anno III numero 8 luglio-settembre 2014 direttore Massimo Bignardi distribuzione gratuita
Scultura ed architettura olto spesso la scultura nella città è semplicemente il “monumentino”, l’effige, l’icona, piazzato in mezzo M ad una piazza o in un angolo di una strada, in un punto, diciamo nevralgico e che, come tale, dovrebbe servire da punto di riferimento per i cittadini. Non è questa la scultura. In altre parole trovo che l’importanza della scultura in quanto arte a se stante non dovrebbe essere solo il manichino attorno al quale il passante fa la sua presenza, senza neanche accorgersi di esso, quanto piuttosto l’elemento fondante di una soluzione artistica della città o dello stesso elemento creato. a pagina 12 u Gillo Dorfles
Periodico di cultura, arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative
Problemi scottanti della nostra realtà
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he fare? In molti della mia generazione ricordano il titolo di questo libro di pratica rivoluzionaria e, certamente, ricorderanno il senso della prospettiva politica che la sua lettura offriva. Il tempo corre veloce e, come altri progetti, anche quello di una società della coscienza dei diritti e della volontà di realizzarli è stato sopraffatto dall’onda del reaganismo accolta, con formale ritrosia, dalla sinistra storica, avviando, di fatto, lo smarrimento della sua identità. Nuovi sofisti vestono oggi toghe di accesi girondini, soffiando sulle masse e sul loro desiderio di “normalità”, promettendo, ohimè, generiche “novità”. Sulla passerella dei “novisti” sfilano politici dell’ultima ora, giudici dalle eterne “mani pulite”, nuovi baroni - dalla Scuola alla Cultura, allo Sport -, finanche, non meravigli, chi veste il saio del sindacato. Da questi giungono profferte di scenari irreali o fin troppo veri, con commissari per un concorso ippico chiamati ad arbitrare (non diverso dal giudicare) una partita di calcio
CONTROCOPERTINA
Teo De Palma Enighma dell’acqua, 2014 Tecnica mista su carta
nella quale, ovviamente, il penalty shot è fischiato unicamente a favore dei propri beniamini, come è stato per le abilitazioni universitarie; oppure con direttori di uno zoo scelti tra convinti sostenitori della vivisezione, fino a faccendieri in odore di tangenti chiamati alla guida di aziende pubbliche. L’attualità offre un vasto repertorio del malcostume che svela quanto, nel Belpaese, la realtà corra sul filo del paradosso. Le apparenze che alimentano il presente inclinano la nostra attenzione verso la cronaca, della quale, il cinismo televisivo, zooma il malgoverno e i suoi prestigiatori, allineando, su un unico boccascena per par condicio, gli attori di loschi affari, di tangenti, di concorsi truccati, di speculazioni che non lasciano tregua, riportando le lancette del tempo indietro, agli anni di “tangentopoli”. Che fare? La domanda stringe la gola accomunando il destino di tanti in un unico desiderio. Innanzi tutto fare spazio nei propri costumi, dunque, sgombrare la realtà dalle ombre
CARTE SUL TAVOLO
che, per Jung, sono la parte sgradevole e negativa che la psiche tende ad affidare all’apparente oblio dell’inconscio. Lasciando la metafora, vuol dire rinunziare alla pratica dell’iter clientelare, al “favore” che ha sempre un costo e chiedere con fermezza al “pubblico” di rappresentare e dare risposte alle necessità dei singoli; definire regole chiare e certe. Combattere le ombre in campo aperto significa porsi in luce, rendere cioè inequivocabili i propositi e le azioni. Significa anche esporsi quale misura della necessità di incontrare l’ “altro”, di inquadrare una comune prospettiva che torni ad essere consapevole espressione della coscienza dei diritti e della volontà di realizzarli. Scegliamo di combattere in campo aperto, in quella piazza che, dalle aule dell’infanzia, si stende in ogni luogo della nostra società. Combattere, però, impone la partecipazione effettiva e non l’amorfo intrupparsi nelle file dei vincenti.
METROPOLIS
Massimo Bignardi
FILOSOFIA
Per una marginalità interstiziale
Itinerari nell'arte al Cairo Downtown
Gioacchino Ventura: un filosofo dimenticato
La constatazione che non si costruisce mai nel vuoto, ma sempre all’interno di un sistema di tracce insediative e architettoniche non sembra oggi avere alcun effetto sulla cultura progettuale. Ripensare l’architettura?
Dall’alta torre del parco di Gabalaya si ammira lo skyline dela metropoli egiziana: è la vista mozzafiato di una città che conserva l’antico fascino, con il Nilo che l’attraversa con il suo carico di storia.
Se resta costante, durante la sua intera esperienza di vita, la fedeltà alla Chiesa, un mutamento decisivo avviene – a partire dagli anni Quaranta dell’Ottocento – nell’elaborazione del pensiero politico di Ventura.
a pagina 4 u Franco Purini
a pagina 16 u Sara Vivarelli
a pagina 18 u Aleksander Sebastian Iwaszczonek
L’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa (F. D. Roosevelt)
carte sul tavolo
carte sul tavolo
Lʼunica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa (F. D. Roosevelt)
Lʼunica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa (F. D. Roosevelt)
Il diritto nella tecnica legislativa e le dimensioni essenziali del “fare”
La coscienza difficile nel fast food dell’informazione cibernetica A ognuno la sua quota di verità ma la sfida è creare e condividere “resistenza” di
Legge elettorale e droghe: due recenti sentenze della Consulta
FRANCO MATTEO
di
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ognuno il suo complotto quotidiano secondo i suoi bisogni. A ognuno la propria fetta di verità. A ognuno il suo attimo di protagonismo. È sempre di più la regola dell’informazione nella democrazia dei grandi media, dei big data, dei social network. E ogni informazione è vera quando ha un pubblico che la legittima. Tanto basta ad autenticarla. Come spiega Deleuze, non è l’informazione che manca, anzi ve ne è una sovrabbondanza, comprese le palesi bufale che circolano sempre più di frequente su internet. E tuttavia manca la creatività, non intesa nel senso di fantasia e inventiva (quella è pur troppo presente), ma la capacità di mettere in movimento informazioni “resistenziali”, capaci cioè di resistere nel tempo come resistono le opere d’arte. Al contrario tutto si esaurisce nell’atto del consumo dell’informazione, in cui ciascuno appaga il suo bisogno ideologicamente precostituito. Se sono convinto che la finanza ebraica guidi il mondo, decida governi e colpi di stato, troverò nei meandri dei blog, dei tweet, dei post e di quanto circola all’interno della enorme mole di informazione che la rete ci fornisce quanto confermi le mie convinzioni e quanto soddisfi il mio pensiero. E così per mille altre cose, compreso il gossip più spicciolo o il pettegolezzo più banale. Ed è un circuito che si alimenta di commenti, polemiche, interventi che arricchiscono sempre di più il tema e forniscono la patente definitiva di verità all’informazione messa in circolazione. Il circuito è in equilibrio dinamico e non ha bisogno di guida o manipolazione. Se non nella fase che si definisce “metainformativa”, cioè nel livello in cui si determinano le linea guida dei vari canali di informazione o si indirizzano gli utenti verso un determinato tipo di merce-notizia, a seconda dalle vocazioni e dei gusti di ciascuno. Compito questo che riguarda i big data, i soggetti cioè che raccolgono e gestiscono tutte le informazioni che ciascuno di noi, volontariamente ma più spesso involontariamente, invia attraverso la frequentazione di internet. Se siete single non avrete alcun modo di sfuggire, al momento dell’ingresso in rete, agli annunci dei vari siti di incontri. Se viaggiate spesso, vi compariranno annunci di case-vacanza, di alberghi e di voli low cost. Ma quale può essere il ruolo e la funzione di un professionista dell’informazione in una dimensione così polverizzata, effimera, eppure così precisamente strutturata? Spazi di “eversione” o, se preferite, di creatività deleuziana è difficile trovarne in quanto, non
tanto il contenuto può essere dirompente quanto la capacità di spezzare questa relazione tra informazione e suoi fruitori, che è oggi da shopping al centro commerciale. O anche peggio, dato che un pantalone o una camicia ti resta almeno per qualche mese indosso. Nel mondo attuale dell’informazione tutto procede per attimi, per “quanti” di notizia, potremmo dire usando una terminologia da meccanica quantistica: frazioni apparentemente incoerenti, talvolta contraddittorie ma comunque tutte esattamente inquadrate nella logica del grande fast food dell’informazione in cui ognuno si sceglie la propria salsa e le proprie spezie in un gioco illusorio e pure drammaticamente vero, come un reality di massa in cui ogni individuo, ogni giorno, veste un ruolo, persino convinto in alcuni casi, di agire contro un potere individuato nella grande finanza, altre volte nei servizi segreti o nei sodalizi post massonici, come Bilderberg, la Trilaterale e quant’altro. Di teorie del complotto, in rete, se ne trovano a quintali, alcune persino molto credibili, con una consistente quota di realismo. Lo stesso caso Assange o le rivelazioni di qualche mese fa sulle intercettazioni a tappeto da parte dell’intelligence americana, compresi i leader politici di paesi alleati, non fa altro che accreditare l’esistenza di un livello molto alto di potere, praticamente inattaccabile. E tantomeno intaccabile da un’onda di “indignazione” più o meno virtuale veicolata da vecchi e nuovi media. Se prima la comunicazione serviva a manipolare le coscienze, oggi serve a manipolare la realtà, a costruire simulacri, falsi obiettivi, verità come merce ideologica ad uso e consumo di chi voglia alimentarsene senza però cambiare una virgola dello stato delle cose, anzi accreditando sempre di più l’idea che esista un potere collocato su un gradino ormai troppo alto per essere solo raggiunto e messo in discussione. E intanto il livello della comunicazione ha preso definitivamente il sopravvento su quello dell’informazione. La regola è fornire dunque dati non tanto per informare, per introdurre elementi di consapevolezza, quanto per arrivare a un fine, così come è nella comunicazione commerciale. Tv e giornali si sono adeguati e grande spazio è riservato alle cosiddette opinioni. La star non è più il giornalista di inchiesta, ma l’onnipresente editorialista, l’opinionista dei salotti televisivi. Ognuno, a seconda del prodotto politico e culturale che rappresenta, avrà il suo pubblico e ciò che dice sarà perfettamente vero in quanto legittimato dall’ascolto. Il collettore
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Università. Che fare? Gli Atenei devono rimediare ad una reputazione a volte appannata da piccoli o grandi scandali e ritrovare le più nobili e secolari funzioni delle Universitas di
ANDREA MAGGI*
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numero
8 - luglio-settembre 2014
egli ultimi anni, il sistema universitario italiano è stato investito da una serie di scandali che hanno trovato ampia diffusione sui media: esami comprati, casi di nepotismo, concorsi truccati. Sono episodi isolati che non fanno onore ad un’Istituzione fondamentalmente sana che tra mille difficoltà produce ottimi risultati sia sul piano scientifico sia formativo, ma che purtroppo (fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce) ne minano la reputazione, generando nell’opinione pubblica la percezione che il malcostume sia diffuso. Che fare? Fermo restando che si tratta di un fenomeno che riguarda l’immagine e la reputazione dell’Istituzione universitaria in Italia, non ci azzarderemo a formulare ricette politiche o amministrative, ma vorremmo lanciare solo alcune modeste proposte che riguardano aspetti di comunicazione. Da secoli, lo sviluppo e la diffusione della cultura e della scienza attraverso l’insegnamento e l'attività di ricerca costituiscono la natura delle Università. Quella dell’insegnamento è la funzione più antica: nelle Università avveniva la trasmissione del sapere ai nuovi allievi, alcuni dei quali, attirati dalla ricerca, diventavano a loro volta studiosi: studiosi/insegnanti. Ecco che quasi contemporaneamente, nasce all’interno degli Studi la ricerca. Solo recentemente, accanto a queste due tradizionali funzioni, se ne sono affiancate altre, quali la collaborazione scientifica e culturale internazionale e la cosiddetta quarta missione, che si sviluppa in tre direzioni: l’impegno attivo della comunità
finale saranno i grandi social dato che tutto ciò che è detto finisce lì prima o poi, anche ciò che è pubblicato dai giornali o dalle televisioni. E gli stessi social sono, sempre più spesso, veicolo primario di informazioni dato che ciascuno, in tempi rapidissimi può pubblicare tutto ciò che accade ed è a sua portata: dal selfie con la fidanzata a un incidente stradale, agli effetti di un terremoto o di un tornado. Il circuito smartphone-social network è il più rapido, formidabile e capillare strumento di informazione di cui oggi si dispone. Nessuno dei media tradizionali può fare prima e cosi capillarmente. È come se una tv avesse corrispondenti sparsi in ogni vicolo del mondo. E ciascuno, con gran passione, lavora del tutto gratuitamente per questi colossi dell’informazione e della gestione dei dati più in generale. Quante immagini di recenti catastrofi sono circolate in tutte le televisioni del mondo, grazie alle “riprese” di qualcuno che si trovava sul posto dotato di uno smartphone e di una discreta dose di sangue freddo. Ci può essere un problema di professionalità nel comunicare le informazioni? Può darsi, ma il modello che si afferma sempre di più non è certo quello della profondità e della riflessione, ma quello della superficialità, della stringatezza e della velocità. Al punto che ormai tutti i giornali si sono attrezzati con una versione on line aggiornata continuamente. Che fare? Come reinventare una informazione “resistente”, che sia dunque anche etica? Andare oltre l’auspicio è oggi già solo questo una impresa. E non è che si possano immaginare soluzioni reazionarie e nostalgiche di ritorno al ciclostile o ai manifesti murali. Si tratterà, dentro la rete, dentro la logica della “condivisione” informatica, ricolonizzando gli spazi cibernetici e tutti gli altri strumenti dell’informazione, di produrre informazione a misura del valore d’uso di soggetti e comunità più che di oggetto di consumo veloce. Ciò che è chiaro è che oggi ormai il capitolo informazione è una cosa che ci riguarda tutti da protagonisti, non solo i professionisti del settore. Ciò, tradotto in termini pratici, vuol dire che nessun codice deontologico professionale basterà da solo a risolvere i problemi dell’informazione nell’epoca dei nuovi media, ma solo la progressiva condivisione di comportamenti di massa e di stili di vita e di pensiero.
scientifica per la società, il così detto trasferimento tecnologico e le attività internazionali, le attività di comunicazione per la diffusione dei risultati della ricerca. Ed è proprio dando maggiore informazione di queste due nuove “mission” che le Università, a nostro parere, possono avviare un processo di “riabilitazione” della propria immagine e della reputazione. Vediamo come: 1. Impegno attivo nei confronti della società. Un esempio potrà essere indicativo: come tutti sappiamo, due anni fa l’Emilia, è stata colpita da due terribili terremoti che hanno causato decine di morti e danni alle abitazioni, alle attività produttive e al patrimonio storico. L’Università di Ferrara, anch’essa duramente colpita dagli eventi sismici, in quella occasione ha immediatamente messo a disposizione delle istituzioni le proprie competenze per affrontare le situazioni di emergenza, messa in sicurezza, ricostruzione e restauro. Ma sono decine i casi di Università impegnate in vari settori, fortunatamente in circostanze meno drammatiche, a favore della società e del territorio. Si tratta solo di farlo sapere. 2. Trasferimento tecnologico e attività internazionali: la globalizzazione ha portato gli Atenei a sviluppare un processo di internazionalizzazione sempre crescente affiancato dal progressivo intrecciarsi tra attività di ricerca e mondo produttivo. Oggi, il rapporto tra Università e Industria ha assunto un respiro sempre più strategico. A nostro parere, una maggiore divulgazione e rendicontazione di que-
Le illustrazioni di pagina 2, 3, 4 e 8 sono dell’artista BRUNA PALLANTE
sta collaborazione, può costituire una seconda via per ridare credibilità alle Università. 3. Comunicazione e divulgazione dei risultati della ricerca. Oggi le Università comunicano in maniera molto intensa, sono tutte dotate di uffici stampa e spesso investono budget anche importanti per pubblicità, ma queste attività si caratterizzano per avere quasi sempre il solo obiettivo di attrarre studenti al di fuori dei propri “bacini di utenza”. Quello che occorre oggi, perché crea partecipazione e coesione intorno agli Atenei, è una comunicazione non di facciata, volta a diffondere la propria attività di ricerca, non solo nella comunità scientifica. Ecco, da una maggiore comunicazione dell’impegno attivo degli Atenei nei confronti della società, del trasferimento tecnologico, delle attività internazionali e dei risultati della ricerca, può partire un processo di rinnovamento della loro immagine. Aumentare sempre più gli sforzi di informazione e trasparenza dei processi decisionali ed operativi, anche attraverso strumenti come il bilancio sociale, comunicando, non solo a fini utilitaristici, progetti, attività e risultati. Sono compiti questi che dovranno vedere sempre più impegnati gli Atenei non solo per rimediare ad una reputazione a volte appannata da piccoli o grandi scandali, ma anche – e soprattutto – perché complementari a quelle che sono le più nobili e secolari funzioni delle Universitas. *Responsabile Ufficio Comunicazione ed Eventi, Università di Ferrara
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ra le varie implicazioni del “fare”, una dimensione peculiare attiene al processo legislativo, lo strumento attraverso il quale la società riceve le norme ordinatrici della condotta individuale e collettiva. Un antico problema, ben presente alla coscienza giuridica romana, è il raccordo tra il diritto e la legge, nella duplice accezione di diritto che si attua attraverso la legge e che preesiste alla legge. La coscienza positivistica moderna ha risolto con Kelsen il dilemma sul fondamento e sulla funzione della legge e, nel rapporto tra «essere» (Sein) e «dover essere» (Sollen), opta per quest’ultimo come elemento qualificante la natura sanzionatoria del diritto. L’essere, coincidente con la natura, è il risultato di «un aggregato di dati oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti», da cui non può derivare nessun dovere. Posta così la questione, il diritto trova legittimazione nell’ordinamento giuridico e la regola maggioritaria, cardine della democrazia rappresentativa, ne costituisce il criterio ultimo di validazione. «In gran parte della materia da regolare giuridicamente, quello della maggioranza può essere un criterio sufficiente. Ma è evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta: nel processo di formazione del diritto, ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento»: è un passo del discorso pronunciato da Benedetto XVI al Bundestag di Berlino il 22 settembre 2011, intervento mirato ad approfondire il rapporto tra natura e legge. Questa precisazione sul ruolo della maggioranza nell’ordinaria formazione del diritto e della legge offre lo spunto per una riflessione su due recenti pronunce della Corte costituzionale italiana, due sentenze emblematiche che evidenziano le tecniche adoperate dal legislatore. Entrambe le pronunce della Consulta hanno determinato l’espunzione delle norme contestate dall’ordinamento per la loro proclamata incostituzionalità. La prima è la sentenza n. 1 del 2014 con cui la Consulta ha dichiarato incostituzionale la legge 270 del 2005, conosciuta giornalisticamente come “Porcellum”. Dunque la legge elettorale, quell’insieme di norme che costituiscono i criteri per la formazione della maggioranza rappresentativa. Il ricorso, sorto per impulso di un cittadino elettore, ha trovato positivo riscontro nella Cassazione
di
MARCELLO AITIANI*
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i voleva la Grande bellezza del cinema per svelare a una vasta platea il vuoto di molti “gesti artistici”, ripetizioni di quelli nati più di mezzo secolo fa con altri intenti e ormai ridotti a stereotipi per un ristrettissimo pubblico disincantato, talvolta alienato, cinico o depresso. È la fotografia di un’Italia disorientata, sterile e impoverita economicamente, ma soprattutto umanamente a causa del disprezzo e dell’indifferenza di ciò che dovrebbe essere la cultura: anima, passione di vita, sviluppo delle facoltà critiche, maturazione di un’identità fondata sulle proprie aspirazioni profonde. I termini cultura e coltura nascono dalla stessa radice e coltivare, come applicarsi alla cultura, vuol dire impegnarsi con la mente e con le mani, con la ragione e col cuore per portare a completo sviluppo la vita potenziale del seme. È questa la cultura che fertilizza la società, rendendo possibile la coesione tra gli uomini. Ma se ci spostiamo su altre visioni le cose cambiano; il sociologo Gilles Lipovetsky sostiene ad esempio che «oggi, il vettore dell’estetizzazione del mondo non è più l’arte, ma il consumo», ciò che, a suo dire, dimostrerebbe la crescente attenzione del mondo globalizzato allo stile e alla bellezza. Ma l’estetica e la bellezza di
che ne ha rimesso i punti controversi alla Consulta per lo scrutinio di costituzionalità. Le questioni sollevate si riducono tutte alla lesione del diritto di voto, previsto come diretto dall’art. 48 della Carta in quanto «personale ed eguale, libero e segreto», ma distorto dai premi di maggioranza della legge e dall’impossibilità per l’elettore di una scelta sul candidato con le liste bloccate. La previsione di un premio di maggioranza di 340 deputati alla Camera e del 55% di seggi al Senato su base regionale per il partito o la coalizione di partiti che abbiano ottenuto anche un solo voto di scarto sui concorrenti è censurato dalla Corte «in quanto combinato con l'assenza di una ragionevole soglia di voti minima per competere all’assegnazione del premio, è pertanto tale da determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto». E, nel confronto con il principio della governabilità, «detta disciplina non è proporzionata rispetto all’obiettivo perseguito […]». Espressioni queste incontrovertibili circa il vulnus che tali norme introducono nell’ordinamento giuridico democratico e nella formazione della rappresentanza politica. Tuttavia la censura si fa più netta laddove la Corte considera il meccanismo delle liste bloccate che a tutt’oggi è materia di discussione nei disegni di legge elettorale all’esame del Parlamento. Infatti, «una simile disciplina priva l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti, scelta che è totalmente rimessa ai partiti. Anche questo passaggio si rivela cruciale, mentre secondario resta il rilievo che la Corte, per le liste bloccate, obietti «al numero assai elevato di candidati che può corrispondere all’intero numero dei seggi assegnati alla circoscrizione, e li rende, di conseguenza, difficilmente conoscibili dall’elettore stesso» e in ambiti territoriali molto estesi. E, a fugare la correzione con listini bloccati di candidati, la Consulta, richiamando la sentenza n. 203 del 1975 sulla legge elettorale nei Comuni al di sotto dei 5000 abitanti, giustifica la concessione ai partiti dell’ordine di presentazione delle candidature a condizione che il voto sia «pur sempre libero e garantito nella sua manifestazione di volontà, sia nella scelta del raggruppamento che concorre alle elezioni, sia nel votare questo o quel candidato incluso nella lista prescelta, attraverso il voto di preferenza». Malgrado questa precisazione a tutt’oggi si discetta nelle aule parlamentari circa la congruità del voto di preferenza.
