo o padrone, dell’ “homo homini lupus” come lo concepiva Tommaso Hobbes. E, ancora una volta, probabilmente il dilemma resterà irrisolto o, se preferite, risolto solo sul piano ideologico dall’uno o dall’altro punto di vista e dalla rispettiva letteratura. Ciò che è sicuro è che, per dirla con Bob Dylan, «una pioggia molto forte sta per cadere» e il mondo post-trans industriale si prepara ad altre velocissime mutazioni.

geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

3


carte sul tavolo

teatro contemporaneo

Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere superato. (A. Einstein )

Tutte le arti contribuiscono allʼarte più grande di tutte: quella di vivere (B. Brecht)

Illazioni e aporie della società postindustriale

Asimmetrie

del contemporaneo Processi di modernizzazione nella società laica e secolarizzata dei consumi

Qual è il mostro che ha divorato le nostre speranze, che ha preso il sopravvento mettendo in ombra e in crisi i desiderati lumi della nascente “era della medialità”? di

GABRIELE PERRETTA*

di

È

difficile sottovalutare il rilievo dei cambiamenti che stanno investendo le società globali in questi anni di crisi e le difficoltà che derivano alla classe lavoratrice (materiale o immateriale che sia) dal doversi misurare con un orizzonte sociale in così profondo (oltre che rapido) mutamento. Un primo fattore importante di sconvolgimento degli assetti precedenti è sicuramente individuabile nella crisi del modello politico dello stato sociale. Un secondo fattore importante di cambiamento attiene invece all’area più propriamente economica e sociale. Precarizzazione e smembramento dell’economia, mutamenti radicali nell’organizzazione e nella terziarizzazione aziendale, crisi totale dei modelli lavorativi e di consumo costituiscono altrettanti elementi che per i loro effetti sulla composizione sociale sfidano in profondità la tradizionale cultura industrialista o postindustrialista. All’origine di una buona parte di questi cambiamenti vi è una nuova ondata di “mobilità” tecnica e soprattutto mediale che, seppure in una fase di continua crescita, assestamento e coscrizione, sembra tale da superare per dimensioni, insistenza, capacità di invertire valori e prospettive di impatto tutte quelle che l’hanno precedute. Media e informatica, database e webizzazione, ricerche sui nuovi materiali artificiali, biogenetica, nanotecnologie, sembrano in grado non solo di modificare il panorama delle possibilità produttive della “nozione stessa di post” (industriale, moderno etc…) ma di far fare un salto di qualità concettuale alla stessa percezione di produzione sociale a mezzo di medialità. Più che manipolare materia, secondo l’antica accezione dell’homo faber, il lavoratore di inizio millennio manipolerà sempre di più medialità, affidando a sistemi di “tecno-transizione” da un lato e a servitori biogenetici o chimici dall’altro il compito di materializzare le sue disposizioni simboliche. Nel 2050 il satellite Gaia avrà 9 miliardi di abitanti (e poi declinerà?). Si comprenderanno (forse) 2 miliardi di ricchi, da 2 a 3 miliardi di persone che cercano di diventarlo e da 4 a 5 milioni di individui che rimarranno indigenti. Il che significa che il Mondo del 2050 vedrà aumentare le complicazioni del mondo attuale ... Il Mondo sarà multipolare e ovviamente instabile: i rischi potranno essere evitati solo creando “un ordine multilaterale”, dotato di legittime istituzioni che sappiano disarmare i conflitti che l'evoluzione tecno-capitalistica prepara. Non pare però che ci si stia incamminando su questa strada. La conoscenza positiva è nel nuovo scenario comunicativo “vivo”, la sconcertante bellezza di ciò che ci mostrano i telescopi o le microfotografie delle “strutture viventi”. Quella che ci manca è una visione di insieme, una filosofia nutrita di scambi “interdisciplinari”, insomma un nuovo Epicuro o un nuovo Lucrezio che ci sappia spiegare qual è, alla luce delle competenze e delle esperienze di oggi, “la natura delle cose” (experience designers). Abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo neocritico e neo-mediale. Non è così difficile come può sembrare. Ma occorre che ognuno di noi, nelle grandi imprese come nelle cose piccole di ogni giorno, sappia guardare oltre i limiti delle sue prospettive abituali. Qual è il mostro che ha divorato le nostre speranze, che ha preso il sopravvento mettendo in ombra e in crisi i desiderati lumi della nascente “era della medialità”? Sono tanti, di cui alcuni noti e prevedibili, altri che si nascondevano in oscure, ma estese, tenebre culturali di cui avevamo sottovalutato la presenza. Tutti capiscono che c’è un problema di domanda, quindi di salari e di distribuzione della ricchezza. Le ineguaglianze sono cresciute mostruosamente, prova ne è – anche dal punto di vista mediatico, ma non solo – il successo delle illusioni offerte da programmi fascisti come X Factor e roba affine. Tuttavia, se da una parte si vede questa carenza di domanda, dall’altra ci sono dei problemi che rendono terribilmente difficile immaginare (al di là delle forme trite e ritrite dell’ormai vecchio keynesismo, del rilancio delle spese infrastrutturali, degli investimenti sulla “conoscenza per tutti” e degli investimenti pubblici delle forme del lavoro e della comunicazione) come si possa effettivamente rilanciare la domanda interna. Ripeto, altro che ridefinizione del post-industriale, qui il capitale sta subendo un suo castigo storico. Il capitale, mascherato di “liberalismo post”, ha distrutto la classe operaia fordista, questa è l’unica regia che gli è riuscita, adesso l’opera è compiuta e rischia di andare oltre l’idea di “miracolo”. Oggi tutti noi lavoriamo gratuitamente per il solo fatto di connetterci in rete e tutti insieme produciamo la materia prima di un processo di valorizzazione che si basa sulla manipolazione dell’informazione, incarnato da imprese come Amazon, Google e Facebook. Le tecnologie digitali trasmettono cultura, visioni del mondo, decidono per noi che cosa possiamo o non possiamo fare, informano di sé la nostra coscienza, non tanto perché, ci vogliono curare la salute e la comprensione, ma perché sono molto più invasive dei vecchi media, sminuzzano le percezioni, personalizzano nella maniera più autoriale possibile, pro-

4 geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

ducono atomi sociali privi di identità collettiva. Ma allora perché parlare ancora di classe, magari di classe tecnocapitalistica? Perché la classe non è questione di pura consapevolezza e cognizione, è vera e propria “esistenza”collettiva, è “condizione di cittadinanza” che attraversa le origini, le creazioni e le riproduzioni. Il principale difetto di molti studi condotti di recente sulle classi sociali è stata la mancanza di senso storico. Come gli economisti di cui Marx diceva che credevano che la storia fosse finita perché il feudalesimo era scomparso, e che quindi non ci fosse più storia perché il capitalismo era un ordine sociale naturale ed eterno, alcuni sociologi hanno accettato l’idea che c’è stato si uno sviluppo storico di classi e di conflitti sociali, ma che tale sviluppo è cessato nelle società post-industriali che han completato la loro evoluzione e nelle quali la società post-fordista s’è liberata della povertà e ha raggiunto la cittadinanza digitale. La giustapposizione di controllo umano e controllo digitale nel mondo del lavoro organizzato dagli InfoMediatech … segnala però una contraddizione interna al processo di spersonalizzazione del comando che l’evoluzione del sistema capitalistico ambisce a portare con sé. Mentre pretende di fare affidamento su un’intelligenza artificiale generale, il capitalismo post-industriale si basa in realtà su algoritmi «antropici», elaborati da specialisti nelle Information Technologies (IT) che conoscono bene il materialismo volgare dei propri clienti e che vengono in seguito perfezionati dagli stessi management aziendali a seconda delle proprie occorrenze. Questa realtà, purtroppo, non fu prevista né dalla profezia di Daniel Bell, né da quella di Alain Touraine (del ’69)! Nonostante la loro matematica equidistanza, che spesso coincide con il neutralismo della sociologia del capitalismo maturo, gli algoritmi si rivelano in realtà delle merci particolari – e a gradevole valore – perché, «piene di sottigliezze metafisiche», ambiscono a obliterare il carattere sociale del rapporto di capitale spacciandolo per un’ovvia espressione simbolica e aritmetica. In un modello diverso, gli algoritmi mirano a essere inoppugnabili norme logiche del sociale, che si sottraggono a ogni confronto che non sia condotto secondo il loro astruso linguaggio. Essi sono le armi più raffinate dell’InfoMediaTechIntellect (cyber-capital), che trasforma tecnici, artigiani e operai in carne e ossa nella loro rappresentazione elettronica. Se di fronte alla vecchia macchina utensile il lavoro umano finiva per svolgere un’attività di mediazione tra l’oggetto e la macchina stessa, ne costituiva cioè il braccio animato, i software workers esprimono una precettistica pubblica che ingloba al suo interno tutti i motivi e le cause del ciclo produttivo, lavoro compreso. La scienza digitale del capitale non stabilisce più un’antitesi con il lavoro, non si presenta più come una potenza estranea ad esso, perché le architetture del cyber capital e del corporate panopticon puntano a fagocitare il lavoro stesso, indirizzato a farsi “artifex costitutivo” dell’algoritmo del “profitto che lo governa”. Siamo in una società mediale che per scelte egoico-finanziarie è malata di oppressione e sofferenza, di dolore, di incapacità di re-immaginare qualche futuro comunicativo e esistenziale anche a breve termine. In una situazione del genere si pone sicuramente il problema di pensare ad un agire comunicativo anche in termini ex-str-artistici. Penso che non si possa immaginare una pluralità di interventi in questa “territorialità” senza attivare una serie di fronti come la cura del quartiere e delle micromedialità, dello spazio infinitamente piccolo e infinitamente grande, della salute, degli affetti; quello che abbiamo chiamato il “mediale o il medialismo va dunque soggettivizzato e fortemente concretizzato. La profezia del presente – si è visto – è sempre critica della comprensione, non c’è umanità senza medialità. Il desiderio di imparare,

cercare, esplorare, scoprire è la caratteristica più interessante della nostra specie. Se perdessimo quella qualità non avremmo più il diritto di chiamarci “antropici” e “solidali”. Si è detto: nuova rivoluzione dell’agire comunicativo e dell’etica della comunicazione; e la ragione di questo modo di esprimerci va cercata nel fatto che veramente si sta assistendo ad una mutazione scientifica e tecnica totalmente diversa da quella che condiziona la teoria deterministica del post-industrialismo tecnotronico fine a se stesso, una teoria che non si spiega indipendentemente dalla circostanza che Marx è, come vuole Kostas Axelos, un “pensatore della tecnica”. Che differenza passi tra la vecchia e la nuova rivoluzione scientifica e tecnica conviene dirlo ancora con il “medialismo”, il quale trova che alla base della prima c’è il principio meccanico e alla base della seconda il principio algoritmico e, più precisamente che Marx (riflettendo su Babbage e Andrew Ure,1935) elaborò il suo modello al tempo della prima rivoluzione industriale, quella della macchina a vapore e della meccanica, mentre noi dobbiamo elaborarlo al tempo della “neo-mutazione tecnica”: quella della possibilità di una nuova condizione del lavoro e della conoscenza comunicativa. Se per gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta il cuore problematico della società dell’informazione erano i mass-media, e negli anni successivi il mondo era costituito dalla veloce affermazione del trattamento attivo delle informazioni (l’informatica, la telematica, la robotica e la burotica), dopo si è distribuita una diffusione senza precedenti, a testimonianza di un cambiamento del loro uso sociale che non è solo mediale-quantitativo ma anche mediale-qualitativo e finanziario. Attraverso la capillarizzazione della medialità globale, accompagnata da una scienza della degradazione del lavoro, la finanziarizzazione informatica sta conquistando il centro della scena produttiva e sociale, smantellando sia le certezze del prima che le impossibili equazioni matematiche del dopo. Lo stesso uso sociale delle ricerche micro o biogenetiche e chimico-fisiche sui materiali e sul valore della vita come forza-lavoro e creatività è profondamente influenzato dal cambiamento di paradigma mediale, indotto dalla diffusione dell’information technology. Una chiusura pregiudiziale sulle definizioni di pre e di post, di moderno e di trans-moderno, impedirebbe infatti di cogliere le indubbie opportunità che “le medialità” hanno messo in crisi ed hanno stimolato e relegherebbe la cultura critica, della stessa tradizione moderna, su una improbabile e indifendibile posizione anarco-liberale. * Università di Parigi IV

PASQUALE DE CRISTOFANO

I

veloci processi di modernizzazione hanno prodotto negli ultimi decenni nel nostro stanco Occidente cambiamenti epocali difficilmente immaginabili dai nostri predecessori. Affianco a tali cambiamenti sono esplose anche complesse aporie lontane dal poter essere risolte ricorrendo alla tradizionale “dialettica” e difficilmente risolvibili almeno nell’immediato da un pensiero sempre più “debole”. L’Europa continentale, cioè, pur concimata dalla cultura dell’Illuminismo e dall’ottimismo positivista, non poteva certo prevedere d’arrivare, grazie anche alla scienza, così velocemente ad un passo da una deriva il cui orizzonte, oggi, mette a tutti noi, ansie e ataviche paure. Si impone alle coscienze più sensibili, per cercare di capire il clima in cui siamo precipitati, di individuare almeno le cause che hanno prodotto tutto ciò. A tale riguardo, ritengo di poter affermare che le due cause che più di tutte hanno determinato e prodotto tali cambiamenti siano state, la “laicizzazione”, della nostra società, da una parte, e la “secolarizzazione”, dall’altra. Entrambe le cause, agendo profondamente sia in ambito sociale che culturale, hanno impresso quel carattere così tipico della nostra epoca. Un’epoca e una cultura che si sono via via organizzate ponendo alla loro base un convincimento nichilista e apocalittico del tipo: «Ciò che è fondamen- tale è che non si può fondare alcun fondamento». Infatti, è da intendersi qui per “laicizzazione”, tutti quei processi che hanno in questi anni teso a separare ed emancipare l’agire degli uomini da ogni influenza dettata da una religiosità percepita sempre più come una prospettiva pre-moderna e, gioco forza, superata; la “secolarizzazione”, invece, come tutto quel lavoro che ha cercato di sacralizzare realtà fino allora profane, contribuendo a sviluppare forme di religiosità secolari e immanenti. Se è vero questo, non si può che concludere che queste due culture che ci hanno così profondamente influenzato, parallele e non coincidenti, non possono che aver prodotto dentro ognuno di noi sconcerto, disillusione e angoscia per i nostri futuri destini. Culture che metonimicamente mettono in fila da una parte, giusnaturalismo, Kant, Kelsen; e dall’altra, Hobbes, Spinoza, Rousseau

Nel prossimo numero

geaArt non ha fini di lucro. La collaborazione è da ritenersi completamente a titolo gratuito, sotto qualsiasi aspetto, comprese le attività di Direzione e Redazione. Gli articoli e i lavori pubblicati riflettono esclusivamente il pensiero dei loro autori, che ne sono unici responsabili di fronte alla legge, e che possono di conseguenza non coincidere con la linea direzionale e editoriale del giornale. Attività editoriale di natura non commerciale ai sensi previsti dall’art. 4 del D.P.R. 26-10-1972 n. 633 e successive modifiche.

Direttore responsabile Massimo Bignardi Direttore editoriale Giuseppe Funicelli In redazione: Roberta Bignardi (danza) Gemma Criscuoli e Pasquale De Cristofaro (teatro) Giuseppe De Marco (orientalista) Giuseppe Di Muro (architettura) Elio Di Pace (cinema) Ada Patrizia Fiorillo (arte contemporanea) Luca Mansueto (arte moderna) Ciro Manzolillo (musica) Franco Matteo (attualità) Marcella Ferro, Maria Letizia Paiato Pasquale Ruocco (arte&istituzioni) Angelo Maria Vitale (filosofia/estetica e libri) Progetto grafico e impaginazione Antonio De Marco antonio.demarco1@gmail.com centomanidesign@gmail.com Pubblicità e stampa Stampa tip. Gutenberg Via Giovanni Paolo II, 38 84084 FISCIANO tip.gutenberg@tiscali.it Tiratura 2.000 copie Registrata presso il Tribunale di Salerno n. 6/2012 del 17.05.2012 ISNN 2420-7934

In copertina, Lingotto (ph@ tauros, 2013)

esempio, in tal senso, può essere l’operatività di Grotowski che nella comunista e cattolicissima Polonia sperimenta un teatro che vuole porsi come risposta alle difficili aporie del contemporaneo così inteso. In parte erede della tradizione stanislavskijana, porrà subito tutto il suo interesse sull’attore, le sue pratiche e le sue tecniche, per sfuggire ai facili automatismi del mestiere e raggiungere un’organicità artificiale frutto di un faticosissimo montaggio; fa questo, usando spessissimo il testo come semplice pretesto, un trampolino per poter laicamente sfuggire alla sua sacralità e permettere ai suoi collaboratori-interpreti di poter più facilmente viaggiare dentro se stessi. Non a caso, infatti, svilupperà nel tempo un interesse sempre maggiore per il lavoro dell’attore su se stesso; più che cercare convincenti relazioni coi personaggi, tende a farlo uscire sempre più radicalmente dalla prigione del sistema rappresentativo imponendogli un radicale cambio di prospettiva. Ma che le aporie siano irrisolvibili, nel suo caso sarà più che evidente quando il teatro diventerà, per lui, pian piano sempre più un’arte come veicolo, una strada maestra per poter tentare di riposizionare la propria bussola e cercare di trovare e dare un senso alla propria esistenza. Abbandonerà presto il teatro degli spettacoli dopo aver raggiunto una fama mondiale. Quando i suoi pochi spettacoli, eccentrici e visionari, finalmente possono lasciare le piccole e fredde sale polacche e andare di successo in successo nei più prestigiosi e ricchi teatri occidentali seguiti da un enorme e meritato clamore pubblicitario, ecco che il loro creatore e artefice decide di lasciare per sempre le scene, il successo la mondanità. Da allora in poi si dedicherà con alcuni suoi più stretti collaboratori a una delle ricerche più controverse, misteriose di questi ultimi anni che vedranno il teatro cambiare radicalmente i suoi principi costitutivi. Nel suo più profondo convincimento, l’uomo non può esaurirsi nella sua dimensione temporale; quando cala il sipario, c’è un oltre che lo attende e lo accoglie. Il suo sarà il viaggio degli inquieti, un ritorno alla casa del padre da parte di “un figliol prodigo” che ha provato dapprima il piacere grande di perdersi nel labirinto dell’esistenza. Che farà tutto questo a Pontedera, in Italia, sarà per noi un motivo di grande onore.

L

Periodico di cultura, arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative Gutenberg Edizioni Via Giovanni Paolo II, 38 84084 FISCIANO (SA)

Il cibo come cultura e come necessità di un “nuovo umanesimo”, tema dell’EXPO2015. GeaArt propone una riflessione che s’interroga sulle molteplici sfaccettature di una nuova cultura del cibo, rivolta all’uomo globale, ai suoi bisogni, alle sue necessità sullo sfondo di una povertà che cresce a dismisura. Metropolis ci porta a Eindhoven: La controcopertina è dell’artista Paolo Bini

fino a giungere nel novecento ai principali teorici del totalitarismo, Lenin, Schmitt e Gentile. Tra l’indeterminatezza di un giusnaturalismo che si dà e non è dato e un neo-paganesimo oracolare-misterico che sacralizza realtà temporali, come vanno focalizzati gli scenari storici del novecento culturale e, più specificatamente, teatrale? Il novecento è stato da quest’ultimo punto di vista, un secolo di profonda rifondazione. Ha fortemente ripensato grammatiche, tecniche e poetiche, ha fatto della sperimentazione e della ricerca le sue costanti. Ha cercato, insomma, di reagire senza lasciarsi impaurire dalle sfide che una mutazione così profonda dei suoi tradizionali paradigmi, imponeva. La laicizzazione che aveva già nei secoli precedenti fatto nascere l’idea del recitare come mestiere, ora s’impone addirittura come fenomeno di industria alla ricerca costante di nuovi pubblici e nuove economie. Della serie, con la cultura si mangia e ciò non costituisce più alcuno scandalo. La de-sacralizzazione, poi, mai come nel caso del teatro è stata così benefica. Mi spiego. Ponendo decisamente l’accento sull’autonomia della scena e degli attori, essa ha messo definitivamente di lato la sacralità del testo scritto; Artaud, su questo aspetto è stato l’uomo di teatro forse più determinante, con lui la scena e l’attore sono stati definitivamente rimessi al centro del suo movimento gravitazionale. Diretta conseguenza di tutto ciò, sarà pure il definitivo superamento dell’idea che il teatro si esaurisse nell’illustrazione di un testo letterario e, al tempo stesso, la fine dell’egemonia della mimesi a vantaggio dell’astrazione e della ricerca formale. Alla sacralità e all’ordine imperturbabile dei testi si oppone il disordine organico della scena, l’energia pulsante del vissuto, la presentazione a scapito della rappresentazione, la bellezza artificiale dell’effimero performativo vissuto come sensuale perdita dell’aura. Il non finito, la scheggia, l’impuro, la mala grazia entrano di diritto nella sfera del nuovo modo di intendere la bellezza. Tutti i grandi maestri del teatro del novecento riposizioneranno la propria operatività su tali direttrici, provocando un terremoto dalle proporzioni fin lì inimmaginabili. Tutti, con il desiderio di riformulare nuove strategie, ipotesi, utopie per rendere tale sfida con la modernità definitiva e ricca di nuove prospettive. Un

Teatro dell’informazione Anni Ottanta e civiltà postindustriale: l’ipotesi di un’inversione di tendenza nello sviluppo dell’informazione di

TIZIANA DI MURO

a società post-industriale transita in “società dell’informazione”: termine «più descrittivo di ciò che avviene nei paesi maggiormente avanzati. Infatti la fondamentale caratteristica del ritmo vorticoso con cui procede l’innovazione dalla metà degli anni ottanta è quello di essere veicolato dalla diffusione e dalla possibilità di impiego delle informazioni. Il carattere pervasivo delle tecnologie informatiche ha cambiato sia il mondo della produzione che quello dei consumi dando luogo ad un nuovo mercato dell’informazione. Il carattere fondamentale del progresso scientifico-tecnologico non sta solo nell’aver accesso alle informazioni e nel consultarle, selezionarle ed estrarle, ma soprattutto nel saperle mettere in relazione tra loro ed elaborarle in maniera creativa per restituire un prodotto innovativo. Tutto ciò fa dell’informazione una merce pregiata, uno strumento di produzione, un miglioramento dei servizi, un oggetto di contesa politica ed economica capace di incidere pesantemente sullo sviluppo e sugli assetti socio-economici di ogni Paese. […] Informazione, formazione e comunicazione costituiscono oggi il “geroglifico della merce”, la moneta e nello stesso tempo il simbolo di una società sempre più intrecciata con i “bit informazionali” e sempre più mediata da un componente di natura digitale sia esso denaro, informazione finanziaria, economico-commerciale, culturale, mediatica o formativa» (da Wikipedia). Tutto è informazione. Tutto è comunicazione. Come il teatro, considerato una felice occa-

sione di pratica della comunicazione. «Il teatro, oltre ad essere espressione, è scuola di comunicazione. Nel teatro la comunicazione avviene olisticamente. Corpo, gestualità, posa, movimento, sentimenti, emozione e voce sono tutti considerati strumenti di supporto di un unico, grande processo comunicativo». (da Teatro - Comun-icare.it). Paolo Zenoni sottolinea la crisi mondiale che stiamo affrontando a livello societario per cui il tea-

tro «ne risente a caduta. Si tenga poi conto che nel secolo scorso ha dovuto affrontare ben due guerre mondiali. Quindi, che oggi occupa ancora il suo ruolo aristocratico nel panorama delle arti della comunicazione ci consola, pur se, come dice Attisani (1989, pg 295): nella società dello spettacolo diventa il mezzo di comunicazione meno spettacolare. Nella società dell’informazione il teatro è il mezzo meno informativo. Nella società dei consumi, il teatro è lo svago meno consumistico». Ma è ancora inteso come istituzione culturale-economica, è considerato strumento di intervento socio-politico e culturale nella società. È da qui che la società civile, il mondo della cultura e le tendenze in atto verso la società dell’informazione pongono i giovani a contatto con un contesto comunicativo complesso e connotato da una pluralità di linguaggi, anche nella vita quotidiana, come il teatro. Nell’era dell’informazione post industriale la valenza educativa dell’approccio al linguaggio teatrale è da considerare risposta a bisogni formativi che la scuola deve garantire come occasione di educazione ai linguaggi verbali e non verbali e alla creatività. «L’incontro con il mondo dell’educazione dipende dunque dalla realtà teatrale, che manifesta il suo interesse educativo ed elabora – oggi come nel passato – varie strategie educative, senza abbandonare le sue caratteristiche principali (in quanto azione che si colloca nella dimensione estetica, arte creativa e insieme imitativo-provocatoria nei confronti della realtà)».

geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

5


teatro contemporaneo

musica

La felicità é uno strano personaggio: la si riconosce soltanto dalla sua fotografia al negativo (G. Cesbron)

A me me piace ʻo blues e tuttʼ ʻe juorne aggia cantà (Pino Daniele)

Le aristocratiche memorie dei luoghi

LA TUA MUSICA SENZA CONFINI HA INCANTATO IL MONDO

La genesi della scrittura, la sindrome degli antenati le lingue di scena nell’intervista a Ruggero Cappuccio di