La cura della cultura I termini cultura e coltura nascono dalla stessa radice, coltivare. Vuol dire impegnarsi con la mente e con le mani, con la ragione e col cuore per portare a completo sviluppo la vita potenziale del seme cui parla non sono quelle della nostra tradizione culturale, testimoniata anche nel tempo presente da studiosi di discipline sia scientifiche che umanistiche: da Murray Gell-Mann a Iosif Brodskij, da Enzo Tiezzi a Ilya Prigogine. Per essi la bellezza è essenziale dal punto di vista etico, epistemologico, artistico, della stessa salute psichica; tanto che per James Hillman il problema estetico “non è affatto mero estetismo disinteressato: è la nostra stessa sopravvivenza”. Le posizioni alla Lipovetsky esaltano invece un’estetica e una cultura come industria votata al profitto. La diversità della sfera culturale che aveva una sua autonomia dagli affari è definitivamente abolita e sostituita, come scrive Marc Fumaroli, dalla «universalizzazione della cultura commerciale»; una cultura come mera registrazione del modo d’agire, nel bene e nel male, di un gruppo sociale, senza riferimento ai valori cui tali
orientamenti di vita s’indirizzano. La nostra società è dominata dalla tecnica in quanto funziona e dal mercato in quanto produce? Funzionalità e produttività vengono allora identificate come la cultura del mondo presente. Per questo, osserva Umberto Galimberti, «oggi capiamo unicamente che cosa è utile, efficace, produttivo, ma nulla sappiamo di cosa è buono, giusto, vero, bello, sacro. Ne è una prova l’arte che diventa arte solo se entra nel mercato». Che fare, allora? Coltivare un’altra cultura, libera e responsabile. Anche secondo Gustavo Zagrebelsky gli uomini di cultura hanno il dovere di difenderne l’autonomia, dagli affari quanto dagli interessi della “politica”; la cultura «non esiste primariamente per dar da mangiare, bensì per alimentare le forze spirituali dell’auto-coscienza individuale e collettiva». Così intesa essa potrebbe
NICOLA RUSSOMANDO
La seconda pronuncia investe, invece, il campo delicatissimo del diritto penale. Si tratta della sentenza n. 34 del 2014 che ha ripristinato la distinzione tra “droghe leggere e pesanti”. Al di là delle questioni etiche e di merito, l’attenzione qui è rivolta al tipo di tecnica legislativa usata per la modifica in peius delle norme penali. Infatti, non è stato debitamente evidenziato che la declaratoria d’incostituzionalità attiene all’abuso del decreto legge per come rigorosamente circoscritto nei fini e nell’oggetto dalla Carta all’art. 77. Le norme di modifica alla disciplina previgente in tema di stupefacenti, il DPR 309/1990, erano state introdotte con la legge n. 49/2006, che convertiva il decreto n. 272/2005 concepito all’origine per le misure per le Olimpiadi invernali di Torino 2006. «Si tratta, dunque, di fattispecie diverse per materia e per finalità, che denotano la evidente estraneità delle disposizioni censurate, aggiunte in sede di conversione, rispetto ai contenuti e alle finalità del decreto-legge in cui sono state inserite»: è il riconoscimento della distorsione dei contenuti del decreto originario, premessa della Corte per la loro caducazione. «Benché contenute in due soli articoli, le modifiche introdotte nell’ordinamento apportano una innovazione sistematica alla disciplina dei reati in materia di stupefacenti, sia sotto il profilo delle incriminazioni sia sotto quello sanzionatorio, il fulcro della quale è costituito dalla parificazione dei delitti riguardanti le droghe cosiddette “pesanti” e di quelli aventi ad oggetto le droghe cosiddette “leggere”, fattispecie differenziate invece dalla precedente disciplina. Una tale penetrante e incisiva riforma, coinvolgente delicate scelte di natura politica, giuridica e scientifica, avrebbe richiesto un adeguato dibattito parlamentare, possibile ove si fossero seguite le ordinarie procedure di formazione della legge, ex art. 72 Cost.». Anche in questo caso la Corte costituzionale richiama la necessità del dibattito quale strumento legittimante lo stesso potere legislativo del Parlamento nel procedimento di formazione delle leggi di forte impatto sociale. Dall’esame sommario delle due sentenze emerge come prioritaria la questione della corretta “intelligenza del diritto” per chi opera alla sua realizzazione. Al di là dei temi trattati, anche la corretta tecnica legislativa è parte necessaria dell’intelligenza del diritto, cui la politica è chiamata a dare il suo contributo tra rappresentanza e decisione in una delle dimensioni essenziali del “fare”.
creare coesione sociale componendo, come una vetrata dai molti frammenti policromi, le diverse esigenze senza annullarle. Una cultura della complessità, secondo le riflessioni di studiosi come Edgar Morin e Mauro Ceruti. Una cultura che, senza cadere nel riduzionismo ugualmente insufficiente del disprezzo dell’industria culturale, in parte torni all’idea di paidèia, tendente allo sviluppo integrale della persona. Oggi è in atto il tentativo di spezzare il legame con questa cultura, rifiutando un’Europa «fondata su qualcosa di diverso dall’euro e dall’economia», come osserva Giorgio Agamben, e basandola invece sul modello economico standard che ignora i beni così detti relazionali e a motivazione intrinseca. Quanti sono bloccati su quest’unico modello, e sul “pensiero cartesiano” sotteso, ignorano la complessità della natura, la multidimensionalità dell’uomo, il suo profondo legame con la nostra profonda tradizione, punto di forza dell’anima e del lavoro italiano. Un’ignoranza che ci ha reso più poveri, deboli e infelici. Facciamo crescere questo più ricco sentimento del mondo, della vita, delle relazioni umane e dell’arte che sta nascendo. Se avremo cura della cultura, e la curiamo dal suo malessere, la cultura curerà noi.
Periodico di cultura, arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative
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Tiratura 2.000 copie Registrata presso il Tribunale di Salerno n. 6/2012 del 17.05.2012 In copertina, Les danzeuse, (ph@tauros,2014 che ringrazia Carmine Apostolico)
numero
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teatro contemporaneo
carte sul tavolo
Riponi in uno stipetto un desiderio: aprilo: vi troverai un disinganno (L. Pirandello)
Lʼunica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa (F. D. Roosevelt)
Utopie, mete uomini e destini
Per una marginalità
Il teatro e le arti nell’epoca opaca del nuovo millennio che fare?
interstiziale di
di
FRANCO PURINI*
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a tecnologia, l’ambiente, l’ecologia con la questione della sostenibilità, che ne rappresenta la derivata principale, le procedure valutative e gestionali, la sociologia, la comunicazione, l’arte e la moda come riferimenti tematicidai quali derivare elementi e motivi considerati i più avanzati per una scrittura architettonica pienamente contemporanea sono gli ambiti dal carattere specialistico che oggi identificano l’architettura. Si tratta di saperi parziali e fortemente specifici che la maggioranza degli addetti ai lavori ritiene gli unici in grado di garantire la necessaria preparazione dell’architetto a svolgere il suo ruolo, consistente,va ricordato, nel migliorare costantemente l’abitare. Il tutto sotto il segno di una nuova entità problematica e operativa, nello stesso tempo specialistica e totalizzante, ovvero il paesaggio, che ha oggi quasi del tutto esautorato quella precedente di territorio. Forse a causa della ricerca di una nuova totalità ontologica, che appare urgente per evitare i rischi omologanti insiti nella globalizzazione, il paesaggio sembra permettere di superare quelle divisioni scalari che avevano accompagnato il progetto moderno riproponendo sia una continuità del mondo fisico come aspetti sia di una sua strutturazione per luoghi identitari, sia di una auspicata capacità dello stesso abitare di ridefinirsi in termini più semplici e al contempo più estesi ed inclusivi. Ovviamente l’idea di paesaggio possiede una sua generalità, per cui occorre aspettarsi che la contraddizione tra gli specialismi e la neoutopiaunitaria propria di questa diventi talmente evidente da dare vita a nuovi conflitti disciplinari. In attesa del manifestarsi di questa nozione contraddizione, per ora implicita, c’è da dire che ai saperi appena elencati manca però l’architettura nel senso generale che a questa parola assegna la sua stessa storia. Attualmente non è ritenuto infatti un valore la forma in quanto come esito di un processo attraverso il quale il nuovo si definisce come qualcosa che proviene dalla memoria e che genera altra memoria. La constatazione che non si costruisce mai nel vuoto, ma sempre all’interno di un sistema di tracce insediative e architettoniche non sembra oggi avere alcun effetto sulla cultura progettuale. Dal campo disciplinare è inoltre scomparsa ogni prospettiva sull’architettura che risulti da una volontà diretta o indiretta espressa da coloro ai quali è destinata. Prevale infatti un’autoreferenzialità della risposta architettonica che rispetto all’esigenze trasformative del mondo fisico propone soluzioni arbitrarie che sono l’esito di una concezione comunicativo-performativa dell’architettura. Una concezione che è frutto di un soggettivismo incapace di mettersi in relazione
di
ATTILIO BONADIES
ietro Citati su un importante quotidiano nazionale è intervenuto, dopo P la prova scritta di italiano della maturità,
con un lungo ed appassionato articolo di qualche anno fa, a strenua difesa della poesia data per morta nell’epoca delle comunicazioni di massa. Il pensiero nascosto nella traccia era, secondo Citati, che il tempo della poesia fosse finito perché troppo specialistica, quindi non interessava nessuno, al di fuori delle università e di pochi cultori. Per lo scrittore, critico e biografo fiorentino, invece, le decine e decine di migliaia di copie vendute de I Meridiani Mondadori di Ungaretti, Montale, Borges, Dickinson eccetera attestano che la poesia, come ai tempi di Omero è ancora la lingua materna del genere umano «perché offre a chi legge passione, pensiero, incanto, quiete, consolazione, speranza, e almeno una traccia di quel Dio o di quegli dei di cui le religioni moderne sono completamente incapaci di parlare.» Qualche giorno fa, invece, in una gremitissima Sala del Gonfalone del Comune di Salerno Renzo Paris, nel presentare l’opera postuma di un giovane poeta tragicamente scomparso qualche anno fa, ha lamentato la vendita, soprattutto in Italia, di pochi libri di poesia. Nel contempo il traduttore e poeta Paris ha deplorato l’in-
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con ciò che è al di fuori di esso. Richiederebbe molto tempo e uno spazio maggiore di quello disponibile per questa nota chiedersi le ragioni di questa situazione, che si potrebbe riassumere nelle espressioni il vuoto della forma, l’assenza della forma o la fine della forma. In una accezione più radicale si potrebbe arrivare a dire la fine dell’architettura in quanto costruzione di luoghi a partire da luoghi. Il primato della settorializzazione del sapere disciplinare in autonomi compartimenti conoscitivi pone un problema di una certa consistenza. Mentre fino a vent’anni addietro prevaleva una visione generalizzata dell’architettura, dalla quale si procedeva successivamente verso itinerari specialistici, da tempo si verifica una condizione opposta. È infatti dagli specialismi stessi che occorrerebbe partire per riguadagnare una visione complessiva e per quanto possibile, unitaria. La difficoltà consiste però nella mancanza si certezze sulla legittimità e sulla riuscita di questa inversione. Risalire a una condizione generalizzata nell’epoca del frammentismo tecnicistico appare infatti come un obiettivo appropriato ma per più di un verso rivolto più a un passato del quale si pensa che non ci si debba separare che a un presente criticamente inteso e al futuro come esito di un progetto consapevole e avanzato. In breve non appare del tutto attendibile cercare di attualizzare una concezione organica e integrale dell’architetto, perché essa derivava da una cultura umanistica che negli ultimi due o tre decenni ha perduto una gran parte della sua precedente centralità. Non a caso il postumano, la dismisura, il relativismo, l’enfasi sulla necessità di difendere a ogni costo le differenze, nonché la transculturalità e lo stesso ecologismo sono orientamenti che si sono posti in un orizzonte problematico in cui la pluralità è diventata occasione di separare ogni aspetto del conoscere e dell’agire. In questo quadro neanche il richiamo di Maurizio Ferraris a un “nuovo realismo” sembra proporre scenari teorici veramente risolutivi, dl momento che lo stesso realismo, se assunto al di fuori di tensioni trasformative può facilmente risolversi in un determinismo più o meno pronunciato. In effetti non tanto la realtà, quanto l’utopia della realtà di cui ha parlato Ernesto Nathan Rogers, è il paradigma invariante per ogni architetto, qualsiasi sia la sua idea della disciplina. La situazione descritta sta causando, tra le altre conseguenze, la scomparsa della critica o, meglio la nascita di una derivata seconda o terza di essa, una critica settoriale fortemente descrittiva ed effimera, che non ha alcun interesse per il fenomeno architettonico nella sua complessità, vista come il risultato di un semplice collage tematico. Due sono gli atteggiamenti che si possono assumere
La poesia ai tempi del tablet La poesia offre almeno una traccia di quelle divinità di cui le religioni moderne sono incapaci di parlare? vasione, assillante e rovinosa, sui social net-works di migliaia di testi di sedicenti poeti, privi di educazione, disciplina e lettura della poesia. Siamo al dunque: perché la poesia? E che senso acquista oggi, in questi tempi sempre più bui? Le risposte sono molteplici e contraddittorie, è solo possibile un invito alla riflessione pacata, ad una intima e profonda meditazione sulla natura e funzione della poesia. Da un lato il fiorire (richiamando il cardarelliano «vorrei coprirti di fiori e d’insulti») di innumerevoli caffè letterari finalizzati ad uso consumistico di versi o presunti tali, i sempre più numerosi incontri poetici - con qualche lodevole eccezione come la Fondazione Gatto a Salerno e “Poesia in azione” a Bari - i tanti concorsi di poesia dalle improbabili finalità culturali sembrerebbero far pendere la bilancia verso il pessimismo. Anche la scuola, nel suo complesso, spesso ha dato delle risposte insufficienti ed inadeguate, talvolta addirittura in sintonia con le mode
più becere del pressappochismo culturale imperante. Ma c’è anche un’altra scuola che, dalle elementari, insegna la musica del verso attraverso i giochi in rima, il calco poetico, i draghi logopei, le filastrocche di Rodari, le fiabe in versi di Gatto, il ritmo cantelenante di Palazzeschi e, nelle superiori, scarica le poesie interpretate da grandi attori, consulta gli e-book, entra con i motori di ricerca nell’officina creativa del poeta «per seguire virtute e canoscenza». D’altro canto le grandi manifestazioni culturali di poesia (Parma, Genova, Trieste, Milano, il Festival della letteratura di Mantova) rappresentano occasioni irripetibili per gustare i fiori più preziosi e splendenti del panorama contemporaneo. Ma il mio sguardo si rivolge soprattutto al Sud, non solo al nostro, alla straordinaria forza della poesia civile nel mondo arabo dove il poeta, come ai tempi omerici, ritorna cantore del suo popolo, e recitando i versi nelle strade e nelle piazze invita alla ribellione ed alla resistenza contro l’oppressione. Anche Salerno, che da-
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er salvare il teatro bisogna distruggere il teatro. Gli attori e le attrici devono morire di peste […] Essi rendono l’arte impossibile.» Così, alla fine del ottocento, affermava perentoriamente la Duse, l’attrice più idolatrata dalle platee di tutto il mondo. Nel segno di una peste rigenerante s’apriva il XX secolo; per il teatro, da allora, nulla sarà più come prima. L’ormai inerte palcoscenico naturalistico sarà sconquassato dalle fondamenta ad opera di un pensiero radicale e rivoluzionario che accompagnerà con furia iconoclasta i suoi primi trent’anni. Sono gli anni favolosi delle avanguardie che trascineranno anche il teatro dentro un clima effervescente e utopico, fatto anche di tanti fallimenti, degenerazioni, false partenze e complessi approdi ma con una spinta innovativa unica nel suo genere. Gordon Craig, Isadora Duncan, Georg Fuchs, Mejerchol’d, Evreinov, Tairov, Vachtangov, Majakovskij, Dalcroze, Delsarte, Decroux, Artaud, e potrei continuare ancora citando tantissimi altri artisti; essi “precipitarono” la grande tradizione teatrale europea in un vortice di cambiamenti tali che nessuna mente dotata di un po’ di senno avrebbe potuto neanche immaginare. Sono gli anni in cui il teatro esce dalle sue sedi istituzionali, e diventa un’esperienza vitale, una forma d’arte per raggiungere una pienezza di vita fuori dall’omologazione e dall’alienazione del mondo borghese e filisteo che egemonicamente si sta imponendo nel cuore della vecchia Europa. Non è un caso, allora, che il secolo scorso sia stato definito, secondo me a giusta ragione, da più di uno studioso il “secolo d’oro” del teatro. Inoltre, la nascente “regia”, i laboratori, gli studi che ne segnarono l’avvio, insieme agli uomini citati prima, attratti da nuove frontiere e veri e propri “cavalieri dell’impossibile”, seppero rendere il suo terreno concimato di felici utopie. Tali utopie, miracolosamente, ripresero vigore nell’immediato secondo dopoguerra. Gli anni sessanta e settanta resero il teatro di nuovo un organismo vivo e pulsante, una festa iconoclasta e sovversiva, un’arte radicale in continuo disequilibrio, un’imprudente rivolta, un fluire incessante di novità e av-
nei confronti di questa condizione. Si può cercare di contrastarla riconducendo la critica alla sua natura “di parte, appassionata e politica” di cui ha parlato Charles Baudelaire, scontrandosi però con il disinteresse del pubblico dell’architettura, attento solo agli specialismi di cui si è detto, ma è anche possibile accettare “la critica senza centro” introducendo in essa momenti di discontinuità e di contraddizione. Ritengo che la seconda opinione sia in effetti più realistica, più promettente e risolutiva, seppure in un ambito piuttosto ristretto. Nel corso di una recente conversazione di chi scrive con Peter Eisenman pubblicata da “Il manifesto”, l’architetto newyorkese sosteneva che per sottrarsi alla morsa computer-media, che oggista schiacciando l’architettura, occorre riscoprire il ruolo dell’ideologia, il che significa riproporre, ovviamente in un contesto del tutto diverso da quello della Parigi della metà del Diciannovesimo Secolo, la triade baudelaireiana. Ovviamente per l’architetto newyorkese la parola ideologia ha un valore diverso rispetto a quello che ha assunto nella cultura e nella lingua italiana, ma ciò non impedisce di comprendere il senso del suo discorso. Per un architetto che non solo ha rappresentato una punta di diamante per la teorizzazione dell’inevitabilità del digitale in architettura, considerato nei suoi effetti rivoluzionari analogo alla scoperta nel secondo Quattrocento della prospettiva, ma che ha soprattutto fatto un uso fortemente strategico della comunicazione, questo cambiamento di paradigma ha qualcosa di sorprendente. Anche se l’indicazione eisenmanianami sembra senz’altro efficace, ritengo però che essa non consenta di modificare sostanzialmente lo stato delle cose in quanto strutturalmente minoritaria, data la sua matrice intellettualistica edelitaria. Al contrario l’apparente l’accettazione della fine dell’architettura come costruzione dei luoghi a partire da luoghi può configurarsi come una strategia detotalizzata, relativa e transitoria attraverso la quale si può forse sovvertire la deriva specialistica e riduttiva che oggi domina l’esercizio progettuale e quello critico, riconducendo entrambi al loro ruolo interpretativo e innovativo, anche se in spazi interstiziali e in una condizione di marginalità. Si tratta in fondo di utilizzare l’energia negativa e dissolutrice dello specialismo, dell’atopia, e del relativismo opportunistico e del nuovo realismo, che per inciso potrebbe facilmente favorire la nascita di conformismo altrettanto nuovo per rovesciarne creativamente gli effetti, nella direzione di restituire all’architettura bellezza e mistero. Quella bellezza che, ricordando Stendhal, è una “promessa di felicità”. * Università La Sapienza Roma
gli anni Novanta (per merito di Poeta di Luigi Giordano) è stata una delle capitali della poesia, ha sperimentato di persona l’intensità emozionale del dramma siriano (Adonis), iracheno (Saadi Yousef) e palestinese (Fadwa Tuqan) riferendosi alla quale il famigerato Moshè Dayan disse: «un poeta è più pericoloso di dieci fedayn perché ne produce cento». E guardando verso est, attraverso il grande archivio visivo e sonoro di Casa della poesia, s’erge la voce di Izet Sarajlic: «era necessario riabilitare tutte le parole dell’uomo/perché da coltello fino ad erba/tutte erano macchiate di sangue.» Quel Sarajlic, venuto a Salerno per visitare la tomba dell’amico Alfonso Gatto che, durante l’assedio nel freddo inverno di Serajevo, per riscaldarsi aveva bruciato migliaia di volumi della biblioteca, tranne quelli di poesia. Perché la poesia è più forte della violenza del mondo e sopravvive allo stupro etnico, al genocidio, alla guerra. Il congedo finale a Marco Amendolara, il giovane poeta prematuramente allontanatosi dal mondo, di cui Il corpo e l’orto (La Vita Felice, Milano, 2014) è per Renzo Paris: «uno dei pochi libri che vale la pena di leggere e rileggere della nuova poesia italiana», con la triste melodia delle sue profetiche parole: «Come per una musica interiore/ non ti accorgevi quanto crudelmente/ rapidi e ladri fuggissero/ i giorni…».