ATTILIO BONADIES

R

uggero Cappuccio mi riceve nella splendida casa settecentesca, a tre livelli, ereditata dall’omonimo nonno paterno e restaurata di recente. Siamo nella parte bassa di San Mango Cilento, un paesaggio incontaminato di collina che degrada nel fondovalle dove scorre l’Alento. In questi luoghi dove da sempre trascorre le sue estati, Ruggero Cappuccio ha inventato “Segreti d’autore” usando, in maniera magistrale, i palcoscenici naturali delle piazze dei piccoli borghi cilentani che fanno da corona al Monte Stella. Sulle pareti della stanza d’ingresso, del salotto e dello studio, campeggiano le locandine di prestigiosi teatri lirici con le opere da lui dirette, foto e ritratti dei suoi nonni ed antenati. Questa splendida dimora dista qualche decina di metri dal seicentesco Palazzo baronale Del Giudice dove lei ha trascorso un’infanzia di giochi. A poche centinaia di metri, a Valle Cilento, c’è Palazzo Coppola ed a pochi chilometri, a Serramezzana, Palazzo Materazzi da lei restaurato, il set più importante del film Il sorriso dell’ultima notte con Chiara Muti. Quale importanza hanno dunque per lei le memorie familiari, le dimore aristocratiche, i luoghi del Cilento dei suoi antenati? «I luoghi influenzano in maniera determinante gli scrittori perché sono serbatoi di memorie razionali ed irrazionali, perimetri dove si son svolte altre vite, attivate altre energie. Questo vale sia per Palazzo Del Giudice o Palazzo Materazzi o Palazzo Coppola, ma anche per Messina e Palermo dove i baroni Del Giudice, per parte di madre, erano presenti fin dal milletrecento. Anche i Cappuccio giunti nel Cilento a fine settecento, hanno avuto due transiti per la Sicilia e per la Calabria. Dunque, i luoghi sono importanti non solo come spazi significativi per bellezza, ma perché vi si accendono cariche vitali e, per la psicanalisi che guarda all’uomo come contenitore di memorie, come intelligenza predefinita, noi nasciamo con un programma che è fisiologico e psicologico. Infatti dagli antenati ereditiamo le malattie, il dna, le inclinazioni, ma anche manie, psicosi che non appartengono ancora alla persona, ma sono acquisite. Negli ultimi decenni si è fatta molta strada la psicanalisi transgenerazionale che tende ad approfondire la personalità del paziente non solo attraverso il portato della vita presente, ma anche di quella anteriore, dei suoi avi. Mi riferisco, nello specifico, agli studi di Anne Schutzenberger ed, in particolare, alla pubblicazione La sindrome degli antenati. Perciò noi siamo l’anello di una grande catena, consapevoli di essere solo di passaggio nei luoghi, di conseguenza non possediamo le case ma ne siamo posseduti e ne abbiamo a disposizione solo il transito, come ci ricorda Tomasi di Lampedusa il nostro compito è quello di individuarci nel profondo. La nostra vita deve essere una ricerca su chi siamo veramente oltre le zavorre predefinite ereditate dalle generazioni precedenti». Questi luoghi hanno generato alcune delle sue opere più significative: teatrali, cinematografiche, romanzi. Da chi e da che cosa, in particolare, lei è stato ispirato e favorito nella scrittura? «Anzitutto dal silenzio che è il compagno secolare di queste dimore e conferisce un carattere di atemporalità ai personaggi ed alle storie raccontate, sia commedie che romanzi. Poi perché questi palazzi sono di per sé luoghi della rappresentazione dove si sono mossi degli attori (i Del Giudice amavano le burle che rappresentavano frequentemente a palazzo) e dove i vari salotti, nell’ala destra della seicentesca dimora, ognuno di diverso colore, diventavano i set di una quotidiana messinscena. Questo avveniva anche nel Palazzo Del Giudice a Portici, dove sono cresciuto, che al piano terra era abitato da famiglie del popolo, i cui esilaranti litigi non avevano nulla da invidiare, in comicità, alle scene de La gatta cenerentola di De Simone». Ora questi luoghi, soprattutto Palazzo Materazzi e Coppola con relative piazze antistanti, sono diventati altro. «Certo, sono spazi aperti di comunione dove ho cercato di applicare il principio della pacificazione e della ricostruzione: qui le persone si incontrano, si riconoscono nel segno dell’arte e di una nuova etica per l’ambiente, trovano nuovi palcoscenici e nuovi spettacoli, vivono la riconciliazione coi luoghi dove ogni palingenesi è possibile. Segreti d’autore è soprattutto questo!». Il suo primo incontro con l’arte è avvenuto come attore? «Sì, a sette anni quando frequentavo la terza elementare a Salerno dove la mia famiglia ha soggiornato per due anni, prima del ritorno a Portici e poi a Napoli. Sul lungomare della città assistevo quotidianamente agli scalcinati spettacoli del teatro dei burattini dei

fratelli Ferraioli e restavo affascinato dal gioco della rappresentazione. Con la prodigiosa memoria di allora ne avevo imparato le battute e, avendo acquistato i burattini in gesso, ne ho riproposto più volte lo spettacolo a scuola, non solo per i miei compagni ma, su invito delle maestre, anche per quelli di altre classi, accovacciato dietro la cattedra coperta da un telo». Il teatro ha rappresentato, quindi, gran parte della sua esperienza artistica: attore, drammaturgo, regista? «È vero che il teatro mi ha impegnato di più e fatto conoscere al grande pubblico, però ho cominciato come narratore senza pubblicare, per pudore giovanile. Così i miei primi lavori teatrali, Delirio marginale, dove tra l’altro ritornano i burattini dell’infanzia con le fattezze grottesche di tiranni familiari, e Shakespeare re di Napoli, sono narrazioni caratterizzate da lunghi monologhi. I miei romanzi successivi rappresentano, dunque, la naturale maturazione artistica della mia scrittura». Shakespeare re di Napoli da vent’anni occupa le scene dei teatri italiani con un diluvio fantasmatico e pirotecnico di parole in un idioma napoletano secentesco. Come nasce questa sua straordinaria invenzione linguistica? «Le parole a teatro si ascoltano, poiché il rapporto non è col segno ma col suono. L’italiano non suona per cui a teatro assistiamo ad opere di autori stranieri oppure di Goldoni, Viviani, De Filippo, Scimone, Chiti che scrivono in dialetto. Il solo Pirandello, invece, scrive in italiano ma fa un teatro di analisi, quindi privo di musicalità. I dialetti sono le nuove lingue di scena perché hanno un potenziale sonoro notevole, soprattutto il napoletano ed il siciliano. Shakespeare re di Napoli è una commedia in endecasillabi dal registro malinconico estenuato e, nel finale, malinconia struggente, forse per questo si rappresenta da tanto tempo. È uno dei pochi esempi di spettacolo italiano prodotto da una compagnia privata che ha avuto un destino così forte». Ma perché anche il siciliano nelle sue scritture drammaturgiche? «Perché sono attratto dai contrari: la lingua napoletana è una lingua grassa, elencatoria, quella siciliana è l’essiccazione totale: Shakespeare re di Napoli e Paolo Borsellino essendo stato sembrano scritte da due persone diverse. Poi dovevo scrivere un dramma ed il siciliano che allude, che lavora sui contrari, è una lingua con la quale si può scrivere un dramma. Se, invece, col napoletano si vuole scrivere una tragedia, si fa la sceneggiata». Quale importanza per la sua scrittura avere in compagnia attori quali Ciro Damiano, Claudio Di Palma, Nadia Baldi, Gea Martire e poi Lello Arena, Roberto Herlitzka, Chiara Muti, Marina Sorrenti? «Conoscere, essere amico degli attori, condividerne le emozioni ed i sogni, puntare sulla loro straordinaria forza interiore, poter attingere ad un loro io profondo, mi ha aiutato moltissimo nell’invenzione della scrittura drammaturgica. D’altro canto Shakespeare, Moliere, Goldoni, De Filippo avevano una loro compagnia…». È ora di prendere congedo da questi luoghi dove il tempo si è fermato. Anch’io sono di transito.

RUGGERO CAPPUCCIO (laurea in Lettere all'Università di

Salerno) è attore, regista teatrale, lirico, cinematografico, giornalista, drammaturgo, scrittore, L’esordio con Delirio marginale 1993. Shakespeare Re di Napoli (1994). Nel 199798 per il Teatro di Roma, la riscrittura e la regia del Tieste di Seneca e delle Bacchidi di Plauto. Ha curato la regia di Nina pazza per amore nel1999 e del Falstaff nel 2001, con Riccardo Muti. Tra i suoi testi di narrativai: La notte dei due silenzi (Palermo, 2007) finalista Premio Strega 2008, Fuoco su Napoli (Napoli, 2010) Premio Napoli 2011. Ha diretto Benevento Città Spettacolo ed è promotore e direttore

Ci a o

Pin o

foto © A. Cerzosimo

artistico di “Segreti d’autore” (dal 2011). Per il teatro a curato e diretto: Delirio marginale, 1994 (Premio IDI Autori Nuovi, 1993); Shakespea Re di Napoli, 1994, Roma, 1997 (Premio Speciale Drammaturgia Europea, 1994); Mai più amore per sempre, 1995; Desideri mortali, 1998; Tieste e Bacchidi, Roma, 1998; Il sorriso di San Giovanni, Roma, 1998 (Premio Ubu Migliore Novità Italiana, 1998, Premio Candoni); Edipo a Colono, Trieste, 1996 e Torino, 2001; Paolo Borsellino essendo stato, 2006. Per il cinema ha diretto: Il sorriso dell’ultima notte (2004); Rien va (2009).

foto tratta dal sito

6 geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

7


interviews

arte moderna Le percuote con colpi precipitosi, le infiamma unʼultima volta e le lascia sprofondare silenziosamente nelle ombre (H. Focillon)

Simbolizzare è insieme costituire un oggetto (allʼoccorrenza con la materia di un corpo) e stabilire operativamente una relazione (M. Augé) A fianco: Site Transitoire, 1993 Crete senesi photo Marcello Stefanini Sotto: Performance di Gustavo Giacosa e Fausto Ferraiuolo domenica 5 agosto 2012 al Site Transitoire photo, Mirco Mugnai In basso: l’artista; Site Transitoire; Chaise speculaire, 1985 coll. privata Parigi

Il visionario Piranesi in mostra a Praga

Un diavolo per capello

«Non v’è in natura nulla di più variabile dell’acconciatura di una signora» rancia del XVII secolo, battuta di caccia a Fontainebleau, un ramo si impiglia nell’acconciatura di una Fgiovane dama. La ragazza, invece di dare origine ad una

Le sue acqueforti ripercorrono le tappe di una tecnica trascurata dagli studi di

LUCA MANSUETO

L’ Site transitoire, nel cuore delle crete senesi Intervista allo scultore francese Jean Paul Philippe, tra i grandi protagonisti dell’arte ambientale di ILARIA

CONTE

Entre levers et couchers Quelques pierres à travers champs L’une assise D’autre pour mémoire Une fenêtre sans mur, une demeure sans toit. Attitudes. J.P. Philippe

Jean Paul Philippe è nato

in Francia nel 1944. Dall’età di sedici anni frequenta le Beaux-Art di Parigi senza mai legarsi all’atelier di nessun maestro. Nel 1960, un viaggio in Italia, alla scoperta dei grandi musei di Venezia, Firenze, Roma, Napoli, segna il suo percorso. L’anno seguente studia al Gabinetto degli Uffizi a contatto con i capolavori dell’arte italiana. Jean Paul, nel 1973, dopo una visita alle cave di marmo di Carrara, abbandona la pittura e intraprende il suo lavoro con il marmo che diventerà il mezzo privilegiato della sua opera. Nel 1981 riceve il Prix Bourdelle, riconoscimento per la sua arte monumentale. Numerose le opere commissionate a Jean Paul in tutta Europa, lavori che lo porteranno alla progettazione del grande gioco del mondo la Marelle per Bruxelles, realizzato in travertino nocciola di Rapolano. Affascinato dalla campagna delle Crete, nel 1993, si trasferisce a Rapolano e inizia il Site Transitoire, installato su una collina nel comune di Asciano. Site Transitoire è il segno della sua passione, nata fin da giovane, per l’Italia dove oggi vive e lavora. Nel 2007 viene inaugurata de L’Eau à l’Air, opera d’arte inserita nell’unità di trattamento delle acque di Parigi, un luogo dove si legano lavoro di tecnologia e arte. L’anno seguente viene organizzata una esposizione Archeologie Interiori presso il Museo Santa Maria della Scala a Siena. È membro associato dell’Accademia Reale delle Scienze, delle Lettere e delle Belle Arti del Belgio nella sezione scultura succedendo a Eduardo Chillida.

8 geaArt

numero

L’

incontro con Jean Paul Philippe è stato segnato da un piacevole dialogo, un’interessante conversazione nella sua casastudio a Serre di Rapolano. L’artista mi ha mostrato il suo laboratorio prima di affidare alle parole, il lungo racconto che lo ha portato indietro nel tempo, ai ricordi del suo primo avventuroso viaggio in Italia alla scoperta dei capolavori dell’arte. “abitare poeticamente” cioè essere toccati dall’essenza delle cose per giungere ad un recupero memoriale e ad un rapporto tra uomo e natura. Possiamo tracciare un filo conduttore tra questi concetti e la sua idea di scultura? Qual è la sua idea di scultura? «La mia immagine interiore della scultura nasce come modo di raccontare, non con parole e scrittura ma con la pietra, con la quale le forme si definiscono nelle mie mani. Site Transitoire nasce in continuità ideale con i lavori precedenti, Marelle, Entre Terre et Ciel, che già non erano sculture ma spazio in cui le opere sono concepite in relazione tra loro e con l’ambiente che le accoglie. Un filo invisibile lega per un breve tempo esseri e cose e gli elementi diventano solidali con un luogo, con la sua luce e con tutto ciò che lo compone portando ad una fusione completa degli elementi». Nei suoi lavori c’è l’idea di recuperare i luoghi, intesi come “anima dei luoghi” in cui ognuno può compiere la sua esperienza soggettiva vivendo le opere? «Non mi piace pensare ad oggetti immobili ma preferisco che il passante sia libero di vivere le opere che sono disposte in modo tale da costituire uno spazio che si anima per ciascuno in modo diverso. Libertà completa al passante!». Le sculture dialogano tra loro e con la natura, può descriverle? «Site Transitoire è composto da diversi elementi: una sedia, un sarcofago-panca, un labirinto e una finestra. Forme che ci suggeriscono posizioni di verticalità, di obliquità e di orizzontalità, proposte elementari che rappresentano le tre posizioni del corpo o anche le fasi della vita. È come una dimora ideale resa unica in rapporto anche alla singolarità del luogo. Installando queste pietre su una collina scelta, nel cuore delle Crete Senesi, tra Siena e Asciano, mi sono reso conto che disegnavo nella luce e nello spazio i limiti di una casa: una dimora dalla soglia invisibile. Grazie alle fasi della luna e del sole, l’ombra di questo mobilio di pietra,

10 - gennaio-febbraio 2015

traccia il suo immobile viaggio per culminare al solstizio d’estate, quando il sole cala nell’appiombo della grande finestra». Perché Site Transitoire? «Il riferimento alla vita e al passaggio del tempo che scandisce in ognuno di noi le diverse fasi vitali è reso, non solo attraverso le sculture, ma anche con il titolo. “transitorio” in riferimento al nostro esistere come passaggi o e traccia nei luoghi». Lei ha realizzato lavori in tutto il mondo, può tracciare un breve percorso? «Vorrei parlare di Marelle, il gioco del mondo. Ho incontrato questa forma su un marciapiede, passeggiando nella periferia di Parigi, a Montreuil. Andavo là perché dovevo realizzare una fontana e cercavo un una traccia che potesse legare il mio progetto al territorio, un segno, un suggerimento datomi dal luogo. La Marelle in marmo che faceva parte della fontana è diventata punto di partenza per altre opere. Una fu installata nel parco della Versiliana, un’altra a Bruxelle, un’altra è stata tagliata e lavorata nelle cave di Assuan in Egitto... Ho realizzato anche delle opere urbane, cito velocemente quella del 2005, per Rennes dove ho creato uno spazio-piazzale, luogo di passaggio tra l’università e il quartiere popolare. Ho lavorato a L’Eau à l’Air, alla nuova unità di trattamento delle acque della Senna per Parigi. Lavori per i quali ho messo in relazione la creatività e l’arte con la qualità più tecnica tipica dell’urbanista». Ogni lavoro parte con prospettive ed obiettivi diversi in base alle note distintive del luogo. Il luogo la influenza? «Le sculture nascono inizialmente da una mia esperienza personale, può trattarsi di un episodio vissuto tempo prima e poi eclissato dentro me ma che prima o poi, con la creazione dell’opera viene condiviso da tutti. Non solo questo ma anche il rapporto con il luogo è fondamentale. Nel caso specifico di Site Transitoire, che era al tempo dell’installazione opera ambientale momentanea, sono stato folgorato dalla perfezione della collina, nata quasi per accogliere le opere». Quando è nata la passione per l’Italia e per le crete senesi, dove nasce Site Transitoire? «Il mio primo viaggio risale al 1960,in compagnia di mio fratello. Ero mosso dal desiderio di conoscere i musei e vedere i capolavori italiani. Fare dei lavoretti per raccogliere un po’ di soldi per tornare in Italia era la mia ossessione. L’anno seguente, infatti, sono tornato a Firenze e, il caso ha voluto che incontrassi, in un bar, la conservatrice del museo degli Uffizi. Lei mi permetteva di frequentare ogni mattina il gabinetto dei disegni avendo la possibilità di consultare i più preziosi capolavori, Paolo Uccello, Michelangelo a tanti altri artisti… È stata un’esperienza di grande emozione ed è senza dubbio una delle ragioni del mio amore per questo paese». Ha in programma altri lavori in Italia? «Per ora sto lavorando ad un progetto per il museo di Colmar, in Francia ma per l’Italia, per il momento, non ho nulla in programma».

arte dell’incisione deve la sua fortuna alla possibilità di moltiplicare una stessa immagine un infinito numero di volte. L’artista compie sulla matrice il proprio atto creativo, che si rivelerà poi sulla carta. Numerose sono le tecniche dell’incisione, un’arte antica il cui sviluppo si lega a quello del libro stampato e alla quale molti pittori di varia nazionalità si dedicano. Il Settecento vede impiegati eccellenti geni quali Fragonard, Boucher, Tiepolo, Canaletto, autori disinvolti o vivaci traduttori di dipinti altrui. A Roma spicca Giovan Battista Piranesi sin dalla creazione, per volere di papa Clemente XII, della Calcografia Camerale. Piranesi rappresenta una delle figure più intriganti della storia dell’arte del Settecento. Nato a Moiano di Mestre nel 1720, già a soli venti anni intraprende un viaggio nell’Urbe come disegnatore al seguito di Marco Foscarini, diplomatico di Venezia a Vienna (1732-35), a Roma (173640), a Torino (1741-42) e poi Doge della Repubblica di Venezia (maggio 1762-marzo 1763). Piranesi prende alloggio a Palazzo Venezia ed inizia lo studio dell'architettura romana aprendo poi una bottega in via del Corso. Architetto, grafico, archeologo e “designer” ante litteram, grazie ad una perfetta padronanza della tecnica di incisione, è celebrato sin dalle prime produzioni come pittore di panorami che esaltano la bellezza della Roma classica e moderna. Nel 1748 pubblica la sua prima edizione di Antichità romane de’ tempi della Repubblica e de’primi Imperatori (cui seguirà nel 1756 la più famosa monumentale raccolta in 4 volumi). Piuttosto che ai repertori archeologici, questa prima serie di incisioni di monumenti romani è legata al gusto della veduta; tuttavia, benché non si proponga come “manifesto” teorico dello studio dell’antico, essa ha egualmente, a una data così precoce, un alto valore programmatico. Piranesi è abituale frequentatore a Roma di Casa Corsini, ritrovo di intellettuali tra cui si distingue Giovanni Gaetano Bottari; a lui l’artista dedica le Antichità romane. In gioventù si definisce “architetto veneziano” ma una volta trasferitosi a Roma diventa famoso per le incisioni rappresentanti ruderi classici e monumenti antichi. Ispirato inizialmente dalle intuizioni rovinistiche di Marco Ricci e assimilata la lezione di Tiepolo e Canaletto, Piranesi trasforma progressivamente il suo stile. Antichi anfiteatri romani disgregati dal tempo, obelischi inghiottiti dal verde, mascheroni fantastici e grotteschi, palazzi aristocratici inondati dalla luce, visioni allucinate di carceri buie e terribili, rovine di terme, ponti e rive del Tevere, costituiscono gli inesauribili temi della sua straordinaria produzione acquafortista. Molti tra nobili, turisti e studiosi dell’epoca si recano a Roma grazie anche alle suggestioni suscitate dalle sue vedute; un successo che ben presto diventa un fenomeno europeo e che attira l’attenzione della nobiltà boema e morava. Lo storico palazzo Clam-Gallas di Praga ospita dal 19 novembre 2014 scorso la mostra “Giovanni Battista Piranesi, genio grafico del barocco italiano (1720-1778)” curata da Blanka Kubíková e Dalibor Lešovský e organizzata dalla Galleria Nazionale di Praga in collaborazione con l'Archivio della Città di Praga, sotto l’egida dell’Ambasciatore d’Italia in Repubblica Ceca, dell’Istituto Italiano di Cultura e della Camera di Commercio e dell’Industria Italo-Ceca. In

Una mostra al Prado

Bernini e i rapporti artistici con la Spagna l più grande scultore del Seicento, Gian Lorenzo Bernini (1598Ipresso 1680), è il protagonista fino all’8 febbraio di una piccola mostra il Prado di Madrid. Curata da Delfin Rodriguez Ruiz,“Las Áni-

mas de Bernini. Arte en Roma para la corte española”, mette sotto la lente di ingrandimento i legami intercorsi tra il Bernini e la Spagna durante la sua prolifica carriera. Fin da giovane, lo scultore nativo di Napoli intessette a Roma fitti rapporti con spagnoli di stanza nella città papale come il cardinale Pedro Foix de Montoya, di cui realizzò un impressionante busto, oggi presso il complesso di Santa Maria in Monserrato.La prima sezione pare quella più ricca, qualitativamente parlando: i marmi giovanili raffiguranti l’Anima Beata e l’Anima Dannata e due ritratti autografi sono i protagonisti. Per non parlare del Busto di Scipione Borghese proveniente dall’omonima Galleria romana, per il quale Fulvio Testi, già nel 1633, scrisse «Veramente è vivo e spira». Nella seconda sezione, in cui si resta colpiti da un sempre vertiginoso ritratto di Diego Velazquez, troviamo un pezzo non noto al grande pubblico che farà discutere certamente gli storici dell’arte ed esperti del Bernini. Si tratta di un piccolo Leone in bronzo dorato che, secondo Marcello Fagiolo che ha collaborato alla realizzazione della mostra, sarebbe un modello della Fontana dei Quattro Fiumi in piazza Navona. Appartenente alla collezione privata dell’architetto romano Dario Del Bufalo, il bronzo presenta, sempre secondo il Fagiolo, forti analogie con lo stile del più importante scultore del XVII secolo. Alessandro Cucè Nella foto: Gian Lorenzo Bernini, Anima Dannata, 1619, marmo, Roma, Palazzo di Spagna

esposizione le opere grafiche complete del grande artista italiano in tutta la loro varietà tematica ed espressiva: le tavole del ciclo Carceri, gli album dedicati ai monumenti classici, le fantasie architettoniche, i disegni di architettura d'interni e i trattati teorici. Questo ciclo di incisioni rappresenta uno dei maggiori capolavori del maestro, edite per la prima volta parzialmente nel 1750 in Opere varie di architettura, prospettiva, grotteschi, antichità, ripubblicate in forma accresciuta nel 1760. Sotto un cielo di fumante pirotecnica, le Carceri sembrano invase dalla luce equivoca degli scantinati, e il raggio che le colpisce sembra compresso violentemente, come uscito da uno spiraglio. Le ardite e drammatiche incisioni, di forte impatto scenografico, rappresentano irreali edifici penitenziari che ribaltano ogni ordinato spazio prospettico affiancando ombre cupe a forti lampi di luce. Per la mostra sono state selezionate opere provenienti dalla Galleria Nazionale di Praga, dal Museo Arcivescovile di Kromeriz, dalla Galleria della Moravia e dalla Biblioteca della Moravia di Brno e dal Museo delle Arti Decorative di Praga, oltre che da numerose collezioni private. Tali immagini celebrano la grandezza dell’antica Roma e dei suoi monumenti lasciandosi trasportare dalla fantasia, giungendo a concepire strutture grandiose e potenti, immagini visionarie che preannunciano inquietudini preromantiche. Gli immensi spazi non si misurano più con le rigide regole della prospettiva, bensì si disarticolano e si frammentano senza un ordine prefissato. L’artista realizza morsure profonde, intensità di tono senza vie intermedie, con una straordinaria capacità di eliminare le sfumature che favoriscono i grigi, segni incisi in sensi vari per ogni particolare, orientati nella direzione della prospettiva per dare risalto agli oggetti. Rappresentano immagini di architetture “impossibili” con scale che salgono verso l’infinito, strumenti di tortura, ruote dentate, ponti levatoi, catene, corde e verricelli. Immagini in cui si materializzano gli incubi dell’artista attraverso un linguaggio grafico inconfondibile, denso di luci e ombre e ben distante dalla solarità e dai temi della sua prima produzione di acqueforti in cui l’attenzione era focalizzata sui ruderi classici e i monumenti antichi di Roma. Le forme delle architetture si frammentano in angoli netti, realizzate con un vigore e una frenesia che ha preso il nome di “acquaforte intensa” proprio per la tecnica impiegata. «L’acquaforte intensa, quella dalle ombre violente e dai potenti accordi luminosi. Essa non esiste prima di lui, almeno dal punto di vista tecnico – nota Henri Focillon nel volume postumo Estetica dei visionari – ma Piranesi la profetizza, la vede, ne ha bisogno per risuscitare Roma, per diffondere sulle sue rovine la solennità di una luce che non appartiene al mondo dei vivi, ma all’immortalità». Il ritorno più volte sullo stesso rame, già inciso, con rielaborazioni e rimorsure e l’uso variato degli inchiostri (alle volte con aggiunta di seppia) dà risultati di colore sorprendenti e effetti pittorici che fanno pensare alla sua radice veneta: dal nero cupo, al nero lucido, al grigio, all’argento, ottenendo talvolta toni raffinati, vellutati. L’acquaforte si adatta alla personalità del Piranesi che disegna pensando già ai chiari e scuri del lavoro finito.

tragedia del tutto femminile, lega i suoi capelli con una giarrettiera rossa sulla sommità della testa, e in perfetto tema barocco vi aggiunge persino delle piume. Ecco qui descritta la nascita della più famosa esagerata acconciatura femminile che proseguirà per tutto il Settecento, la Fontanges, dal nome della sua giovane creatrice Marie-Angéliquede Fontanges. Ma la semplicità non è donna, la pettinatura a la fontanges, che inizialmente era abbastanza sobria, si arricchisce sempre di più. Con essa vi fula comparsa di gioielli, pennini, ghirlande, sopraciuffi e strass. Fu proprio George Frederic Strass, che farà felici molte signore, il promotore del primo laboratorio di fabbricazione di diamanti falsi riconosciuto in tutto l’impero francese da Luigi XV. L’acconciatura si inerpicava sempre di più, sempre più alta e sempre più pesante con l’aggiunta di tessuto, pizzi e merletti. La donna non si fermava di fronte al problema dell’instabilità della pettinatura e decideva di utilizzare castelletti, per alzarla, e spilloni per tenerla ferma. Ovviamentetali acconciature richiedevano una lunga preparazione, venivano utilizzati crini di cavallo, più capelli veri e finti, tutti intrecciati fra loro per creare una specie di piramide. Le suddette capigliature, proprio per le eccessive ore di lavoro, dovevano ovviamente essere mantenute almeno per qualche giorno, e siccome sia l’impalcatura per sostenere i capelli, sia gli spilloni, il sudore creavano fastidio al cuoio capelluto venivano utilizzate pomate come rimedio antidolore, unguenti creati con materiale organico. Questi emanavano un forte odore e “scadevano” dopo qualche giorno, quindi la dama sopportava, oltre il dolore, anche la nauseante esalazione che emanava ad ogni movimento, il tutto per seguire la moda del suo tempo. Nei riccioli spuntavano pidocchi e le nobildonne avevano sempre con sé lunghe bacchette per potersi grattare la testa, senza rovinare l’enorme impalcatura che le cingeva. All’interno, alcune portavano un piattino contenete sangue e miele per attirare e imprigionare gli insetti, ma l’effetto che si creava con questi edifici sopra le loro teste le ripagava del dolore subìto. E così sopra a questi poufs di capelli Leonard Guascone, parrucchiere di Maria Antonietta, creò paesaggi, battaglie, panorami, velieri, ma per essere veramente alla modala pettinatura doveva rappresentare gli eventi politici più importanti di quel giorno. Fu così che lo coiffeur Guascone, parrucchiere e amico delle donne, venne consacrato da Madame de Genlis con queste parole: «Leonard arrivò: arrivò e divenne re!».

Valentina Lattari

Nella foto: Heinrich Lossow, Maria Antonietta acconciata da Leonard Guascone, metà XIX secolo, olio su tela

Nella foto: Giovanni Battista Piranesi, Carceri, tav. XIV, 1760, acquaforte

Bramante a Milano

Una mostra a Brera in occasione dell’anniversario della morte

design for print

l Ducato di Milano poté godere della presenza di Donato BraIcasomante per circa un ventennio, tra il 1477 e il 1499. Non è un se, proprio in occasione della ricorrenza dei cinquecento anni

della morte dell’artista (1514), la Pinacoteca di Brera gli dedichi una mostra dall’eloquente titolo “Bramante a Milano. Le arti in Lombardia 1477-1499”.Già inaugurata il 4 dicembre 2014, l’esposizione nelle sale del museo rimarrà aperta fino al 22 marzo 2015. I curatori, Sandrina Bandera (Soprintendente e Direttore della Pinacoteca), Matteo Ceriana, Emanuela Daffra, Mauro Natale e Cristina Quattrini, in collaborazione con Maria Cristina Passoni e Francesca Rossi, hanno ripercorso i passi dell’artista in Lombardia. Lo studio è stato condotto con l’intento di mettere in luce i sottili rapporti di scambio tra il grande artista di formazione urbinate e gli artisti, di origine milanese o meno, che gravitavano attorno alla corte degli Sforza. Tra questi si ricordano i nomi di Vincenzo Foppa, Ambrogio Bergognone e Bartolomeo Suardi, più noto come Bramantino. Bramante è ricordato da Sabba da Castiglione come allievo di Piero della Francesca. Riconosciuto come grande architetto, fu anche poeta volgare, pittore e ingegnere. Egli giunse in Lombardia nel 1477, a Bregamo, impegnato nel dipingere la facciata del Palazzo del Podestà. È, però, nell’Abbazia di Chiaravalle Milanese che lasciò il suo unico dipinto su tavola ad oggi conosciuto Il Cristo alla Colonna, una delle opere più emozionati e preziose esposte alla Pinacoteca di Brera. Alessandro Darra Nella foto: Bramante, Eraclito e Democrito, 1477 ca., Milano, Pinacoteca di Brera

depliant brochure locandine manifesti grafica editoriale

(periodici, giornali, riviste, libri )

e tutto quello che riguarda la carta stampata

antonio de marco c.so garibaldi 13 portici (na) 80055 tel. e fax +39 081476702 +39 3298257990 centomanidesign@gmail.com antonio.demarco1@gmail.com

geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

9


arte&istituzioni

arte contemporanea

Il mondo sta per divenire una Valle di Lacrime dellʼindustria culturale (G. Grass)

Lʼarte non consiste nel rappresentare cose nuove, bensì nel rappresentare con novità (U.Foscolo)

Una nuova sfida alle porte: Siena Capitale Italiana della Cultura 2015

I

n questi ultimi mesi Siena è stata palcoscenico di eventi e azioni di grande rilievo internazionale. Proprio in momento in cui la città attraversa la peggiore crisi economica degli ultimi cinquanta anni, e la comunità ha perso fiducia nei propri rappresentanti, Siena ha deciso di candidarsi e di concorrere ad essere Capitale Europea della Cultura 2019. Il progetto della candidatura è partito più di due anni fa, proprio quando la città ha visto l’arrivo del commissario prefettizio ed è continuato con maggiore linearità, con l’appoggio dell’amministrazione comunale, a partire dal maggio 2013 fino al momento in cui, superata la fase della prima selezione, si è arrivati alla stesura del secondo bid book. In quest’ultimo infatti si afferma che «la nostra candidatura prende forza dal profondo desiderio della popolazione senese di vedere prosperare di nuovo la propria città, e di fare tutti i passi necessari per raggiungere questo obiettivo. La comunità è rimasta gravemente ferita dagli scandali e dalle controversie legate alla crisi bancaria locale e, inizialmente, anche la stessa candidatura è stata accolta da alcuni con scetticismo, nel timore che non si trattasse di nient’altro che di una nuova occasione di corruzione e ma-

laffare. Ricostruire la fiducia e la speranza nel futuro è stato dunque il nostro principale obiettivo in termini di partecipazione, e siamo orgogliosi di riferire che, dopo un lungo, paziente e attento dialogo portato avanti giorno dopo giorno con centinaia di incontri e di piccoli eventi, vediamo ora davvero nuove speranze ed energie sbocciare nella comunità, laddove la diffidenza e l’autocommiserazione stanno rapidamente lasciando il passo all’entusiasmo e all’impegno». L’intero programma, incentrato su 3 aree tematiche (salute e felicità, in-giustizia sociale e turismo smart) con i suoi 12 progetti e annesse azioni, si basava su una nuova idea di patrimonio culturale, ossia la cultura come terapia, nel tentativo di unire tradizione e innovazione. Estremamente ambiziosa l’intenzione di radicale trasformazione, in una città conservatrice che avverte, però, la necessità un effettivo cambiamento. «Bisogna produrre di nuovo cultura, non si può vivere solo sfruttando il patrimonio che ci è rimasto, che certamente va valorizzato, ma a partire da quello è necessario trovare nuovi modi di produrre cultura altrimenti Siena rischia di non essere più espressione della contemporaneità», ha affermato la coordinatrice dell’unità operativa Anna Carli. I

presupposti e le buone intenzioni c’erano tutte ma, come è noto, la competizione ha visto trionfare la città di Matera, la quale ha presentato un progetto estremamente valido, un progetto civico a lungo termine, che ruota attorno all’idea di trasparenza e di riscatto. Archiviata la sfida di Capitale europea, Siena si trova subito ad affrontarne una nuova: a seguito del Consiglio dei Ministri del 12 dicembre, col decreto Franceschini, tutte le città concorrenti al titolo europeo sono state designate Capitali Italiane della Cultura per il 2015. Come ha confermato sempre Anna Carli l’intenzione è quella di selezionare dal progetto europeo quelle azioni che possono avere sia concretezza nell’immediato sia il maggiore impatto sulla cultura e sul patrimonio della città. La speranza, condivisa dalla comunità e da giovani e studenti che vedono ben poche opportunità al momento, è che questi progetti vedano la luce, e che la cultura diventi realmente uno strumento di avanguardia, come primo passo affinché la situazione cambi, affinché Siena esca dal torpore e si tolga di dosso quella patina antica per abbracciare finalmente la contemporaneità.

Maria Martina Soricaro

Dieci mesi per conoscere Leonardo… basteranno? ilano sceglie di dare il benvenuto al nuovo anno omaggiando un artista che è sempre stato molto presente in città: Leondardo da Vinci. Il FAI-Fondo Ambiente Italiano propone un corso di storia dell’arte, totalmente incentrato su questa straordinaria figura, dal titolo “Leondardo. Una vita”. Si tratta di venticinque lezioni (spalmate in un arco temporale da febbraio a dicembre 2015) volte a sviscerare l’esistenza di questo multiforme genio. Approfondimenti sul periodo storico-artistico, letture di brani del maestro e visite guidate completano il programma di studio. Per conoscere giorni e ore delle lezioni, modalità di iscrizione e costi si veda www.fondoambiente.it

La città va educata? Incontri pomeridiani a Roma

“E

ducare alle mostre. Educare alla città” è il tema e l’obiettivo del nuovo ciclo di incontri pomeridiani gratuiti, organizzati dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali di Roma Capitale Assessorato alle Politiche Culturali e Centro Storico, in collaborazione con Zètema Progetto Cultura. Un ricco calendario di appuntamenti e itinerari guidati, rivolto alle scuole di ogni ordine e grado e che, partiti da ottobre 2014, si prolungheranno fino a maggio 2015, con l’intento di stimolare e approfondire la conoscenza dell'arte, della storia millenaria della città di Roma, del suo patrimonio e fornire strumenti di comprensione e analisi su numerosi argomenti riguardanti l’archeologia, le trasformazioni urbane, la musica, la scienza, l’arte contemporanea e le tradizioni popolari. Una varietà tematica che permette ai docenti di individuare quella più aderente al proprio insegnamento.

I

colori del bianco e nero. Fotografie storiche nella Fototeca Zeri 1870-1920 è il volume edito dalla Fondazione Zeri a cura di Andrea Bacchi, Francesca Mambelli, Marcello Rossini, Elisabetta Sambo, disponibile da febbraio che indaga i molteplici aspetti legati alla fotografia di riproduzione storicoartistica tra Otto e Novecento, attraverso sedici case-studies con un accurato apparato di immagini di ottantacinque fotografi operanti in quel periodo. Materiale molto vario per provenienza, tecniche e autori, che ha un interesse notevole sia per la storia dell’arte, sia per la storia della fotografia: preziose stampe (carboni, aristotipi, albumine, gelatine ai sali d’argento) eseguite tra il 1870 e il 1920 che rappresentano opere di pittura, scultura e monumenti.

Luca Mansueto

di

PASQUALE RUOCCO

10 geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

FUORI dall’Italia L’Europa ci aspetta

Parte a Grosseto il progetto che promuove i giovani artisti locali all’estero, sulle orme di chi questo viaggio lo ha già fatto di

CLAUDIA GENNARI

G

rosseto - Berlino solo andata. Il ritorno infatti, in questa storia di talenti sembra molto lontano per adesso, se non lo intendiamo come un recupero andata. Anche se il ritorno è da intendersi delle tradizioni in un nuovo contesto. Che Grosseto fosse fucina di giovani talenti in campo culturale non è una novità. Molti di loro tentano la fortuna all’estero e, per l’arte,la meta preferita sembra essere oggi la mitteleuropea Berlino. Là vive da anni una piccola comunità creativa che conserva un forte accento toscano. Lapo Simeoni e Claudio Greco sono solo due degli artisti che, negli ultimi anni, sono partiti sorretti dal mito (successivamente verificato) della città dalle mille opportunità per chi ha talento e voglia di fare. Niente valigia di cartone, semmai uno smartphone con orari e coincidenze delle liee della metro. Ma non tutto si impara semplicemente

in un click, a partire dalla lingua. Lapo Simeoni ha allestito il suo laboratorio in uno spazio messo a disposizione a due rampe di scale da casa. Il sogno di ampliarsi è grande, come quello di affermarsi. Abita a Berlino da tre anni ma ha spesso occasione di tonare in Italia per eventi espositivi. Curiosando nel suo studio, al ‘catalogo italiano’ si affiancano i nuovi pezzi che risentono fortemente dei colori e delle sensazioni che il contesto berlinese gli ha offerto. Perseverare è la parola d’ordine, per crearsi nuovi contatti. Perseverare per farsi conoscere senza mai dimenticare le proprie radici: nonostante il trasferimento sia definitivo, per la sua città la porta rimane sempre aperta. Alla ricerca di uno spazio dove poter lavorare liberamente, fuori dalle logiche del mercato italiano, Claudio Greco, orbetellano poco più che trentenne, arriva in Germania nel febbraio 2012 ed inizia la sua esperienza nel Tachles, sede di collettivi gestita da artisti di cui oggi Claudio ed altri giovani proseguono la tradizione. Il suo lavoro si svolge lontano dal centro, nel quartiere di Marzahn, dove insieme ad una artista francese ha allestito uno spazio di lavoro estremamente stimolante: «È necessario – spiega Greco in un’intervista- integrarsi al meglio con la popolazione locale, cercando di offrire un punto di vista o uno spaccato culturale che è possibile osservare e vivere solo nel centro o nelle zone trendy della città; il nostro è un atelier, uno spazio per lavorare ed una galleria, attualmente stiamo cercando altri artisti da integrare nel gruppo». Questa estate si aggiungerà alla compagine un conterraneo dei due selezionato attraverso il bando FUORI per la promozione dei giovani artisti della provincia di Grosseto, promosso dal CEDAV della Fondazione Grosseto Cultura, in co-organizzazione con il Comune di Grosseto. «Gli artisti qua non mancano – afferma ancora Claudio ma il punto forte di Grosseto e provincia è il territorio: la storia e questa nuova realtà artistica può creare un mix micidiale se proiettato a progetti artistici contemporanei». Nel segno di una politica culturale aperta alle novità, le idee di questi artisti (ma potremmo citare anche registi, attori, scrittori di origini grossetane) crescono grazie al contatto con nuovi mondi, nuove persone capaci di dare appassionanti prospettive allo sguardo ed entusiasmo alla voce che traduce le visioni in racconto. La buona notizia è che tutti dimostrano di non aver dimenticato, né tantomeno rinnegato, le proprie origini. La notizia ancor migliore è che questo, per la nostra terra, è solo il punto di partenza.

n contemporanea con il Museo di Arti Decorative di Bordeaux e l’Università di Harvard, il Museo delle Arti di Catanzaro ospita, fino al 29 marzo, “Heretical Design”, la mostra curata da Alberto Fiz che, insieme allo Studio Branzi, ha selezionato settanta opere tra dipinti, disegni, installazioni, mobili, lampade, vasi e oggetti d’arredo realizzate da Andrea Branzi. Il percorso espositivo attraversa i cinquant’anni dell’attività progettuale dell’architetto, teorico e designer italiano, partendo dall’importante esperienza degli anni Sessanta con il gruppo Archizoom Associati di Firenze, fino alle ultime sperimentazioni del 2014. «Non mi interessa capire la differenza che esiste tra design e arte. Non ho mai accettato quella condanna che sembra colpire chi contamina quei due mondi, che sono stati allontanati dal pregiudizio borghese e sbagliato: “l’arte non ha un uso pratico, mentre il design deve essere utile”. Mi interessa, invece, realizzare oggetti di confine, posti sulla soglia tra questi universi, degli ibridi che si alimentano di territori espressivi non del tutto omogenei». Questa la premessa che si legge all’ingresso della sezione “Figure” e che, in parte, riassume il senso della ricerca condotta negli anni da Branzi. Una progettualità che va oltre la mera soddisfazione dell’esigenza funzionale, indagando temi della società contemporanea quali la psiche, l’eros, il sacro, la morte, la poesia; finalizzata, secondo una concezione animista, a creare oggetti in grado di alleviare il senso di solitudine che attanaglia l’uomo del nostro tempo. Tra gli esempi di maggior rilievo le Trasparencies, vasi - micro mondo nei quali Branzi riflette sulla loro capacità di essere archetipo della civiltà umana. Nella sezione “Nature morte”, troviamo serie di elementi d’arredo ispirati al tema della morte, superando il tabù ancora attuale della sua rappresentazione nel campo del design . interessanti sotto questa chiave di lettura sono anche le recenti sperimentazioni dei Solida Dreams, rappresentazioni plastiche di luoghi onirici dove l’arte e gli dei si incontrano in realtà domestiche. Nella sala centrale, tra il rivoluzionario divano Superonda firmato Archizoom e la tavola dei Dieci modesti consigli per una Nuova Carta di Atene, si trova la grande istallazione Diagrammi, una libreria planare, attraversabile e quasi priva di spessore, espressione delle contraddizioni degli spazi della contemporaneità. Il percorso espositivo si chiude con i prototipi di sedute create da Branzi per il Parco Internazionale della Scultura di Catanzaro, un progetto installativo di carattere modulare, concepito come luogo di incontro in stretta relazione sia con la scultura sia con l’architettura, che interagiscono con l’ambiente assorbendolo e trasformandolo.

Grazia Tornese

Nella foto: A. Branzi, Uomini e fiori Huras

Nelle foto da sinistra: Skyline Berlino; Aterier di Claudio Greco

Con le migliori intenzioni: dal libro alla pellicola dal teatro al cinema, dal film... al film

T

L’arte: un filtro per sbirciare tra i futuri del mondo

al MARCA di Catanzaro I

Linda Gezzi

Le fotografie Zeri svelate al pubblico

Da maggio a novembre ritorna la Biennale di Venezia

Andrea Branzi

M

Annamaria Restieri

ra pochi mesi (l’inaugurazione è prevista per gli inizi di maggio, un mese rispetto al solito, in linea con l’apertura dell’Expo di Milano) riparte quella che Paolo Baratta, presidente della Biennale, definisce «macchina del desiderio», strumento cioè necessario a «riconoscere come necessità primaria e primordiale l’impulso dell’uomo a dare forma sensibile alle utopie, alle ossessioni, alle ansie, ai desideri, al mondo ultra sensibile». Stiamo ovviamente parlando della “56ª Esposizione Internazionale d’arte” di Venezia affidata, quest’anno, ad Okwui Enwezor, nigeriano classe ‘63, già curatore della “Biennale del Sudafrica”e di “Documenta 11”. L’edizione di quest’anno, con ben 53 paesi, intitolata All the World’s Futures, si concentra sulla pluralità dei possibili scenari futuri, e quindi sulla lettura di una contemporaneità contraddistinta dal molteplice, dal frammentario e dal conflittuale. Una lettura problematica, costantemente interrogatoria, che tenta di riconsegnare all’arte il ruolo di decodifica e ricostruzione del reale, di proiezione verso l’ignoto, ossia verso il domani. In questa direzione si muove un progetto che a dire dello stesso Enzewor si chiede «come afferrare appieno l’inquietudine del nostro tempo? Renderla comprensibile, esaminarla e articolarla?» come registrare i cambiamenti radicali che nel corso degli ultimi due secoli hanno prodotto nuovi e affascinanti spunti per artisti, scrittori, cineasti, performer, compositori

Design per “oggetti di confine”

La complessa sfida all’originalità di remake e trasposizioni cinematografiche di

CRISTINA ARALDI

a prossima uscita nelle sale (prevista per il 22 genL naio) del film Il nome del figlio, ritorno di Francesca Archibugi dietro la macchina da presa a cinque anni da

e musicisti?. In questa prospettiva si muoveranno i tre ‘Filtri’ che strutturano All the World’s Futures: Vitalità: sulla durata epica; Il giardino del disordine; Il Capitale: una lettura dal vivo. Il primo è concepito come manifestazione mai completa, incessantemente inesausta, evento in continuo svolgimento, in cui si incontreranno opere già storicizzate e altre appositamente realizzate per la Biennale. Il secondo invece vede negli spazi storici dei Giardini la costruzione di una mappa globale per orientasi tra il passato, rappresentato dalla storia dei padiglioni nazionali, e il nuovo, l’inedito a cui gli artisti sono chiamati a dar forma attraverso sculture, film, performance e installazioni. Infine una rilettura del Capitale. critica dell’economia poli-

tica che Marx pubblicò nel 1867 suscitando un ampio filone di riflessioni economiche, filosofiche, artistiche, politiche, ponendosi alla base di ideologie e speranze di tutto il mondo. In tale contesto s’inserisce ovviamente il Padiglione Italia affidato dal Ministro Franceschini, con un certo ritardo rispetto all’importanza dell’evento e non senza polemiche, al napoletano Vincenzo Trione il cui progetto sembra ruotare attorno all’idea di un Codice Italiano ossia sull’opportunità o inopportunità di ordinare una mostra attorno ai temi dell’identità nazionale oggi in Italia. Aspettiamo con ansia! A fianco: Okwui Enwezor Sopra: La Biennale di Venezia

Questione di cuore, aggiunge un nuovo titolo alla lunga lista dei remake cinematografici. In quanto rifacimento italiano de Le Prénom (uscito in Italia come Cena tra amici), tagliente commedia francese del 2012 diretta da Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, pellicola tratta a sua volta dalla pièce teatrale scritta dagli stessi registi, Il nome del figlio risulta essere così un “ibrido” che mescola al remake anche l’adattamento e la trasposizione per il grande schermo: questo è solo un esempio del meccanismo di scatole cinesi potenzialmente infinito che può innescarsi con la rielaborazione di un testo (letterario, teatrale o già cinematografico) per il cinema. Infinito sì, poiché è innegabile che cambiando l’ordine degli addendi, in questi casi speciali, anche il risultato possa cambiare. Premesso che un film, sia esso trasposizione, adattamento, riduzione o remake, può essere valutato per sé stesso, nel caso in cui si mantenga se non il confronto, almeno la considerazione dell’opera di partenza e delle relazioni che fra i testi

si instaurano, occorre tener presente che molteplici sono gli aspetti che concorrono ad una differente resa finale e fruizione del prodotto. Tra di essi vi è il grado di fedeltà o di reinterpretazione dell’originale (in alcuni casi, per molti spettatori l’opera letteraria è insuperabile mentre per altri il film può essere una piacevole sorpresa quando non addirittura il canale preferenziale per avvicinarsi all’originale), entrambi fattori discriminanti la “personalità” dell’opera: classici letterari hanno trovato trasposizioni cinematografiche fin dagli albori, come testimonia Il viaggio nella Luna (Le voyage dans la Lune, 1902) di Georges Méliès tratto dal testo di Jules Verne o il recentissimo Anna Karenina (2012), in cui il regista Joe Wright ha, appunto, diviso il pubblico giocando con un’audace e pirotecnica messinscena dell’opera di Lev Tolstoj di dichiarato rimando teatrale, in cui realtà e finzione in relazione alla vicenda narrata si confondono deliberatamente. Non si può inoltre dimenticare l’ovvia diversità di natura dei mezzi che, a seconda dei casi, prevede modalità di scrittura, messinscena e fruizione differenti, e che deve superare numerosi ostacoli per poter trovare prima o nuova forma filmica; o ancora, ad incidere sulla resa e la fruizione vi è l’approccio culturale al testo di partenza che risente profondamente del clima storico-sociale del momento e del paese in cui il rifacimento o la trasposizione prende forma, e che deter-

mina ulteriori criteri per la nuova versione dell’opera originale. Ad influire sul remake o sulla trasposizione può essere inoltre la possibilità che la versione cinematografica sia ripresa dallo stesso regista ad anni di distanza o che preveda la diretta collaborazione dell’autore del testo ispiratore, come nel caso de La parola ai giurati (Twelve Angry Men, 1957) prova d’esordio di Sidney Lumet, a sua volta oggetto di due remake cinematografici, alla cui sceneggiatura lavora anche Reginald Rose, autore dell’originale televisivo. Nella versione italiana quindi Le Prénom - Il nome del figlio si caricherà nella sceneggiatura di riferimenti ulteriori e significati nuovi, magari incomprensibili per il pubblico francese ma imprescindibili per quello italiano; così come l’assegnazione dei ruoli (con il ricco cast composto da Alessandro Gassman, Luigi Lo Cascio, Valeria Golino, Rocco Papaleo e Micaela Ramazzotti) e le modifiche ad essi apportate, fanno emergere precise scelte registiche: tali accorgimenti evidenziano quindi come ogni remake o trasposizione o adattamento, ovvero ogni opera che prende spunto da un testo preesistente, presenti sfide non facili e sempre diverse a chi decide di confrontarvisi, per aggirare la semplice copia o il rifacimento sterile e dar vita ad un’opera comunque originale, che possa dimostrare che ha ancora qualcosa da dire. Nelle foto: Alessandro Gassman

geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

11


arte contemporanea Si usa uno specchio di vetro per guardare il viso; e si usano le opere dʼarte per guardare la propria anima (G. Bernard Shaw)

Il mercato dell’arte contemporanea

Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale

In mostra la Collezione Gemito

Tempi di bilanci e di prospettive: fiere a confronto in Italia nel registro di scenari sempre più articolati di

Il disequilibrante La Pietra in Triennale di

LINDA GEZZI

A

fare da trait d’union tra l’anno vecchio e quello nuovo – nel campo delle arti e a Milano – è la mostra “Ugo La Pietra. Progetto disequilibrante” visitabile, presso la Triennale Design Museum, fino al 15 febbraio. La personale, curata da Angela Rui, traccia un itinerario che, dagli anni Sessanta fino ad oggi, narra l’incredibile parabola artistica e sperimentale del poliedrico artista pescarese, ormai milanese d’adozione. La Pietra, infatti, nonostante la laurea in Architettura, conseguita nel 1964 al Politecnico meneghino, si è sempre cimentato in diversi settori quali le arti visive e performative, la musica, l’editoria avvalendosi di sempre differenti medium espressivi. Procede di pari passo, accanto all’attività prettamente artistica, quella concettuale che l’ha visto impegnato nei panni di teorico, di animatore di gruppi (del Cenobio e della Lepre Lunare, per esempio), di docente e di curatore di svariate esposizioni in Italia e all’estero. Eterogenea è la rassegna che sottopone, al visitatore, incalcolabili opere tra quadri, sculture, fotografie e fotomontaggi, installazioni, video, mobili, oggetti d’arredo, ceramiche, libri, lampade: un panorama variegato di incredibili lavori, molti dei quali dotati anche della componente sonora. Opere da guardare, da ascoltare, ma anche da scoprire grazie alla partecipazione attiva del pubblico. Valgano in tal senso, tra le altre, La nuova prospettiva (omaggio alla settecentesca camera oscura, si palesa come attacco verso l’alterazione della realtà) e Il commutatore (vero e proprio manifesto del Sistema disequilibrante consistente in una struttura a forma di asse che, a seconda dell’inclinazione scelta, permette all’utilizzatore di avere una precisa, e sempre mutevole, percezione del mondo circostante). Tra gli oggetti d’arredamento, un’incredibile Occultamento mostra quello che ne resta di un pratico scrittoio in legno una volta chiuso su se stesso: una forma geometrica, un triangolo. Destabilizzante nella sua semplicità è il video La mia identità che altro non è se non la rappresentazione di trentasei anni di ricerca sperimentale dal 1938 al 1974 resi manifesti dal volto dell’artista dalla nascita fino al trentaseiesimo anno, il tutto scandito da una voce che ripete insistentemente l’anno di riferimento. Imponente, maestosa e di indiscutibile impatto scenico è l’installazione dedicata al tema identità-memoria. Innumerevoli scatoloni, disposti uno sull’altro e uno accanto all’altro, custodiscono (così come confermano le etichette poste su ognuna di esse) il ricordo di quanto internamente conservato dall’artista: le sue collezioni di fischietti, le foto di babbo, le foto di Aurelia, i suoi amici e molto altro. Raffinati e dotati di grande acume i lavori incentrati sul rapporto tra spazio interno-esterno così come quelli tra spazio pubblico-privato. Lavori che hanno portato alla conclusione che «Abitare è essere ovunque a casa propria».