PASQUALE DE CRISTOFARO
nel prossimo numero
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Dubbi su come orientare le nostre scelte. Inseguire la scia di un passato prossimo o alzare gli scudi della nostra identità? Punti di vista, opinioni, programmi che tessono il dialogo tra generazioni diverse. La controcopertina è dell’artista Caterina Arcuri geaArt non ha fini di lucro. La collaborazione è da ritenersi completamente a titolo gratuito, sotto qualsiasi aspetto, comprese le attività di Direzione e Redazione. Gli articoli e i lavori pubblicati riflettono esclusiva- mente il pensiero dei loro autori, che ne sono unici responsabili di fronte alla legge, e che possono di conseguenza non coincidere con la linea direzionale e editoriale del giornale. Attività editoriale di natura non commerciale ai sensi previsti dall’art. 4 del D.P.R. 26-10-1972 n. 633 e successive modifiche.
ventura. Una scena in continuo mutamento, in un clima pieno di novità di sperimentazione e avanguardia. Poi, pian piano tutta questa enorme energia ebbe una battuta d’arresto. Quando l’onda si fu acquietata, tutto cominciò a rifluire e impantanarsi. L’edonismo e una finanza sempre più pervicace e ostile al glorioso umanesimo che aveva caratterizzato i ceti riflessivi europei fino a quel momento, produssero un ripiegamento del sociale in un privato piccolo piccolo. Oggi, purtroppo, le cose stanno, se è possibile, anche peggio. Non che non ci sia stato più da allora del buon teatro, anzi. Ci sono state e ancora ci sono eccellenze ed eccezioni, gemme che lo rendono ancora all’altezza della sua migliore tradizione. Eppure, non si può nascondere un senso forte di sfiducia. Una stanchezza senza pari sembra imporsi in generale su uomini e istituzioni. Ci sono ancora tante piccole realtà, teatri anomali e poco garantiti, seguiti da un pubblico competente e appassionato, che tentano di affermarne la necessità. Tutto vano. Intorno il clima non è dei migliori. La società culturale odierna tollera appena il teatro e i suoi artefici; altre, sembrano essere le sue preferenze. Il mercato sembra aver avuto la meglio anche in questo campo. Anche qui, infatti, si prediligono gli affaristi che con l’arte e la scena spesso non hanno nulla da spartire. In una parola, il teatro, il vero teatro, risulta inattuale, fuori moda se non si declina come Spettacolo, se non fa i grandi numeri. Che fare, allora? Desistere, accettare la deriva, farsene una ragione, o urlare la propria rabbia e il proprio “scontento”? L’analisi impietosa di tutto ciò che non ha funzionato e che continua a non funzionare sarà la prima mossa necessaria per cercare di promuovere un serio ragionamento e agire di conseguenza per rimettere in cammino la speranza di un radicale cambiamento. Proviamoci. - Che fare, quando da tempo i teatri Stabili italiani sono gestiti dai politici come un qualsiasi altro ente dove sistemare i propri protetti e, come se non bastasse, lasciati sempre nelle mani delle stesse persone per anni e anni (alla lunga, quest’ultimi, finiscono per gestire questi teatri come se fossero una cosa propria, privata. Di fatto, alle-
SOS TEATRO: volgiamo lo sguardo oltre Oltre il quotidiano, oltre i rigidi schemi della realtà che ci circonda per sostenere il teatro di
TIZIANA DI MURO
o scrittore francese, Antoine Houdar de la Motte, nel XVIII secolo sosteneva che «se i teatri fossero ridotti al silenzio, chiusi o addirittura soppressi, (…) il mondo diventerebbe cento volte più malvagio di quanto lo sia ora». Oggi più che mai dovremmo prendere coscienza di queste parole ed evitare la fine del Teatro. La crisi c’è. È ovunque. È in tutto ciò che ci serve per vivere. La cultura è una di queste, tra cui il teatro con la sua funzione sociale, psicologica, magica, culturale, educativa e quindi sulla sua importanza di esistere in una società. Di fondo, “l’assenza in Italia di politiche culturali di raccordo che appoggino la varietà di proposte culturali al fine di abbattere quegli steccati tra circuiti non comunicanti tra loro, si traducono nella impossibilità di accesso ai luoghi e alle risorse”. Nonostante ciò, nascono speranze, idee, progetti per salvaguardare la cultura, e quindi il teatro. «Cosa c’è di più magico, innovativo, stimolante del teatro? La poliedricità dell’arte messa in scena permette a ciascuno di noi di scoprire dimensioni, mondi e pensieri inaspettati, inediti ma anche conosciuti e a noi più famigliari». SOSteniamo il Teatro dell’associazione culturale Mascheranova è un progetto di crowfunding che nasce con l'obiettivo di sostenere un'istituzione culturale, contribuendo alla possibilità di trasferirsi al centro della comunità con l’allestimento di una sala teatrale di 70 posti in un locale di circa 200 mq. E si rivolge a chiunque riconosca in una sala tea-
stiscono i loro spettacoli distribuendoli e scambiandoli, sostanzialmente col denaro dei contribuenti. Mentre la finalità di questi organismi dovrebbe consistere nel favorire la promozione e la distribuzione di spettacoli d’arte che il mercato privato stenta a produrre o evita di far girare) ? - Che fare, quando gli stessi circuiti beneficiari delle sovvenzioni pubbliche sono essi stessi a scriverne le regole e i regolamenti attuativi per ottenerne benefici e contributi? - Che fare, quando a Napoli, nel silenzio delle istituzioni, si arriva ad un paradosso ridicolo ed imbarazzante concentrando nelle stesse mani sia la direzione dello Stabile cittadino sia la responsabilità artistica di un festival tra i più importanti in Italia, come se non ci fosse nessun altro all’altezza del compito? - Che fare, infine, quando si vive in una piccola città di provincia, Salerno, che si da’ arie da grande capitale culturale non avendone le prerogative e le risorse? Una città che spende la sua intera voce in bilancio per una stagione lirica appena sufficiente e fatta passare per un evento “mondiale”? Una città che, spesso, promuove iniziative spettacolari molto discutibili e che non sa più distinguere il teatro d’arte e la sua grande tradizione? - Che fare? Non è facile rispondere a questa domanda. Eppure, abbiamo il dovere di azzardarne qualcuna, di risposte. Innanzitutto, sarebbe auspicabile, dopo tanti anni di pensiero debole, di derive nichilistiche e relativiste, che l’uomo tornasse a riflettere con maggiore consapevolezza e rinnovata maturità sul suo destino e su quello dell’intera umanità. Sulla scia di questo, ne sono certo, anche il teatro, come tutti gli altri linguaggi artistici, ritroverebbe senso e destino. Per carità, sono consapevole del rischio che corro dicendo questo. Non ho, infatti, nostalgia alcuna per quelle epoche in cui una verità più vera di altre ha prodotto immani sciagure e milioni di morti. Bisognerà recuperare la coscienza della nostra fragilità e considerarla come un valore e non una mancanza. Se so di essere fragile avrò maggiore umiltà e maggiore disponibilità verso gli altri. Cederò un po’ del mio muscoloso egoismo e della vanità del mio narcisismo per farmi compagno di strada degli “ultimi”. In una parola, cercherò di rendere questo mondo più tollerabile e giusto. In tal senso, ne sono certo, anche il teatro non potrà che ritornare a fare fino in fondo la sua parte.
trale il ruolo fondamentale della crescita culturale e sociale di una città. L'Associazione culturale Mascheranova nasce nel 1991 dall'unione di un gruppo di amatori del teatro con un'esperienza decennale nell'ambito della recitazione, scenografia, regia, illuminotecnica. Negli anni Novanta, priva di una sala teatrale propria, svolge la sua attività prevalentemente in tournée, con rappresentazioni in numerosi teatri italiani ( lo Smeraldo di Milano, il Colosseo di Torino, l'Impero di Varese, Royal di Bari, al Teatrotenda di Brescia, Politeama di Lecce). Organizza per tre anni la rassegna estiva “Teatro mi(o) diletto” dedicata alle compagnie amatoriali nazionali, nel periodo pasquale la sacra rappresentazione Passio et mors Christi tratta dalle Laudi di Jacopone da Todi e, inoltre, è stata tra i primi a dar vita ad una rassegna di artisti di strada a livello internazionale. Dal 1999 apre una propria sala teatrale di 70 posti, ristrutturando a proprie spese una palestra. Da allora organizza annualmente una stagione teatrale e laboratori di teatro per bambini, ragazzi e adulti, aprendo anche ad altre forme artistiche come il cinema con l'organizzazione di un Cineclub, la narrativa con serate di letture di racconti. Tutte le attività svolte dall'Associazione non hanno mai goduto di alcun tipo di contributo pubblico, basandosi esclusivamente sull'autofinanziamento e sugli incassi degli spettacoli. Nel 2013 non potendo più sostenere le spese di gestione e penalizzata dall'ubica-
zione periferica del proprio spazio, è stata costretta a chiudere, ritrovandosi così senza sede. Dopo mesi di ricerca di uno spazio consono e soprattutto più facilmente raggiungibile, l'Associazione ha individuato in una ludoteca dismessa una possibile soluzione. In ogni caso, i lavori di ristrutturazione sono iniziati, ma il completamento dell'allestimento sembra lontano. Si dà così il via alla campagna SOSteniamo il teatro, che mira a raccogliere i fondi necessari e dar vita così al prosieguo delle attività dell'Associazione: stagione teatrale: messa in scena di spettacoli teatrali di produzione non solo della Compagnia; laboratori teatrali: rivolti a tutte le fasce di età; eventi musicali; cineclub; presentazioni di libri e attività culturali varie. Con questa campagna, Mascheranova, chiede un sostegno e un coinvolgimento per portare avanti le proprie iniziative e i propri progetti, ma in primis per la realizzazione della sala, ovvero per un centro culturale a disposizione della cittadinanza e non solo, che è priva, ormai già da tre anni, dell'unico cinema esistente e di qualsiasi luogo di aggregazione culturale. (Info su www.mascheranova.it). Mascheranova è una delle tante realtà che lotta per la cultura e quindi per la diffusione e la promozione del patrimonio. Eugène Ionesco sosteneva che «se è assolutamente necessario che l’arte o il teatro servano a qualche cosa, dovrebbero servire a insegnare alla gente che ci sono attività che non servono a niente, e che è indispensabile che ce ne siano», riflettiamoci!
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proscenio
danza
Benvenuti a teatro. Dove tutto è finto ma niente è falso… (G. Proietti)
Quando un coreografo non lascia dietro di sé un repertorio, il suo destino può essere ben triste (P. Veroli)
Toti Scialoja e Aurel Milloss: la pittura in scena
Fuori, la distanza tra l’io e il mondo
Essere espulsi da un contesto permette di comprenderlo senza preconcetti di
GEMMA CRISCUOLI
L
a distanza è generatrice di senso. Essere lontani da un contesto non permette soltanto di analizzarlo senza distorsioni, nel tentativo di restituirlo pienamente a s e stesso, ma consente anche di percepire i limiti e le possibilità di chi vuole esaminare ciò che lo circonda e ha preteso a sua volta di definirlo. Potrebbe sembrare a prima vista paradossale, eppure essere dentro è la condizione necessaria per poter essere fuori. Non è un mero concetto spaziale quello che prende corpo, ma una condizione dello spirito in cui prevale l’urgenza di ridefinire confini e prospettive. Essere dentro non equivale a esprimere un’appartenenza, come essere fuori non significa automaticamente non riconoscersi in una concezione del vivere. Solo una continua dialettica tra i due estremi permette di avvicinarsi in qualche modo alla verità o a ciò che più le somiglia. Può inoltre accadere che una distanza subita per un imprevisto si tramuti progressivamente in scelta deliberata di scavare un abisso tra sé e ciò che fino a quel momento ha connotato un’esistenza. È quel che accade in Fuori, lo spettacolo diretto e interpretato da Renato Carpentieri al fianco di Valeria Luchetti e Stefano Patti che ha convinto critica e pubblico. La vicenda è ispirata al romanzo di Vincent Delecroix À la porte. Il protagonista è un professore di filosofia che si sta dedicando a un articolo sul Fedone. La scelta non è casuale: è l’opera platonica in cui l’ansia di liberarsi della bieca materialità è particolarmente viva. Uno studente che è più interessato ad affermarsi nel campo sociale, forte del proprio curriculum, che ad acquisire una maturità intellettuale, chiude distrattamente la porta dell’abitazione del docente proprio mentre è appena oltre la soglia. È davvero irritante trovarsi di colpo fuori casa. La si potrebbe
interpretare come una nudità che espone senza alcun preavviso agli occhi di tutti. Il disagio occasionale diventa presto esistenziale. L’uomo si lascia trasportare dai suoi pensieri in un contesto urbano ricostruito con pochissimi elementi: tre ingressi, il tavolino di un bar, un manifesto strappato. La scenografia isola ancora di più il protagonista in un’omologazione che toglie riconoscibilità. Anche il solito bar è presentato in una luce diversa. La cameriera cambia parrucca e atteggiamento nei confronti del cliente, alludendo così a una visione della vita in cui predomina l’indurre a percorrere false piste, lo scambio di maschere incongrue. Il professore è costretto a meditare sulla pochezza del suo tempo: un tempo che non chiede a un uomo di mettere a frutto la propria razionalità, ma di essere catalogabile. In un mondo che pullula di geni morti e viventi pur annegando in una spaventosa ignoranza, che obbedisce solo al calcolo, all’ipocrisia, il dialogo con chi non c’è più sembra offrire un minimo di conforto, subito spento (il rumore insopportabile che impedisce al professore di udire il fantasma paterno, la figlia morta che potrebbe incarnare la filososfia stessa, amatissima). Non c’è da stupirsi se quadri splendidi appaiono dietro la porta di un bagno: l’Arte, medicina dell’anima, ormai lontana da occhi che ne colgano la forza, rifugge le morte strutture che fingono di ossequiarla (i musei) e si apre, inaspettatamente a chi sa desiderarla. È la bellezza l’unico antidoto a una civiltà crudelmente ottusa. Gli infermieri che sbarrano la strada al docente, impedendogli il ritorno nella sua casa, sono emblema di una visione borghese che non perdona la differenza. L’uomo porrà dinanzi al volto un ritratto di Van Dick, mentre i fantasmi dei genitori lo contemplano da lontano, come ad attenderlo: una morte che vuole essere una rinascita, fuori da una società che è a sua volta già morta senza saperlo.
Invito a teatro/1
Invito a teatro/2
Invito a teatro/3
Al Piccolo Teatro Grassi di Milano Roberto Herlitzka omaggia Pasolini
Gianrico Tedeschi in Farà giorno al Teatro Parenti di Milano
Al Teatro delle Muse di Ancona La scena con Angela Finocchiaro
i inizia dalla fine: l’abbaiare dei cani, un corpo mestamente abS bandonato sulla spiaggia, il buio minaccioso della notte da cui emerge piano la figura di Roberto Herlitzka, che giunge a ricor-
e posizioni non potrebbero essere più inconciliabili. Un gioL vane fascista che ha deciso di fare della legge del più forte il proprio Vangelo ed è ben lieto della propria ignoranza si scontra
i dice spesso che un’amica sia la migliore alleata di una donna, S che solo lei sappia capirla come merita. Ma cosa accade quando un’amicizia porta di colpo a galla ciò che non si vorrebbe mai am-
dare ciò che molti vorrebbero dimenticare. Una giovinezza enormemente giovane è lo spettacolo di Gianni Borgna, in scena dal 14 al 26 ottobre 2014 al Piccolo Teatro Grassi, dedicato al pensiero e alla morte di Pier Paolo Pasolini e diretto da Antonio Calenda. Le scene sono di Paolo Giovanazzi, mentre le luci portano la firma di Nino Napoletano. Herlitzka si affida a una recitazione misurata e al tempo stesso intensa, mentre ripercorre i momenti salienti della vita dell’intellettuale che ha saputo meglio di chiunque altro analizzare i mali di un contesto civile. Si ha subito la sensazione che sia lo stesso Pasolini a essere testimone della propria morte, cosi come aveva testimoniato in vita le menzogne e le ipocrisie proprie di un Paese che ha scelto di rinunciare alla parte migliore di sé. Nella sua essenzialità e nella sua forza evocativa la messinscena è ben lontana da ogni intento apologetico o sterilmente celebrativo. Sulla base della profonda conoscenza che Borgna può vantare del pensiero pasoliniano, oggetto di studio continuo e appassionato, si vuole evidenziare quanto di profetico il regista di Teorema abbia concepito su quel contesto sempre contraddittorio che è la società italiana. Un contesto pronto a seppellire rapidamente i morti scomodi, che non vuole rinunciare alla propria afasia etica e che è disposto a colpire, ma non a capire.
Maria Bruno
Nella foto: Roberto Herlitzka
con un partigiano avanti negli anni che non ha dimenticatio neppure per un secondo gli ideali che gli hanno cambiato la vita. Farà giorno è lo spettacolo in programma a partire dal 24 ottobre presso il Teatro Franco Parenti di Milano che vedrà protagonista Gianrico Tedeschi. A calcare il palcoscenico nella commedia di Rosa Menduni e Roberto De Giorgi diretta da Piero Maccarinelli figureranno anche Marianella Laszlo e Alberto Onofrietti. Quella che in effetti compare dinanzi al pubblico è uno scontro a tre: non sono solo il vecchio e il giovane a essere coinvolti senza mezzi termini in una diatriba dal ritmo serrato, ma è anche Aurora, la figlia del protagonista, a portare scompiglio. Se da un lato infatti prende corpo un conflitto ideologico, dall’altro è il mancato dialogo generazionale a pesare come piombo. I personaggi sono accuratamente caratterizzati e il ritmo della rappresentazione trova la sua forza anche negli accenti scanzonati e ironici. L’uomo che sopporta il peso della sua vecchiaia si ritroverà a impartire una lezione di vita che i suoi interlocutori non dimenticheranno. Non è facile tracciare bilanci: occorre guardare in faccia alle ferite, agli scacchi, alle recriminazioni senza tregua, ai rimpianti che riaffiorano ostinatamente. Non esiste tuttavia altra strada per giungere a una piena, vera coscienza di sé e delle proprie forze.
g.c.
Nella foto: Gianrico Tedeschi
mettere? Cristina Comencini, autrice e regista de La scena, dirige due attrici di gran classe come Angela Finocchiaro e Maria Amelia Monti, protagoniste dello spettacolo omonimo al Teatro delle Muse di Ancona dal 16 al 19 ottobre. Lucia e Maria conducono esistenze del tutto diverse. La prima (una Finocchiaro severa e ironica, capace però di comunicare il male di vivere) è un’attrice interamente consacrata al suo lavoro. Maria (una Monti brillante e coinvolgente), divorziata con due figli, crede nell’immediatezza e nella passione del sesso, ma non si fida delle parole e dei rapporti, che generano solo inganni e deludono. La svolta si ha nel momento in cui l’amante di Maria non ha lasciato la casa all’alba, come lei immagina, ma compare da una delle camere, forte del fascino della gioventù. Le due donne si scambiano i ruoli, finchè la presenza del ragazzo non diventa il pretesto per dire tutto ciò che hanno sempre pensato l’una dell’altra. Lucia è costretta a guardarsi con gli occhi di Maria e quest’ultima trova a sua volta nella sua amica il più impietoso degli specchi. Oscillando tra tristezza e commedia, viene attuato un vero e proprio psicodramma in cui tutte le maschere cadranno, nonostante i miti borghesi della rispettabilità, dell’equilibrio, del perfetto inserimento nel contesto sociale. E sia pur tra molte risate nulla sarà più come prima.
Bruno De Marco
Nella foto: Angela Finocchiaro
L’incontro di due grandi interpreti della contemporaneità nella Roma degli anni Cinquanta di
Tra Festival e grandi tournée dell’estate
Danza in Italia e in Europa L’
Opera Estate Festival Veneto a Bassano del Grappa presenta un programma intenso e spettacolare dedicato alla danza. È ormai una tradizione del festival ambientare una nuova creazione di danza nell’immaginifica architettura delle Bolle di Nardini. Protagoniste quest’anno le due eccezionali danzatrici Jone San Martín e Sandra Marín Garcia, attive nelle più importanti compagnie europee: dalla The Forsythe Company alla Nederlands Dance Theater, alla Cullberg Ballet. In particolare Jone San Martín presenta l’ultimo lavoro, creato per lei da William Forsyte: uno dei più grandi coreografi contemporanei, autore di veri e propri capolavori (10,11,12/7). Grande attesa per una delle eccellenze della danza europea: gli olandesi SCAPINO BALLET con Pearl di Ed Wubbe (23/07). Il ritorno a Bassano dei Momix con Alchemy (1-2-3/8), spettacolo multimediale pieno di ingegno, ironia, bellezza e mistero, e danzatori superbi. Altra presenza d’eccezione Chris Haring (Leone d’oro alla Biennale Danza 2007) e la sua compagnia Liquid Loft con Deep Dish (24/8). Terzo episodio della serie “The perfect garden”, in un perfetto mix di danza e cinema dal vivo e un’atmosfera che evoca l’immaginario di Buñuel, Ferreri e Greenaway. Infine la novità 2014 è Cycling Dance (7/9) realizzata in collaborazione con ArteSella: oltre 60 danzatori nei luoghi più belli della ciclabile del Brenta tra Bassano e Borgo Valsugana. Sempre con ArteSella anche il progetto firmato da Itamar Serussi (14/9) in dialogo con le opere d’arte open air. Per maggiori informazioni http://www.operaestate.it/. Dopo la tournée con la Martha Graham Dance Company e lo spettacolo Dialogue with Rothko con Carolyn Carlson, un altro grande appuntamento firmato Daniele Cipriani Entertainment. Ritorna in Italia, l’11 luglio al Teatro Rossini di Civitanova Marche e il 19 luglio all’Anfiteatro del Vittoriale di Gardone Riviera (Bs), l’étoile Eleonora Abbagnato e le stelle dell’Opéra di Parigi Benjamin Pech, Nicolas Le Riche e Clairemarie Osta, in uno ensemble di assoli e pas de deux tra classico e contemporaneo. Per chi si trova a Parigi nel mese di Settembre sicuramente è da non perdere (1-7/9) il Tanztheater Wuppertal. La compagnia della signora del teatro danza Pina Bausch e che ha appena celebrato il suo quarantesimo anniversario, torna sul palco del Palais Garnier dell’Opéra di Parigi con TWO CIGARETTES IN THE DARK. Prima rappresentazione nel 1985 e ispirato al titolo di una canzone di Bing Crosby che evoca la solitudine e la perdita di una persona cara, questo pezzo è un esempio di "teatro danza" così caratteristica del lavoro di Pina Bausch. Sulla scena, bianca incontaminata ideata da Peter Pabst, i danzatori interagiscono, attraversando sentieri e sulla scia di sequenze violente e di ‘burlesque’, tentando così di riempire il vuoto delle loro esistenze. Tra la tragedia e la derisione, la sofferenza e la speranza, lo spettacolo rivela la complessità delle relazioni tra uomini e donne e le contraddizioni della natura umana. Un pezzo raro e incisivo che sollecita punti di domanda sul teatro della vita.