ADA PATRIZIA FIORILLO

C’

è una domanda alla quale riesco a rispondere sempre maldestramente quando cade tra quelle che, di solito al termine di una lezione, si impongono alle curiosità ed alla voglia di comprendere di più da parte degli studenti. Suona più o meno così. «Chi decide il valore economico di un’opera d’arte?». L’interrogativo è pertinente, ma, è vero, chi lo decide? Gli strumenti utili a dare una risposta, attingendo, canonicamente, a quelle teorie poste alla base del sistema dell’arte, sembrano non bastare più. Da un tempo più o meno recente, in particolare quello segnato dall’ingresso nel nuovo millennio, gli equilibri che ne reggevano le fila si sono in qualche modo complicati o, più semplicemente, la tessitura delle sue trame si è allargata, come il nostro sguardo sul mondo. A caduta le figure che lo componevano ne hanno richiamato altre. Al gallerista, al critico, al mecenate, al collezionista, ai direttori di museo, alle case d’asta, allo stesso artista, se ne sono aggiunte di nuove in primis il curator e poi l’advisor, le imprese, le banche, le fondazioni, le associazioni di categoria, per non parlare del ruolo importante della comunicazione e di quel territorio sconfinato che è la rete. In tal sensoorientarsi nel marasma del mercato è davvero difficile. Le stesse fiere, dalle storiche internazionali Art Basel alla FIAC ad ARCO fino alla più giovane e rampante Art Miami hanno modificato nel tempola loro struttura adattandosi, come del resto quelle presenti sul territorio nazionale, ad un pubblico sempre più vasto di fruitori, identificabili, è da credere, con l’ingresso di nuovi mercati sulla scena globale. Proviamo allora attraverso tale istituzione a fare qualche riflessione, non certo a dare risposte, prendendo ad esempio alcuni casi di fiere italiane, scelte in quel triangolo Torino-VeronaBologna che, in qualche modo, rimemora l’accentramento ‘industriale’ che Marinetti agli inizi del secolo scorso richiamava per il polo Torino-Milano-Genova opponendolo a quello artistico e turistico di Venezia-Firenze-Roma. Parliamo nello specifico di ArtVerona/Art Project Fair svoltasi dal 9 al 13 ottobre scorso nei padiglioni di VeronaFiere, di Artissima accolta nell’Oval Lingotto Fiere di Torino dal 7 al 9 novembre e dell’attesa Arte Fiera di Bologna in programma dal 23 al 26 gennaio prossimi. Tre modelli ed altrettanti modi di comunicare l’arte, di stabilire contatti, tessere fili di attenzione, indirizzare valori. Al suo decimo anno di vita ArtVerona si è proposta con un preciso programma di intervento che oltre a puntare sull’incremento degli espositori, ha mirato ad una crescita della qualità e ad un arricchimento delle iniziative collaterali. Nei padiglioni di VeronaFiere, gestore ufficiale da quest’anno della manifestazione, l’impatto è stato quello di spazi ariosi e leggibili costellati dagli stand di un centinaio di gallerie impegnate ad offrire il meglio delle proprie proposte. Gallerie italiane per la maggioranza, ma non scevre da necessarie prospettive di internazionalità, esse hanno potuto integrarsi nell’alveo del ricco programma cui hanno fatto da supporto imprese e istituzioni, come per le partnership stabilite con la Fondazione Domus per l’arte moderna e contemporanea, con l’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea e con Desall (piattaforma di crowdsourcing) o le collaborazione con l’Area Cultura del Comune di Verona. Si è trattato di una sinergia di figure studiata per affidare alla manifestazione il ruolo di importante veicolo nell’orientamento del mercato dell’arte, comparto non trascurabile dell’economia del nostro paese oltre che di vettore energico nel terreno della ricerca e della sperimentazione. «Penso alla manifestazione– ha del resto dichiarato Andrea Bruciati,

Napoli ricorda Lucio Amelio di

tagonisti meno valorizzati delle vicende artistiche affermatesi tra gli anni Settanta e Novanta). Tra le iniziative collaterali, da segnalare gli spazi di conversazioni tra curatori e artisti intitolati Walkie Talkies e l’evento espositivo Shite and Die giocato sulla firma curatoriale di Maurizio Cattelan collaborato da Myriam Ben Salah e Marta Papini. Un’Artissima dunque di grande spettacolo, non priva di intelligenza (la mostra di Cattelan oltre la provocazione riserva evidenti soprese immaginative) della quale la direttrice artistica si è detta ben soddisfatta. Internazionalità, ricerca e sperimentazione risultano per lei obiettivi raggiunti, con in più la peculiarità di essere riuscita a proporre con finalità commerciali quella particolare forma d’arte che è la performance con un ingresso ufficiale in fiera, sostenuto peraltro da uno sponsor quale K-Way cui si deve il premio di 10mila euro messo a disposizione per la messa in scena più interessante. Il premio è stato vinto da Louis Hervé & Chloé Maillet della galleria Marcelle Alix di Parigi, con la performance Nautilus del 2013. Quanto poi all’acquisto da parte di collezionisti (italiani ma, accresciutamente, stranieri provenienti dagli Stati Uniti, dall’Asia o dal Sud America) di tali proposte effimere, il cui range era contenuto tra i 5mila ed i 50mila euro, non è dato sapere. Frattanto le stime di Italian Sale presso Sotheby’s a Londra a metà dello scorso ottobre ci dicono che l’arte italiana con protagonisti come Piero Manzoni (un Achrome venduto a circa 16milioni di euro), Agostino Bonalumi (Bianco del 1966 a quasi 800mila euro), Turi Simeti (con un’opera del 1965 stimata 245mila euro) o Paolo Scheggi (con una scultura aggiudicata per 531mila euro), ha raggiunto grandi perfomance e quindi a ciascuno la sua. Ma come si presenterà la 39a edizione di Arte Fiera di Bologna? Claudio Spadoni, tra i due direttori artistici con Giorgio Verzotti, ci ha offerto alcune anticipazioni.Il fatto che «Arte Fiera – mi dice – la più longeva manifestazione fieristica italiana sia il riferimento quasi imprescindibile per un pubblico eterogeneo che va dai collezionisti di diverso profilo, agli addetti ai lavori, richiamando anche una fascia di pubblico di appassionati, non basterebbe a farne la più importante manifestazione italiana del settore. Proprio per questo, con Giorgio Verzotti, che si occupa in

modo specifico del ‘contemporaneo’, ho condiviso fin dal primo momento, l’idea di dare un’impronta più ‘curatoriale’ alla manifestazione, senza nulla togliere al suo carattere precipuamente di mercato. In altri termini, abbiamo inteso conferire ad Arte Fiera una fisionomia anche culturale più marcata, grazie anche ad iniziative non mercantili. La forza della manifestazione bolognese resta la sezione del ‘moderno’ con le migliori gallerie italiane ed alcune straniere che presentano maestri del primo ‘900 fino agli anni ‘50-60. A questo settore si sono aggiunti quello dedicato alla Fotografia in collaborazione con Fabio Castelli del MIA Fair di Milano, il ‘Solo Show’ con gallerie che presentano un solo artista, oltre ad un Focus su gallerie dell’East e Middle East che offrono un significativo spaccato artistico di quei Paesi, non molto noto al grande pubblico, fino ad includervi la sezione ‘Nuove proposte’ riservate a giovani artisti emergenti». Un’identità rispetto ad altre fiere italiane che, egli sostiene, «fin dall'edizione del 2013, ha posto la manifestazione all’insegna del Made in Italy, come presagendo la grande riscoperta internazionale di tutta una serie di artisti italiani a quella data piuttosto in ombra, confermata anche da recenti, clamorosi risultati ottenuti nelle maggiori aste mondiali. Vale ricordare in quella edizione la mostra ‘Storie Italiane’ curata da Laura Cherubini e Lea Mattarella, cui ha fatto seguito lo scorso anno ‘Il piedistallo vuoto’ curata da Marco Scotini: uno sguardo sull’East con opere tutte provenienti da grandi collezioni private italiane. Si è inteso così mettere in luce il tema del collezionismo, che anche per l’edizione 2015 avrà un ruolo importante con la mostra ‘Too early, too late’». A chiudere questo breve focus, torna però utile un’ulteriore osservazione. Viene da Marussa Gravagnuolo e Christine Lahoud della Galleria Pièce Unique di Parigi che da qualche tempo hanno scelto di disertare le fiere italiane. Perché? «Abbiamo puntato ultimamente – spiegano – su Art Miami non solo perché rappresenta per artisti e collezionisti un panorama di tutto il Sud America, ma perché l’acquisto non è soggetto ad un fisco punitivo e le tasse al 7% ne agevolano la richiesta». Un dato quest’ultimo sul quale sarebbe opportuno riflettere proprio nell’ottica di quei flussi che stanno ridisegnando la geografia mondiale.

In alto da sinistra: Francesca Arri e Cinzia Ceccarelli, RAGTIME, 2014, Video performance, 11’49’’, Courtesy Ars Captiva; Arte fiera Verona 2012 foto di Vittorio Valentini; Nelle foto a sinistra: Artefiera Bologna -2014 A destra: Louise Hervé & Chloé Maillet La nacre de mes nautiles / Nautilus, 2013. Performance and fossile ammonite About 15 min. Performance view, Centre les Capucins, Embrun, FR, 2013 Photo: Sarah Reinhard Courtesy Marcelle Alix, Paris;

Culture, Napoli sembra vivere un momento di particolare vitalità, soprattutto in ambito artistico e culturale. Chi, difatti, si muoverà in città in questo periodo avrà la possibilità di ammirare una serie di importanti mostre, il cui merito principale sta nel rilancio di una lettura delle vicende artistiche napoletane tra gli anni Sessanta e Ottanta. Particolare attenzione merita, in questo senso, la grande retrospettiva “Lucio Amelio dalla Modern Art Agency alla genesi di Terrae motus (1965-1982). Documenti, opere, una storia...” dedicata dal Museo Madre a un indiscutibile protagonista della storia dell’arte contemporanea, che ha contribuito a rendere Napoli uno dei centri più importanti della produzione e della riflessione artistica degli ultimi decenni a livello nazionale e internazionale. L’esposizione, curata da Andrea Viliani in collaborazione con l’Archivio Amelio, copre un arco temporale che va dal 1965, anno di apertura della Modern Art Agency, fino al 1982 quando nasce la Fondazione Amelio e vede la sua genesi il progetto Terre motus. Mediante la Modern Art Agency Amelio, concorse ad una radicale trasformazione del dibattito artistico allora in corso a Napoli attraverso: il sostegno a grandi mostre istituzionali, fra cui quelle a Villa Pignatelli e alla Reggia di Capodimonte; l’intensa attività editoriale; l’organizzazione di mostre personali e collettive che segnarono, tra l’altro, l’affermarsi dell’Arte Povera e della Transavanguardia, nonché l’istituzione di un ulteriore ponte fra arte americana ed europea esemplarmente rappresentate dal rapporto che Amelio ebbe con due artisti come Andy Warhol e Joseph Beuys. Un ‘attività quella di Amelio che avrà il suo apice nella creazione dell’omonima fondazione culturale e nell’avvio del progetto Terrae Motus: una collezione in progress concepita per stimolare la reazione da parte di alcuni dei più importanti artisti dell’epoca ad un evento devastante quale fu il terremoto dell’Irpinia (23 novembre 1980), oggi allestita presso la Reggia di Caserta. La mostra del Madre si muove così fra il dibattito astrazione/figurazione degli anni Sessanta con opere di Barisani, Fontana, Manzoni, Scheggi, Burri; l’Arte Povera con Calzolari, Fabro, Mario e Marisa Merz, Paolini, Pistoletto, Kounellis. Seguono le opere di James Lee, Buren, Graham in ambito concettuale e quelle di Warhol e Beuys dedicate alla Pop Art e all’Arte Rivoluzionaria; quelle di Clemente, Paladino, De Maria, Longobardi, Ontani, Tatafiore, Cragg, Rauschenberg, Richter e Cy Twombly. Una cospicua selezione di opere fotografiche e filmiche, fra gli altri, di Bernd e Hilla Becher, Fabio Donato, General Idea, Gilbert & George, David Hockney, Mimmo Jodice, Wilhem Von Gloeden, e l’ampia sala dedicata alla documentazione chiudono il suggestivo percorso visitabile fino al prossimo 9 marzo. Nella foto in alto: A. Warhol, Lucio Amelio, 1975

Nella foto in alto: Ugo La Pietra, La nuova prospettiva, 1968

12

PASQUALE RUOCCO

Alla Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale,nell’ambito della mostra “Artisti dell’Ottocento: temi e riscoperte”, è previsto un “focus”, curato da Cinzia Virno di due sale incentrato sulla produzione del napoletano Vincenzo Gemito (1852-1929). Le opere in mostra coprono un arco temporale che va dagli anni Settanta dell’Ottocento agli anni Venti del Novecento, presentando il percorso artistico dell’artista, dal verismo di matrice partenopea al ritorno all’antico. Si propone una lettura dei temi più comuni alla tradizione figurativa ottocentesca e le varie poetiche da nord a sud con speciale attenzione al ruolo di Roma. La mostra si concluderà il primo marzo. Vincenzo Gemito, Bustino femminile – Popolana, (1913-1922), gesso

Al Museo Man di Nuoro

Il Gennargentu di Fulton e Hoepfner

onostante il delicato momento di N crisi, contraddistinto anche dal recente fallimento del Forum delle

suo direttore artistico – come a un network che intenda ribadire la qualità delle proposte all’interno di un sistema Paese avvertito a livello internazionale, da troppo tempo come debole. ArtVerona ha la specificità di voler essere una vetrina di eccellenza per tutto ciò che può essere inteso come “italianità” in senso esteso. Mi piace infatti immaginare una fiera che sia rappresentativa delle qualità meno esplicite della filiera creativa della nostra penisola e l’ho pertanto concepita quale piattaforma dinamica che privilegi un confronto sia dal punto di vista geografico che temporale. Credo sia fondamentale creare dei legami e dei ponti perché non può esistere innovazione senza consapevolezza delle proprie radici, perché solo laddove è presente una riflessione sulla propria Storia può esserci un discorso di qualità, foriero di sviluppo per il futuro». Una prospettiva la sua che sembra caricarsi di una motivata fiducia anche quando il nostro scambio di opinioni verte sulla possibilità di affidare all’arte contemporanea un ruolo non passivo nella crisi del paese. «Se ben interpretata, – mi dice – in futuro ArtVerona potrebbe essere un modello culturale e commerciale vincente. La fiera è un organismo immerso nella contemporaneità e per questo in grado di recepire anche cambiamenti radicali, se questi sono elaborati come criticità attive, strutturali ad una società avanzata. In questa prospettiva dinamica, essa potrà costituire un modello di sviluppo alternativo e fattivo ad un impianto economico ma soprattutto sociale, altrimenti in crisi». Con un taglio diverso la XXI edizione di Artissima gestita dalla Fondazione Torino Musei e diretta da Sara Cosulich ha puntato evidentemente a solleticare un nuovo pubblico di fruitori, esterofilo innanzitutto e, presumibilmente, azzardatore. Riccamente articolata con le sue 197 gallerie delle quali solo 57 italiane, la fiera è stata inoltre dinamizzata dalle performance di sedici artisti tra italiani e stranieri accolte nella sezione Per4m, una delle sei tracce individuate unitamente a MainSection (rivolta alle gallerie più riconosciute del panorama mondiale), New Entries (dedicata alle gallerie con meno di cinque anni di vita), Art Editions (indirizzata alla grafica d’autore), Present Future (tesa ad individuare giovani talenti selezionati da curatori internazionali) e Back to the future (incline a far luce su pro-

geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

in vetrina

Frutto di un dialogo ideale scaturito dalla condivisione di una concezione del cammino come motore di esperienze artistiche, la mostra, a cura di Lorenzo Giusti, presenta una serie di nuovi lavori, fotografie, wall drawings, disegni e installazioni, nati dal viaggio di Hamish Fulton (Londra, 1946) e Michael Hoepfner (Krems, 1972). La mostra al MAN di Nuoro mette per la prima volta a confronto il percorso dei due artisti in relazione ai luoghi del Supramonte e del Gennargentu, terre esplorate per due settimane senza mai incontrarsi, facendone scaturire una riflessione sui concetti di conoscenza e di creazione e sul rapporto tra uomo e ambiente. Hamish Fulton - Michael Hoepfner, Canto di strada, 2014, courtesy of Man

Alviani ArtSpace Pescara

Umberto Ciceri Transcendance In occasione dell’anno Internazionale della Luce proclamato dalle Nazioni Unite, per il 2015 è proposta una stagione espositiva incentrata sul tema del “volume della luce”, il cui primo appuntamento vede protagonista Umberto Ciceri, la cui personale, a cura di Lucia Zappacosta, è visitabile fino al 31 gennaio. Il processo ottico e cinetico delle opere dell’artista si traduce in traslazione, dove il corpo con il suo movimento induce l’immagine a muoversi, e l’immagine a sua volta, induce il corpo a muoversi, in un movimento coinvolgente nelle profondità della percezione. Umberto Ciceri, Alviani, ArtSpace

Ferrara, castello Estense

Boldini e De Pisis: L’arte incontra l’arte” Dal 31 gennaio 2015, il sontuoso scenario del Castello Estense di Ferrara ospita una selezione di capolavori di due tra i più importanti artisti ferraresi fra Otto e Novecento, Filippo de Pisis e Giovanni Boldini, provenienti dalle collezioni delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara di Palazzo Massari. Attraverso i due percorsi monografici, la mostra intende far rivivere una parabola creativa che, in seguito al terremoto del maggio 2012, è rimasto celato al pubblico. Il percorso espositivo si apre con i dipinti e le icone della ritrattistica boldiniana e prosegue, nella seconda sezione, con le nature morte depisiane di stampo metafisico e le vedute parigine, esempi della sua “stenografia pittorica”. G. Boldini, Ritratto del piccolo Subercaseaux, 1891, Ferrara, Museo Giovanni Boldini

Napoli, Studio Trisorio

Martin Parr “The Amalfi Coast” Inaugurata a novembre presso lo Studio Trisorio di Napoli la mostra “The Amalfi Coast” del fotografo inglese Martin Parr. Il progetto è un’analisi, acuta e ironica, dei comportamenti legati al turismo in centri come Napoli, Capri, Amalfi, Sorrento, indagando le trasformazioni di queste icone del Grand Tour in mete del turismo di massa. Quella di Paar è una ricerca che da tempo si muove tra le abitudini, i gusti e gli stereotipi più comuni della società contemporanea mettendone in evidenza il lato più grottesco. Una riflessione che coinvolge lo strumento fotografico stesso quale mezzo di rappresentazione di una realtà sempre più ridotta a cliché. Martin Parr, Italy, Sorrento 2014 courtesy of Martin Parr/Magnum Studio/Studio Trisorio

HANNO COLLABORATO: Alice Iuffrida, Marcella Ferro Maria Letizia Paiato, Annamaria Restieri, Pasquale Ruocco

13


eventi & fiere

arte contemporanea Si usa uno specchio di vetro per guardare il viso; e si usano le opere dʼarte per guardare la propria anima (G. Bernard Shaw)

La vita è cambiamento. Se smetti di cambiare smetti di vivere (S. Lawrence)

Mantova, Fruttiere di Palazzo Te

“L’Impulso Creativo” di Miró

Quando il “contemporaneo” parla al suo futuro

Palazzo Pietro Tiravanti è la nuova sede dell’Accademia di belle arti di Frosinone con un Museo che parte dalla sua storia di

ROSARIA AMOROSO

N

on c’è da meravigliarsi. Accade anche in Italia, nel cratere di una crisi economica che risparmia ben poco, c’è chi si rimbocca le maniche e disegna prospettive al futuro di una comunità e di un territorio. Luigi Fiorletta attuale Direttore dell’Accademia di belle arti di Frosinone, ha lavorato senza indugi al suo progetto, condividendo le aspirazioni di una città e con essa dei tanti colleghi che hanno creduto in un progetto di rinnovamento, traducendo l’impegno didattico e culturale in una stagione. Una prospettiva che oggi, nel Quarantennale della fondazione dell’Accademia, trova la sua prima significativa affermazione nell’apertura della nuove sede, a Palazzo Tiravanti che, a fianco alle aule e ai laboratori, vede aprire la sede del MACA, l’atteso Museo d’Arte Contemporanea dell’Accademia. L’appuntamento è per il prossimo 21 febbraio, con l’inaugurazione della nuova sede preceduta dalla Lectio Magistralis di Jim Rygiel, premio Oscar per gli effetti speciali della trilogia del Signore degli Anelli; poi il dono di Nicola Carrino, tra i “padri” fondatori dell’Accademia frusinate, alla città dell’opera Ricostruttivo Accademia; infine l’apertura del MACA. Sarà, come nella proposta del direttore, un museo permanente volto a ricordare tutti gli artisti che hanno lasciato la loro impronta nella storia dell’Accademia che segnerà la fine di una condizione di disagio durata troppo a lungo e rappresenterà, anche simbolicamente, il riconoscimento del valore culturale dell’istituzione e del suo ruolo propositivo, dimostrato nel tempo con coerenza e costanza. Una prospettiva di lavoro che mette il MACA a riparo dal rischio evidenziato, a proposito delle finalità di un museo, da Guido Ceronetti nel 1979: «Tutto è fatto banca, museo, archivio; tutto quel che chiamiamo Vita è già nelle teche; visitatori e clienti gli ex vivi, i Refaim letterali, i Deboli. Avere voglia ancora di questo non-vivere, che per molti è già lo stato normale, è veramente da anime morte, che un filo elettrico fa ballare, perché possano visitare, nelle ore di apertura, il Museo della Vita». Una struttura lontana dalla omologante retorica che fa da scena ai tanti poli espositivi nati all’insegna di una mondanità distante dalla realtà e, il più delle volte, priva di identità. A tal proposito Roberto Peregalli osservava, qualche anno fa, che gli «allestimenti museali sono un riassunto e uno specchio drammatico dell'epoca in cui viviamo. I vetri antiproiettile, l'illuminazione da stadio o catacombale, i colori sordi e luccicanti dei muri, il gigantismo insensato, le ricostruzioni senz'anima. Via la polvere, via la patina, via l'ombra, via la carne di cui siamo fatti. Tutto è asettico. Cancellando la mortalità della vita, il luogo diventa eternamente morto». Il MACA si propone quale luogo della didattica e quindi del sapere, laboratorio come hangar creativo, dunque, luogo del confronto e della dialettica, in pratica una presenza tangibile nello spazio che solleciterà gli allievi alla consapevolezza della tradizione di cui sono eredi e parte integrante, con l’obiettivo di trasmettere loro il significato e il valore fondante della storia, della memoria e del passato. Non sarà, avverte Fiorletta, il piegarsi alla dimensione della tradizione come memoria del passato, bensì quale energia di una identità che ci spinge a guardare coscientemente il futuro. Tra le numerose opere che formano il nucleo strutturale del MACA quelle degli artisti che, nel corso di quattro decenni, sono stati attivi protagonisti dell’Accademia: Augusto Ranocchi, Luca Luchetti, Michelangelo Pistoletto, Ugo Nespolo, Rino Di Coste, Carmelo Marchese, Andrea Volo, Rocco Coronese Paolo Laudisa,

14 geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

Andrea Lelario, Franco Marrocco, Sergio Lombardo, Giuseppe Pulvirenti, Carmine Piro, Giovanni Albanese, Marina Bindella, Nicola Carrino, Ignazio Gadaleta, Carlo Pizzichini, Paolo Radi, Iginio De Luca, Maria Teresa Padula, Francesco Zito, Vitantonio Russo, Iacopo Benassi, Enrico Luzzi, Piero Di Terlizzi, Paolo Rosa. A fianco a queste opere e come primo momento di attività espositiva sarà inaugurata una mostra dedicata a Mario Giacomelli, curata da Achille Bonito Oliva. Un realismo che guarda frontalmente la realtà, sempre meno disposta a tracciare linee che vanno al di là della quotidianità. L’Accademia di belle arti di Frosinone l’esempio lo ha dato, aprendo al territorio e alle sue presenze produttive: attualmente il centro storico di Ferentino ospita la sede del corso di Fashion Design, il secondo ad essere inaugurato in Italia che, già dal suo nascere, ha saputo tessere uno stretto rapporto di «collaborazione con le aziende tessili della zona, stipulando convenzioni per tirocini professionali destinati agli allievi, oltre a presentare le loro creazioni nelle più importanti occasioni espositive del settore, prima tra tutte AltaromaAltamoda, a partire dall’edizione del 2009». Sulla scena di un’Italia così incerta uno spiraglio che parla al futuro, perché il «museo – scriveva André Malraux – è uno dei luoghi che danno l’idea più elevata dell’uomo.»

Alice Ioffrida

Palazzo Fortuny, Venezia

La Divina Marchesa ino all’8 marzo 2015 è visitabile la mostra dedicata all’eccentrica figura di Luisa Casati, donna dal carattere Fsregolato, amante di D’Annunzio e che divenne la musa

dei più grandi artisti del tempo, da Boldini a Bakst, da Marinetti a Balla, da Man Ray ad Alberto Martini, da Van Dongen a Romain e Brooks. Il mito della Divina Marchesa, come la definì il Vate, giunto sino ai nostri giorni, è stato oggetto di una difficile rilettura storiografica, finalizzata a ricostruire il senso dei rapporti della sua vita, importanti nel dibattito sulle arti d’inizio Novecento. L’esposizione ideata da Daniela Ferretti, curata da Fabio Benzi e Gioia Mori, è coprodotta dalla Fondazione Musei Civici di Venezia e da 24ORE Cultura e mostra per la prima volta capolavori riuniti in quella che fu la casa-atelier di Mariano Fortuny. La mostra, che conta oltre un centinaio tra dipinti, sculture, gioielli, abiti e fotografie provenienti da musei e collezioni internazionali, è corredata da un corposo catalogo. Vi sono pubblicati studi recenti che attraverso i suoi cambiamenti di stile e di gusto, chiariscono anche il cruciale passaggio dall’epoca Belle époque sino al Futurismo e oltre. Dalla rappresentazione di Alberto Martini quale creatura simbolista, ai ritratti di Boldini dove l’artista la mostra sotto i primi segni di una follia incalzante cinta da penne di pavone. Fino a diventare nell’iconografia che conosciamo una vera e propria maschera vivente, frutto della sua vicinanza a Bakst e al mondo del teatro e dei balletti. Non ultimo il nodo cruciale che la vede vicina a Marinetti e incarnazione dello spirito futurista.

Maria Letizia Paiato

Nelle foto in alto: L’Accademia di belle arti di Frosinone

Campobasso, Palazzo Ex GIL

La materia e le sue metamorfosi nell’opera di Alberto Burri

De Chirico e gli anni della “polemica” Neometafisica

n occasione del centenario della nascita di Alberto Burri (Città di Castello 1915 – Nizza 1995), è stata allestita a Parma la mostra I“Fuoco nero: materia e struttura attorno e dopo Burri”, visitabile dal

a Fondazione Molise Cultura, in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico di Roma, presenta a Campobasso L la mostra “Giorgio de Chirico. Gioco e Gioia della Neometafisica”,

Giacomo Cristian Lombardi

Nella foto: A. Burri, Rosso Plastica, 1962, plastica, combustioni e acrilico

FIAC rinvia Los Angeles?

2015 M , ancora una volta, la tappa italiana di AffordaA ble Art Fair, la fiera internazionale di arte

,B ,H D K M B , ArtBasel si conferma la fiera d’arte più importante al

L ’ , dello scorso autunno. Poi la conferma ufficiale: il FIAC (Foire

ILANO OSPITERÀ

ISLOCATA ORMAI SU TRE SEDI ONG E IAMI EACH

contemporanea a basso costo. La possibilità di acquistare opere a prezzi accessibili è un escamotage per democratizzare e rendere alla portata di tutti quello che di norma è privilegio per pochi e per stimolare nuove riflessioni sul rapporto tra il valore dell’arte e il suo mercato. La fiera, diretta da Nina Stricker, sarà visitabile dal 19 al 22 presso Superstudio Più, la sede espositiva “alla moda” di Via Tortona. Un’opportunità per far avvicinare il pubblico ai galleristi e far sì che possa approcciarsi al collezionismo.

ASEL

ONG

mondo, nonché una struttura capace di avvicinare collezionisti, gallerie, musei e artisti a livello globale. Questo sviluppando anche importanti novità per una fiera, come la partnership avviata con Kickstarter, nota piattaforma di crownfounding, per il finanziamento di progetti creativi noprofit. Ancora la collaborazione con l’HKU SPACE Centre for Degree (CDP) e il Central Saint Martins College of Arts and Design (CSM), per la creazione di veri e propri corsi didattici per collezionisti e galleristi.

Linda Gezzi

Pasquale Ruocco

g.c.l.

Nella foto: La locandina della mostra di Campobasso

Internationale d’Art Contemporain) non emigra a Los Angeles, ove era stata programmata per il prossimo marzo. Il motivo principale, affermano gli organizzatori, è il margine di tempo troppo stretto, assicurando (anche se le incertezze si fanno largo sulle buone intenzioni) che nel 2016 la manifestazione giun- gerà negli Stati Uniti. Le notizie che rimbalzano da una parte all’altra dell’Atlantico parlano di motivi sono da rintracciare, forse, nella scarsa adesione e dal clima autunnale che registrava ancora nubi sull’economia americana.

Alice Ioffrida

Intervista ad Alice Zannoni che, con Simona Gavioli, ha dato vita ad una nuova piattaforma culturale

di

ANNAMARIA RESTIERI

D

al 23 al 25 gennaio, torna SetUp, la manifestazione fieristica dedicata alle realtà emergenti dell’arte contemporanea, organizzata da Alice Zannoni e Simona Gavioli. Si tratta di una piattaforma culturale basata su un format innovativo che accosta all’aspetto commerciale la dimensione culturale. Riconfermata la sede, la storica Autostazione di Bologna che, vista la partecipazione sempre più crescente delle gallerie, amplia il proprio spazio espositivo ad un programma ricco di talk, premi, conferenze e performances con un occhio rivolto allo scenario internazionale. Un appuntamento fieristico che si svolge in concomitanza alla fiera più nota d’Italia. Come vi confrontate con questa ed in cosa volete differenziarvi? «Il rapporto è dialogico se non altro per il fatto che SetUp può esistere nella sua genesi di “collaterale” proprio perché c’è ArteFiera. Dal punto di vista dei contenuti, del format, dell’impostazione, del taglio, dell’umore, SetUp non ha niente a che vedere con la fiera madre. Siamo nati indipendenti e continuiamo a perseguire la strada con autonomia cercando di presentare in anteprima le tendenze, le ricerche, i talenti del futuro». SetUp si distingue per un assetto consapevole delle realtà emergenti e per una struttura inedita in cui ogni galleria propone il lavoro di un giovane artista supportato da un giovane critico. Quale criterio di selezione avete adottato? «Il nostro criterio è la ricerca. Per noi è importante lo sguardo al futuro, il rischio. Uno dei punti di forza di SetUp è quello di valutare progetti cu-

ratoriali di giovani curatori under 35 che contemplino la presenza almeno di un artista under 35 all’interno della scuderia della galleria che li ospita o con la quale collaborano. Non ci interessa il passato della galleria ma solo il futuro futuribile che può proporci ed essere interessante per il visitatore che cerca la novità. Durante l’anno, il nostro team curatoriale visita le molte fiere, dalle grandi alle collaterali, cercando di capire cosa sarà il domani». La scelta stessa del nome indica la volontà di rinnovare il sistema artistico tradizionale attraverso un’operazione di scouting. Quale è stato il progetto che ha attirato maggiormente la vostra attenzione? «In termini di progetti delle gallerie non possiamo esporci in quanto siamo parte integrante del comitato di selezione del Premio SetUp, miglior artista e miglior curatore under 35. Crediamo fortemente in un ritorno alla pittura, anche se ormai parlar di pittura significa includere fotografia, scultura e video. All’interno del nuovo SetUp si parlerà di pittura ad olio, ad acrilico, ma anche pitto-scultura, pitto-fotografia, pittura su materiali diversi, in dialogo con la fotografia e altro ancora». Per questa edizione SetUp esplora il tema della “Terra” nodo centrale dell’imminente Expo 2015. Come verrà affrontata tale tematica? «Infatti, per questo abbiamo avuto anche il patrocino dell’Expo. L’esame dell’Expo è stato il fulcro del brainstorming che ci ha condotto a sce- gliere il tema della terra. La direzione presa è stata quella di andare all’origine di tutto quello che viene abbracciato dal payoff “nutrire il pianeta”: alla base di ogni cosa, anche di ogni pensiero, di ogni poe-

tica, di ogni fare, così come di ogni piatto e opera c’è la terra, che nelle sue forme e identità ha plasmato l’essere. La domanda che su larga scala ci siamo poste è: “può esistere un’esistenza nell’assenza del fondamento?” Il quesito viene ben esplicato dal modo di dire “mancare la terra sotto i piedi”, ovvero quando si spalanca il vuoto e viene a mancare un appoggio, quando mancano le radici. Abbiamo aperto la riflessione su questo interrogativo chiedendo alla cultura di dare le sue risposte, attraverso talk che indagano sui temi della legislazione o economia dell’arte facendo perno sul concetto di “confine”, o con interventi performativi della rassegna curata da SpongeArtecontemporanea, oppure con punti di vista raccontati nella sezione “Art Mise En Place”, un confronto diretto tra pensatori, chef ed esperti alimentari che raccontano il rapporto tra arte e cucina».

Dal 23 gennaio a Bologna Fiera Internazionale di Arte Moderna e Contemporanea

Tutti i numeri di ArteFiera 2015 39x210x2000x1000: 39ª edizione, 210 espositori totali, oltre 2000 opere, più di 1000 artisti in fiera. Questi e molti altri i numeri della nuova Arte Fiera Bologna che dal 23 al 26 Gennaio 2015 si riconferma come il più importante appuntamento italiano del mercato dell’arte moderna e contemporanea. Vincente in questi ultimi anni, si è dimostrato il format di rilancio che fa di Arte Fiera, come dichiara Duccio Campagnoli, presidente di BolognaFiere, “una fiera curatoriale, con un progetto di direzione artistica rivolto alla valorizzazione, innanzitutto, dell’arte italiana e del gallerismo italiano di arte moderna e contemporanea e del ruolo del collezionismo”. Cinque le sezioni tematiche in cui si articolerà questa edizione: la Main section, il cuore storico di arte moderna e contemporanea della Fiera; la sezione Focus Est a cura di Marco Scotini che amplia l’interesse della produzione artistica dall’Europa dell’Est fino al Medio Oriente. La sezione Solo Show, con 14 gallerie che proporranno stand monografici di grandi autori italiani e internazionali, illustrando al pubblico i fondamentali legami che negli anni si sono intrecciati tra galleristi e artisti, sancendone fama e successo. In tal senso un omaggio sarà dedicato ad alcune gallerie storiche che hanno svolto un ruolo fondamentale nel sistema dell'arte italiano: Artiaco, De Foscherari, Mazzoli, Minini, oltre alla Bonomo della quale si ricorderà la scomparsa della titolare. Al suo secondo anno, registrando un notevole incremento nel numero degli espositori e ancor più nell’interesse del collezionismo, la sezione Fotografia, a cura di Fabio Castelli e infine, lo spazio Nuove Proposte, dove 10 gallerie presenteranno solo giovani under 35: quest’ultima sezione si prefigge di offrire uno spaccato sulle nuove tendenze e i nuovi linguaggi della giovane arte italiana e non. A completare il programma dei quattro giorni di fiera, Arte Fiera Conversations, un fitto calendario di talk coordinato dalla giornalista di Art Economy Riccarda Mandrini, con nove incontri in cui professionisti del settore di livello internazionale discuteranno delle nuove frontiere del collezionismo privato, del nuovo mecenatismo e delle moderne impostazioni del mercato. Al di fuori degli spazi della fiera, un’ampia rassegna dedicata alla scena artistica mediorientale, realizzata grazie alla disponibilità di più di 60 collezionisti, dal titolo “Too early, too late. Middle East and Modernity”, sarà aperta fino al 12 Aprile 2015 negli spazi della Pinacoteca Nazionale di Bologna. Ed in fine, a compendio di Arte Fiera ormai da tre anni, Art City Bologna, il fitto programma di eventi ed iniziative culturali che animeranno l’intera città raggiungendo l’apice Sabato 24 Gennaio con la consueta Art White Night.

Federica Zabarri

geaArt

CONTROCOPERTINE

DE LUCA SALERNO

curata da Lorenzo Canova, professore di Storia dell’arte contemporanea dell’Università del Molise. La mostra, aperta al pubblico dal 20 dicembre 2014 fino al 6 aprile 2015, ospita settanta opere del Pictor Optimus tra dipinti, disegni e grafiche, ed offre un quadro dettagliato dell’importante fase finale dell’artista, quella della Neometafisica. Giorgio de Chirico (Volo 1888 – Roma 1978), il più noto esponente della pittura metafisica, di una pittura cioè che non ha fini né funzione ma vuole essere soltanto se stessa, non ha legami con la realtà ma si pone come un’altra realtà, negli ultimi dieci anni della sua attività artistica rielabora la sua ricerca iconografica del primo periodo metafisico, dando vita ad opere di una rinnovata felicità immaginativa. Riscopre la sua pittura affollata di oggetti che di per sé non sono misteriosi ma, collocati in uno spazio illogico o decontestualizzati, diventano arcani, e li ripropone con una connotazione ludica. Il catalogo della mostra presenta saggi di Maurizio Calvesi - uno dei più grandi studiosi viventi di de Chirico - di Lorenzo Canova, Flavia Monceri, Elena Pontiggia, Katherine Robinson, con una selezione di testi scritti dall’artista dai primi anni parigini a quelli successivi a Roma. La mostra prevede anche un convegno internazionale sull’opera di uno degli artisti più influenti del ventesimo secolo.

A NOTIZIA TRAPELAVA NEGLI ULTIMI GIORNI DELL EDIZIONE PARIGINA

A Bologna SetUp offre un giovane weekend dell’arte

la carta è...

Parma, Palazzo della Pilotta

21 dicembre 2014 al 29 marzo 2015. L’idea ha avuto origine dalla donazione di un Cellotex di Burri del 1975, fatta allo CSAC dell’Università di Parma circa 40 anni fa. Il cellotex, che attraverso la combustione permette al colore di riemergere dalle superfici, è stato infatti un elemento importante nell’opera dell’artista. “Abbiamo titolato la rassegna Fuoco Nero – spiegano gli organizzatori, tra cui il curatore Arturo Carlo Quintavalle – perché nel percorso mettiamo a confronto la sequenza di Aurelio Amendola che fotografa Burri mentre crea una Plastica col fuoco, con il grande Cellotex di Alberto Burri, appunto nero, punto di partenza della mostra”. Burri, uno dei più grandi pittori del filone materico dell’informale, ha messo al centro della sua indagine la materia e l’articolazione delle strutture in tutte le sue opere in serie, dai Neri e i Catrami alle Muffe, dalle Plastiche ai Sacchi, per poi arrivare ai suoi famosi Cretti, realizzati dal 1969 in poi. Si propone una sintesi della sua ricerca in questa mostra che consta di 172 pezzi tra dipinti, fotografie e grafiche. Un numero consistente, dovuto all’inserimento di opere che potessero essere in collegamento con l’esperienza di Burri, realizzate da pittori, scultori, fotografi di diverse scuole e generazioni e ulteriori opere di altri protagonisti della ricerca sulla materia.

Ritorna Art Basel, arte tra Oriente e Occidente

MARZO

ino al 6 aprile la mostra ospitata nelle Fruttiere di Palazzo Te a Mantova, che vede protagonista Joan Miró F(1893-1983) con un gruppo di opere provenienti dalla

Fundació Pilar i Joan Miró di Palma di Maiorca. Sono cinquantatre le opere presenti, prodotte al suo ritorno al mediterraneo, negli studi di Palma, Son Abrines e Son Boter, tra il 1966 e il 1989. Lo spazio espositivo è diviso in cinque aree tematiche in cui vengono ricostruiti anche i luoghi di lavoro. Visitando l’esposizione si ha l’impressione di trovarsi in pellegrinaggio presso un santuario religioso, in ragione della scelta fatta dai curatori di esporre anche attrezzi di lavoro usati dall’artista. Gli arazzi, le impronte di oggetti di terracotta, i bronzi, i disegni, le tele dedicate all’idea di “vuoto” erano già stati esibiti in Italia nel 2002 in occasione della mostra “Mediterraneo Miró”, allestita a Salerno nel Complesso di santa Sofia, dove non solo il numero delle opere era il doppio ma l’esposizione aveva anche un altro scopo. Se dodici anni fa si cercava di introdurre le nuove generazioni alla semplicità di quei linguaggi, oggi si cerca di sollecitare lo spettatore verso la dimensione quotidiana dell’artista, cercando di riproporre l’ambientazione in cui lavorò. Ma a che scopo riproporre un ambiente che esiste e che può essere visitato? Non si comprende il fine educativo, si torna alla forviante “spettacolarità” che prevale sulla qualità di una mostra. Le rare occasioni in cui vengono stanziati fondi per l’arte ancora una volta si perdono nella corsa alla vendita di biglietti e souvenir.

Arte per tutti? Sì, con Affordable Art Fair

Le prime quattro controcopertine in tiratura limitata di 50 esemplari numerati e firmati in originale dagli artisti angelo casciello giorgio cattani italo bressan nicola salvatore raccolte in una cartella offerta a prezzo

ECCEZIONALE DE LUCA

INDUSTRIA GRAFICA E CARTARIA

84131 SALERNO - VIALE ANDREA DE LUCA, 35 ZONA INDUSTRIALE

TEL. 089.301333 - FAX 089. 301784 E-Mail: info@delucacartaria.it Web: WWWdelucacartaria.it

sostieni geaArt Euro 100.00 prenotala tramite e-mail scrivendo a Pasquale Ruocco paco_mohai@hotmail.it

geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

15


taccuino a quadretti

metropolis Una città è una grande comunità dove le persone si sentono sole insieme (H. V. Prochnow )

La poesia non cerca seguaci, cerca amanti (F. Garcia Lorca)

Cracovia e la magia

Dalle cave di Apricena al blu del mare del Gargano

dell’est Europa

Percorsi artistici nella capitale culturale polacca

Un viaggio tra immagini della poesia e della fotografia nell’incanto di una terra che conserva il respiro di una profonda identità Sto oltrepassando le Torri Gemelle delle cave di pietra di Apricena lasciando appena indietro lo specchio chiaro di Lesina e quello scuro del mare Adriatico, come l’Atlantico e la baia di Manhattan adesso il treno è una spada sul Tavoliere e l’Arizona, solo gli anni sono cambiati. Le luci della sera dietro il finestrino sono veloci, dicono che le volpi passano silenziose sotto il Gargano e il gran Canyon del Colorado i lampioni degli insediamenti in campagna sembrano i baci leggeri dei nostri figli sempre candidati alla partenza da Denver a Bologna, che ripetono il saluto perché la terra è piana e le luci non si nascondono, come se i figli dicessero “avremmo voluto potervi dare di più”. Le piccole stazioni coi bagliori assonnati, parlano dei nostri ragazzi entrati in mondi sconosciuti persi e ritornati adulti nel viaggio dopo essere andati incontro all’inverno dopo essersi fermati a tutte le stagioni con l’animo caduto a pezzi come le foglie d’inverno. Sto attraversando il campo dove mio padre dissotterrò le mine della mia giovinezza per farmi passare indenne su questa terra, non ho il coraggio di guardare dall’altra parte lui potrebbe essere lì fermo nella notte con la mia foto di ragazzo nella tasca a indovinare il finestrino giusto che sfreccia bruciandosi nel tempo. E questo andare avanti e indietro dall’Ofanto al Fortore dalla costa est a quella ovest sino alla pianura quando s’allarga, diventa enorme e gli alberi in campagna, figure nere della notte sembrano il grande popolo che cammina nelle tenebre, e le lampade sparse e desolate sembrano annunciare la grande luce che verrà se “su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse”. E adesso che il treno passa ancora più veloce scansando l’Appennino e le Montagne Rocciose verso la piana che di nuovo giù si strozza come se il sentiero si stancasse, si chiudesse. Non lasciarmi Signore sulla porta dopo il dono dell’attesa che l’anima prepara, fammi entrare a giorno fatto starò buono, pettinato, qui seduto sino al mare.