Roberta Bignardi
Nella foto in alto: Eleonora Abbagnato
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SILVIA LEONARDI
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el corso dei secoli si è assistito ad uno continuo e proficuo scambio di esperienze tra l’arte e la scena. Uno scambio fatto di prestiti e citazioni reciproche che a volte hanno visto l’artista figurativo operare addirittura in prima linea nel contribuire al perfezionamento degli strumenti tecnici e all’intervento più prettamente creativo della stessa messa in scena. Ciò è quanto sembra ripetersi proprio negli anni Quaranta, con l’intenso e fecondo sodalizio tra Milloss e Scialoja, iniziato con Capricci alla Strawinskij, la cui prima si tenne al Teatro delle Arti di Roma il 30 aprile del 1943. A partire dagli stessi anni, assumeva un rilievo centrale la riflessione circa l’esistenza dell’uomo, ovvero una nuova visione dell’uomo come l’unico in natura a dover decidere della sua essenza, cioè a progettare il “senso” della sua esistenza. Tale volontà indusse a ripensare oltre che la realtà, anche lo spazio in cui l’uomo agiva e, nel nostro caso, a ripensare lo spazio scenico che non è più un semplice luogo in cui si svolgono delle azioni, ma diviene un dispositivo che struttura la relazione sulla scena e attraverso la scena, con gli spettatori. Lo spazio diviene allora espressione, non è più solo un luogo ma è un discorso, una situazione in cui si fa esperienza, e talvolta è proprio l’evento performativo a fare da chiave di lettura dell’ambiente che l’accoglie. Secondo l’artista romano Toti Scialoja, l’ambiente performativo è uno «spazio illusivo» diverso da quello propriamente fantastico costitutivo dell’immagine poetica, musicale e pittorica. Il teatro stesso diventa un potente generatore di uno spazio nel quale le diverse discipline artistiche, entrandovi in collaborazione, sono soggette ad un processo di risemantizzazione attraverso il quale si caricano di nuovo senso, andando ad arricchire ulteriormente la loro capacità comunicativa. L’“illusività” di cui parla Scialoja non consiste nel trompe l’oeil, o in una forma di inganno nel senso del soprannaturale o del naturale, ma è ciò che «trae sostanza da quel che di ordinariamente simbolico, rituale permane nel teatro». A tal proposito, Scialoja vedeva nel balletto moderno la disciplina artistica con il più alto potenziale ai fini di nuove ed originali sperimentazioni e collaborazioni tra le varie arti in cui «ogni arte rimarrà con i suoi mezzi nettamente scandita, timbrata, ma dove l’ispirazione di ogni singola arte, il quid fantastico nascerà drammatico, e la visione originaria parteciperà al comune fine illusivo» come scrive nello scritto apparso sulla rivista, Mercurio nel novembre 1944. Come per le arti figurative anche per la danza la fine della guerra, e soprattutto della dittatura fascista, costituì la causa prima per un rinnovamento o, meglio, una vera e propria rinascita del teatro italiano ed in primis della danza. Aboliti i rigidi schemi culturali che guardavano all’esaltazione della classicità e dell’ordine, si incominciò a ripensare i propri confini culturali, volgendo ora particolare interesse a quelle tendenze avanguardistiche che si erano sviluppate nel corso della prima metà del novecento. Il vero protagonista della scena ballettistica italiana del periodo fu il coreografo e ballerino di origine ungherese Aurel Milloss; a lui, infatti, viene riconosciuto il merito di essere stato il primo in Italia ad aver conferito un’importanza tale al balletto da riscattarlo dalla sua posizione decorativa ed emarginata, facendolo assurgere a vera e propria arte autonoma. Inoltre ebbe anche il merito di aver stimolato il formarsi di una cultura scenografica per la danza, impo-
Nella foto in alto: Hungarica, Bozzetto per le scene Tempera su carta, cm. 50x70 Archivio Scialoja; Sopra: Ballata senza musica, foto di scena Archivio Scialoja; Persephone, studi per il bozzetto Tempera su carta e cartoncino Archivio Scialoja
stando il suo lavoro alla ricerca di una compenetrazione e concertazione delle arti, invitando la grande pittura per le scene e i costumi delle sue creazioni e i musicisti-compositori nuovi per il suo teatro di danza. Tra i tanti nomi degli artisti figuravano queli di De Chirico, Casorati, De Pisis, Guttuso, Clerici, Cagli, Prampolini, Severini, Mafai, Manzù, Scialoja, Mirko, Afro. Il sodalizio artistico tra Milloss e Scialoja, durato fin oltre la metà degli anni Cinquanta, ebbe inizio nel 1943 con lo spettacolo Capricci alla Strawinskij. Da subito il suo impianto strutturale rivelò una marcata intuizione nei termini di un espressionismo culturale. In linea con la coreografia ideata da Milloss, in cui un elegante e al tempo stesso clownesco direttore d’orchestra, da lui stesso impersonato, agita la sua bacchetta scandendo il ritmo delle sette danze create su altrettanti brani per pianoforte di Igor Strawinskij, Scialoja realizza sette piccoli pianoforti dipinti secondo stilemi espressionistici su tre spezzati che circondavano la scena. Il fondale diviene un tutt’uno con la danza e la musica, attraverso una sinergia di immagini e suoni volti a costituire ciò che per Scialoja è l’essenza del teatro. La sceno-
grafia iniziava ad assumere, perciò, un ruolo preponderante nella rappresentazione in una forte omogeneità visiva e ritmica. Di matrice espressionista è pure la scenografia successiva, realizzata nel 1945 per lo spettacolo Il Mandarino Meraviglioso. In essa Scialoja costruisce in termini del tutto pittorici uno spazio visionario e ossessivo, uno spazio appartenente più che alla realtà esterna, all’interiorità delle viscere dei protagonisti. Il fondale, come del resto i costumi in perfetta sintonia con il resto della scenografia, ricostruiva un ambiente degradato che, amplificato dal dettato cromatico, risaltava il dramma dell’azione scenica. Nel 1948 Scialoja realizzò altre tre scenografie. Due per balletto, Rhapsody in Blue con musiche di Gershwin e Marsia con musiche di Dallapiccola, entrambi coreografati da Milloss e uno di prosa, Les Mariès de la Tour Eiffel, tratto da un testo di Jean Cocteau, del 1919, per la regia di Vito Pandolfi. In Rhapsody in Blue, attraverso un’accesa gamma cromatica ed una maggiore libertà del segno pittorico, Scialoja definì uno spazio sempre più a prospettico in cui l’immagine allusiva della metropoli newyorkese diventava aggettante verso l’esterno, quasi come volesse invadere, con la luce e la vivacità delle sue tinte, lo spazio del palcoscenico. Mentre per Marsia Scialoja concepì una messa in scena più astratta e sintetica, indirizzata verso una concezione drammaticamente essenziale ad evidenziare il carattere esistenziale dell’opera: un unico fondale affiancato da poche e sostanziali quinte. I ballerini si muovevano entro costumi fascianti che aderivano al corpo come fossero una seconda pelle e definendoli come una maschera. In una sapiente orchestrazione cromatica Scialoja riuscì a far dialogare lo spazio apparentemente statico del fondale, con la mobilità dei ballerini che, come veri e propri corpi colorati, disegnano e proiettano su di esso i segni della loro presenza. Tuttavia la sterzata significativa al gusto dell’impianto scenografico si verifica intorno alla metà degli anni Cinquanta. Lo spazio, della pittura e della scenografia, perde il suo carattere di semplice luogo delle forme e del ‘reale’, per acquisire una valenza esistenziale. Infatti, Scialoja quando nel 1956 dovette affrontare l’allestimento di Hungarica, balletto coreografato da Milloss su musica di Bàrtok, interpretò il drammatico contrasto delle forze psicologiche e cosmiche, suggerito dal coreografo, in termini esclusivamente cromatici attraverso una scenografia completamente astratta. In questo modo creò una superficie mobile in cui la pittura, nella sua diversa intensità cromatica, potesse vibrare. In termini completamente astratti è realizzata anche la scenografia di Persephone, testo di André Gide con musiche di Igor Strawinskij. Per esso l’artista realizzò dei bozzetti completamente astratti, caratterizzati da un campo di fondo e nero in cui i diversi momenti della narrazione venivano raccolti insieme e rappresentati attraverso forme e colori simbolici. Come per Hungarica, anche per Persephone Scialoja nascose i corpi dei ballerini con aderenti costumi dai contrasti cromatici suggestivi ed in linea con i motivi astratti pensati per il fondale, in modo da ottenere una salda corrispondenza con esso. La scenografia di Scialoja giunse pertanto a provare quanto la pittura in teatro non avesse più una semplice funzione decorativa e, se da un lato, si rivelava essenziale a qualsiasi azione scenica, dall’altro diventa esempio di come la pittura si manifestava nel ritmo del teatro.
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arte&istituzioni
arte&istituzioni
Molte lauree, molti diplomi, non fanno dellʼItalia un paese di cultura (C. Alvaro)
Bisogna affrontare ogni giorno con un sorriso, altrimenti è un giorno perso (C. Chaplin)
A Roma avanguardie urbane
Let’s Hide: mostriamoci al Pompidou
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31 C P F di Parigi fra le attività del calendario estivo progettato per i Laboratori per INO AL DOU
Grandi capolavori tornano nelle sale mostrando la modernità dei classici del cinema
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he fare dopo la Laurea Magistrale in Storia dell’Arte? Oltre all’ingresso nel campo della ricerca, attraverso il concorso di Dottorato, sempre più raro per le ristrettezze economiche degli Atenei italiani stretti dalla spending review, un valido percorso per i futuri di professionisti nel settore, la cui principale prospettiva di lavoro si configura nell'ambito museale e della tutela del patrimonio ma che del mercato dell’arte, oggi in piena espansione, resta ancora la Scuola di Specializzazione in beni storico artistici. Essa, oltre all’ambito della didattica e della ricerca, fornisce un titolo fondamentale per l’accesso alle soprintendenze statali, agli enti territoriali, alle istituzioni museali e alle gallerie d’arte. È un corso di studi biennale post-laurea che mira alla formazione di professionalità qualificate nel campo dei beni culturali, di quadri dirigenziali capaci di saper coniugare le istanze della conservazione, della tutela e della promozione economica del territorio. In Italia esistono diverse Scuole, con le loro tipicità, si distingue quella di Siena per la pluralità della didattica e programmazione: lezioni - frontali, laboratoriali e seminariali - di alto profilo riguardanti temi storico-artistici, dal medioevo al contemporaneo, oltre ad essere oggetto di studio le metodiche relative al restauro, alle tecniche artistiche e dei nuovi media e alla didattica dell’arte, nonché quelle necessarie ad acquisire competenze per un approccio al mercato dell’arte, ai settori economico e giuridico nel campo della gestione delle strutture, degli eventi culturali e dell’editoria.
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solo. La Onlus, nata a Roma a fine 2013, è l’iniziativa di un gruppo di professionisti italiani del restauro che mettono al servizio della salvaguardia del World Heritage la loro grande esperienza. Si tratta di un ambizioso progetto che spiega il Presidente, Paolo Pastorello - intende promuovere la salvaguardia del patrimonio culturale e valorizzare le competenze professionali oggi penalizzate, nel nostro Paese, da anni di politiche culturali deteriori e di investimenti insufficienti per la manutenzione, ridando centralità all’“etica della tutela” secondo la filosofia di Cesare Brandi. Il loro scopo è quello di fornire un “primo soccorso” a musei, monumenti e siti di interesse
culturale a rischio in Italia e nel resto del mondo, come “medici” del patrimonio storicoartistico-archeologico, inoltre lo Statuto dell'associazione parla sia di interventi in tempi di pace che di soccorsi d'emergenza in caso di guerre o calamità naturali. Uno degli obiettivi di RSF sarà anche quello di monitorare lo stato di conservazione di monumenti e opere d’arte italiane, mappando sia le eccellenze che le emergenze, e di creare una rete di professionisti, tutti volontari, in grado di intervenire sulle priorità. A tal proposito si è aperta la campagna d’iscrizioni per dare origine ad un database in cui ciascun volontario può inserire il proprio curriculum. Attraverso la rete sarà realizzata una mappa geo-localizzata delle specializzazioni per intervenire in modo rapido ed efficace sul territorio dando anche la possi-
Maria Bruno
bilità ai giovani professionisti di farsi conoscere. Merito dell’associazione è infine quello di coinvolgere le popolazioni locali e quindi i cittadini, attraverso varie iniziative. La salvaguardia parte dalla rete e tutti possono partecipare.
Parigi: l’arte Robotica fra creatività pura e High-tech a Cité des Sciences & de l’Industries di Parigi L fino al prossimo gennaio 2015 ospita una magnifica esposizione dal titolo Art Robotique riu-
scendo a documentare, con circa venti opere di dieci artisti di fama internazionale, quanto ormai il confine fra ricerca creativa e tecnologica si sia assottigliato. Se da un lato, infatti, i progetti in mostra potrebbero in qualche modo rivoluzionare le nostre azioni quotidiane, dall’altro raccontano anche di una poetica sempre più complessa fondata non solo su competenze visive, quanto su conoscenze che sconfinano nell’alta ingegneria robotica e informatica. Alcuni Robots presentati si rifanno all’immaginario fantascientifico mentre altri sono incorporati in installazioni spettacolari, sorprendenti non solo per la loro grandezza ma anche per la loro originalità e ricercatezza. Così è possibile attraversare 1600 metri quadri di area passando fra gli altri, per il grande respiro d’acciaio di Jean Michel Bruyère, oppure rimanere in attesa di visionare il disegno completo del Robotlab costruito da tre artisti tedeschi che al termine dei nove mesi di esposizione porterà a compimento un’opera che va ben oltre i limiti della capacità umana mettendo in luce un design unico e distintivo. Più avanti, poi, si resterà irretiti nella lirica dell’olandese Theo Jansen che espone tre delle sue immense creature, in tubo di plastica e nastro adesivo, che solitamente abitano le rive del mare e prendono vita grazie al vento. Infine sarà facile concentrarsi davanti a Matrice Liquide, di Shiro Takatani e Christian Partos, che con 900 elettrovalvole ciascuna controllata grazie a una programmazione digitale, plasmano nel buio di una sala liquide sculture tridimensionali.
Marcella Ferro
Federica Pace
Nella foto: Theo Jansen, Animaris, arte robotica, Cité des sciences et de l'industrie, Parigi
Jean Calogero: «Viaggio attraverso l’immaginazione e non so dove mi porterà»
Un artista che, dalla Sicilia, ha guardato a quanto accadeva a Parigi e a New York
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cicastello, piccolo centro del catanese, ospita L’Atelier Jean Calogero, casa museo aperto al pubblico attraverso un nuovo percorso espositivo. Jean Calogero (1922-2001) artista catanese apprezzato nel mondo, pur sensibile al clima dell’Informale che si respirava a Parigi (dove si trasferisce nel 1947) e New York, alla maniera di Utrillo e quella veloce degli impressionisti, è una delle voci più straordinarie di pittura visionaria, onirica, alchemica. Sprofonda nel «mondo dei motivi ricorrenti», nel ricordo di marionette, bambole, ceste, cavalli, arlecchini; si abbandona al simbolo e dal simbolo risorge creatore, demiurgo autorevole che plasma la materia fino a dargli la forma di una
maschera, un totem, una candelora, un pianeta. «Quando dipingo, mi metto davanti alla tela ed è come se mi chiudessi in una bolla di cristallo. Comincia un viaggio attraverso l’immaginazione e non so dove mi porterà». È la nascita di Calogeriade. Ma è anche l’attenzione verso il mondo femminile, le Allegorie floreali lo avvicinano ai ritratti burleschi dell’Arcimboldo, senza mai deformare e desublimare il soggetto ma addizionandolo nobilitandolo fino a glorificarlo. La fortissima componente materica è una sorta di autografia: la trama del colore intenso intreccia stoffe damascate, atmosfere plumbee, trasparenze liquide, talvolta rivive all’interno dei profili disegnati a cloisonnisme, tecnica
che emula dal linguaggio medievale. La natura verdeggiante degli scorci di Acicastello realizzati a cloison, sono concepiti come placchette di smalto traslucido, come emaux de plique di una bottega orafa parigina del XIII secolo. Libertà espressiva e padronanza tecnica di Calogero sono gli strumenti che ci conducono da un frammento del litorale catanese o da un boulevard parigino, ad un mondo fantastico in cui è possibile concepire che maschere dagli echi veneziani convolino a nozze con l’Orlando dei pupari siciliani.
Ylenia Serena Sottile
Nella foto: Jean-Calogero, I Domatori, 1975
★★★★
la carta è...
Beni culturali: luoghi di formazione del “che fare”
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opo Medici Senza Frontiere ecco scendere D in campo anche i professionisti dell’Arte pronti ad intervenire in caso di necessità e non
Nelle foto in senso orario: La locandina dell’edizione 2014 del festival Il Cinema Ritrovato; Greta Garbo e Melvyn Douglas in una scena di Ninotchka (1939); Humphrey Bogart e Lauren Bacall in una scena di Acque del sud (1944); Anna Magnani in una scena di Roma città aperta (1945)
Prospettive di un’estate contemporanea al MART di Rovereto
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A SEDIA DEL PENSIERO (1986), Molti saluti, un abbraccio e una carezza (1996), sono tra le opere, circa quindici,offerte in comodato per due anni da Stefania Marano per il neonato MUM- Museo Ugo Marano,inaugurato il 13 giugno a Ferrara presso la Chiesa di San Pietro e Paolo. Opere in transito per una collocazione temporanea, in sintonia, è da credere, con gli ideali utopici dell’artista salerni- tano scomparso due anni orsono, il progetto, nasce con il patrocinio del Comune, per iniziativa dell’associazione Maratea contemporanea, affiancata dall’ASP di Ferrara e dall’Istituto Don Calabria. Pensato come un laboratorio attivo, ad animarlo sarà il tema della città, del suo possibile ridisegno e del suo sviluppo.
Nasce a Roma Restauratori senza Frontiere
l’unione fra scrittura e le arti della figurazione, [... esso] si può considerare il fratello cadetto del teatro che a un certo punto – rileva Tullio Kezich – è fuggito di casa e mantiene un atteggiamento a volte umile, a volte irrispettoso, a volte nostalgico verso la famiglia letteraria d’origine», forse l’accostamento con la letteratura non è poi così azzardato. Alla luce di quanto detto finora, quindi, in linea teorica anche un classico del cinema corrisponde agli stessi criteri di definizione del classico letterario. Per quanto ne esistano anche di «moderni» (come testimonia la presenza di Chinatown, film di Roman Polanski del 1974, nella rosa dei capolavori scelti dal progetto), parlando di classici il pensiero generalmente corre all’eco lontana di un passato in bianco e nero. L’alterigia di Greta Garbo, le volute di fumo di Humphrey Bogart, il viso intenso di Anna Magnani sono solo alcuni emblemi di un’epoca che non potremmo concepire a colori, in cui due sole tinte, da cui scaturivano un’infinità di gradazioni di grigio, ovviamente, erano in grado di dare vita alle immagini di quella grande fabbrica dei sogni chiamata cinema, di scolpire i visi degli attori, di dare forma all’arte della scenografia, di tessere le battute di una storia. Nell’era del digitale, del 3D e delle sale IMAX è comprensibile che sia più difficile sentirsi coinvolti e trovare interesse in pellicole di questo genere: è innegabile che i nostri ritmi non sono più quelli di una volta. Eppure, entrando nell’ottica che raccogliere una sfida solo all’apparenza nostalgica e reazionaria quale quella de “Il Cinema ritrovato al cinema” è quanto di più trasgressivo e innovativo possa capitare alle giovani generazioni, si può (ri)scoprire nell’approccio così personale che si instaura nel buio della sala tra spettatore e pellicola, tutta la profondità e la leggerezza dei classici del cinema. Sì, la leggerezza intesa come “precisione e determinazione” (scomodando questa volta il Calvino delle Lezioni americane) ovvero ciò che più che mai serve ad orientarsi nell’incertezza della realtà in cui viviamo, per dare idee e coraggio e reinventarsi un futuro grazie a quei messaggi che questi film hanno veicolato attraverso gli anni e per generazioni, trovando posto nella memoria collettiva in costante rinnovamento.
Corsi post-laurea
Marcella Ferro
Annamaria Restieri
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Arrivano i “dottori” dell’Arte
Aprono i laboratori didattici
uando si dice che la cultura non ammette pause. Al MART proseguono i laboratori didattici anche durante l’estate. Ormai è chiaro che questo museo d’arte contemporanea, a oggi fra i pochissimi in Italia con un bilancio in attivo e finanche una programmazione ben definita della prossima stagione autunnale, ha intuito che la crescita di una collettività sta nel continuo allenamento alla bellezza o, come si chiama in gergo storico, all’estetica. Educare, insomma non è solo un termine con cui riempirsi la bocca ma anche qualcosa con cui fare davvero i conti e per la quale impegnarsi concretamente finanche se questo vuol dire non andare mai in vacanza. Proseguono ad esempio per tutto luglio i laboratori della sezione Little Mart, dedicati ai ragazzi e alle loro famiglie che vogliono partecipare attivamente alla vita del museo coadiuvati in questa impresa da artisti ed esperti del settore. Il 19 settembre sarà la volta di Cut e Paste curato da Annalisa Casagrande nell’ambito di Mart by Night, in altre parole la speciale apertura serale prevista ogni terzo venerdì del mese. A distanza di qualche giorno si terrà, invece, il workshop d’artista Suminagashi sociale che prevede, come evidenziato dal titolo l’utilizzo di un’antica tecnica giapponese per decorare la carta. Insomma un’estate tutta da vivere e non solo in spiaggia al riparo di un ombrellone.