Enrico Fraccacreta

Pagina a cura di TEO DE PALMA immagini © Mimmo Attademo, 2014

16 geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

ENRICO FRACCACRETA, nato a San Severo (Foggia) nel 1955, ha pubblicato i seguenti libri di poesia: I nostri pomeriggi (Scheiwiller, Milano, 1995), Tempo medio (Bastogi, Foggia, 1996), Camera di guardia (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme, 2006) e Mademoiselle (Ellerani editore, 2012). È anche autore della biografia Il giovane Pazienza (Zerozerosud, 2000; seconda edizione presso Stampa Alternativa, 2001). Ha pubblicato testi artistici e di foto-poesia. Collabora a riviste letterarie italiane e straniere e a diversi giornali. MIMMO ATTADEMO, architetto e fotografo, è nato a Foggia nel 1954. Tesi di laurea presso il Politecnico di Torino “La fotografia ad uso dell’architettura”. Ha effettuato viaggi di lavoro fotografico in Indonesia, in Australia, in Oregon, nel New Messico. Attualmente è docente di Fotografia presso l’Accademia di Belle Arti di Bari. Iscritto all’Ordine dei Giornalisti, elenco pubblicisti fotoreporter, ha pubblicato servizi fotografici per importanti riviste italiane, tra cui “Airone”, “Italia turistica”, “A tavola”, “Dove”, “Gulliver”. Tra le mostre personali, l’ultima a Bruxelles, presso il Parlamento Europeo (2013).

di

ALESSANDRO CUCÈ

U

n viaggio in Polonia significa viaggiare nel tempo, immergersi in una storia così densa di fatti e di avvenimenti sconvolgenti da avere pochi eguali in Europa. Cracovia in particolare, seconda città della Polonia per numero di abitanti dopo la capitale Varsavia, è senza alcun dubbio il centro con maggior fascino. Rynek Głowny, Wawel, Kazimierz, Podgorze e Nowa Huta sono nomi che inizialmente potrebbero non voler dir nulla ma, una volta lì, capirete subito che sono i luoghi emblematici di questa città. Ma andiamo con ordine. L’inizio simbolico di una passeggiata nella capitale culturale polacca non può non cominciare dal centro storico – patrimonio dell’umanità dell’Unesco dal 1978 – e in particolare dall’immane Rynek Głowny (Piazza del Mercato in polacco). Di forma quadrata, la Rynek, che contiene numerosi edifici storici, ha un lato lungo 200 metri ed è una delle più grandi di tutta Europa. Le sue imponenti dimensioni sono attenuate da una costruzione che la taglia letteralmente in due: il Sukiennice, un tempo fulcro del commercio di tessuti, oggi affollato luogo dove si vendono souvenir e prodotti di artigianato. L’angolo nord orientale della piazza è letteralmente dominato dalla chiesa più bella di tutta Cracovia: la Basilica di Santa Maria, emblema dello stile gotico polacco. L’esterno è caratterizzato da due svettanti torri di diverse dimensioni: da quella più alta, ogni ora, sia di giorno sia di notte, sia d’estate sia d’inverno, un trombettiere suona la celebre hejnał (chiamata a raccolta), una melodia musicale che ricorda l’invasione dei tartari del 1241. Assai ricco è l’interno della chiesa, segnato in particolare dalle vetrate Art Noveau disegnate da Stanisław Wyspianski e Jozef Mehoffer. Tuttavia l’opera d’arte più famosa della chiesa e, a mio giudizio, una delle più notevoli di tutta Cracovia, si trova in fondo alla basilica: si tratta del monumentale altare ligneo scolpito tra il 1477 e il 1489 dal tedesco Veit Stoss. La scena principale del pentittico rappresenta una Dormitio Virginis, mentre lungo i lati troviamo episodi della vita di Cristo e Maria. Il polittico, solitamente chiuso, viene di norma aperto alle 11:50 con un suggestivo accompagnamento musicale, per essere richiuso nel tardo pomeriggio. Tor-

nati in piazza,tra le opere d’arte più recenti (forse la più recente) aggiunte alla Rynek, non si può non restare incuriositi di fronte a una testa in bronzo, supina, che si trova sul lato opposto della Basilica di Santa Maria. La scultura in questione è un’inconfondibile opera del celebre artista polacco Igor Mitoraj, maestro scomparso solo qualche mese fa, che talvolta lega il suo nome all’Italia ma che studiò a Cracovia sotto la guida di Tadeusz Kantor. L’opera, raffigurante un Eros Bendato, fu donata dallo scultore alcuni anni fa al termine di una mostra svoltasi proprio a Cracovia. Fin dalla sua messa in posa, come spesso accade anche in Italia, la collocazione della scultura in una piazza per così dire storica ha causato innumerevoli discussioni tra favorevoli e contrari. Fatto sta che l’Eros di Mitoraj resiste imperterrito in quel luogo ed è tra le più fotografate attrazioni di tutta la Rynek. Dalla piazza del Mercato, percorrendo Grodzka, lo scenario cambia e si arriva ai piedi della fascinosa collina del Wawel, testimone della secolare storia polacca. Qui gli edifici principali sono sostanzialmente due: la Cattedrale e il Castello. La prima, all’esterno quanto all’interno, dà l’idea della commistione di più stili con le sue numerose cappelle costruite in epoche diverse. La più bella, indubbiamente, è la cappella di Sigismondo, costruita dall’italiano Bartolomeo Berrecci nel primo Cinquecento e ben riconoscibile all’esterno per la sua cupola dorata. Semmai ancor più elegante e suggestivo è il rinascimentale Castello del Wawel, per secoli centro politico e culturale di tutta la Polonia. In uno dei suoi tanti ambienti si trova, momentaneamente, l’opera più famosa presente sul territorio polacco: la Dama con l’ermellino, olio su tela realizzato da Leonardo da Vinci intorno al 148890. L’opera, solitamente conservata nel Museo dei Principi Czartoryski la cui riapertura è prevista quest’anno dopo un lungo restauro, è isolata, quasi in quarantena, in una sala semibuia in cui si entra in numero limitato. Ma Cracovia non è solo questo. Basta spostarsi di qualche centinaio di metri e ci sembra giungere in un luogo diverso, in un’altra città, con costruzioni per così dire un po’ più “trasandate”: siamo arrivati a Kazimierz, il quartiere che ospita il più alto numero di sinagoghe. Ripercorrendo la storia di questa parte di Cracovia oggi, fa davvero impressione immaginare che poco più di venti anni fa era uno dei

Il Museo Sotterraneo: viaggio nella macchina del tempo

Una specifica vocazione al contemporaneo: il Mocak

perto il 24 settembre del A 2010, il Museo Sotterraneo, autentico gioiellino nascosto nel

l Mocak (sigla che sta per MuIkow) seum of Contemporary Art in Kradimostra come Cracovia, città

cuore della città e tra gli ultimi arrivati nel sistema museale di Cracovia, si trova al di sotto della Piazza del Mercato. Non posso nascondere lo stupore e la meraviglia la prima volta che entrai in questo luogo: varcato l’ingresso, costituito da una sorta di ologramma, mi ritrovai catapultato indietro nel tempo, travolto dai suoni di un registratore che emulavano l’antico mercato medievale. È il biglietto da visita che questa specie di parco archeologico sotterraneo fornisce al visitatore. La sua realizzazione può dirsi abbastanza fortuita: nel 2005, in occasione di alcuni lavori in Piazza, sono stati trovati dei primi reperti, così si decise di andare a fondo scoprendo un patrimonio sommerso dal valore inestimabile. Si tratta di un vero e proprio viaggio nel tempo e tutti gli oggetti ritrovati in quell’occasione, specchio di una storia secolare che ha coinvolto il cuore economico della città, sono esposti all’interno del Museo. L’aspetto più riuscito di questa creatura è la perfetta simbiosi creata tra gli scavi archeologici e le più aggiornate tecnologie contemporanee. Il Museo, infatti, è dotato di numerosi schermi touch che permettono al visitatore di scegliere la lingua e indagare meglio gli aspetti di questo mondo sommerso. L’ultima sala, con l’esposizione di alcune foto della Piazza, letteralmente scoperchiata durante gli scavi, rende ancor meglio l’idea del gioiellino museale che Cracovia, quasi per caso, è riuscita a creare.

dall’aspetto tendenzialmente medievale, si sia aperta prepotentemente all’arte contemporanea. Progettato da due architetti italiani, Claudio Nardi e Leonardo Maria Proli, il Museo, inaugurato nel 2010, sorge nel quartiere di Podgorze, accanto alla fabbrica di Oskar Schindler. Da un punto di vista architettonico, il risultato ottenuto dai due architetti italiani ci sembra soddisfacente: il Mocak, che ingloba parti della preesistente fabbrica di Schindler, mostra profondo rispetto per l’illustre “vicino di casa”. Esteriormente, le linee zigzaganti che Nardi e Proli presentano, manifestano un richiamo all’archistar polacco ma naturalizzato statunitense, Daniel Libeskind. Le collezioni del Mocak danno ampio spazio a giovani artisti locali, anche se non mancano nomi ben noti al grande pubblico come Marina Abramovic e Daniel Spoerri. A conferma che si tratta di una creatura in continuo movimento, dobbiamo dire che almeno una volta l’anno l’allestimento muta, cambiando dunque le opere esposte. Tra le opere più interessanti, non tanto per la qualità ma per il valore civile contenuto al suo interno, mi preme segnalare l’istallazione realizzata da Grzegorz Klaman. All’ingresso della sala che ospita la video arte e altre opere, l’artista polacco, parafrasando la celebre targa posta all’ingresso di Auschwitz “Arbeit Macht Frei”, colloca la targa “Kunst Macht Frei” cioè “L’arte rende liberi”. Una frase dal valore culturale altissimo che contiene un messaggio fondamentalmente positivo.

luoghi maggiormente degradati della città. Un deciso spartiacque è segnato dal celebre film Schindler’s List, uscito nella sale cinematografiche nel 1993, che ha contribuito al rilancio sociale di questo luogo, oggi divenuto un’irresistibile calamita turistica. Qui, infatti, sono state girate le scene più importanti del film targato Steven Spielberg. Nel quartiere di Podgorze, a breve distanza da Kazimierz, ci si ritrova in una zona per certi aspetti ancor più cupa, una piazza con 70 sedie posizionate in varie direzioni: Plac Bohaterow Getta letteralmente “Piazza degli Eroi del Ghetto”. Da questo luogo, come già si può immaginare dal nome, avveniva durante la Seconda Guerra Mondiale la selezione tra gli ebrei che potevano restare e quelli che sarebbero stati caricati sui treni diretti verso i campi di concentramento. A soli cinque minuti di passeggiata, il luogo di maggior interesse di Podgorze, andirivieni continuo di pullman e taxi, è la celebre fabbrica di oggetti smaltati di Oskar Schindler. Oggi adibito a museo, esso ospita varie mostre all’interno concernenti documenti, foto e tanto altro. A circa dieci chilometri dal centro di Cracovia si trova il già citato quartiere di Nowa Huta, esempio dell’urbanistica comunista, costruito sotto il regime di Stalin. Un tempo questo luogo ospitava una gigantesca acciaieria oggi dismessa; vale sicuramente la pena fare un giro nel quartiere per rendersi conto dell’austera edilizia comunista. Merita certamente uno sguardo, all’interno quanto all’esterno, la cosiddetta Arca del Signore, la chiesa simbolo di NowaHuta. Costruita nel 1977 in forme vagamente le corbuseriane, rappresentò quasi uno shock per il regime comunista dell’epoca ma la sua realizzazione ebbe impulso sotto un grande uomo nativo di Wadowice ma cracoviano di adozione: l’arcivescovo dell’epoca Karol Woytiła, meglio noto col nome di Giovanni Paolo II. Queste sono solo alcune delle attrazioni di Cracovia che rapiscono letteralmente un turista. Tuttavia un breve cenno a due luoghi anch’essi patrimonio dell’Unesco (ma quanto diversi tra loro!) pare d’obbligo: le miniere di sale di Wieliczka, strano e misterioso mondo sotterraneo di pozzi e camere, e il campo di concentramento di Oswiecim, più conosciuto col nome tedesco di Auschwitz. Inutile negare che la visita, in quest’ultimo posto, produce nei suoi stessi visitatori quasi un pugno nello stomaco. Si deve essere pronti per sentire certe storie e vedere alcuni luoghi. Personalmente, non potrò mai dimenticare durante la toccante visita guidata, i tanti racconti della guida e rimembro in particolare queste parole: «Signori, vi ricordo che state camminando sul più grande cimitero della storia umana». Basta questo per capire il senso della visita ad Auschwitz. In alto: Una panoramica dalla Vistola della collina del Wawel; Sopra: L’Eros Bendato di Igor Mitoraj; A lato: L’interno dell’Underground Museum e L’esterno del Museum of Contemporary Art in Krakow

geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

17


voyager

architettura/design/ambiente La prima creatura di Dio fu la luce (Francesco Bacone)

Noi non ereditiamo la terra dai nostri genitori ma la prendiamo in prestito dai nostri figli (proverbio keniano)

Viaggio in Sri Lanka l’isola risplendente

Temporary Installations Light Art in Italy

A fianco: Film Ambiente di Marinella Pirelli; Sotto: Studio Azzurro per il Padiglione del Vaticano alla Biennale di Venezia

Quando si parla della luce come materia creativa dell’arte è necessario mettersi in gioco di

di

FEDERICA STRUFALDI

A

tterrati all’alba a Colombo, l’aria caldo-umida della foresta equatoriale ti accoglie, facendoti sentire impreparato a camminare su una terra che non conosce l’inverno. Il lungo viaggio inizia percorrendo le strade della capitale intasate da un traffico frenetico, frastornante e incontrollabile che sciocca lo straniero appena arrivato. La macchina segue la grande arteria principale, all’ombra di grattacieli appena terminati che osservano l’incessante attività costruttiva che sta interessando diversi quartieri affacciati sull’oceano: ospiteranno fantasmagoriche residenze di una catena cinese di resort per vacanze extralusso. Attraversando la zona delle ambasciate, il palazzo presidenziale e il parlamento si percepisce la glaciale perfezione del potere a cui nulla sfugge: il candore di edifici in stile coloniale, la bellezza paradisiaca dei giardini ma anche dei parchi pubblici, curatissimi nei loro manti erbosi, decorati da raffinate geometrie di specchi d’acqua. In questo quartiere nel 2011 viene inaugurato il Nelum Pokuna Theatre (Teatro del Laghetto del fiore di Loto) voluto dall’attuale presidente, anche grazie ad un’ingente donazione del governo cinese; il gioiello architettonico in acciaio e lastre di vetro a forma di Loto, il fiore sacro al Buddha, sembra fluttuare sopra un laghetto circolare popolato da ninfee e pesci dorati. Lasciata questa zona, la vita popolare prorompe nella chiassosa attività commerciale dei negozi e dei banchetti dalle insegne sgangherate che espongono le loro merci fuori, ammassati sul limite di strade che ancora devono essere asfaltate, piene di buche dove si riposano cani semi randagi. Forti odori si mescolano a quello di curry e pesce lasciato seccare al sole, così ci si accorge di entrare nel quartiere dei pescatori dove le donne spazzano la terra, come se fosse un pavimento, davanti alle loro abitazioni di fango e paglia, dal tetto di lamiera. I diversi volti di Colombo rispecchiano le contraddizioni di un paese che sta vivendo un boom economico simile a quello che ha interessato l’Italia agli inizi degli anni Sessanta. Dal 2005 è al potere Mahinda Rajapaksa che proprio in questi mesi è in corsa per il suo terzo mandato consecutivo: ogni piccola o grande cittadina è tappezzata da gigantografie, volantini e bandierine che ritraggono a figura intera la sua persona dalla gestualità tipica del generale, dal carisma di un santone guaritore. A gennaio ci saranno le nuove elezioni ma dei profili degli altri tre candidati i muri delle strade sono spogli. Questa situazione politica di stretto controllo che viola ancora molto la libertà

d’espressione ha portato la fine, per il momento, di una terribile guerra civile che ha paralizzato e messo in ginocchio lo Sri Lanka per trent’anni. Nella primavera del 2009 l’esercito governativo ha ucciso il fondatore delle Tigri Tamil, un gruppo armato nazionalista nato per l’indipendenza dell’Eelam, zona a nord-est dell’isola e abitata dai Tamil. Ceylon, l’antico nome inglese, già nei primi secoli dopo Cristo presentava una popolazione multietnica: la maggioranza erano e sono Singalesi-buddhisti, una parte Tamil-hinduisti, provenienti dall’India del Sud, e una piccola percentuale Musulmani, arrivati dall’Arabia nel X secolo. La ricchezza di pietre preziose e spezie attirò ben presto i conquistatori europei che dal 1505 iniziarono l’invasione; sbarcarono per primi i Portoghesi e gli Olandesi e dal 1798 gli Inglesi che schiavizzarono la popolazione Tamil nelle sconfinate piantagioni di tè sugli altopiani centrali. I dominatori stranieri, per accrescere il loro controllo, fomentarono, nel corso dei secoli, le differenze culturali e religiose, innescando un odio profondo che dal 1948, anno dell’indipendenza dall’Inghilterra, peggiorerà sempre di più. Si arrivò allo scontro etnico e ad una devastante guerra tra le forze governative Singalesi e i Tamil. Ci furono migliaia di morti, la maggior parte civili, essendo uno scontro basato su incontrollabili attacchi terroristici delle Tigri e sulla feroce repressione dell’esercito singalese con le terribili squadre della morte. Testimonianze degli orrori, che difficilmente ebbero eco internazionale, sono il lavoro di Pradeep Chandrasiri Broken hands (19972001) in cui si percepisce il sacrificio di troppe esistenze rappresentate da fragili mani di terracotta, appoggiate su ceppi di legno, che portano piccoli lumini devozionali, flebili luci di speranza. Mentre in After Town Hall bomb Sujith Ratnayake ha creato, usando tratti a carboncino e collage, scatti dell’attentato del 1999, in cui le protagoniste furono donne: l’attentatrice e la presidente che perse l’occhio destro. La disposizione dei soggetti simili a fotogrammi sottolinea il carattere di denuncia, da reportage di guerra, mentre la tecnica del collage esprime tutta la tensione e il caos di quella giornata. Il terrore e il senso d’impotenza ha paralizzato una generazione intera che adesso sente il desiderio di rinascere e diventare un paese all’avanguardia, dal respiro internazionale, dopo essersi lasciato alle spalle anche il disastro dello Tsunami del 2004. Una decina di anni fa numerosi artisti, provenienti da zone diverse dello Sri Lanka, sentirono il bisogno di donare la speranza e costruire quel ponte che avrebbe permesso l’incontro e la condivisione tra le

Sigiriya, gioiello Unesco: la fortezza sospesa sulla giungla

Anuradha pura: respirare a piedi nudi la spiritualità d’oriente

el V secolo fu costruito un castello sopra un enorme rocN cia alta 370 m che si erge fiera

uella mattina la pioggia scrosciava potente e incessante. Q A poco serviva l’ombrello, così

dall’oceano color giada della foresta equatoriale. Per giungervi si percorre un sentiero fra vasche e giochi d’acqua ancora funzionan- ti, superando il grande fossato, un tempo popolato da coccodrilli. Salendo una ripida scala di ferro sospesa nel vuoto, si arriva in un anfratto che cela lo splendore di affreschi che un tempo dovevano ricoprire l’intera superficie laterale della roccia: sensuali ancelle sorridenti, coperte solamente di oro e gemme, ci narrano di una corte sfarzosa e accessibile a pochi eletti. Attraverso il mirror wall, che risplende nei giorni di sole, si arriva alla porta dei leoni, l’imponente ingresso alla rocca che, secoli fa, aveva le fattezze di un enorme leone del quale rimangono solo le due zampe. Conquistata la vetta si respira quell’aurea di potenza e dominio che doveva provare il sovrano, sospeso tra una terra color smeraldo e il cielo. Nella foto: Affreschi del V secolo, rocca di Sigiriya

18 geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

GLORIA MUZI

P

varie anime di Ceylon. In concomitanza alla distensione del conflitto nel 2009, nasce nella capitale la prima manifestazione internazionale di arte contemporanea la CAB, Colombo Art Biennale. Nei titoli delle tre rassegne svolte fino Imaging Peace (2009), Becoming (2012) e Making History (2014) forte è l’energia e la consapevolezza di essere una delle realtà emergenti nel panorama artistico asiatico che tende verso il mercato russo e occidentale. In un momento di fermento economico-culturale così importante, il governo dello Sri Lanka dovrà seguire la forte spinta della globalizzazione e delle leggi del mercato internazionale, ricordandosi però che le radici e il fascino del suo popolo stanno nei riflessi, che non dovranno più essere oscurati, delle diverse facce di questa gemma d’Oriente. Nelle foto in alto, da sinistra: La Colombo internazionale; La Colombo popolare; Pradeep Chandrasiri, Brokenhands installazione in terracotta e legno

er questo numero mi viene assegnata un’intervista a Gisella Gellini, massima ricercatrice esperta di Light Art e della Cultura Luce-Colore. Penso sia un’occasione eccezionale. Che emozione! Poi l’euforia lascia il posto al panico, perché realizzo che di Light Art so poco. Corro alla Biblioteca Umanistica dell’Università, fiduciosa di riuscire a trovare velocemente qualcosa per colmare la mia lacuna. Non riesco a trovare nulla di specifico e il panico lascia spazio al terrore: sicuramente da qualche parte, sepolte e sparpagliate in chissà quanti volumi, ci sono le informazioni che mi servono, ma io non ho così tanto tempo. Per fortuna c'è internet. Una settimana dopo entro nell’appartamento di Gisella Gellini, nel cuore di Milano, per l’intervista a tu per tu e un caffè. La sorpresa, quando entro in salotto (una stanza luminosissima), è che non saremo sole: la padrona di casa è stata così gentile da chiamare anche la giornalista Clara Lovisetti, collaboratrice del sesto libro della serie Light Art in Italy – Temporary Installations 2013. Perché la Light Art è un genere artistico così difficile? «Perché la luce è un medium artistico che richiede competenze notevoli competenze, sia che si tratti di luce naturale che di luce artificiale. Poi ci sono le problematiche legate al mantenimento e alla conservazione delle installazioni di Light Art, perché consumano energia elettrica, perché per il loro restauro bisogna conoscere la tecnologia che utilizzano e così via. Ma soprattutto la Light Art è difficile perché è spesso fraintesa. Basti vedere i molti festival della luce nati negli ultimi anni. A mio avviso in molti casi non fanno una ricerca artistica, ma sono solo kermesse di luci colorate e musica per attirare il pubblico, che in questo modo è portato a ritenere che questa sia la Light Art. Il problema sostanziale è che non sempre si riesce a riscontrare nemmeno negli “addetti ai lavori” una preparazione forte in materia e un’apertura mentale tale da aprire le porte alla Light Art. È come se si vivesse nel pregiudizio ed è un peccato perché la luce non ha bisogno di essere spiegata, va solo vissuta perché è la sorgente della vita». E quali sono le caratteristiche del medium "luce"? «La luce è un linguaggio universale, è un elemento che interagisce con la materia, plasma lo spazio ed è grazie alla luce che noi percepiamo gli ambienti e gli oggetti. La luce è considerata un elemento esterno a noi, ma in realtà noi siamo fatti di luce perché gli effetti psicologici che essa produce su di noi sono totalizzanti. Noi percepiamo perché riceviamo sensazioni e queste sono collegate anche al fattore luminoso: la luce rende visibile le cose ed evoca stati d’animo. La Light Art, consapevole dell’influenza della luce sulla percezione, gioca sullo stimolo per l’evocazione di sensazioni diverse. Di questo e anche di tanto altro si occupano gli artisti quando lavorano con le sorgenti luminose, non di produrre cose ad effetto prive di significato». Quindi che cosa è la Light Art? «Una forma d’arte visiva e percettiva il cui mezzo di espressione è la luce, che come ho detto prima non è solo quella naturale ma anche quella artificiale: gli artisti usano il mezzo e la fonte luminosa per creare situazioni e forme d’espressione che non hanno niente a che vedere con il cosiddetto design, perché con la tecnologia si può fare anche arte, non solo prodotti in senso lato. La Light Art non va confusa con la moda di inondare con luci colorate o meno architetture e piazze ma è una ricerca, uno studio, una riflessione profonda sulle qualità della luce, sui suoi effetti, sulle sue capacità espressive.

Il pubblico deve capire che quando si parla di Light Art è necessario mettersi in gioco: non si tratta di contemplare un’opera, di guardare passivamente, ma di avere un atteggiamento attivo che porti a vivere l’installazione che dialoga e lavora sull’ambiente che abitiamo, riflettendo anche sulle sensazioni che proviamo d’impatto. Fra i pionieri in tal senso citerei James Turrell e Dan Flavin che hanno esplorato la luce e la sua percezione con installazioni ambientali». Che ruolo gioca la Light Art nel rapporto arte e città? «Siamo in un’era che vede sempre più spesso gli artisti contemporanei coinvolti nello spazio urbano, perché il concetto stesso di arte è cambiato: ora l’arte esce da quelli che sono i confini dello spazio chiuso del museo per invadere, vivere e relazionarsi con la città e lo spazio pubblico tramite mezzi espressivi che sono innovativi e profondamente diversi da quelli tradizionali. In proposito l’esempio di Torino è lampante: Luci d’artista è un progetto pioneristico nato una decina di anni fa con lo scopo di sostituire le spesso banali luci natalizie con opere di artisti, non solo italiani, chiamati a creare installazioni da far vivere nello spazio urbano per un mese nel periodo natalizio, anche se poi alcune sono diventate permanenti. Sulla scia di questo esempio è nato in seguito un analogo evento a Salerno, ma con ambizioni più contenute». Da dove nasce il suo interesse per la Light Art? «Tutto iniziò quando conobbi Giuseppe Panza di Biumo, uno dei più grandi collezionisti di arte contemporanea, che mise a disposizione un gruppetto di artisti alcuni spazi della sua villa a Varese per creare installazioni site-specific, in effetti un caso più unico che raro non solo in Italia, ma in tutto il panorama internazionale. Non per niente il mio ultimo libro Light Art in Italy è dedicato anche a lui». Perché la Light Art è così poco documentata? «La light Art, a differenza di quello che succede all’estero, è un fenomeno relativamente poco diffuso in Italia ed è un genere di arte che viene spesso scambiato con l’addobbo natalizio. Indubbiamente è un tema che necessita di essere fortemente sviluppato, anche se recentemente si nota un maggior interesse per l’argomento. Ad esempio quest’anno ci sono state due mostre molto importanti in Italia: “L’illusione della luce” a Palazzo Grassi di Venezia e “Aisthesis” a Villa Panza di Varese, con artisti nazionali e internazionali di fama mondiale. La cosa che colpisce appunto è che, nonostante non si parli quasi mai di Light Art a livello popolare, queste due mostre hanno avuto un successo strepitoso. Con il mio libro Light Art in Italy sto cercando appunto di colmare questa carenza di documentazione, con un qualche cosa che non sia la mera registrazione di eventi effimeri, ma che ne conservi la memoria e ne trasmetta i contenuti artistici». Di che cosa parla questa ultima edizione? «Sesto libro della serie, raccoglie le opere temporanee realizzate con la luce in Italia nel 2013 ed è dedicato, oltre che a Giuseppe Panza, agli artisti Paolo Rosa e Marinella Pirelli. Abbiamo scelto così – dico abbiamo perché ha collaborato con me la giornalista Clara Lovisetti - una quarantina di installazioni e opere con la luce, con una particolare attenzione a quelle proposte alla passata edizione della Biennale Internazionale d’Arte di Venezia e ai suoi eventi collaterali, da Culture Mind Becoming a Palazzo Bembo e Genius Loci a Palazzo Cavalli Franchetti, includendo anche altre mostre, come Prima Materia a Punta della Dogana, che non facevano propriamente parte della Biennale. Ci tengo a sottolineare che Light Art in Italy include solo opere esposte in ambiti museali, spazi urbani pubblici o

Gisella Gellini, architetto, si è laureata a Firenze con

tesi su Restaurazione e organizzazione museografica di Palazzo Schifanoia di Ferrara (XIV sec.). Ricercatrice della cultura della luce con particolare riferimento alla Light Art, ottiene la collaborazione e la consulenza del collezionista Giuseppe Panza di Biumo. Nel 2009 è stata curatrice per l’esposizione “Dan Flavin nella Collezione Panza”al Museo Berardo –Lisbona; a Milano, dell’installazione di Nicola Evangelisti Light Blade a Villa Reale. Nel 2010 della mostra “Luces. Light art from Italy”, collettiva di artisti italiani della luce e nel 2012 della mostra JETZT Archäologische Schatten di Fabrizio Corneli, entrambe allestite al Museo Archeologico di Francoforte. Attualmente tiene il corso Light Art e Design della Luce alla Scuola del Design del Politecnico di Milano. Come esperta di Light Art collabora con l’Accademia di Belle Arti di Brera, è invitata a seminari e workshops, oltre a scrivere per riviste specializzate del settore illuminazione.