A MARZO AD AGOSTO 2014 Roma ospita l’iniziativa dal titolo “Avanguardie urbane. Roma Street Art Festival 2014”, ideata e promossa dalle associazioni “999Contemporary e Roam” e curata da Stefano Antonelli. Il Festival si articola in due fasi: la prima da marzo a luglio vede la partecipazione di oltre trenta tra i migliori street artist nazionali e internazionali che intervengono nel tessuto cittadino della capitale cambiando il volto di alcuni quartieri sia storici che periferici; la seconda fase, da giugno ad agosto, inizia con una conferenza internazionale presso il Macro nella sede di via Nizza e culmina con la mostra “Urban Legends” frutto del gemellaggio Itala – Francia che si tiene al Macro Future di Testaccio dal 7 giugno al 10 agosto con dodici artisti, sei italiani e sei francesi che fanno dello spazio pubblico campo artistico privilegiato.
OMPI
m.f.
CRISTINA ARALDI
opo il successo della riproposizione sul grande schermo di To be or not to be (Vogliamo vivere!, 1942 di Ernst Lubitsch), il progetto “Il Cinema Ritrovato al cinema - Classici restaurati in prima visione”, promosso dalla Cineteca di Bologna in collaborazione con Circuito cinema ed altri circuiti regionali, sta riportando nelle sale di tutto il paese una selezione di dieci grandi capolavori senza tempo restaurati con tecnologia digitale in versione originale sottotitolata. Così, a partire da settembre 2013 hanno cominciato a scorrere sui nostri schermi Dial M for Murder, Il Gattopardo, Les Enfants di Paradis, Risate di gioia, Ninotchka, The Gold Rush, La Grande Illusion, Roma città aperta, Hiroshima mon amour e Chinatown, la cui uscita è prevista per il 26 maggio a chiusura del ciclo. L’iniziativa nasce sulle orme della rassegna Il Cinema Ritrovato che da ventotto anni anima Bologna tra la fine di giugno e gli inizi di luglio (quest’anno si terrà dal 28 giugno al 5 luglio preceduta da 100 Charlot, convegno internazionale sul centenario dell’icona comica) con una otto giorni in cui immergersi nel mare magnum della cinematografia dalle origini ai giorni nostri, fra proiezioni, dibattiti e incontri. Questo progetto presenta in una veste tutta particolare la riflessione sempre attuale sul rapporto del presente con il passato visto alla luce del futuro: parafrasando Italo Calvino, siamo portati in qualche modo ad interrogarci sul perché guardare i classici ancora oggi. Nella raccolta di saggi intitolata appunto Perché leggere i classici (pubblicata postuma nel 1991), prima di parlare dei «propri» testi letterari imprescindibili, lo scrittore elenca quattordici punti, corredati da relative argomentazioni, che sono una riformulazione di volta in volta arricchita e puntualizzata della definizione del termine «classico». Ne risulta che esso è quel testo che sorprende sempre, che ogni volta che ci imbattiamo in esso, anche se vecchio di secoli, ci racconta qualcosa che paradossalmente è sempre stato nuovo e attuale, che ha un valore universale senza limiti di tempo né di spazio e che soprattutto aiuta chi lo legge con approccio critico (cioè condividendo il suo messaggio o trovandovisi in antitesi) a definire se stesso, ovvero a sentirsi parte del mondo cogliendo in tali letture i semi -e i frutti- del patrimonio culturale con il quale è cresciuto ed al tempo stesso permette di riscoprire la propria unicità, essendo ogni approccio unico e personale. E l’attualità è sempre lì, onnipresente “rumore di fondo” che ci ricorda dove siamo. Precisato ciò, se è vero che il cinema è il «figlio “bastardo” del-
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ragazzi sarà possibile partecipare attivamente all’esposizione Paparazzi! Photographes, stars et artistes. In un atelier ricostruito, infatti, il direttore artistico Christophe Beauregard, ispirandosi all’iconografia It’s getting dark che ha ideato nel 2013, farà salire i partecipanti sul palco e sotto le luci dello studio fotografico, non concederà loro di nascondersi. Volti e corpi di giovani ragazzi saranno sottoposti a un’autopsia psicologica. Framing, illuminazione, styling, tutto sarà preparato per ottenere lo scatto perfetto.
Ancora oggi tutti i colori del bianco e nero di
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Nasce a Ferrara il MUM-Museo Ugo Marano
Hotel Villa Romana
DE LUCA SALERNO
Nelle sue linee eleganti sorge il funzionale Hotel Villa Romana, in un ambiente accogliente, dotato di ogni comfort, a ridosso del prezioso monumento archeologico del I° sec. d.C. Villa Romana e a 150 m. dal mare.
Le sue camere arredate con gusto, dispongono tutte di bagno, telefono, TV, frigo bar, aria condizionata e si affacciano su un tranquillo e curatissimo giardino.
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Luca Mansueto
Matteo, un nuovo nato nella famiglia di geaArt Matteo, un bellissimo bambino nato nel pomeriggio di sabato 21 giugno scorso, è entrato a far parte della grande famiglia di geaArt. È il primo figlio di Rosaria Amoroso e di Davide De Marco, due nostri giovani colleghi che, sin dai primissimi numeri della rivista hanno affiancato il lavoro di redazione e di grafica. Matteo Antonio un doppio significativo nome, per richiamare il nome del nonno, Antonio De Marco cofondatore di geaArt e, principalmente, magico grafico che interpreta lo slancio e l’immaginazione di tanti giovani collaboratori. A Matteo, a mamma Rosaria e papà Davide, gli auguri di tutta la rivista; il suo arrivo ha già arricchito di sorriso le nostre pagine.
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Garage privato, solarium e lo specchio refrigerante di un’azzurrissima piscina completano la ricettività dell’Hotel Villa Romana, posto ideale e raffinato per tutte le occasioni d’incontro. La ridente Minori, situata nell’inconfondibile cornice della Costa Amalfitana, conserva vive le impronte della sua antica civiltà come la superba Villa Romana, monumento insigne di bellezza e di arte.
Hotel Villa Romana C.so Vittorio Emanuele 90 - 84010 MINORI (SA) TEL. 089 877237 FAX 089 877302 E-mail: info@hotelvillaromana.it Web site: www.hotelvillaromana.it
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arte contemporanea
arte moderna
Una volta disegnavo come Raffaello, ma mi ci è voluta una vita intera per disegnare come i bambini (P. Picasso)
Non cʼè soltanto un unico modo di fare bene le cose, cʼè anche un solo modo di vederle, e cioè vederne il quadro (J. Ruskin)
Pratiche di una creatività di massa
L’autoritratto nell’era dei Selfie egli anni Sessanta Andy Warhol aveva compreso che in una società fortemente capitalista l’arte non poN teva non adeguarsi ai suoi nuovi linguaggi e, attraverso
Preraffaelliti protagonisti al Polo Reale di Torino
La collezione della Tate Britain concessa per un evento unico
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LUCA MANSUETO
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l Polo Reale di Torino riunisce in un unico grande complesso museale, nel cuore del centro storico, ben cinque musei precedentemente divisi: la Biblioteca Reale, l’Armeria Reale, il Palazzo Reale, la nuova Galleria Sabauda, il Museo Archeologico e il Palazzo Chiablese che accoglie dal 19 aprile l’importante mostra “Preraffaelliti. L’utopia della bellezza”, curata da Alison Smith (Curatore capo Arte Britannica del XIX secolo presso la Tate), insieme a Caroline Corbeau-Parson in collaborazione con Luca Beatrice. L’esposizione si presenta come un evento unico, ben 70 opere provenienti tutte dalla Tate Britain di Londra, con il proposito di illustrare la natura radicale della visione preraffaellita, dalla fondazione della Confraternita nel 1848 fino all’ultima fase simbolista di Edward Burne-Jones, mostrando come la loro arte interpellasse i drammatici sconvolgimenti sociali e politici dell’epoca. Come nota Mario Turetta, Direttore Generale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte, “la mostra raccoglie per il pubblico italiano un corpus di opere tra le più rappresentative del movimento, prima del definitivo rientro nella rinnovata sede londinese, un’occasione imperdibile, am anche al tempo stesso il pretesto per un avvicinamento ideale”. La Confraternita dei Preraffaelliti fu fondata nel settembre 1848, verso la fine di uno dei decenni più turbolenti della storia inglese, essi si fecero interpreti di un momento cruciale dell’arte europea, un ripensamento del rapporto arte-artista come espressione delle istanze etiche e sociali che lo sviluppo della società sembrava aver corrotto. L’interesse per i contenuti dell’arte religiosa nell’Inghilterra moderna fu al centro dell’identità della scuola inglese, la sfida, per gli artisti protestanti, era di trovare una nuova modalità per far rivivere l’arte religiosa senza idealizzazione delle convenzioni di matrice cattolica. Con questo crescente interesse per le forme materiali del culto cristiano, si sviluppò un’ampia conoscenza della storia dell’arte da parte del pubblico riscoprendo il Medioevo. Nel corso di quegli anni la National Gallery si procurò opere dei primitivi e allestendo una mostra di antichi maestri italiani e fiamminghi; Holman Hunt, John Everett Millais e Dante Gabriel Rossetti si proposero di far rivivere il vocabolario tipologico e iconografico della pittura cristiana. Il percorso espositivo all’interno del Palazzo Chiablese si dispone in 7 sezioni così divise: “La Storia”, “La Religione”, “Il Paesaggio”, “La vita moderna”, “La poesia”, “La bellezza” e “Il Simbolismo”. Nella prima sezione sono presenti i capolavori ispirati ai drammi di Shakespeare, alle narrative medievali e ai poemi contemporanei come Ten-
nyson; in questa sezione l’Ofelia (1851-52) e la Mariana (1850-51) di John Everett Millais sono le principali calamite per gli occhi dei visitatori. Mariana è intrappolata all’interno di uno spazio in cui la natura è controllata e artificiale: all’interno di una stanza i cui vetri colorati della finestra lasciano intravedere il giardino recintato. La fanciulla, in piedi in preda alla desolazione, inarca la schiena indolenzita per le ore trascorse a ricamare, figura che rivela le morbide sinuosità della donna, una posa naturalistica lontana dalla perfezione accademica. Nella tela di Ofelia Millais realizza un paesaggio di fondo con una resa oggettiva e veridica della natura nella quale immerge la modella, figlia di un ferramenta, fatta posare in una vasca da bagno del suo appartamento. Un’immagine autentica dell’eroina, fidanzata di Amleto, che muore annegata nella lussureggiante natura diventando emblema dei Preraffaelliti. I Preraffaeliti dipingono i loro paesaggi en plein air per riprodurre il più fedelmente possibile ogni elemento naturale in modo descrittivo privo di artificio con precisione botanica, nella sezione “Paesaggio” troviamo la tela di William Dyce Baia di Pegwell, manifesto per la pittura di paesaggio preraffaellita nel quale egli raffigura diverse figure che animano la scena, a passeggio o alla ricerca di conchiglie in rima al mare. Opera questa di intensità descrittiva e di cromaticità vibrante
con la luce crepuscolare evanescente, ad orizzonte basso, che bagna in modo radente la natura evidenziando i contrasti volumetrici; nella parte alta del dipinto, come nota Rosenfeld nella sceda di catalogo dell’opera, «il microscopico preraffaellismo delle figurine in primo piano lascia spazio a un macroscopico romanticismo nella forma di un ammasso di roccia, gas e ghiaccio che si fa strada attraverso quello che per il profondamente religioso Dyce è il cielo di Dio». Dal 1860 i Preraffaelliti cominciarono ad abbandonare la narrazione letteraria per dedicarsi le possibilità puramente estetiche della pittura. Millais e Rossetti ricercarono la bellezza, la creazione di una bellezza radicalmente nuova emulando l’arte veneta del Cinquecento con una sensualità dei ritratti femminili che spesso scandalizzò i contemporanei. Nella sezione “La Bellezza” emergono ben sette ritratti di fanciulle eseguiti da Rossetti, se dapprima era la moglie la principale modella, dopo la morte di quest’ultima (1862) le nuove muse ispiratrici furono Fanny Cornforth e poi Jane Morris, donne dal portamento sinuoso e morbido celebrando la bellezza femminile e il potere dell’amore in una serie di ritratti a mezzo busto. Queste appaiono isolate, riccamente vestite con capigliature lussureggianti, adorne di gioielli e preziose curiosità che lo stesso Rossetti collezionava per inserirli nelle proprie composizioni. Il percorso espositivo si chiude con la sezione “Il Simbolismo” il cui protagonista è Burne-Jones convinto che un dipinto dovesse essere reso misteriosamente astratto in virtù di una modalità di esecuzione particolarmente ricercata ed elaborata. Le sue opere avevano una dimensione ornamentale in grado di incantare lo spettatore, una sublimazione degli ideali preraffaelliti. Vespertina Quies (1893), ritrae Bessie Keane sua modella preferita, colta in espressione enigmatica che congiuntamente al paesaggio rarefatto del fondo allude alla Gioconda di Leonardo, emulando la tradizione italiana del ritratto di tre quarti. Il riferimento al Rinascimento italiano non è isolato, lo ritroviamo anche nel suo Tempio dell’amore (1872) nel quale si ravvisa un vocabolario affine alle architetture dipinte da Mantegna, un edificio circolare ornato da rilievi e colonnato popolato da amorini, quest’ultimi di matrice espressiva donatelliana unita agli elementi che passeranno ai suoi allievi: festoni di fiori e frutta, linea che sbalza le figure con contorni aspri che esasperano i panneggi, colori irreali, intensi e marmorei. Nella foto in alto: John Everett Millais, Ophelia, 1581-1852, olio su tela, Londra, Tate Britain; A sinistra: William Dyce, Baia di Pewell, Kent, (part.) 1806-1864, olio su tela, Londra, Tate Britain
Un mito moderno
Bernardo Dovizi torna a casa
John Constable: la creazione di un Maestro al Victoria & Albert
A Rouen le cattedrali gotiche come ispirazione artistica
Il Bibbiena un cardinale nel fervore del Rinascimento
l Victoria and Albert Museum di Londra ospiterà dal 20 settembre 2014 all’11 gennaio 2015 la mostra “The making of a Master” inIteramente dedicata a John Constable (1776-1837). Un percorso esplo-
otto il patrocinio dei Ministeri degli Esteri di Francia e Germania, S facente parte del progetto Centenary Mission 1914-2014, “Cathédrales 1789-1914. Un mythe moderne” è la mostra che vede
al 17 Maggio Bibbiena presenta presso il Museo Archeologico il ritratto di Bernardo Dovizi. Il dipinto, opera di Raffaello Sanzio, D grazie al Comune di Bibbiena ad Antonio Paolucci e a Paolo Torriti, la-
Josephine Bisson
Nella foto: Raffaello Sanzio, Ritratto del Cardinal Bibbiena, ca.1516, Firenze, Galleria Palatina
Cristina Ceci
Nella foto: John Constable, Hay Wain, (part.) 1821, olio su tela, Londra, National Gallery
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la collaborazione del Musée des Beaux-Arts di Rouen e del WallrafRichartz Museum di Colonia proponendosi di riscoprire il posto occupato dalla cattedrale gotica nell'immaginario artistico e nel dibattito nazionale, da Goethe e Victor Hugo, fino alla Prima Guerra Mondiale. Il direttore dei musei di Rouen e curatore dell’esposizione, Sylvain Amic, ha concentrato tutte le sue forze per riunire circa 250 opere prestate da alcune grandi istituzioni parigine, come il Musée d’Orsay e il Musée des Arts décoratifs fare incontrare arte con diversi punti di vista: quadri, sculture, mobili, gioielli, fotografie, modellini racchiusi in uno spazio mirabilmente allestito in ben 15 sezioni su 1200m2. Durante la visita alla mostra, ci si aspetta ovviamente di ritrovare la famosa serie prodotta da Monet delle diverse viste della cattedrale di Rouen, però si può anche ammirare una raccolta di opere assolutamente eclettiche come Constable, Turner, Corot, Sisley, Pissarro, Jongkind, Matisse, Rodin, Moreau, Marquet, Delaunay, Chagall e anche le Trois Démonétisations, opera neon, del contemporaneo francese François Morellet. Alla fine del percorso si ha l’idea che la cattedrale sia una sintesi di tutte le arti, gesamtkunstwerk secondo Wagner, nata dalla xilografia di una cattedrale incisa da Lyonel Feininger nel 1919, copertina del manifesto del Bauhaus. Nella foto: Charles Nègre, Le Stryge, 1853, Paris, Musée d’Orsay
La Maremma ambisce a essere polo culturale contemporaneo. Nell’attesa di diventare grande, sperimenta
di
CLAUDIA GENNARI
S
e, tradizionalmente, nelle grandi città si muovono gli attori principali della scena artistica, intorno a musei, gallerie d’arte e grandi feste/festival, ciò non significa che la provincia stia a guardare. Che fare se la situazione economica non risponde alle esigenze di crescita intellettuale di un territorio? L’imminente chiusura delle Province, che nel tempo hanno sostenuto progetti di promozione culturale locale, alimenta la sensazione di precarietà caratteristica delle nuove generazioni che faticano per costruirsi un futuro. Il caso di Grosseto e della Maremma è emblematico di come la marginalità offra la possibilità di sperimentare. A portare alla luce, sulle cronache nazionali, la situazione di fermento che da queste parti si respira è stata la candidatura, tra il serio e il faceto, di Grosseto a Capitale della Cultura Europea 2019 promossa da due artisti visionari come un moto dal basso, senza l’appoggio delle istituzioni. La parola d’ordine per cambiare le cose sembra essere “fare gruppo” e in questo contesto sono nate manifestazioni che viaggiano su un doppio binario: la conoscenza del territorio e la messa in opera di relazioni di livello nazionale acquisite dai singoli durante un pregresso corso di studi o lavorativo e messe a disposizione della collettività. Giovani artisti, curatori, storici e critici d’arte uniscono le forze per mettere in moto un circolo virtuoso che faccia conoscere le qualità del proprio territorio, per fare della loro passione, un mestiere. L’associazione ARTQ Amiata, Rivoluzione, Terra, Qualità, è stata fondata da un gruppo di ragazzi originari di Arcidosso, paese di 3500 anime sul Monte Amiata. Stanchi che la loro terra fosse conosciuta solo per il clima e l’enogastronomia, hanno messo in campo idee, intuizioni e professionalità per dar vita nel 2010 ad Alterazioni - festival delle arti
Au revoir
Paesaggio e amore per la natura
rativo delle fonti e delle tecniche che vuole riesaminare il suo lavoroper offrirci una nuova interpretazione dell’artista più amato in Gran Bretagna. Per la prima volta, Constable sarà presentato accanto ai vecchi maestri del paesaggio classico come Jacob van Ruisdael, Peter Paul Rubens e Claude Lorrain, i cui valori formali sono stati da lui diligentemente assimilati e combinati con la sua percezione romantica della natura che lo ha reso il pittore per eccellenza del paesaggio e della campagna inglese. La mostra riunirà oltre 150 opere tra bozzetti a olio, disegni, acquerelli, incisioni e celebri opere come The HayWain (1821), The Cornfield (1826) e la Cattedrale di Salisbury dal Meadows (1831). Una mostra innovativa che ci offre una nuova chiave di lettura delle sue opere e della loro creazione attraverso il confronto con i grandi maestri del XVII secolo e ci introduce alla sua natura fresca e unica. Martin Roth, direttore del Victoria and Albert Museum, ha detto“Il V&Aè stato uno dei centri più importanti per la ricerca Constable sin dal XIX secolo, a seguito di un dono significativo di dipinti, schizzi a olio e disegni dalla figlia di Constable Isabel nel 1888. La mostra rinfresca la nostra comprensione del suo lavoro e della sua influenza creativa.Questa mostra che rappresenta l'arte di Constable, così ben amata e familiare a molti di noi, offre ancora sorprese”.
Centro e periferia: se la provincia diventa opportunità
Vincenzo Bergamene
«N
scia la Galleria Palatina di Firenze e torna nel suo luogo natio. Bernardo è raffigurato dal vero con un portamento che rispecchia il suo carattere energico vigoroso, ma è l’espressione degli occhi e quel piccolo accenno del sorriso a far trapelare l’estrema intelligenza, scaltrezza e furbizia che furono le basi della carriera politica e diplomatica del prelato. Il ritratto, grazie al restauro fatto in vista della mostra, sarà oggi visibile con la sua cornice originaria. Oltre al celeberrimo dipinto, sono esposte opere di Raffaello e documenti e reliquari appartenenti alla famiglia Dovizi. Il visitatore che percorrerà le sale potrà immergersi nella vita di Dovizi visitando il suo palazzo privato, ancora oggi abitato, e nei luoghi che furono cari al Cardinale come la chiesa di San Lorenzo, ricordata nel suo testamento con un lascito di cinquanta ducati d’oro. All’interno di questa è possibile vedere due pale di Luca della Robbia, Deposizione della Croce e Natività con adorazione dei pastori commissionate dal presule. La mostra su Dovizi è la conclusione di vari progetti culturali avviati dal 2013 con il titolo “Il Bibbiena, un cardinale nel Rinascimento”, ricorrevano, infatti, 500 anni dai due eventi importanti legati alla figura del Dovizi: la stesura della “calandra”, celebre commedia, messa in scena ad Urbino e lasua elezione a cardinale avvenuta nel Concistoro del 23 settembre 1513.
Valentina Lattari
on gioco con la memoria, non solo; non ho paura d'essere considerato un decadente», ha sempre sostenuto Vincenzo Bergamene, artista e grafico napoletano, morto lo scorso 11 luglio. Fondatore insieme a Gaetano Gravina della Union Grafreaks, è stato ideatore in primis e poi docente di Design e coordinatore del Corso di Grafic Design all'Accademia di Belle Arti di Napoli, membro del comitato direttivo della Fondazione Morra di Napoli, responsabile del Dipartimento Arti Visive del Museo Nitsch e curatore dell'immagine coordinata di entrambi.Diversi i suoi lavori entrati nell'immaginario collettivo partenopeo a partire dal manifesto per Futuro Remoto o del Museo Nitsch, nonché i numerosissimi cataloghi impaginati per il Living Theatre, per Gianni Pisani, per Luca Patella e tanto altro ancora. Allievo di Luca (Luigi Castellano), dopo aver esordito con alcune performances negli anni Ottanta si era dedicato al mestiere del grafic designer. Dal 2009 il suo percorso lo aveva portato a progettare diverse mostre giocando con la labile figura dell'artista in bilico fra il libero professionista e il libero pensatore. Nonostante la malattia con lo sguardo sempre volto al futuro, 'Bergamente' così lo avevano soprannominato gli allievi, soleva affermare durante le sue lezioni condotte a mo’ di “serate” surrealiste: «Ragazzi, dobbiamo imbarcarci in questa fottuta storia virtuale». Nella foto: Vincenzo Bergamene, Performance per la Festa dell'Unità, Napoli, 1981 (ph. courtesy of Peppe Esposito)
visive e della musica: il medioevo si fonde col contemporaneo, il castello Aldobrandesco ospita video installazioni e dal 2013 il paese accoglie writers di fama internazionale grazie alla collaborazione con la 999 Gallery di Roma. E quando i fondi non sono più sufficienti viene attivata una colletta digitale attraverso una campagna di crowdfunding su internet. Spostandosi verso la costa, la street art è ancora protagonista del Festival Oltremare, organizzato nell’estate 2013 a Marina di Grosseto dall’associazione Artefacto in collaborazione con la Fondazione Grosseto Cultura. Il progetto di arte urbana ha richiamato alle porte del capoluogo artisti provenienti da tutto il mondo e una intera comunità si è mobilitata per accoglierli, convinti che il colore poteva essere il mezzo di riqualificazione di zone poco frequentate dai turisti nonché uno stimolo per la creatività giovanile locale. Nessuno ha mai danneggiato i murales, prova che essi sono diventati in poco tempo segni riconoscibili e integrati nel piccolo tessuto urbano. I ragazzi di Artefacto hanno poi curato un progetto di arte ambientale alla Cittadella dello studente di Grosseto. Stessa formula, stesso risultato: Urban Device, nato dall’esigenza di donare nuova veste a una zona di pubblica funzione, ha promosso la conoscenza di una discussa espressione artistica e regalato alla città di una serie di opere realizzate in cantiere aperto, studiate per coinvolgere e affascinare chiunque viva la quotidianità locale. La frustrazione del sentirsi inadeguati nel piccolo centro di provincia sembra dunque ormai un ricordo e il desiderio di fuga lascia spazio alla volontà di innovazione. In questa battaglia per la liberazione della Maremma dal cliché di terra incontaminata, in cui invece le città mangiano ogni giorno terreno alle campagne, è fondamentale che la comunità non si senta invasa dai giovani colonizzatori culturali, ma comprenda a pieno e sia partecipe del cambiamento. Solo in questo modo le esperienze descritte – ma molte altre si potrebbero citare- non diventeranno eventi sporadici e la provincia sarà vero laboratorio creativo con ampi margini di azione.
l’uso della serigrafia, rendeva visibile il pensiero di Walter Benjamin sulla riproducibilità dell’opera d’arte. La tecnologia, dall’invenzione della macchina fotografica ai Social Media ha contribuito ad allargare pratiche artistiche e sociali originariamente dominio di un’élite artistica. L’uso corrente di camere fotografiche integrate nei nostri cellulari e Smartphone ci invita quotidianamente a condividere momenti di vita privata, creando pratiche sociali di massa, come il caso dei Selfie. Se la maggior parte di queste immagini non possiedono alcuna vocazione a entrare a far parte della storia dell’arte, esse non possono lasciare indifferente l’arte stessa. Nel corso degli anni Novanta, l’esigenza di dare maggiore spazio alla realtà conduce numerosi artisti a documentare scene vere di vita privata, come nell’opera di Nan Goldin, il cui obiettivo fotografico sembra agire di nascosto, dando vita a immagini crude e dense di vita vera. L’autoritratto fotografico nei linguaggi di artisti contemporanei si presta a molteplici usi e messaggi: nell’opera di Shirin Neshat, artista iraniana, la forza politica dei suoi autoritratti racconta il ruolo della cultura musulmana e il ruolo delle donne nella Rivoluzione iraniana mentre l’ambiguità narrativa dell’opera di Cindy Sherman, con le innumerevoli donne da lei stessa interpretate, ci coinvolge in un gioco artistico accattivante e voyeur al tempo stesso. Ciò che colpisce maggiormente del fenomeno corrente dei Selfie, certamente non è la facilita attraverso cui ci si presta all’autoscatto fotografico, segno di un naturale vezzo narcisistico, piuttosto la velocità di condivisione di queste immagini, tale da trasformarsi in fenomeno sociale. Sotto il segno di una certa pratica “ partecipativa “ s’iscrive l’attività artistica di Jr, street artist francese il cui lavoro fotografico, tradizionalmente deputato negli spazi dell’illegalità, è oggi riconosciuto al punto tale da ricevere un incarico dal Centre des Monuments Nationaux di Parigi per una colossale istallazione al Pantheon. La velocità attraverso cui i media e la rete possono raggiungere in pochi secondi un vastissimo numero di persone lascia all’arte possibilità d’intervento ristrette. Questo spiega perché l’ultima grande opera pittorica politica sia stata Guernica di Picasso, testimonianza poetica del bombardamento dell’omonima città del 1937. Per realizzare quest’opera, Picasso impiegò circa due mesi, un’enormità oggi rispetto al tempo necessario per scattare e diffondere su rete un’immagine.
Ardesia Ognibene
Nelle foto in alto: Videoinstallazione urbana ideata da Q2 Visual in collaborazione con Alterazioni Festival; Writers all’opera sui muri della palestra di Marina di Grosseto per il Festival Oltremare Street Art
geaArt è grata…. La pubblicazione di questo numero è stata resa possibile grazie al contributo degli sponsor e al sostegno di
Michele Attianese Michele e Rachele Cantarella Anna Carrabba Giovanna Cassese Andrea De Luca Giulio De Mitri Teo de Palma Rocco Laguardia Simona Ferrai Edmondo Ferro Patrizia Ferro Michele Figliulo Rossella Giasai Carmen Guadagni Ermanno Guerra Ciro Mannara Felicita Pisanti Andrea Reale Rolando Rubino Teresa Sorrentino Secondo Squizzato Nino Tricarico
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arte contemporanea Lʼarchitettura è una scultura abitata (C. Brancusi)
Scultura ed architettura: in Italia un mancato dialogo
Opere “informali” esposte ad Aosta
Il debutto della Collezione Reverberi Fautrier, Afro, Appel, Jorn, Dorazio, Shiraga, Manzoni, Nitsch sono soltanto alcuni dei nomi che per la prima volta potremo ammirare – dal 20 giugno al 26 ottobre 2014 – presso il Museo Archeologico Regionale di Aosta, location inaugurale della stagione espositiva delle opere provenienti dalla Collezione Reverberi. Collezione nata in una trentina d’anni che annovera oltre trecento pezzi di cui solo una selezione sarà presente in mostra. “Una stagione informale. Capolavori europei dalla Collezione Reverberi” è a cura di Beatrice Buscaroli e Bruno Bandini che, insieme a Daria Jorioz, sono tra gli autori dei testi in catalogo (Edizioni Silvana).
Una riflessione sulla città e sulla necessità di dare ad essa una nuova coscienza dell’arte. La scultura deve dialogare con l’architettura La collezione di arte contemporanea della Farnesina di
ROBERTA GIULIANI
l 29 Maggio la Farnesina ha aperto le porte al pubblico in occasione del Iriallestimento che ha interessato la collezione di Arte Contemporanea di cui la sede del Ministero degli Affari Esteri si fa custode a partire dal 2000. Tale collezione è nata per arricchire gli spazi architettonici del Palazzo e per sottolineare un preciso indirizzo progettuale del Ministero, che ha fatto della ricerca artistica contemporanea un ambito d’intervento strategico della propria politica culturale. A partire da un primo significativo nucleo di acquisizioni, che videro la commissione di un importante apparato decorativo e di numerose opere d’arte nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, l’operato di diversi comitati scientifici ha dato vita nel corso del tempo a una selezione che ha raccolto opere di altissimo profilo per la storia dell’arte italiana del Novecento. Grazie al contributo del nuovo comitato scientifico istituito il 22 aprile 2013, la Collezione Farnesina si è recentemente arricchita di un nucleo di opere di protagonisti della scena artistica italiana nella seconda metà del Novecento (Burri, Accardi, Sanfilippo, Vedova, Turcato), con uno sguardo sempre più attento alle ricerche recenti (Zorio, Piacentino, Mochetti, Salvadori). Ad oggi la collezione comprende circa 400 ope- re di oltre 250 artisti; il rapporto diretto con gli artisti o con il loro eredi, così come la collaborazione con prestigiose istituzioni museali, gallerie e fondazioni, si è dimostrato un segnale forte di fiducia nell’azione del Ministero. Da quando è stata istituita per opera dell’allora Segretario Generale Ambasciatore Umberto Vattani e al contributo del critico d’arte Maurizio Calvesi, la formula del comodato d’uso gratuito ha consentito un costante sviluppo della consistenza della collezio- ne attraverso l’acquisizione di opere di particolare rilievo per la storia dell’arte italiana del Novecento, da Arturo Martini a Mario Sironi, da Gio Pomodoro a Jannis Kounellis. L’attuale esposizione si pone come obiettivo quello di creare una relazione armonica con gli spazi interni del Palazzo, oltre che con gli interventi artistici coevi alla struttura architettonica, ponendo in questo modo la collezione come biglietto da visita per gli organi di rappresentanza. In ultimo aspetto il riallestimento ha puntato ad un miglioramento della qualità della presentazione delle opere proprio nel rispetto degli ambienti lavorativi e di rappresentanza, senza tuttavia rinunciare, per questo, agli scopi esplicativi dell’arte sottolineati dalle accortezze espositive, quali la luminosità, la distribuzione e la gestione degli ampi spazi al fine di dare maggior risalto estetico alle opere.
di
L’opera di Kazuo Shiraga (partic.)
GILLO DORFLES
L
a scultura non soltanto come immissione di un’opera nella città, bensì la scultura di per sé. Molto spesso la scultura nella città è semplicemente il “monumentino”, l’effige, l’icona, piazzato in mezzo ad una piazza o in un angolo di una strada, in un punto, diciamo nevralgico e che, come tale, dovrebbe servire da punto di riferimento per i cittadini. Non è questa la scultura. In altre parole trovo che l’importanza della scultura in quanto arte a se stante non dovrebbe essere solo il manichino attorno al quale il passante fa la sua presenza, senza neanche accorgersi di esso, quanto piuttosto l’elemento fondante di una soluzione artistica della città o dello stesso elemento creato. Ora quello che manca purtroppo quasi sempre nella scultura italiana, non del passato ma del presente, è proprio questo aspetto. Si tratta di scultura o si tratta solo di qualche piccola aggiunta a quello che è la soluzione urbana e quindi all’urbanità. Purtroppo quasi sempre si tratta di una piccola aggiunta ove non si tiene conto della qualità del monumento. Potrei fare una quantità di esempi milanesi. Valga solo un esempio evidente, perché è di un grande scultore; quello di piazzale Monforte. Qui c’è una grande scultura di un importante artista italiano, Aligi Sassu. Uno dei monumenti più noti della città. Ebbene questo monumento è deleterio, perché lo scultore, che ha certamente una sua importanza – e non voglio soffermarmi sull’opera di Sassu - ha realizzato una scultura che sta impalata su un piedistallo e che non ha nessun valore, neanche per l’effetto di monumento a se stante. E questo avviene a Milano quasi sempre. Non ci sono monumenti che siano coerenti con il luogo o, diciamo, esemplari per il posto nei quali vengono immessi. Allora, ecco la prima cosa da fare è che la scultura sia creata appositamente per l’architettura. L’architettura molto spesso si fa scultura come dovrebbe essere nelle sue prerogative. L’architettura può essere scultura; penso a certe opere di Henry Moore, a Londra, per esempio, dove le sculture integrano le architetture sulle quali sono collocate o per le quali sono state ideate. Non sono appiccicate all’architettura. A Milano di questi esempi io non ne vedo; vedo una statuina in mezzo al parco, in mezzo alla piazza, quasi sempre brutta, quasi sempre priva di qualsiasi valore artistico e non vedo la collaborazione tra l’architettura e la scultura che riscontro altrove. Penso ad un esempio, per farne uno opportuno, ad una grande architettura scultorea realizzata in Sicilia da Arnaldo Pomodoro. Quest’ultimo, oltre aver fatto molte sculture di prim’ordine delle quali non voglio parlare, ha realizzato in Sicilia una vera e propria architettura scultorea, ciò a Marsala con la costruzione di una scultura ambientale che ridisegna lo spazio. Di questo modo di fare abbiamo anche esempi a Gibellina, con gli interventi di Consagra il quale ha progettato un edificio, qual è il Meeting che è scultura. È questa, dunque, la meta di uno scultore che lavora in una città: fare un’architettura che sia anche scultura e non il “monumentino” in mezzo alla piazza che non vuol dire, quasi sempre, niente altro che la glorificazione di un personaggio che tutti, giustamente, hanno dimenticato. A Milano, in particolare, avrebbe molta importanza servirsi di scultori in maniera positiva: penso a Mauro
“Il Lungo Giorno” di Chiharu Shiota
A Ravello Tony Cragg e le forme del tempo di
Alla Tenuta dello Scompiglio A Long Day è la nuova installazione che l’artista giapponese Chiharu Shiota ha realizzato nella Tenuta dello Scompiglio a Vorno (Lucca). Creata appositamente per questo luogo, mescola le influenze della tradizione calligrafica nipponica, nei fili di lana nera che intreccia in un lungo processo fino a condensarli in una fitta tessitura che rende lo spazio impenetrabile, con la lezione di Marina Abromovic di cui la Shiota è stata allieva. Il progetto, curato da Franziska Nori, invita alla lentezza e alla meditazione, in un tempo congelato, come in un sogno. Per passeggiare attraverso il groviglio nero creato dall’artista c’è tempo fino al 28 settembre.
PASQUALE RUOCCO
opo il citazionismo iperbolico dell’opera di Igor Mitoraj e il viaggio onirico tracD ciato da Mimmo Palladino, arriva a Ravello
Staccioli, tanto per dirne uno. Staccioli ha avuto il grandissimo merito di creare le sue grosse strutture metalliche in modo che diventassero un elemento urbano, aspetto sul quale ha posto l’attenzione Bignardi nel suo recente libro. Basta andare a Volterra per averne un esempio, ma anche in moltissimi altri esempi qua e là in Italia ed all’estero. Ecco quello che a Milano manca è, per esempio una scultura di Staccioli, ma anche di Nicola Salvatore e di altri significativi interpreti di una diversa visione della scultura e del dialogo con l’architettura; opere che dovrebbero integrare la città e non essere, ribadisco, il “monumentino” intorno al quale si muove l’indifferenza della città. Solo in virtù di della relazione innanzi richiamata avrebbe senso mettere una scultura nella città. In altre realtà le sculture fanno parte dell’edificazione di una città. Mi auguro che Milano come gran parte della città italiane ritrovino il dialogo con la scultura; dialogo che oggi è mancante.
(fino al 31 ottobre), con dodici opere significative dei suoi ultimi dieci anni di lavoro, l’inglese Tony Cragg. Il percorso, a cura di Flavio Arensi, si articola, come ormai tradizione, tra il piazzale antistante l’Auditorium Niemeyer e gli splendidi giardini di Villa Rufolo. All’ingresso di questa i visitatori saranno accolti da Wild Relatives mentre sul Belvedere troveranno ad attenderli Even After, Accurate Figures e Runners. A dialogare con la ricchezza e la regolarità delle architetture arabo-normanne appare, come libera scrittura nello spazio, Outspan, mentre Cauldron campeggia solenne nella cosiddetta sala da pranzo. In ‘rimessa’, poi, nella cappella si trova Congregation, grande barca assemblata con diverse parti di legno e tempestata di ami e chiodi ad occhiello, omaggio al mare e al sud, tema scelto quest’anno per il festival. Sul piazzale dell’auditorium si confrontano, invece: Luke, False Idol, Manipulation, Caught Dreaming e Turbo. Ravello si conferma così, oltre che città della musica, città della scultura, scenario eccellente dove consumare il confronto tra arte, architettura e paesaggio. Un confronto con la natura che, parafrasando quanto lo stesso Cragg ha confessato qualche anno fa al francese Artnet, non può essere sostenuto secondo la logica dell’imitazione e della rappresentazione; piuttosto l’artista, lo scultore in primo luogo, deve porsi il problema di come le cose accadono, di quali forze, quali energie sottintendono i fenomeni naturali. Cos’è una forma? Come nasce? Come si traduce questo flusso di energia in un corpo solido e inerte come quello della scultura? Sono queste le domande a cui Cragg sembra voler trovare risposta attraverso le sue opere: flussi di materia che si avviluppano su se stessi, secondo la fluidità dell’acqua o la vaporosità della nuvola, ancora intercettando l’irrigidirsi della lava in roccia o cedendo alla forza corrosiva del vento. Si tratta di corpi, in continuo movimento, secondo il motto eracliteo del “tutto scorre”: proiezioni prolungate di profili, che dopo un po’ si riconoscono per umani, che si moltiplicano nello spazio restituendo la silhouette sfuggente di personaggi che si rincorrono, incontrano, scrutano, dividono. Cragg riporta la figura umana al centro della scultura, senza porla sul piedistallo, piuttosto immergendola in flusso continuo di forme e materie che riflettono la struttura mutevole del nostro tempo. Quest’ultimo, del resto impronta da sempre il lavoro dello scultore britannico in particolare secondo la concezione suggerita da Heiddegger per il quale il «il tempo è un modo fondamentale d’essere dell’essere natura, cioè del mutamento, della locomozione, del procedere. Non essendo esso stesso movimento, il tempo [...] lo si trova anzitutto in ciò che è mutabile.»
In alto: Mauro Staccioli, II Shin Building '91, (1991), Seul; A lato: Gillo Dorfles, Nicola Salvatore (di spalle), Ugo La Pietra, Valeria Tassinari, Massimo Bignardi e Marco Pellizzola (sullo sfondo) all’Accademia di Brera In basso da sinistra: Marco Pellizzola, Il Giardino del gigante, 2001-2005, Cento; Arnaldo Pomodoro, Moto terreno solare, 1994-95, Simposio di Minoa, Marsala
*tratto dall’intervento tenuto in occasione della presentazione del libro di Massimo Bignardi, Praticare la città. Arte ambientale, prospettive di ricerca e metodologie d’intervento (Liguori Editore), ospitata all’Accademia di Brera il 23 maggio 2014.