eventi artistici non commerciali, per evitare condizionamenti e commistioni. Ciascuna opera è illustrata da fotografie a colori e corredata da una scheda descrittiva e da una sintetica biografia dell’artista, che aiutano a comprenderla e a inquadrarne il contesto. Non solo, ma per dare un'idea più completa delle installazioni, che spesso sono dinamiche, è incluso un DVD con brevi filmati per ciascuna opera. Il tutto è preceduto da saggi introduttivi commissionati a esperti come critici e storici dell'arte, curatori di mostre e musei, docenti universitari e lighting designer, giornalisti. Troviamo così il critico e storico dell'arte, oltre che docente universitario, Massimo Bignardi, con un saggio sul tema luce come materia della forma; la giovane curatrice Carol Rolla, che ha parlato di luce come elemento di connessione; il lighting designer, nonché docente all'Accademia di Brera, Domenico Nicolamarino che ha affrontato la luce nei suoi multiformi aspetti; la giornalista Clara Lovisetti, che ha analizzato il tema del rapporto luce e vetro. Come disse Paolo Rosa, “queste opere, una volta smontate, finiscono di vivere il loro momento dentro la realtà, magari per vivere meglio nella memoria di chi le ha viste” e questo mio libro vuole essere uno strumento per aiutarci a ricordare meglio». Dopo due ore di conversazione libera e spontanea con due persone gentilissime che si sono messe a mia totale disposizione e dopo aver parlato di tutto e di più (non solo di Light Art) mi avvio verso casa. E penso: più che un’intervista, è stata una lezione di Light Art, e di vita.

anche le scarpe rimasero in macchina. I passi scalzi affondavano e venivano massaggiati da una graniglia rosata, calda mentre le vacche e le scimmie ti accompagnavano tranquille lungo il percorso punteggiato da sculture e campane portafortuna. Arrivati nei pressi del luogo sacro, i fedeli, sorridenti e incuranti di avere i capelli e le vesti bianche inzuppate, stavano in fila tenendo fra le mani i fiori di Loto dal profumo e dai colori indimenticabili. Era un incedere silenzioso, quasi metafisico: il gigantesco e candido MahaThupa sembrava evaporare insieme alla pioggia. Gli stupa, dalla parola sanscrita che significa ciuffo di capelli, ricordano la parte superiore della testa del Buddha e sono le evoluzioni del tumulo di terra che segnalava il luogo in cui era avvenuta la bodhi, il risveglio, quell’illuminazione spirituale agognata da ogni buddista. Nella foto: MahaThupa, Anuradhapura

geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

19


architettura

filosofia/estetica Respiro male in un mondo non attraversato da ombre sacre (N. Gómez Dávila)

La prima volta che ho visto Matera, ho perso la testa, perché era semplicemente perfetta (Mel Gibson)

Il sogno, la scommessa e il destino di una città nell’intervista al sindaco Salvatore Adduce

Un futuro per Matera Si riparte da qui! di

MARIA ANNA PICCINNI

«I

l destino di Matera sembrava segnato definitivamente quando la città è stata definita “vergogna nazionale”. Con la vittoria di questo ambito titolo, il destino sembra essersi capovolto: da capitale del mondo contadino a capitale della cultura.“Futuro” è la parola chiave su cui si basa il progetto. I giovani devono impadronirsi della cultura.» Parla con orgoglio e fiducia Salvatore Adduce, sindaco di Matera, città europea della cultura del 2019. Non è stato facile sbaragliare la concorrenza di città come Siena, Lecce, Cagliari, Ravenna, ma Matera ce l’ha fatta e tutto ciò è stato possibile grazie alla stretta collaborazione che si è creata tra il sindaco, il comitato di promozione di Matera 2019 ed i cittadini tutti. È stata una vittoria meritata quella di Matera, che ha colpito la giuria in un modo eccezionale, tanto che uno dei giurati, lo spagnolo Pardo, ha affermato che, comunque fosse andata, Matera sarebbe stata riconosciuta come “capitale dell’accoglienza”. L’idea di ospitare la commissione della giuria nelle case dei cittadini, infatti, è piaciuta molto e ha sottolineato ancora una volta l’impegno e la perseveranza della popolazione di voler conseguire un risultato molto ambito. Una volta acquisito il titolo, però, bisogna puntare a costruire qualcosa di concreto e Adduce ha le idee molto chiare: si deve puntare a garantire ai giovani lucani la possibilità di formarsi e soprattutto di cercare un’occupazione nella propria terra d’origine. Si devono creare sbocchi lavorativi non solo nell’ambito turistico, ma anche in campo artigianale, per ripristinare gli antichi mestieri. Abbiamo chiesto al sindaco perché, a suo parere, Matera abbia vinto è la risposta è stata sorprendentemente toccante: «Non si è stati valutati per quello che la città è, ma per quello che la città propone di divenire». A tal proposito si possono citare i tre progetti ai quali il sindaco tiene molto: l’idea di un istituto demoetnoantropologico, infrastruttura culturale, attrattiva costituita da un archivio materiale della storia di Matera; l’idea della scuola del design, risposta alla crisi economica e industriale; l’idea di un teatro semovente. Forte ancoraggio alla storia e notevole riferimento al futuro costituiscono i progetti che si ha in mente di attuare. Secondo Adduce «la cultura deve corrispondere ad un progetto di grande impegno creativo affinché si possano realizzare nuove idee per poter definire nuovi prodotti». Adduce ritiene, inoltre, che la vittoria non è soltanto di Matera, ma dell’intero mezzogiorno, che ha la possibilità di riscattarsi e l’opportunità di poter garantire un futuro migliore ai giovani lucani e delle regioni limitrofe. Basti pensare che il progetto di candidatura, oltre che

Strategie creative, sperimentazione digitale e ricerca sociale di

STELLA CUOMO

20 geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

Rappresentazioni po(i)etiche e storiche di Trotula de Ruggiero

Arne Naess una soluzione al problema

N

el libro Ancora Trotula (Arpeggio Libero, Lodi), utilizzando il mezzo di una parola poetica che non s'arroga il diritto di oltrepassare il limite della statura storica di Trotula de Ruggiero, prima medichessa della Scuola Medica Salernitana, Angela Panaro – già autrice di due raccolte di acrostici e due raccolte di racconti, nonché studiosa della letteratura anglofona – tende la mano alla storia, accompagnando la figura di Trotula nel nostro secolo, evidenziando l’importanza della corporeità femminile di un essere altro che è stato donna tra gli uomini, «donna del mondo colto del suo tempo, delle femmine del popolo». Attribuendo a Salerno la qualità di ‘città del sale’, l’autrice, tramite un linguaggio simbolico, ricostruisce fittivamente – non senza riferimenti alla verità storica – il profilo della medichessa. Vari studiosi si sono già cimentati con i documenti relativi alla figura in questione: è questo il motivo per cui Panaro fa contestualmente un passo avanti ed un passo indietro, facendo coincidere i due movimenti con quelli del tempo fruibile e quello già trascorso. Scegliendo la forma della lirica, incisiva ed evocativa, il mito si consegna alla parola poetica, riproducendo quella collaborazione necessaria con la realtà della gente, di cui Trotula faceva parte come donna, madre, professionista. La Trotula di Panaro possiede dignità intellettuale della Medea sacerdotessa e curatrice, della quale condivide l’impeto di autonomia destereotipizzante delle immagini di donne asservite a sistemi a loro apparentemente inaccessibili.

ecologico? da Matera, è stato sostenuto anche dalla provincia di Potenza, dalla vicina Puglia e anche dalla Campania. La città di Matera, dunque, deve cominciare a mettere a disposizione di tutti le proprie forze e ambire, così, alla costruzione di qualcosa di concreto che possa modificare radicalmente la situazione precaria che vige tuttora in Basilicata. Spesso si parla del mezzogiorno come di una parte del tutto estranea all’Italia: occorre eliminare questi pregiudizi e far sì che si cominci a pensare come un unicum l’Italia intera. Il professor Massimo Bignardi, docente di storia dell’arte contemporanea all’Università degli studi di Siena, in un’intervista dichiara che la vittoria di Matera può essere paragonata al film di Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo: come, infatti, si passa dalla passione di Cristo alla sua risurrezione, così dalla passione del popolo meridionale, da sempre considerato subalterno e contadino, esattamente cinquant’anni dopo si passa alla risurrezione dei meridionali. La città di Matera più volte si è trovata a dover fronteggiare situazioni di grande difficoltà e ha saputo reagire con determinazione e farsi portatrice dell’idea di non arrendersi. A questo proposito, si possono citare ancora una volta le parole del sindaco, che spiega il significato di un motto latino preso in considerazione per il logo di Matera 2019: «Bos lassus firmius figit pedem: come il bue stanco affonda la zampa più fermamente, così Matera, con le proprie forze, deve trovare in se stessa la convinzione di proseguire il suo cammino». Inoltre sottolinea anche che all’inizio, nel lontano 2009, anno in cui è stato proposto a Matera di cominciare il suo percorso, nessuno sapeva quali fossero i benefici di raggiungere un risultato di tale calibro. È stato solamente quando le città candidate sono diventate sei che tutti hanno cominciato a crederci e a far sì che si costruisse qualcosa di notevole. Dice ancora Adduce: «Il sindaco deve sintonizzarsi perfettamente con il percorso di Matera. Si avverte un grandissimo orgoglio non solo per il titolo che si è conquistato, ma per il percorso che si è fatto. La politica italiana sta dando il peggio di sé. Io sono felice di aver restituito alla politica il suo valore vero. Questo è quello che dovrebbe fare la politica: collaborare con la cittadinanza e offrire alternative, costruendole insieme». Il secondo dossier di presentazione di Matera esplica l’obiettivo della città: si deve lavorare per il futuro dei giovani. Già a partire dal titolo Open future, il dossier si propone di dare forma ai sogni dei giovani lucani, che sperano in un futuro che non lasci allo sbaraglio le loro aspettative. Notevole anche il lavoro di alcuni giovani lucani, che hanno collaborato concretamente per rendere la città di Matera una città degna di concorrere con città del suo stesso calibro o addirittura maggiore. «Non nego che ci sia stata competizione tra le città candidate -

a Vila Olimpica (The Fish) a Barcellona è la dimostrazione che il Jim Glymph non aveva torto quando, entrando Lnelloprogrammatore studio dell’architetto Frank Gehry, in qualità di collaboratore,

Percorsi d’architettura nell’era postindustriale

Un libro di Angela Panaro

pretese di poter gestire tutto, dall’ideazione del progetto all’esecuzione, fino all’analisi dei costi. Grazie a Catia, raffinatissimo programma di modellazione 3D in uso dalla fine del 900, Glymph riuscì sia a gestire forme complesse che ad ottenere un’analisi di fattibilità strutturale ed economica del progetto [Sydney Pollack, Frank Gehry Creatore di Sogni, Feltrinelli, 2006]. L’epoca postindustriale è quella dei software come Catia, 3D Studio Max, Rhino, Grasshopper, nati sia per la necessità di dover rappresentare un progetto in tempi molto brevi e nel modo più “foto-realistico” possibile, sia per il superamento, già dalla fine dell’800, della geometria euclidea, in favore dell’ “ipercubo”, del “nastro di Mobius”, della “bottiglia di Klein”. L’architetto Luca Galofaro ha condensato, nel libricino Eisenman digitale. Uno studio dell’era elettronica, la sua esperienza lavorativa nello studio dell’architetto Peter Eisenman a New York, mettendo in grande evidenza l’aspetto “progettuale” per cui viene utilizzato lo strumento digitale. Eisenman afferma: «Cerco dentro il computer le condizioni per operare, cerco quello che non capisco o, meglio, qualcosa che mi affascina perché non conosco». L’architetto statunitense utilizza lo strumento digitale per “sperimentare”, per andare oltre ma conservando un controllo complessivo della struttura. In questo modo il computer ha permesso di realizzare cose prima impensabili. Nel corso della sua permanenza nello studio Eisenman, Luca Galofaro ha appreso come la modellazione debba essere usata come strategia creativa e non come strumento di rap- presentazione. È in quest’ultimo caso, allora, che l’epoca del digitale viene ricondotta all’epoca del virtuale nell’accezione più negativa del termine, come epoca dell’illusione. La mera rappresentazione del reale spesso illude il progettista. La sperimentazione sulla forma, sulla geometria non euclidea porterà, invece, allo sviluppo futuro dell’architettura. Molti degli architetti definiti “formalisti” hanno come fine del loro lavoro non la ricerca di una forma immaginata ma di un processo creativo. È più facile di quel che si racconta ed è più difficile di quel che si

Una riflessione critica sull’egualitarismo biosferico di

dice ancora il sindaco - ma dato che nessuna delle città aveva la certezza di vincere, insieme si è proposto al governo un percorso che portasse il titolo di Italia 2019, per far sì che anche le altre città candidate potessero proporre progetti da seguire e da attuare. Il concorso prevedeva la proclamazione di una sola città, ma le altre candidate hanno il diritto e il dovere di non disperdere il patrimonio di progettualità che è stato pensato per la candidatura». A proposito dell’istruzione e della formazione dei giovani, ancora una volta il sindaco dice che le università devono svolgere il compito di occuparsi professionalmente dei ragazzi e devono offrire la possibilità di scegliere indirizzi formativi che consentano loro una preparazione completa. L’Università della Basilicata è una delle più giovani e soffre di problemi legati anche alla sua dimensione. Ultimamente, però, c’è un grande lavoro da parte dell’ateneo lucano che mira a garantire una preparazione notevole. È importante sottolineare ancora una volta l’impegno profuso dall’intera popolazione materana e dai comuni limitrofi che hanno aderito pienamente al progetto, riportando il logo di “Matera 2019” sulle brochures di ogni evento culturale organizzato. Particolare rilevo hanno assunto eventi di calibro nazionale: tra tutti, la mostra inerente a Pasolini e al suo Il Vangelo secondo Matteo, girato anche nei Sassi di Matera. A questo punto, è necessario dire altresì che la città di Matera aveva tutte le potenzialità per vincere una così dura battaglia: il patrimonio artistico è notevole e la storia della città corrisponde alla storia dell’uomo, dato che il sito abitativo è uno dei primi del mondo; Ma è stato solo grazie al lavoro e alla partecipazione della cittadinanza che si è portato avanti con tenacia il progetto di “Matera 2019”, che consentirà alla popolazione lucana di prendersi la propria rivincita e dimostrare che nulla è impossibile. La “vergogna nazionale” diventa così “orgoglio nazionale”. Nelle foto da sinistra: Matera oggi; Immagini scattate sul set del film Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini

pensa. Immaginando di dover spiegare questo concetto ad un giovane studente, farei l’esempio della Virtual House di Eisenman: il progetto nasce dall’interazione di nove cubi ed ogni collegamento è espresso da un vettore in un certo tempo. Consideriamo due cubi, una volta con i lati adiacenti, un’altra volta incastrati l’uno nell’altro. Ogni vettore agisce sulla singola linea del cubo e, variando il tempo, dà luogo ad una serie di deformazioni che generano superfici curve e lo spazio tra queste superfici è lo spazio architettonico che Eisenman cerca e trova. In questo caso le variabili sono i vettori ed il tempo. In altri casi sono le sovrapposizioni di figure geometriche, le sottrazioni, le ripetizioni. Il risultato è sempre inaspettato, l’unica certezza è il processo. L’uso del digitale in chiave “progettuale” potrebbe essere una buona risposta, ma non è la sola. Contemporaneamente si sta sviluppando una strada che, al di là degli aspetti formali, cerca risposte concrete alla presente crisi, in un approccio tutto sociale e sostenibile. Dalle Social Housing alle opere realizzate in Africa, l’architetto è, prima di tutto, sociologo ed antropologo. Caso emblematico di questa nuova concezione della figura dell’architetto è rappresentato dallo studio Tamassociati, vincitore del premio “Architetto Italiano 2014” per l’eccellenza tecnica ed etica. Il loro lavoro fatto di progetti di strutture sanitarie, architettura bioecologica ed architettura partecipata in contesti duri e disagevoli, limitati nel budget e nelle tecnologie. I risultati sono, però, sorprendenti. È stato per me emozionante poter ascoltare, in una recente conferenza al “Festival GATE” a Salerno, le parole di Simone Sfriso sui loro progetti. Da ricordare il Centro Cardiochirurgico Salam Center in Sudan, in collaborazione con Emergency, sviluppato sul concetto di “ospitalità” e “dignità della persona”, un ospedale nato dai bisogni “emotivo/emozionali” delle specifiche persone, prima ancora che da generiche esigenze tecnico/funzionali. Nella situazione architettonica attuale, due potrebbero essere le strade certe: la prima è quella che indaga, grazie ai software, nuove forme possibili per una possibile nuova dimensione del vivere, mentre la seconda, dagli anni Settanta, cerca risposte per un’architettura partecipata e sostenibile. Nella foto: Mobius House

LORENZO DE DONATO

S

ei anni fa moriva il filosofo norvegese Arne Naess, il teorico dell’ecologia profonda, il promotore di un’innovativa e radicale etica ecologica. La visione di Naess, ispirata dal principio gandhiano della non-violenza, implica che ogni essere vivente ha un uguale diritto ad esistere e a svilupparsi. Mentre l’approccio ecologico tradizionale affronta i problemi ambientali da un punto di vista umano, la deep ecology teorizza che tutte le forme di vita, non solo quella umana, «hanno un eguale diritto a vivere e a realizzarsi pienamente». Naess contrappone all’antropocentrismo tipico di qualsiasi etica dell’ambiente un radicale biocentrismo, in cui ad essere messo al centro non è l’uomo, ma il bios, la vita, in tutte le sue forme, da quella umana a quella animale, da quella vegetale a quella minerale. L’egualitarismo biosferico è perciò l’unica posizione ideologica veramente ecologica e in grado di mutare le sorti del pianeta. Naess afferma che il diritto alla vita è un «diritto universale», appartenente ad ogni forma di vita, dunque «nessuna specie vivente può beneficiare del diritto a vivere e a riprodursi più di un’altra». Ne deriva una concezione del sé che distrugge la credenza nella supremazia dell’essere umano rispetto all’ambiente naturale. Questa posizione porta ad un sistema di valori diverso da quello antropocentrico: si tratta di un vero e proprio ecocentrismo. L’impatto dell’attività umana e della moderna civilizzazione minacciano il benessere ecologico globale. Le risorse del pianeta sono limitate. Inquinamento, rifiuti, industrializzazione sfrenata, deforestazioni, riduzione della biodiversità: azioni umane e loro conseguenze formano un tutto indistinto. La corrente teorica dell’ecologia profonda spera di influenzare il cambiamento sociale e politico avendo come obiettivo la diffusione di una coscienza ecologica di questo tipo. Il pensiero di Naess costituisce una vera ecosofia, che è una forma di saggezza concernente l’oikos, ovvero la casa-Terra. Una delle formulazioni della legge morale che Kant aveva elaborato era: «agisci in modo da considerare ogni essere umano come scopo e mai come semplice mezzo». I valori dell’egualitarismo biosferico portano Naess ad una revisione di questo principio: «agisci in modo da considerare ogni essere vivente come scopo e mai come semplice mezzo». La teoria di Naess fornisce lo spunto per una riflessione critica. La

Eriberto Russo

Nella foto: La copertina del libro

specie umana è l’unica specie vivente in grado di modificare l’ambiente in cui vive, di dominarlo. Una filosofia come quella di Naess, se diffusa a livello di massa, potrebbe rivelarsi talmente radicale da produrre un effetto inverso. Potrebbe accadere che l’ecologia si rivolti contro l’uomo. Se tutto si fermasse e gli esseri umani smettessero di compiere tutti gli interventi sull’ambiente, la natura stessa insorgerebbe. Riacquisterebbe a poco a poco gli spazi che le sono stati sottratti. Il biocentrismo andrebbe a scapito dell’antropocentrismo e porterebbe ad un restringimento della nicchia ecologica della specie umana. Esiste poi un problema di ordine sociale, un problema di democrazia. Non si può scindere l’ecologia dalla democrazia. Una spinta eccessiva a livello di massa, una “dittatura ecologica”, confliggerebbe con l’attuale idea di democrazia: il problema dell’ecologia è infatti un problema di accettazione di essa all’interno dei gesti quotidiani. Il problema ecologico dunque si configura anche come problema di ecologia sociale. Non si può ovviamente non accennare all’altro grande tema collegato all’ambientalismo, quello degli interessi economici, che sembra essere la motivazione di base dell’accanimento umano contro il pianeta. Il problema, a ben vedere, non è l’economia in quanto tale, ma il fatto che essa è legata ad un modello di sviluppo distorto che prevede uno sfruttamento dissennato delle risorse naturali, che andrebbero invece utilizzate ma al tempo stesso preservate. Nella foto: Arne Naess

upert Sheldrake, autore del volume Le illusioni della scienza (Urra-Apogeo, Milano), è uno R scienziato specializzato in biochimica, noto al pub-

U

Filosofia e scienza /1

Hans Jonas: materia e spirito

no dei compiti della filosofia è di confrontarsi con i successi che la scienza ha conseguito negli ultimi secoli. Il suo sviluppo è stato possibile nel quadro di un paradigma gnoseologico influenzato da Cartesio. Egli opera la separazione ontologica tra il mondo, la res extensa, e la mente dell’uomo, la res cogitans. La scienza moderna, avendo come oggetto la materia estesa, elabora una visione meccanico-materialistica della realtà a scapito di punti di vista alternativi, imponendola come dato culturale. La visone materialista e il suo programma riduzionista, che tenta di ricondurre il tutto ad atomi e particelle in movimento, è entrata in crisi. Non rende conto della complessità della vita e dell’universo, del fatto che la vita oltre che da cause materiali, è determinata anche da una causa finale. Lo scopo, il telos, è intimamente legato allo sviluppo della vita e alla sua dinamica interna. Il libro di Hans Jonas, Materia, spirito e creazione (Morcelliana, Brescia) affronta la questione, cercando una possibile via d’uscita nella metafisica, tanto rigettata da certo pensiero scientifico. Jonas enuclea alcuni punti critici del materialismo, non in grado di rendere conto della specificità, rispetto al cosmo materiale, della dimensione umana, dello spirito. La materia estesa non può produrre qualcosa di diverso da sé, a meno che non contenga in nuce il principio della possibilità dello sviluppo dello spirito. È questo il limite che Jonas addita al pensiero scientifico moderno.

Alfonso Salvatore

Nella foto: Hans Jonas

Filosofia e scienza /2

Illusioni della scienza e materialismo

blico per alcuni suoi saggi che affrontano argomenti eterodossi rispetto alla comune ricerca scientifica. Per questo è stato spesso oggetto di critica feroce da parte di alcuni suoi colleghi. L’interesse che suscita il pensiero di Sheldrake non è solo legato ad alcune sue teorie, ma alla chiarezza con cui affronta spinose questioni. Il materialismo predomina nella ricerca della maggior parte degli scienziati. Esso tende a ridurre la realtà, tutta la realtà, a uno schema meccanico-materialista. Tutto l’universo, noi compresi, nell’ottica materialista, è composto da meccanismi, magari molto sofisticati. Ma la nostra esperienza ci suggerisce, come osserva Sheldrake, che la metafora del meccanismo è inadeguata a descrivere la maggior parte dei sistemi che troviamo nell’universo, le molteplici forme di vita che troviamo sulla Terra. Risulta più adeguata la metafora dell’organismo, di un sistema composto di parti il quale è più della somma delle sue parti. Ci si chiede allora il motivo della persistenza di convinzioni che, a un attento esame, non reggono alla prova dei fatti. Il motivo è da ricercare nella trasformazione della scienza da un sistema di conoscenze pensato su protocolli oggettivamente validi e atemporali a un sistema di credenze, sotto certi aspetti non lontano dalla religione, se consideriamo quest’ultima da una prospettiva cognitiva.

a.s.