Nella foto in alto: Tony Cragg e Flavio Arensi durante l’allestimento della mostra, courtesy Flavio Arensi
Nella foto in alto: Il nuovo allestimento delle sale del Palazzo della Farnesina (ph. Giorgio Benni)
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in vetrina
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Chiaru-Shiota, A-Long-Day, 2014, Tenuta Dello Scompiglio
L’estate di Castelbasso (TE)
L’arte contemporanea di ieri e di oggi Attesissimi gli appuntamenti espositivi che da oltre un decennio, animano il suggestivo borgo di Castelbasso. Grazie alla dedizione per la ricerca, profusa negli anni dalla Fondazione Malvina Menegaz, l’estate abruzzese si arricchisce con due proposte di alto profilo. La prima mostra, C’era una volta a Roma. Gli anni Sessanta intorno a piazza del Popolo, propone uno spaccato su quel gruppo di giovani artisti, l’altra di Alberto Di Fabio, eclettico e sensibile artista, noto per la sua originale pittura suggestionata da temi desunti dall’ambito scientifico. A cura di Laura Cherubini e Eugenio Viola, dal 12 luglio al 31 agosto. Info:www. fondazionemenegaz.it Alberto Di Fabio, Spazi parallelo (dettaglio), 2010
Reggio Calabria omaggia il ritorno dei due guerrieri
Bronzi di Riace: dialoghi contemporanei “Bronzi di Riace. Nostos. Il ritorno” è il titolo della mostra che il Museo Archeologico di Reggio Calabria ospita fino al 31 luglio 2014 in occasione del rientro, dopo il restauro, delle due statue bronzee. L’evento, ideato e curato da Marcello Sèstito richiama nell’allestimento il contesto ambientale in cui i bronzi sono stati rivenuti mentre al suo interno si collocano quattordici opere di artisti, architetti e designers di fama internazionale chiamati a fornire una loro interpretazione delle due sculture, tra i maggiori capolavori di epoca greca e da sempre al centro di polemiche storiografiche e attribuzionistiche. La locandina della manifestazione
Salerno, Galleria Tiziana Di Caro
Parole immaginate dagli anni Settanta “Viaggio al termine della parola” è il titolo della mostra, visitabile fino al primo agosto, allestita presso la galleria Tiziana Di Caro; un progetto, curato da Antonello Tolve, incentrato sul rapporto tra immagine e parola. Si tratta di un percorso attraverso le opere di artisti di diverse generazioni - Tomaso Binga, Maria Adele Del Vecchio, Adelita Husni-Bey, Maria Lai, Magdalo Mussio, Damir Ocko, Lamberto Pignotti, Lina Selander - in cui, suggerisce lo stesso Tolve, si tende «come un ponte tra immagine e concetto, determinato dalla scelta di associare all’interno di uno stesso discorso la visualizzazione della parola e la trasparenza (o la pastosità) del segno». Tomaso Binga, è una vecchia incisione, 1982 courtesy artista e galleria tizia di caro
HANNO COLLABORATO: Linda Gezzi, Federica Pace, Maria Letizia Paiato, Annamaria Restieri, Pasquale Ruocco
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arte contemporanea
arte contemporanea
Si ha più potere quando si tace, perché così la gente comincia a dubitare di se stessa (A. Warhol)
Il poeta osserva con pietà, si inchina davanti al simbolismo e scende, silenziosamente, dentro il cuore delle cose (A. Gide) I mondi di Smith e Tayou alla Galleria Continua
Parigi, Pièce Unique
Path e Update! a San Gimignano
Urs Lüthi attore corpo e idea D
La donna Frida, l’artista Kahlo identità allo specchio Note book a margine della mostra romana ospitata alle Scuderie del Quirinale di
FEDERICA STRUFALDI
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ra di pranzo di un giovedì, gli spazi delle Scuderie del Quirinale sono invasi da un flusso continuo di visitatori. La cosa che colpisce è la quantità di donne presenti: un numeroso e ciarliero gruppo di sessantenni si accalca davanti agli autoritratti di Frida, cercando di leggerne i segreti di quello sguardo impenetrabile, ieratico. Poco distante un paio di giovani madri descrivono con enfasi i quadri alle loro figlie, una trentenne dallo sguardo rapito cerca ispirazione come davanti a un’immagine sacra. Ma il potere iconico di Frida Kahlo come ha avuto origine? Negli anni Settanta il movimento femminista la considera una precorritrice dei propri ideali anche se la scelta della sua consacrazione per vari aspetti è anacronistica. Si può infatti parlare per Frida di una volontà di emancipazione dalla società tradizionale messicana del secondo decennio del Novecento: l’abitudine giovanile di vestirsi e portare i capelli corti come un uomo, la sua determinazione nel continuare gli studi per accedere alla facoltà di medicina, l’orgogliosa scelta, dopo la prima separazione da Diego Rivera, dell’indipendenza economica basata esclusivamente sulla vendita delle proprie opere. L’altro aspetto legato alla sua femminilità è espresso dalle parole di Rivera: «è la prima donna nella storia dell’arte ad aver affrontato con assoluta e inesorabile schiettezza, si potrebbe dire in modo spietato, quei temi generali e particolari che riguardano esclusivamente le donne.» Per la prima volta il corpo femminile perde la sua aurea di bellezza ideale e simbolica divenendo un contenitore dilaniato dalle sofferenze, provocate dalle numerose operazioni a seguito dell’assurdo incidente del 1925, dall’incapacità di dare alla luce un figlio, dai continui tradimenti del marito. Lacrime, raffigurazioni di organi interni, ferite, sangue caricano di forte espressività la narrazione che si sposta su un piano viscerale al limite del grottesco. I suoi non sono sogni, prodotti dal subconscio, ma frammenti della realtà vissuta dalla pittrice; i suoi dipinti sono intrisi di una pulsione ferina, carnale che riflette la passione e il carattere istintivo dell’approccio alla vita che ha Frida Kahlo. La sua libertà sessuale, fra i suoi innumerevoli amanti si ricordano Trotzkij, il fotografo Nickolas Muray, la pittrice Georgia O'Keeffe, la fotografa Tina Modotti, non fu soltanto un gesto di sfida o vendetta verso l’infedeltà ripetuta del marito ma l’affermazione della volontà di vivere a pieno e in modo appagante la propria sfera erotica. Nel 2002 Frida, produzione hollywoodiana diretta da Julie Taymor e interpretata da Salma Hayek, esce dopo la trasposizione cinematografica messicana del 1986 Frida. Naturaleza viva. La storia romanzata è tratta dalla biografia dell’artista scritta da Hayden Herrera nel 1983, ma se si toglie il fascino dei costumi, dei colori, delle musiche messicane e di alcuni rimandi surreali alle opere di Frida, ben poco si salva dall’eccessivo accento posto sull’aspetto erotico-trasgressivo della vita della pittrice. Frida ebbe un grande successo e contribuì ad aumentare il merchandising legato alla sua figura, che già alla fine degli anni Novanta era fiorito, aiutato dal battage pubblicitario seguito all’acquisto dell’enigmatico La nascita del 1932 da parte della cantante Madonna, fan dell’artista messicana. Da allora impazza la vendita dei più svariati oggetti e capi di abbigliamento presentati da famosi brand come Moschino, Missoni, Zara e Etro, che tra l’altro è uno degli sponsor dell’evento romano, riportanti il volto della Kahlo o ispirati al suo stile. La pittrice, già in vita, diviene un’icona della moda. Dopo il matrimonio con Rivera inizia a indossare i lunghi abiti multicolore tradizionali delle donne Tehuane, ad acconciarsi i capelli con nastri e fiori freschi, a ornarsi con gioielli molto elaborati ispirati al mondo precolombiano. Nel 1938 la rivista “Vogue NY”, nell’occasione della sua personale alla galleria Julien Levy, le dedica alcune pagine, nelle quali
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è riprodotto il quadro The frame, acquistato dal Louvre nel marzo 1939 dopo la mostra alla galleria Renou et Colle di Parigi, e la copertina recante l’immagine della sua mano inanellata. Lo stile della Kahlo ammalia prima gli USA e poi l’Europa; suo ambasciatore è il teorico del Surrealismo Andrè Breton che conosce Frida nella Casa Azzurra a Coyoacan. Di recente nel novembre 2012 il frontespizio di “Vogue Messico” riporta lo scatto di Nickolas Muray del 1939 Frida sulla panchina bianca. La Kahlo è stata una donna molto intelligente che ha saputo sfruttare a pieno le sue doti e l’essere la compagna di un artista famoso come Rivera che le permise di entrare nell’entourage economico-politico messicano dell’epoca, caratterizzato da forti legami con l’Europa e l’Unione Sovietica, e professare, come attivista per tutta la vita, il credo comunista, unica via possibile alla salvezza dei popoli. La sua personalità dai forti contrasti, il desiderio di sfidare le convenzioni sociali, non nascondendo l’abuso di alcolici, tabacco e droghe non possono lasciarci indifferenti di fronte alla sua figura. Quello che testimoniano le numerose fotografie e i tre video presenti in mostra è la consapevolezza dell’artista di essere l’artefice della sua immagine, di porsi come la vera e propria opera d’arte. In tal senso non convince quanto era solita affermare: «dipingo me stessa perché trascorro molto tempo da sola e perché sono il soggetto che conosco meglio». Non poteva essere solo un vezzo il desiderio di decorare il proprio corpo, così l’ostentare le folte sopracciglia e i baffi anche nei suoi autoritratti, segni diventati inconfondibili nell’immaginario collettivo. Cifre di un carattere in perscrutabile che possiamo riassumere in quello sguardo catturato da quel breve filmato del 1940, che ci svela la compiacenza con cui Frida gioca con il potere del proprio fascino, aumentando l’aurea mitologica della sua figura.
ai famosi autoritratti fotografici degli anni Settanta passando successivamente per la pittura, la scultura, l’installazione e i video, Urs Lüthi durante la sua carriera d’artista ha esplorato tutti i linguaggi contemporanei dell’arte componendo un’ininterrotta e coerente indagine esistenziale attraverso il dialogo con il suo alter-ego figurativo. La personalità carismatica dell’artista, considerato uno dei massimi esponenti dell’arte concettuale, emerge perfettamente nei suoi lavori più recenti, che la galleria Pièce Unique di Parigi esporrà per tutta l’estate 2014. L’artista raffigura il suo doppio nei volti in alluminio di Four times a loser e nelle piccole figure sormontate da macrografismi di Lost Direction. Un’esperienza quest’ultima che vede un ideale complemento nella serie “Direction East” composta di lavori fotografici a colori appartenenti al vasto progetto tematico Art is the Better Life, sviluppata nel bisogno esplicito di trovare una propria strada verso la felicità, quasi come una dichiarazione di volontà, divenuta negli ultimi anni il marchio di fabbrica dell’artista. Al centro della sua arte c’é l’uomo, ovvero se stesso allo specchio. Guardandosi del resto egli agisce in chiave universale poiché l’esperienza soggettiva é e rimane la base dell’esperienza oggettiva del mondo. La profonda riflessione di Lüthi, dunque, poggia sul contrasto tra individuale e generale ed è enfatizzata dal rapporto dissonante tra la solennità del monumento e l’ironia quasi burlesca delle sue espressioni. Non si tratta pertanto di individualità: la sua immagine è infatti modello disponibile per rivolgersi al mondo. Caterina Pocaterra Nella foto: Urs Lüthi, Four times a loser, 2012-14, alluminio
Vistamare Pescara
Matisse e la forza del colore
Louise Nevelson Mai-Thu Perret femministe nello specchio dell’arte
Alla Tate Modern di Londra le gouaches découpés
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enri Matisse: i Cout-Outs” è il titolo della mostra ospitata alla Tate Modern di Londra in cui vengono esplorati gli ultimi diciassette anni della vita di Matisse dal 1937 al 1954 durante i quali l’artista francese crea una tecnica completamente nuova e diversa da tutto quello che aveva fatto in precedenza: le gouaches découpés, composizioni create con ritagli di carta dipinta, i famosi collage. La mostra, definita dal direttore della Tate, Nicholas Serote «la più bella mai vista a Londra», raccoglie per la prima volta più di centro papier découpé provenienti da diverse parti del mondo, un’occasione unica per poter osservare questi capolavori riuniti con un preciso intento espositivo. Il percorso di 14 sale illustra infatti lo sviluppo del “nuovo” Matisse, cominciando da alcuni tentativi di piccolo formato fino ad arrivare ad opere monumentali come Grande Decorazione con maschere. Fra le tantissime opere esposte spiccano le splendide illustrazioni per il libro Jazz, ben quattro dei suoi sensuali Nudi Blu e gli studi per le decorazioni della Cappella del Rosario di Vence. La potenza espressiva delle composizioni di Matisse e le sue forme che prendono vita emergendo dal colore, sono state magistralmente esaltate dal curatore Nicholas Cullinan che ha previsto anche la presenza di brevi film/documentari in cui Matisse è all’opera con le forbici mentre dirige il lavoro delle sue assistenti. La mostra sarà a Londra fino 7 settembre 2014 poi, in ottobre, sarà al MoMA di New York.
Maria Letizia Paiato
Nella foto: Louise Nevelson, Mai-Thu Perret, queen of the black black, Vistamare Pescara
“Masters of Dreams” in mostra a Cracovia
Un’esposizione di circa 200 pezzi sintetizza per tematiche il Simbolismo boemo di
ALESSANDRO CUCÈ
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ino al 7 settembre 2014, l’International Cultural Centre di Cracovia sarà teatro della mostra “Masters of Dreams. Symbolism in the Bohemian Lands 1880-1914”. Curata da Natalia Zak e Otto Urban, l’esposizione conferma, come ben illustrato nel saggio d’apertura del catalogo dal direttore del Centro, Jacek Purchla, la solida collaborazione tra l’International Cultural Centre di Cracovia appunto e l’Olomouc Museum of Art di Praga. Scopo della mostra è quello di illustrare - attraverso dipinti, sculture, libri e stampe - l’arte Simbolista nelle aree boeme tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Andando con ordine, la mostra è divisa in sette sezioni tematiche. Una piccola porzione della prima sala è dedicata ai libri: “Libri et Anima”, infatti, è la sezione d’apertura della mostra. Sono presenti alcuni numeri delle più importanti riviste ceche come “Moderni Revue” e “Volne Smery”. Come evidenziato da Otto Urban nel catalogo, la nascita di queste riviste alla fine dell’Ottocento rappresenta l’origine della più moderna critica d’arte in area ceca. Il resto della sala è destinato interamente a dipinti ed entra sin da subito nel cuore della mostra: il titolo di questa sezione, “Masters of Dreams”, è inequivocabile. La presenza qui di due tele (Flora e Onda) realizzate rispettivamente da due giganti dell’arte europea come Alfons Mucha e Frantisek Kupka (probabilmente i più grandi artisti cechi mai vissuti), testimonia la voglia da parte dei curatori di partire con nomi di alto livello. In particolare la giovanile Flora di Mucha (opera che presuppone una conoscenza del francese Gustave Moreau) è una tra le più recenti acquisizioni al catalogo dell’artista nativo di Ivancice. Nella successiva sezione, “Lost Paradise”, si incontrano dipinti e sculture che rappresentano isolamento e sogno, due tra le tematiche più care al Simbolismo europeo. Troviamo qui, per esempio, Maximilian Pirner uno dei pionieri del Simbolismo ceco, Benes Knupfer e lo scultore Frantisek Bilek. Quest’ultimo merita un discorso a parte. Ar-
Nelle foto in alto: Nickolas Muray, Frida con idolo; Nickolas Muray, Frida sulla panchina, 1939
ouise Nevelson, artista di origini ucraine, naturalizzata statunitense, scomparsa sul finire degli anni Ottanta considerata fra le più significative esponenti del secondo dopoguerra e la giovane Mai-Thu Perret, artista svizzera, classe 1976, nota al grande pubblico soprattutto l’eterogeneità dei mezzi espressi che utilizza spaziando fra scultura, pittura, video e installazioni, sono due figure nel mondo dell’arte molto diverse, i cui lavori si incontrano oggi per la prima volta e dialogano nel contesto della mostra queen of the black black. Agli assemblaggi realizzati con oggetti di scarto dalle fattezze curiose alle monumentali sculture a tratti baroccheggianti, alle opere monocrome rigorosamente dipinte di nero della Nevelson, si contrappongono, generando un serrato e intenso raffronto, le eleganti e fragili sculture in ceramica delle Perret, alternate a opere neon, le cui linee luminose e trasparenti al contempo, tracciano sui muri una sorta di filo immaginario capace di legare ogni elemento presente nell’ambiente. Questo alternarsi fra il colore e la sua assenza, fra la concretezza dell’oggetto e la luce rarefatta che avvolge lo spazio, rivela il vero punto d’incontro fra le due artiste. Le loro poetiche sono, infatti, attraversate dal medesimo interesse per tematiche di matrice femminista, che per la prima è soprattutto evidente nel modo in cui essa stessa ha concepito la sua esistenza unitamente all’arte, per la seconda nello studio costante di immagini legate all’universo femminile e dal forte carattere sociale. Fino al 6 settembre 2014.
enerdì 31 maggio è stata inaugurata presso la Galleria ConV tinua di San Gimignano una mos-
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Cristina Ceci
Nella foto: Henri Matisse, Nudo blu, 1952 gouache découpé
(periodici, giornali, riviste, libri)
e tutto quello che riguarda la carta stampata
Alice Ioffrida
Nella foto: Pascale MarthineTayou, Falling Houses, 20142
Uno sguardo sull’America degli anni Sessanta
Dennis Hopper: The Lost Album
a mostra Dennis Hopper: The Lost Album che si terrà a Londra L (21 giugno - 19 ottobre 2014) curata
dalla Royal Academy of Arts (www. royalacademy.org.uk) prende in considerazione la produzione fotografica dell’attore e regista americano dal 1961 al 1967 riscoperta solo dopo la sua morte avvenuta nel 2010. Hopper aveva approfondito l’interesse per la fotografia soprattuttoa partire dagli anni Cinquantacon lavori tendenti all’astrattismo. È assai probabile che il corpus qui considerato sia di diversa natura: non fotografia come opera d’arte in sé conclusa ma fotografia come mezzo per acquisire un’attitudine mentale e visiva alla composizione dell’immagine finalizzata alla regia. Potremo arrivare alla facile conclusione che gli scatti di questi anni siano la premessa al suo film più famoso: Easy Rider (1969). Le oltre 400 opere esposte nella mostra londinese sono quelle che già Hopper aveva selezionato per l’esposizione al Fort Worth Art Center in Texas nel 1970, l’unica in cui aveva presentato questo lavoro per poi rifiutarlo e relegarlo in un cassetto. Immagini in bianco e neroin condizione di luce naturale ci mostrano scene di vita privata, ritratti di amici artisti e attori, raduni di Hippie, di HellsAngels e manifestazioni per i diritti civili. I soggetti, fatta eccezione per i ritratti di artisti, non sono mai in posa, come se Hopper volesse essere un osservatore invisibile intento a rubare scatti. Anche se fossero solo una base preparatoria da coprire poi con la stesura definitiva, queste fotografie ci restituiscono una sorta di diario personale così come una cronaca illustrata dell’America degli anni Sessanta.
Giulia Bartalesi
Nella foto: Dennis Hopper, Martin Luther King jr., 1965
La Wunderkammer di Clivio
Celebrazione della banalità
uello che ci si aspetta andando a vedere una mostra è Q di poter ammirare qualcosa di
Opere recenti
depliant brochure locandine manifesti grafica editoriale
centomanidesign@gmail.com antonio.demarco1@gmail.com
In alto da sinistra: Frantisek Kupka, Wave, 1903, olio su tela, Ostrava, Gallery of Fine Arts; Alfons Mucha, Flora, 1898, olio su tela, Praga, Pro Art Museum
Nino Tricarico
design for print
antonio de marco c.so garibaldi 13 portici (na) 80055 tel. e fax +39 081476702 +39 3298257990
tista tormentato e con un parziale daltonismo, Bilek si fece notare, giovanissimo, grazie alla vittoria di una borsa di studio a Parigi. In Francia i suoi primi lavori furono criticati e così decise di lasciare prematuramente la capitale per far ritorno a casa. Il rifiuto dei consigli dei maestri più grandi, a suo tempo, fece parecchio scalpore. È presente in questa sezione Astonishment, filiforme quanto tormentata figura bronzea. Stampe e disegni fanno la parte del leone nella sezione “Light and Shadows”, quasi interamente dedicata a queste tecniche. Esse, infatti, a fine Ottocento smettono di essere relegate a ruolo ancillare nei confronti della pittura ma cominciano a recitare una funzione a sé stante e autonoma. Non manca qui un omaggio all’arte moderna italiana come dimostra la Sibilla di Felix Jenewein, copiata da quella ben più celebre dipinta da Michelangelo nella Cappella Sistina. Nella corposa (in senso numerico) “Chimaeras of Dusk” si entra nella sostanza della mostra, con visioni immaginarie e figure uscite più da sogni e fantasie che dalla realtà. L’esistenza di dipinti e sculture raffiguranti i Goblin, leggendarie creature simili a folletti, conferma quanto precedentemente scritto. Si distingue Water Goblin, piccola terracotta di Vilim Amort, scultore aggiornato sulla statuaria di Rodin, e il Goblin dipinto da Jaroslav Spillar, pittore che non mancò, durante la sua carriera, di visitare l’Italia. Incubi, paure ma soprattutto il tema della morte sono ricorrenti in “Dialogue with Death”. In questa sala ci si imbatte in due notevoli monocromi di Alfons Mucha, realizzati entrambi nel 1892 quando l’artista indirizzava il suo sguardo verso soggetti legati alla storia francese. Una tra le più notevoli sculture incontrate lungo il percorso espositivo si trova in questa unità: Anxiety realizzata nel 1911 dallo scultore Otto Gutfreund. La solida figura sembra quasi una massa bronzea che si scompone su più piani: le ricerche cubiste portate avanti in quegli anni in Europa stanno evidentemente alla base di quest’opera. Un artista, Otto Gutfreund, che nella biografia in coda al catalogo, per il suo stilizzato realismo, viene paragonato al nostro Arturo Martini. La mostra si chiude con un messaggio nostalgico, legato alle emozioni e all’amore, ben sintetizzato dal titolo “Et in Arcadia Ego”. Una sezione, questa, dove si nota chiaramente l’influsso dei Preraffaelliti come nell’Angelo dipinto da Frantisek Urban, silente figura dalla veste rosso fuoco le cui ali giganti si stagliano lungo la parte alta della tela. Tuttavia, protagonista indiscusso di quest’ultima sala è Spring del 1900, monumentale trittico di Jan Preisler, dipinto considerato dagli esperti d’arte tra i più notevoli dell’Art Noveau ceca. Nonostante cambi di colore troppo repentini nell’allestimento, nel complesso la mostra risulta scorrevole e le sezioni sono abbastanza coerenti tra loro. Tuttavia lo scarto di qualità tra alcune opere, rispetto ad altre, sembra un po’ troppo marcato. Inoltre uno degli scopi dell’esposizione, come evidenziato nel catalogo, era quello di far riflettere il visitatore sul Simbolismo polacco tramite queste opere. Una buona idea, dunque, poteva essere dedicare una sezione ad allievi di Jan Matejko, uno dei più importanti pittori della storia polacca, come Jacek Malczewski e Stanislaw Wyspianski, artisti legati a tematiche simboliste. All’interno del movimento della “Giovane Polonia”, che prese piede tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, la tendenza simbolista è considerata tra le più rimarchevoli dalla critica d’arte locale.
tra che vede protagoniste due esposizioni personali di importanti artisti contemporanei attivi scena internazionale: Kiki Smith e PascaleMarthineTayou. Smith, ospita- ta per la prima volta nello spazio dell’Arco dei Becci e nel giardino della Galleria di via del Castello, ha esposto sculture in oro e bronzo, disegni e grandi arazzi. Nata a Norimberga nel 1954, cresce nel New Jersey per poi spostarsi a New York dove lavora e vive ancora oggi. La sua personale, dal titolo Path, indaga il rapporto tra uomo e natura, esplorando il mondo dell’inconscio collettivo e dello spiritoin una dimensione simbolica. PascaleTayou nasce in Camerun a Nkongsamba nel 1966. La personale “Update!”presenta per lo più installazioni create appositamente per gli spazi della Galleria, esse esplorano l’idea del viaggio come metafora di vita e come dimensione psicologica in grado di modificare aspetti della nostra esistenza quali i rapporti sociali, politici ed economici. Il viaggio, la migrazione, le culture lontane, sono i temi che sviluppa nelle FallingHouses: immagini di abitazioni e ambientazioni capovolte, appese al soffitto, un mondo al contrario in cui i poveri diventano ricchi e i bambini camerunensi si vestono con i costumi dei personaggi della cultura occidentale. “Update!”, con carattere di denuncia, ci mostra l’inquinamento del pianeta, ma anche l’esaurimento delle risorse energetiche che generano conflitti.