Nella foto: Rupert Sheldrake

geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

21


libri & notes

cinema

Nella cultura autentica la ragione diventa sensibilità (N. Gómez Dávila)

Il mondo non è un posto molto comodo se si ha un incubo da affrontare (T. L. Jones) Novità dell’anno

American Sniper di Clint Eastwood

T

Tommy Lee Jones e il suo nuovo film The Homesman Gli va riconosciuta l’asciuttezza formale non solo recitativa ma anche visiva e narrativa di

ELIO DI PACE

C

onfesso. Quando ho intrapreso la visione di The Homesman, il nuovo film di Tommy Lee Jones presentato in concorso all’ultimo festival di Cannes (a mani vuote, questa volta, dopo il doppio premio nel 2005 con The Three Burials, su cui si è detto abbastanza, ma mai abbastanza), sentivo di possedere in partenza gli elementi per amarlo: amo la faccia di pietra – rughe tendenti al canyon – dell’attore-autore, indicatissimo pendant di terre riarse percorse dal vento (e se questa stessa faccia è assurta a simbolo di qualcosa di antico, di primordiale, è i Coen che bisogna ringraziare); amo la sua voce roca, impastata, così spoglia di qualsivoglia artificio – ancorché nobile come il prontuario dell’Actors’ Studio – cui pure fanno ricorso suoi esimi colleghi; e del Jones regista amo l’asciuttezza formale, a tutti i livelli, non solo recitativa – che concerne lui e lui solo – ma anche visiva e narrativa (oltretutto, come vedremo, frutto di scelte precisissime ed eclettiche, vòlte a un fine solo, che è il racconto: dimensione cui pure Jones vuole presiedere, figurando tra gli sceneggiatori). La sinossi è nota: la risoluta, nubile, timorata di Dio Mary Bee Cuddy (Hilary Swank) deve scortare dal Nebraska all’Iowa – perché un pastore metodista se ne prenda cura – tre donne che hanno perso la ragione e pertanto sono state ripudiate dai mariti (che neppure danno l’impressione di stare benissimo, ma è un discorso che non approfondiremo). La affianca un balordo che dice senza troppa convinzione di chiamarsi George Briggs (Jones), che lei salva da impiccagione equina (!!!) e che per soldi accetta di prendere parte alla spedizione. Il film assume un’impronta paradossale fin dalla prima scena, l’intimo interno notte con Mary Bee e Bob Geffen, giovane proprietario terriero: è lei che prova a convincere lui della convenienza di un matrimonio, di quanto lei sia adatta a metter su famiglia e a occuparsi della terra e delle bestie, dispiegando, a corredo, pregevoli virtù musicali. Lui per tutta risposta fugge via. È una storia al contrario. Abbiamo già gli elementi per spendere qualche parola sul lavoro fotografico alla base del film. Prieto conserva la ratio del Cinemascope nella sua codificazione moderna, che è leggermente più ampia (2.40:1 contro i 2:35.1) rispetto al passato. Il supporto primario è la pellicola, e questa – racconta il direttore della fotografia all’American Cinematographer – è stata una precisa richiesta di Tommy Lee Jones, che con la grana e i colori della celluloide intende stabilire un legame, un terreno di condivisione, tra se stesso, il pubblico e la più antica delle tradizioni cinematografiche statunitensi. (A margine va detto che Prieto aveva proposto, coraggiosamente, di girare il film in bianco e nero. Jones non lo ha ritenuto opportuno: serviva il colore a tutti i costi, nonostante la luce abbacinante del sole e l’oscurità pesta della notte sbiadiscano e amalgamino i toni in limitate gamme cromatiche). Eppure, in ausilio al 35mm, Prieto si è servito anche del digitale per le scene notturne, soprattutto in interni. Questo ci conduce a una considerazione necessaria che riguarda la scenografia, opera di Merideth Boswell. Tutti gli edifici presenti nel film sono costruiti per intero e per intero praticabili, la qual cosa ha messo duramente alla prova il reparto fotografia: in assenza di pareti semoventi, si è dovuto razionalizzare gli spazi ed essere parchi di materiale aggiuntivo: in questo, il sensibilissimo digitale ha permesso a Prieto di illuminare alcuni interni solo con la fiamma di un lume. La perizia della creazione scenografica si rileva anche nelle dimore delle tre famiglie che beneficiano del servigio di Mary Bee Cuddy: vivono in casupole al limite del primitivo, in bilico su muri di mattoni appiccicati col fango, se non addirittura addossate a pareti naturali, isolate nelle pianure desertiche, sono luoghi che predispongono alla perdita della ragione, alla disumanizzazione, che prefigurano scenari non civilizzati e regressivi. La comunione con la Natura eleva lo spirito, ma la comunione con quella Natura conduce alla pazzia. Tommy Lee Jones prima di girare aveva ben chiaro il tono visivo del film: è alla ricerca di una messinscena pulita ed essenziale, scarna

22 geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

o shoot, in inglese, è sia “sparare” che “girare”. E Étienne-Jules Marey, negli anni ’80 del XIX, diede inizio all’avventura del pre-cinema con uno strumento in grado di immortalare 12 immagini al secondo e a cui venne dato il nome di “fucile ottico”. Una manciata di suggestioni per introdurre la vicenda di un soldato. Una macchina da guerra micidiale, come può essere stato Achille al suo (non) tempo (e al pari di Achille, Chris Kyle, il cecchino più letale della storia dell’esercito statunitense, ha il suo rivale-riflesso nel campione olimpico siriano di tiro a segno, trasformato da Al-Qaeda in un angelo sterminatore), ma è anche un po’ Ettore, soldato alle prese con il consueto ripresentarsi di Andromaca alle Porte Scee, che gli intima di “non andare”, ma lui invece “deve andare”. Anzi, “vuole andare”, ma di questo sensibile scarto ha una consapevolezza ancora in divenire. Infatti, in tenda dice al commilitone «Dio, la famiglia, la patria», e si sente replicare «hai anche un Dio?». È lì che cambia qualche cosa, intimamente, e in maniera decisiva, perché Kyle sfronda la sua mente – e il film, va da sé – dei coinvolgimenti politici, delle implicazioni globali del suo gesto militare, per concentrare tutto nell’agone del campo di battaglia. È molto diverso, Kyle, dal cecchino – sicuramente ricorderete – interpretato da Barry Pepper in Saving Private Ryan, il quale, sparando da un campanile, sussurrava al crocifisso che portava in petto di essere uno strumento nelle mani del Signore. Niente di tutto questo. Kyle millanta idealismo, ma senza convinzione, tant’è che basta poco alla moglie per zittirlo, e “The Legend” è intimidito e visibilmente imbarazzato dalle manifestazioni di conquistata celebrità cui lo sottopone il ritorno alla vita civile. Per lui conta solo quello che c’è nel mirino. Egli è irriducibilmente ridotto a un uomo che ha il solo compito di prendere delle decisioni importanti, da solo e in fretta. E lo fa. E lì si esaurisce il suo agire. E questo ci conduce a Clint. Perché per lui conta solo “il campo di battaglia” del Cinema, che è il set. La missione di Clint non è fare sermoni o confezionare discorsi per i repubblicani al Congresso, ma piuttosto portare a casa quei fantasmi che passano attra- verso la loupe della macchina da presa – qui, come sempre, tra le fedeli braccia dell’affezionato Tom Stern, che ha realizzato uno dei momenti più eccelsi della sua carriera con la scena della tempesta di sabbia. Storm, ma piuttosto Sturm, nel senso tedesco di tormenta che coinvolge anche lo spirito. L’inquadratura cruciale è quella conclusiva, in cui giacciono sul suolo, sepolti dall’impeto della Natura, il fucilee la bibbia di Kyle (ancora quella famosa conversazione in tenda col compagno d’armi, che gli chiede ironicamente se quella bibbia sia antiproiettile), le vestigia dell’imbattibilità, di cui ora si è spogliato in via definitiva.«Tutto quanto c’è da sapere sul film sta nella precisione delle inquadrature e della messa in scena», scrive Giona Nazzaro. Questo è, infatti, American Sniper di Clint Eastwood.

e.d.p.

in tutto, scevra da chincaglierie ottiche. Banditi fuori fuoco e rifrazioni, ha addirittura chiesto a Prieto di evitare il più possibile montagne o depressioni che in qualche modo spezzassero l’orizzontalità asciutta del quadro: i campi lunghi avrebbero dovuto essere solo questione di scelta delle porzioni del fotogramma da dedicare al cielo o alla terra. Non ci sono neanche le strade, non ci sono sentieri da seguire: la via bisogna immaginarla cammin facendo. Quanto alle fonti iconografiche, c’è un po’ di tutto. L’irruzione di Tommy Lee Jones nella vicenda lo vede in calzamaglia bianca con il volto annerito dalla fuliggine di un’esplosione, in una specie di grottesca riproposizione degli interpreti del teatro Kabuki giapponese. Di tutt’altra provenienza è il riferimento figurativo per le riprese in esterni: il carro con cui Cuddy e Briggs trasportano le donne è imparentato con le “scatole” concettuali di Donald Judd, piazzate nel bel mezzo del deserto texano. Per concludere, merita un approfondimento la recitazione. Tommy Lee Jones e Hilary Swank impostano le performance su registri stilizzati e caricaturali: lei, solenne, invece che parlare sembra stia predicando, il volto di ghiaccio sempre contratto in una espressione dura e mascolina, dietro la quale si riesce a scorgere anche la malcelata frustrazione del nubilato; lui, sboccato cafone volgare, strascica l’incomprensibile slang del Sud: nell’importante scena dell’accampamento notturno sotto la roccia, Jones conferisce al proprio personaggio una dimensione liminare tra la rettitudine di Cuddy e il raptus folle delle tre donne, cimentandosi in una danza macabra che poi riproporrà nell’amaro, delirante finale («citazione letterale», dice Prieto, «del dipinto di George Caleb Bingham The Jolly Flatboatman, anche se la nostra scena, al contrario ambientata di notte, è come se fosse il negativo fotografico»), con tanto di pistolettata alla macchina da presa, per un ideale congiungimento con le origini di un’epica. Nelle foto: Alcune scene del film

geaArt è grata…. La pubblicazione del numero 10 è stata resa possibile grazie al contributo degli amici e degli sponsor

Caterina Arcuri Giuseppe Ascione Paolo Bini Attilio Bonadies Alessandro Buglioni Giovanna Cassese Felice Cavaliere Paolo Ceccherini Mary Cinque Francesca Colonna Lara Confetti Marisa e Luigi Della Monica Andrea De Luca Teo de Palma

Patrizia Ferro Luigi Franchi Laura Galloppo Anna e Gennaro Gasparini Salvatore Lovaglio Luigi Mansi Eugenia Neri Federica Pace Luigi Pagano Giulia Pagnetti Salvatore Scuotto Nino Tricarico Luigi Vollaro

e al sostegno di Ilaria Conte Alessandro Cucè Giuseppe Di Muro Marcella Ferro Ada Patrizia Fiorillo Gloria Galli Muzi Claudia Gennari Linda Gezzi

Luca Mansueto Ciro Manzolillo Maria Letizia Paiato Caterina Pocaterra Annamaria Restieri Pasquale Ruocco Grazia Tornese Angelo Maria Vitale

La poesia come cura e riscatto tefano Quondam, il protagonista del romanzo di Roberto Vecchioni Il mercante di luce (EiS naudi, Torino) è un professore di letteratura greca

assai colto e sconosciuto ai più; al tempo stesso è un padre ed un uomo imperfetto, come tutti. La battaglia più dura e difficile che combatte non è quella contro la stupidità, l’ignoranza e l’omologazione, ma quella con se stesso e con la triste sorpresa che il destino gli ha riservato: suo figlio Marco è malato. A soli diciassette anni gli viene diagnosticata una malattia grave e senza speranza, la progeria. È dunque condannato ad una vecchiaia precoce e ad un male che accelera il suo corso in modo inesorabile. Stefano Quondam a quel punto decide di donare al figlio

Narrativa. La memoria e la redenzione impossibile inizio di qualcosa di bello è il titolo del quinto romanzo di Lizzie Doron, L’ autrice israeliana che è ritornata questa

volta con un racconto particolarmente intenso e profondo. Una storia struggente, la quinta pubblicata per i tipi dell’editrice fiorentina La Giuntina, dopo Perché non sei venuta prima della guerra?, C’era una volta una famiglia, Giornate tranquille e, infine, Salta, corri e canta. Questa volta, in un quartiere di tel Aviv, la città complessa in cui l’autrice è nata e vive ancora attualmente, si svolge la vicenda di Gadi e Hezi, entrambi innamorati della stessa donna. Amalia ribelle, indomabile, testarda e sarcastica da bambina e adolescente così come da adulta. Gadi, Hezin e Amalia sono cresciuti nello stesso difficile quartiere, quello in cui si sono raccolti i sopravvissuti alla Shoah; il quartiere è stato spesso, molto spesso, un luogo di dolore e di tristezza, quasi soffocato dal peso insostenibile della memoria. Da adulti sia Gadi che Hezi sono andati via: Parigi e New York sono diventati per loro i luoghi in cui cercare la felicità desiderata. La felicità tuttavia non è arrivata: le esperienze del passato, il peso insopportabile dei ricordi e le molte, troppe questioni irrisolte impediscono loro di vivere il presente in modo naturale e sereno. Il racconto si compone, di fatto, di tre storie: Amalia, Gadi e Hezi raccontano con uno stile asciutto e ironico le loro vicende personali, l’impossibilità di realizzare il sogno d’amore e di vivere pienamente il presente. Fuggire dal loro quartiere non è servito, perché dimenticare il tempo trascorso e le dolorose ferite non è stato possibile.

a.c.

l’unica cosa che possiede. Gli dona tutto quello che sa. Spera che tutto quello che sa sia così carico di luce da spazzare via le ombre della vita. Marco, curioso e colto, si affaccia così alla vita e si emoziona ascoltando tutto quello che il padre gli offre, l’unico dono possibile: «io, in fretta, di corsa, nel tempo che ho e che abbiamo, ti voglio passare la bellezza. Noi, Marco, stiamo tentando di cantare un poema in una strofa». Quella che racconta con garbo e lucidità Roberto Vecchioni è la storia di un padre e di un figlio, di una salvezza reciproca, di un carico immenso di luce che l’uno offre all’altro. Entrambi si perderanno in un viaggio bellissimo attraverso Omero, Alceo, Saffo, Anacreonte, Sofocle, Euripide e tanti altri e lì

troveranno la salvezza, perché non è possibile «che gli uccelli cantino quando passa la tempesta e gli uomini non sappiano nemmeno essere felici del sole che gli resta». Il filo che li unisce, che trasforma il pensiero in un racconto che non potrà essere dimenticato, è la poesia greca: un excursus appassionato, un viaggio in cui si rincorrono i grandi gesti e le tenere paure di poeti e poetesse dell’unico tempo per loro possibile, quel tempo senza tempo che intercorre tra il mito e l’invenzione. Questa è la storia che Roberto Vecchioni ci racconta perché la paura di morire e di vivere vada via.

Antonia Cardella

Ritornare a Freud

stato riedito da Einaudi L’uomo dei lupi di Sigmund Freud. Ripercorrendo uno dei topoi delle È teorie freudiane sulla nevrosi – in questo caso infantile – il testo presenta il caso clinico di Sergej Kostantinovic Pankejev, un giovane e ricco russo degli inizi del ‘900, descrivendo dettagliatamente il percorso psicanalitico compiuto dal giovane Pankejev per individuare le cause della propria inettitudine. Il senso d’inadeguatezza alla vita risulta essere infine conseguenza naturale di rapporti problematici familiari, sublimati in un sogno ricorrente del giovane uomo, che vede come protagonista un lupo. In quest’opera, a metà strada tra l’opera letteraria e il resoconto diagnostico, tradotta egregiamente da Giovanna Agabio e curata da Mario Lavagetto, ritroviamo il Freud interprete dei sogni e un individuo che, sprofondato nell’insensatezza della propria nevrosi, chiede aiuto al più grande dei demistificatori.

Eriberto Russo

Romanzo. Attesa e speranza

Musica. Novecento musicale

J.R.

P G , autorità indiscussa nel campo della musica L contemporanea, ne La musica del Novecento

MOEHRINGER È UNO DEI PIÙ APPREZZATI GIORNALISTI STATUNITENSI, si è affermato

nel panorama internazionale con Il bar delle grandi speranze e torna ad essere tradotto, ora, con l’opera che gli ha dato la possibilità di vincere il Premio Pulitzer nel 1999. Oltre il fiume (Piemme, Casale Monferrato), traduzione italiana di Crossing over, racconta la storia di Mary Lee e della sua comunità, quella di Gee’s Bend. Un commovente resoconto, che vede come protagonista Mary Lee, che diventa il simbolo di un’intera ed inavvertibile realtà, diversa da quella cui siamo abituati. La sua gente vive sul fiume – il fiume è la loro casa – e aspettano. Aspettano di oltrepassare il fiume e sperano nell’arrivo di un traghetto, l’unico mezzo tramite il quale sarebbe possibile andare dall’altra parte: sulla terra.

Maria Bruno

Racconti

O STORICO E CRITICO MUSICALE AUL

RIFFITHS

(Einaudi, Torino) ricostruisce la vicenda musicale del secolo appena trascorso. Il Novecento è stato per la musica un secolo di vertiginosa creatività nel quale si sono succeduti molteplici stili e tendenze. Molti sono i compositori che ne hanno piú volte ridisegnato i confini sonori: da Debussy e Stravinskij a Schönberg e Webern, da Cage e Stockhausen a Nono e Boulez, da Bartók a Xenakis e Ligeti, da Sostakovic a Pärt, da Ives a Glass; per giungere fino alle prospettive aperte dai compositori nostri contemporanei, che sempre più dialogano non solo con la tradizione ma anche con le diversissime musiche del presente.

Bruno De Marco

Monografia

Pagliara: l’arte di vivere la vita e di raccontarla

Ugo Marano, un artista e il suo universo

siste un “brodo primordiale” della E creatività? Il campo fertile su cui le Muse spargono, a loro piacimento, semi

d accompagnare la grande retroA spettiva dell’opera di Ugo Marano (Capriglia 1943 – Cetara 2011) promossa

generosi? Un luogo della mente dove si forma l’opera in attesa, col “big bang” dell’atto creativo, di vestire sembianze materiche? Probabilmente sì. E Nicola Pagliara ce ne dà testimonianza, deponendo per un attimo la matita con la quale è uso dar forma a mirabili Architetture per inforcare la penna e affidare alle pagine di un libro la sua verve espressiva. Nel libro UN GIORNO UNA NOTTE UN GIORNO (Guida Editore, Napoli 2014) Pagliara condensa in 15 racconti, fortemente autobiografici ed anche in quelli di pura fantasia, l’essenza stessa della vita, mescolandone la materia e ricomponendola come in una architettura. La memoria, i luoghi, il viaggio, le relazioni umane, le donne, la ricerca continua del “senso dell’essere”: questo il corpus dei racconti, questi gli elementi che l’autore combina in infiniti modi diversi per farne la propria vita, per dare ad essa un senso. Il raccontare la vita attraverso continui processi di feedback tra passato e presente, per definire il futuro, è il “pensiero dell’Architetto”, come ama dire lo stesso Pagliara. Poi, da bravi giullari, si sceglie quale abito indossare per la narrazione e qui, il nostro, ha scelto quelli di un “Casanova borghese un po’ cinico”, per crearsi un alter ego apparentemente più superficiale e ironico da contrapporre a quello razionale che soffre per il “mal di vivere”. E a precedere ognuno dei quindici racconti un disegno, uno schizzo, spunto di partenza e punto di arrivo della storia. Quasi fosse un appunto, la materializzazione grafica del compendio di un vissuto.

Alessandro Siniscalco

ed allestita al Museo-Frac di Baronissi, la prima organica monografia pubblicata da Gutenberg Editore (pp.232, in brossura, con un ampio repertorio documenti inediti e articolata documentazione fotografica sia dello studio di Capriglia, sia di Cetara) per la cura di Massimo Bignardi. Un volume indispensabile che offre la possibilità di spaziare ad ampio raggio nella molteplicità dell’esperienza creativa esperienze condotte dall’artista nell’arco di circa cinquanta anni, a partire dai mosaici realizzati a Roma all’alba del decennio Sessanta alle ultime opere, ai “piani strategici”, quale quello per la città di Ferrara. All’attento saggio storico critico di Bignardi, si affiancano con interventi di Enrico Crispolti, che sofferma lo sguardo sugli anni della partecipazione sociale; di Pasquale Ruocco che approfondisce gli aspetti del design, di Vanessa Maggi, proiettata a ricostruire l’incontro con il mosaico. «Nel progetto di questo libro – afferma Bignardi – ho voluto conservare lo spirito di quello messo su con Ugo 1986 quale traccia per una mostra a Teggiano mai tenuta. Dentro, consapevolmente, v’è narrata la nostra quarantennale amicizia, il divertito suo muoversi nei tempi di una “avvolgente” narrazione, il suo desiderio di far respirare nelle sale la “polvere” dell’atelier che si apre alla strada, alla comunità, al territorio. Al mio fianco, oggi, giovani studiosi di storia dell’arte il cui impegno si fa testimonianza del desiderio Ugo di parlare al presente, di sollecitare una partecipazione che si fa effettiva conoscenza».

Annamaria Restieri

Periodico di cultura arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative

Il numero 10 lo trovi: AMALFI (SA) C&G. corso delle Repubbliche Marinare, 13 BARI Librerie Feltrinelli, via Melo, 49 BARONISSI (SA) Museo-Frac Fondo Regionale d’Arte Contemporanea BENEVENTO Libreria Masone Alisei, viale dei Rettori 73F BOLOGNA Bookshop MAMBo, via Don Giovanni Minzoni, 14 BRINDISI Museo Map, via Tarantini, 37 CALTAGIRONE (CT) Libreria Dovilio, piazza Bellini, 12 CAMPOBASSO La Nuova Libreria, via Vittorio Veneto, 7 Palladino Company, via Colle delle Api, 170 CATANIA Cavallotto Librerie, viale Ionio, 32 CATANZARO Bookshop Museo MARCA, via Alessandro Turco, 63 CAVA DE’ TIRRENI (SA) MARTE Mediateca Arte Eventi, corso Umberto I, 137 Biblioteca Comunale, viale Marconi CITTÀ DI CASTELLO Novamusica, viale Abetone, 22 COMO Libreria Ubik, piazza San Fedele, 32 CORTINA D’AMPEZZO (BL) Museo Rimoldi, Ciasa De Ra Regoles, corso Italia, 69 COSENZA Caffe Letterario Città di Cosenza, piazza Matteotti ELLEBI Galleria d’arte, via Riccardo Misasi, 99 FERRARA Università degli Studi Ferrara Dipartimento di Studi Umanistici, via Paradiso Ibs.it Bookshop, piazza Trieste e Trento, 41 Librerie Feltrinelli, Corso Garibaldi, 30 FIRENZE Kunsthisrorisches Institut in Florenz, via Giuseppe Giusti, 44 FISCIANO (SA) Presso la sede di Unis@und Webradio Università degli Studi di Salerno FOGGIA Libreria Dell’Atenea, via Giuseppe Rosati, 1 GENOVA Libreria Feltrinelli, via C. Roccatagliata Ceccardi, 16 GROSSETO Centro documentazione arti visive, via Mazzini, 99 LAMEZIA TERME (CZ) Associazione culturale “Sukiya”, via Ticino,11 LECCE Libreria Adriatica, piazza V. Aymone, 7 Libreria Mondadori, piazza Sant’Oronzo LUCCA Fondazione Centro Studi Ragghianti, via San Micheletto, 3 MATERA Galleria Opera Arti e Arte, piazza Duomo, 16 MILANO Università degli Studi- Bibli. Storia dell’arte, via Noto, 6 Biblioteca Accademia di Belle Arti di Brera, Palazzo di Brera Libreria Hoepli, via Ulrico Hoepli, 5 MINORI Hotel Villa Romana, Corso V. Emanuele, 90 Fes Ceramiche, via Roma, 32 MODENA Bookshop Galleria Civica Palazzo Santa Margherita, corso Canalgrande, 103 Biblioteca Civica “L. Poletti”, viale Vittorio Veneto, 5 NAPOLI Accademia di Belle Arti, Via Costantinopoli, 107/a Bookshop Museo Archeologico Nazionale, piazza Museo, 9 Libreria Feltrinelli, piazza dei Martiri Bar Novecento, piazza Bellini PALERMO Libreria del Kursaal Kalhesa, Foro Umberto I, 21 PARMA Librerie la Feltrinelli, via della Repubblica, 2 PERUGIA Libreria Betti, via Sette, 1 PESARO Fondazione Pescheria Centro Arti Visive, via Cavour, 5 PESCARA Libreria Primo Moroni, via Quarto dei Mille, 29 PISTOIA Lo Spazio di via dell’Ospizio, via dell’Ospizio, 26-28 POTENZA Cocco libreria, Palazzo Rizzo, 33 Ermes libreria, via Firenze ROMA Libreria Altroquando, via del Governo vecchio Biblioteca Rispoli, piazza Grazioli, 4 Bookshop Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale Aromaticus, via Urbana, 134 SALERNO Libreria Brunolibri, via Torrione, 125 Librerie Feltrinelli, corso Vittorio Emanuele I, 230 Libreria Internazionale, piazza XXIV Maggio, 12 Libreria Mondadori, corso Vittorio Emanuele, 56 Galleria Il Catalogo, via A. M. De Luca Galleria Paola Verrengia, via Fieravecchia, 34 Galleria Tiziana Di Caro, via Botteghelle, 55 Pierino, Edicola al Corso, corso Vittorio Emanuele SAN SEVERO (FG) Libreria Orsa Minore, via Soccorso, 123 SARONNO (VA) Galleria Il Chiostro, viale Santuario, 11 SASSARI Libreria Internazionale Koinè, via Roma, 137 SIENA Università degli Studi Siena Dipartimento Scienze Storiche e Beni Culturali, Palazzo di San Galgano Punto Einaudi, via Pantaneto, 66 Mondadori, via Montanini,112 TORINO Librerie Feltrinelli, piazza Castello, 19 TRENTO Libreria Il Papiro, via Galileo Galilei, 5 TRIESTE Biblioteca Comunale, piazza Hortis Libreria Einaudi, via del Coroneo, 1 ULASSAI-OGLIASTRA Fondazione Stazione dell’Arte Museo Arte Contemporanea, Ex Stazione Ferroviaria URBINO Biblioteca Accademia di Belle Arti, via dei Maceri, 2 VENEZIA Bookshop, Museo Peggy Guggenheim, Palazzo Venier dei Leoni Dorsoduro, 701 VICENZA Valmore studio d’arte Contrà, Porta S. Croce, 14

****************

CORK University College Cork (Ireland), Department of Italian, School of Languages, Literatures and Cultures EINDHOVEN Fictional Collective, Gallery Kazerne, Paradijslaan 2-8 HEIDELBERG Universität Heidelberg, Institut für Europäische Kunstgeschichte, Ruprecht-Karls (Bibliothek) PARIS Galerie Pièce Unique, Saint-Germain-Des-Prés, 6ème 4 rue Jacques Callot

geaArt

numero

10 - gennaio-febbraio 2015

23



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.