Matera
Galleria Opera arte e arti 15.09>30.10.2014
Napoli
Castelnuovo 01>24.10.2014
straordinario, qualcosa che di norma non siamo abituati a vedere tutti i giorni. Non è quello che succederà – dal 19 giugno al 14 settembre 2014 – presso la Triennale Design Museum di Milano dove sarà allestita “No Name Design”. L’esposizione, curata da Franco Clivio e Hans Hansen, presenta una vasta gamma (circa un migliaio) di oggetti banali, per nulla eccezionali e tanto meno rari a cui si intende riservare la medesima preziosità che veniva riservata, un tempo, agli oggetti delle curiosissime e straordinarie Wunderkammer. Niente oggetti “da museo” quindi, ma banalissimi occhiali, forbici, pennelli e innumerevoli altri utensili prelevati “tali e quali” dalla realtà circostante con lo scopo di farci riflettere su tutti quegli oggetti che consideriamo insignificanti ma che quotidianamente ci vengono in soccorso nelle piccole attività giornaliere. Tutto questo in un momento governato dall’importanza della bellezza di un prodotto industriale, dalla scenografia del suo packaging, da quanto questo sia ammiccante ed invitante, lasciando poco spazio alla sua funzionalità. L’immediata identificabilità degli oggetti esposti, da parte di tutti, è ciò che colpisce. Requisito, questo, imprescindibile quando si ha a che fare con il variegato mondo dell’industrial design di cui Clivio si fa interprete in qualità tanto di designer, quanto di docente universitario. Linda Gezzi Nella foto: Alcuni oggetti della collezione di Clivio
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architettura
metropolis
Lʼarchitettura è troppo importante per essere lasciata agli architetti (G. De Carlo)
Il popolo egiziano ha fatto sentire la sua voce, la sua voce è stata ascoltata, e lʼEgitto non sarà mai più lo stesso (B. Obama)
Diario di viaggio nella terra dei Faraoni: itinerari nell’arte al Cairo Downtown Ammirando lo skyline della metropoli dalla alta torre sull’isola di Gezira si ha l’immagine di una città contemporanea attraversata sia di giorno che di notte dal Nilo con il suo carico di storia di
SARA VIVARELLI
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ra difficile immaginarmi cosa fosse il Cairo finché non mi sono ritrovata nel suo immenso cuore pulsante. Arrivando dalla periferia improvvisamente la marea di sabbia continua viene interrotta dalle megastrutture della tecnologia moderna, che come miraggi si innalzano davanti ai miei occhi: strade a numerose corsie, sopraelevate, cartelloni pubblicitari giganteschi in 3D e antenne si mescolano disordinatamente agli edifici color sabbia. Tutto è intriso di questo colore, il deserto non si è bloccato dove ha deciso l’uomo, ma è filtrato ovunque. Pian piano che ci si addentra in questa metropoli veniamo risucchiati nel vortice del caos che domina dalle strade gigantesche ai vicoli più piccoli del Cairo Downtown, vero centro delle finanze, della cultura e fulcro di tutte le attività dei suoi abitanti. Il rumore continuo del traffico cittadino ti segue in ogni dove; i mezzi di trasporto pubblici e le autovetture ospitano il doppio dei passeggeri che potrebbero contenere, penetrando nella circolazione stradale dove non vi sono regole. Lo smog mi rende difficile respirare sul ponte del 6 ottobre, una delle arterie principali che si fa strada dirompente fra gli edifici e mi accompagna verso l’isola di Gezira, questa nasce nel bel mezzo del Nilo. È il distretto culturale della città. Fu chiamata anche “l’isola dei giardini” a fine del XIX secolo per la grande quantità di piante esotiche che tuttora sono presenti nel parco di Gabalaya; su di questa sorge la torre realizzata dall’architetto egiziano Naoum Shebib. Costruita dal 1954 fino al 1961, la torre è alta ben 187 metri superando anche la Grande Piramide di Giza è la struttura più elevata di tutta la città. Salire sul suo coronamento offre di sicuro la vista più mozzafiato della metropoli sia di giorno che di notte, il Nilo scorre sotto di noi e ci attraversa. Per le serate di balletto possiamo accomodarci nella meravigliosa OperaHouse, inaugurata nel 1988, anche questa sull’Isola di Gezira o visitare il centro culturale El-Sawy cultural wheel che ospita un programma ricchissimo di eventi musicali e performance artistiche consultabili anche sul calendario online nel sito del centro. Vicino all’OperaHouse si trova il Museo d’Arte Moderna, la vasta collezione è incentrata sull’arte egiziana del XX e XXI secolo. Visitare il museo e sedersi nel bel giardino risulta un’ottima sosta dalla confusione metropolitana. Vi si possono trovare le opere di Mahmoud Said, grande narratore dell’Egitto del primo Novecento. Le opere d’arte degli artisti egiziani dal secolo scorso ai giorni nostri sono visibili anche in bellissime gallerie private dove oltre a esposizioni temporanee stanziano in via permanente le loro creazioni. Tra le più
E se in architettura tornassimo punto e a capo? Nell’uragano generato dalla crisi torna pressante la domanda sia sul piano progettuale, sia, e soprattutto, su quello etico di
Arte contemporanea alla Townhouse Gallery
Lo splendido Museo dell’arte a bab el-Khalq
a Townhouse Gallery nasce nel cuore L del Cairo vicino alla piazza di Talat nel 1998. Occupa un ex magazzino di tre piani
o splendido Museo rinnovato recentemente, appena dieci anni fa, è siL tuato in un punto centralissimo nel
trasformato in spazio espositivo. L'obbiettivo della galleria è di rendere l'arte accessibile a tutti e supportare la creatività artistica facendo conoscere anche all'estero l'arte contemporanea egiziana e del Medio Oriente e ospitando opere di artisti esteri. In questa galleria vengono realizzate dodici mostre annuali per dar voce ad artisti emergenti e si realizzano anche dei laboratori didattici per i bambini. Qui l'arte si trasforma in un mezzo di integrazione, di comunicazione e sviluppo a portata di tutti essendo un'associazione no-profit. La pagina facebook della galleria tiene il pubblico dei social network sempre aggiornato sulla programmazione. Dal 16 febbraio al 19 marzo era possibile assistere alla mostra fotografica di Barry Iverson intitolata “The House of Rare Historic Photographs” al primo piano della galleria, gli scatti del fotografo hanno come protagonisti paesaggi e architetture orientali. L'ultimo laboratorio tecnico dal 19 al 24 marzo How to trattava l'argomento delle tecniche organizzative per esposizioni e eventi culturali, a questi laboratori naturalmente tutti vi possono partecipare in linea con lo spirito della Townhouse. La Townhouse Gallery è una delle più esterofile della città; immersa in una via dove sorgono officine di riparazione per le auto non ci si aspetta di trovare questa fucina creativa, uno spazio innovativo e di avanguardia ricco di installazioni multimediali e punto di incontro per la popolazione più varia.
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La moschea Al-Fath a lato in alto: Il traffico sul Ponte del 6 ottobre e lo skyline dell’isola di Gezira in basso: I graffiti sul muro dell’Università Americana
frequentate possiamo ricordare la Zamalek Art Gallery nel distretto omonimo, che ospita anche le variegate opere di Gazbia Sirry; Gazbia da oltre cinquant’anni ama ritrarre la vita delle donne egiziane. Fino al 28 Gennaio era possibile visitare la sala dedicata al giovanissimo artista Sameh Ismael e le sue tele dalla forte carica gestuale. Altre gallerie alla ricerca delle novità del Nord Africa e del Medio Oriente sono la Al Kahila Gallery e Safan Khan Gallery, sempre sull’isola, la collezione ospita anche le opere caleidoscopiche di El Nachar. In ognuna di queste l’ingresso è libero. Lasciandosi alle spalle l’isola di Gezira, sull’altra sponda del Nilo non possiamo perderci Talat street e Talat Square. L’architettura di questi edifici è il frutto dell’epoca di Ismail Pascià che a fine del XIX secolo voleva trasformare il Cairo nella ‘Parigi del Nilo’; la pianificazione urbana delle strade adiacenti, l’apertura dei viali, l’uso del verde e lo stile architettonico ci fanno pensare alla Belle Èpoque europea che tanto ammaliava Ismail Pascià. Passeggiando per questa strada respiriamo un’aria neoclassica, un’eleganza francese; qui viveva l’élite coloniale. Purtroppo sono pochi gli interventi di restauro su questi edifici e ad oggi non rispecchiano più la maestosità di un tempo. Nella pasticceria Groppi, famosissima al Cairo, aperta da inizio del Novecento, si potranno trovare i dolci tipici egiziani tra cui una konafa squisita. L’ingresso della pasticceria è incorniciato da una decorazione floreale, di gusto Liberty che si affaccia proprio sulla piazza di Talat. Dopo l’immancabile tour a Giza e al Museo egizio, anche questo a Downtown, dove i turisti di ogni dove affollano le sale nella frenesia di poter vedere il più possibile, sembra d’obbligo perdersi per il suq di Khan el-Khalili fondato nel lontano 1382 dal sultano Barquq. Ci perdiamo per i vicoli e sembra di rivivere nei romanzi di Nagib Mahfuz, rivediamo i volti del suo popolo seduti nei numerosi bar a giocare a domino e a fumare il narghilè avvolti nelle lunghe tuniche. É uno dei quartieri commerciali più antichi del mondo, ancora brulicante di vita. Ma l’arte al Cairo non è soltanto ricordo del passato. Quella che ti accompagna nelle strade vicino alla ormai famosissima Tahrir Square dipinge i muri, si colora, riesce finalmente a spazzare via il colore dominante del deserto. Sono i graffiti di Mohamed Mahmoud Street, testimonianza lacerante della Primavera Araba, che ci racconta i volti delle vittime della rivoluzione dal 2011 e segue gli episodi politici in continuo evolversi. Raccontati da writers, designers, pubblicitari e artisti di strada, sono una voce dirompente che s’ immette nel tessuto urbano e raffigurano un Egitto difficile da vivere al giorno d’oggi dove il potere militare è dominante. Sono proprio questi temi della politica e della società egiziana
distretto di Bab el-Khalq. Nonostante questo, purtroppo molti turisti non lo inseriscono nelle loro visite. Risulta di grande interesse anche la struttura architettonica che lo ospita datata 1881, è uno degli edifici più rappresentativi dello stile neo islamico dell'intero Cairo. La collezione ospita una grande quantità di manufatti decorati con motivi geometrici e floreali su vari supporti come legno, ceramiche, vetro, osso, carta e non mancano di certo arazzi e tappeti. La maestria dell'artigianato egiziano si mostra a pieno nei grandi mashrabiyya, degli oggetti formati da infiniti piccoli pezzi di legno assemblati insieme e utilizzati per ricoprire le finestre dal sole e per celare la vista dall'esterno all'interno delle abitazioni. Il Museo conserva anche alcune porte provenienti della moschee cittadine, opere di grande qualità. Recentemente, lo scorso ventiquattro gennaio un attentato ha colpito duramente l'intera struttura causando dei gravissimi danni ai reperti, la distruzione di alcuni importanti manoscritti e distruggendo un'intera ala del Museo. Appena due giorni dopo l'attentato l'Unesco ha istituito un fondo di 100mila dollari per risanare l'intera struttura e i reperti affinché tutti possano di nuovo fruire delle bellezze contenute al suo interno.
TOMMASO CESARO
contemporanea a emergere da questi graffiti che siano scritte o vere e proprie opere d’arte. Ciò che colpisce è l’immediatezza del messaggio che si vuole lanciare, la comprensibilità per chiunque vi si trovi davanti; questi artisti scelgono immagini forti, strazianti, il realismo crudo tratto direttamente dalle foto dei cadaveri, diffuse da Internet, delle vittime delle rivolte a cui si aggiungono le ali, si trasformano in “martiri”, capri espiatori dei giochi politici. La polizia ha coperto varie volte queste espressioni di dissenso evidenziando quanto queste testimonianze possono essere pericolose, le rimozioni hanno riguardato soprattutto il muro dell’Università Americana, il punto focale di questi graffiti. Ma i writers non si fermano davanti a questo, anzi i muri ritornati nuovi sono come una pagina di giornale pronta a catturare i nuovi sviluppi politici, prima Hosni Mubarak poi la nuova rivoluzione contro l’ormai ex presidente Morsi. Questa forma di opposizione sta espandendosi a macchia d’olio nella città. Le personalità più rappresentative di questi graffiti rivoluzionari come Ganzeer, Ammar abo Bakr, El Teneen, Keizer hanno creato un gruppo di artisti rivoluzionari e non limitano la loro opera solo per la strada ma organizzano esposizioni in centri culturali ricavati magari da vecchi edifici dismessi. Come l’esposizione dello scorso dicembre presso il Viennoise Hotel. La prima galleria a recepirne l’importanza, già a settembre del 2011, fu la Townhouse Gallery che espose anche le opere di Ammar abo Bakr, artista che realizza i suoi graffiti non con le bombolette ma tramite il pennello, con una mostra intitolata “This is not Graffiti”; in quell’occasione si dipinse sui muri della galleria. Prima della rivoluzione non esistevano graffiti al Cairo, erano vietatissimi, mentre oggi ogni angolo ci racconta la situazione odierna. Grandi mezzi di comunicazione, per questi artisti, sono anche i social network per portare la propria voce anche all’estero. Da tutto ciò ne è nato anche un documentario “Art War” grazie alla collaborazione con il regista tedesco Marco William presentato a Berlino alla presenza anche dei giovani protagonisti. Tra gli itinerari nell’arte al Cairo era inevitabile non parlare di tutto quello che si respira per le strade cittadine, è difficile non rimanere colpiti dalla voglia di libertà e di cambiamento che percorre la capitale egiziana, che segna i volti dei suoi abitanti, in questa città che non si riposa mai un attimo, dove tutto viene conquistato duramente. L’unico momento dove si può assistere a una quiete quasi surreale è segnato da un suono che ci giunge da ogni moschea, il richiamo alla preghiera. La metropoli si blocca per qualche istante e possiamo goderci le numerosi luci degli edifici che si affacciano sul Nilo che si riflettono nell’acqua e si lasciano portare via dalla corrente.
a ciò che inquieta di più e che rode come un tarlo testardo infilato in una vecchia tavola e impossibile da far tacere se non con un veleno che avvelenerebbe anche noi, è la lettera che non abbiamo mai scritto. “Quella” lettera. Quella che tutti noi abbiamo sempre pensato di scrivere, in certe notti insonni, e che abbiamo sempre rimandato al giorno dopo», così scrive Antonio Tabucchi nel suo libro Si sta facendo sempre più tardi. Da qualche tempo la crisi è la ragione principale per giustificare o comunque interpretare lo stato delle cose, fatto di immutabilità, procrastinazione e immobilismo in ogni ambito della vita sociale. Partendo da un’analisi principalmente etimologica qualcuno associa la parola “crisi” a un messaggio esclusivamente pessimistico, qualcun altro quasi con un lavaggio di coscienza va a recuperarne l’accezione classica positiva dell’occasione, del momento di separazione, di discernimento, di rottura quindi di riflessione. Al di là di quale possa essere l’interpretazione corretta resta in ogni caso immutata la non volontà a reagire, ad individuare un cambiamento. Una strada, quella del cambiamento, che è di sicuro difficile da percorrere, che conduce ad affrontare qualche rischio, ma che sicuramente porterebbe a una soluzione, una strada che viene sempre sbarrata da subdoli giochi di potere. L’architettura, che è certamente un fatto sociale, non fa eccezione all’interno di questa logica. Negli anni Sessanta, Giancarlo De Carlo lanciava la provocazione: «L‘architettura è troppo importante per essere lasciata agli architetti», mettendo in discussione gli approcci consolidati di architetti e urbanisti che con leggerezza, troppo spesso perdevano di vista il collegamento tra lo spazio fisico e chi lo abita. De Carlo sollevava la questione rispetto all’autoreferenzialità dell’architettura che, soprattutto in ambito accademico, la allontanava dalla realtà. Da allora con poche eccezioni comunque isolate, l’atteggiamento dell’intero settore è rimasto immutato. Sembra esserci una guerra tra fazioni: da un lato l’accademia e dall’altro il mondo professionale. L’università resta aggrappata ad una gestione chiusa, quasi spaventata dal mondo esterno. La tanto decantata realtà, cui comunque molto spesso si fa riferimento, resta poco più che una parola. Un’accademia arida, impermeabile allo scambio con quello che c’è “lì fuori”, non può che generare un rapporto ostile con il mondo della professione che con tutti i suoi difetti continua a sporcarsi le mani. Un mondo, quello professionale, che per natura resta strettamente legato all’industria, alla produzione, al cantiere, portandosi dietro i tanti problemi che la vita di relazione e di confronto/scontro porta con sé. Ma l’atteggiamento del mondo della professione, troppo facile a parcelle e visibilità, sistematicamente anteposte alla qualità del fare
Dal passato gli elementi per costruire il futuro Inaugurata la XIV Biennale di Architettura di Venezia di
GIUSEPPE DI MURO
architettura, porta all’inasprimento del confronto. Morale della favola: la sola sconfitta è l’architettura, con tutte le sue ricadute e implicazioni che non sono assolutamente trascurabili. Questo ambiente diventa favorevole a speculatori e palazzinari che ricevono il via libera alla distruzione. Ma ancora più gravi sono le ripercussioni che questa sconfitta avrà sulle generazioni future, nel presentare questo atteggiamento come prassi consolidata e non come modello degenerante da contrastare. Accademia e mondo della professione diventano due “cattive maestre” che incidono con grave e connivente responsabilità sul futuro dell’architettura generando e alimentando una confusione agevolmente leggibile in molti dei progetti che vengono realizzati, difficilmente comprensibili e spiegabili solo facendo ricorso ad articolate e forvianti giustificazioni. Nella confusione generale, si completa una metamorfosi in cui si costruisce uno stato di continua emergenza nel quale svaniscono tutti i sani principi del fare architettura: riuso, riqualificazione, recupero delle periferie, limitazione nel consumo del suolo e l’elenco potrebbe continuare. Pur “facendo”, un atteggiamento del genere porta alla perdita di quel know-how che la professione, soprattutto in Italia, ha saputo conservare e ha potuto tramandare per millenni. Tempi accelerati, guadagni facili, clientelismo annebbiano la vista e banalizzano le soluzioni. Il mercato è senza scrupoli, ignorante e acritico, alla ricerca continua di prodotti di consumo. Architetti e ingegneri, deboli e incapaci di opporre resistenza, diventano un ingranaggio più o meno consapevole di un processo di spersonalizzazione con l’immancabile risultato di un’architettura che si manifesta come la ripetizione di una cifra. Gli architetti che “contano” vivono alla luce della popolarità conseguita con un atteggiamento ambiguo proprio nei confronti di novità e innovazione. L’ombra delle nuove mode, sempre lì pronte ad entrare in scena, costringe alla novità ad ogni costo, come unico elemento necessario e sufficiente per il successo commerciale. Quest’ansia porta a processi innovativi che sono molto più legati alla forma che alla sostanza. Ancora il facile successo commerciale, viene ricercato nei nuovi strumenti del mestiere che però diventano troppo spesso autonomi dall’architetto. Ad esempio il fenomeno del computer monkey, un uso passivo e ripetitivo del computer ai fini della progettazione, pone addirittura dei dubbi sulla paternità dell’opera, compromettendo il rapporto architetto/macchina e celebrando il trionfo di quella vergogna prometeica dell’uomo antiquato di Gunther Anders. Il mondo dell’architettura diventa profondamente distratto e incapace di focalizzare l’attenzione sullo scopo che un’arte come l’architettura deve avere. Nel primo libro del Capitale, Marx scrive: “L’ape
fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore, è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera.» Oggi si disegnano “concept” fatti di sola forma, restando poi in attesa di chi, più o meno capace, possa dargli sostanza e senso. In una situazione come questa, dove troppo spesso si fugge dalle responsabilità, perdono di senso molti discorsi: linguaggio, stile, minimalismo e massimalismo, high tech e low tech, sostenibilità, consumo selvaggio del suolo, ruolo delle riviste di settore, riforma degli ordini professionali, Mose ed Expo, organizzazione delle scuole di architettura, affidamenti degli incarichi per concorso. Un’inversione di tendenza può essere possibile solo prendendo coscienza di un principio di responsabilità sia verso la ricerca poetica e spirituale che verso l’ambiente e le esigenze degli utenti. Se qualcuno reputa il ricorso alla responsabilità insufficiente o moralistico e attribuisce alla responsabilità un senso metafisico rispetto a questioni, come l’arte del costruire, che sono per natura reali, allora dovrà ricredersi perché è proprio in questo suo essere metafisico che la responsabilità diventa “principio”. Leggendo Hans Jonas il principio responsabilità è la caratteristica distintiva e decisiva dell’essenza dell’uomo nella sua costituzione ontologica, bisogna evitare di compiere un crimine rendendo impossibile il dover essere a chi verrà. L’esistenza diventa l’elemento fondamentale dell’agire responsabile, un agire capace di avere un tempo non più fermo al presente ma capace di guardare al futuro, un futuro reale e consapevole di un essere che è un essere responsabile. Fare o meglio “saper fare”, agire in modo che le conseguenze delle proprie azioni siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla Terra. Solo assumendo questo principio di responsabilità l’architettura potrà tornare a ricordarsi dei suoi compiti e delle possibilità che le sono specificatamente proprie. Concludendo con le parole di Peter Zumthor: «in una società che celebra il superfluo, l’architettura può, nel proprio ambito, opporre resistenza, ribellarsi alla dissipazione gratuita di forme e significati e parlare il proprio linguaggio. […] Ogni cosa è costruita per un determinato scopo, in un determinato luogo e per una determinata società.[…] In un’epoca in cui la cultura della creazione è avvilita e la bellezza è arbitraria, io miro all’efficacia chiarificatrice di questo lavoro.»
I
“Monditalia”, che ripercorrono il nostro paese dal Mediterraneo siciliano alle Alpi. Nei Padiglioni Nazionali ospitati negli storici Padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e nel centro storico di Venezia, per la prima volta si è sviluppato un unico tema “Absorbing Modernity: 1914 -2014”. Sessantacinque i Paesi partecipanti, tra questi, dieci, sono presenti per la prima volta: Costa d’Avorio, Costa Rica, Repubblica Dominicana, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Kenya, Marocco, Mozambico, Nuova Zelanda e Turchia. Il Padiglione Italia dedicato dal curatore Cino Zucchi al tema “Innesti/grafing” evidenzia la ricchezza e la stratificazione del paesaggio italiano e la capacità, da parte degli attori che più hanno contribuito alla sua trasformazione, di interpretare i segni del passato, rendendolo un paese contemporaneo, capace di dialogare con il mondo. Nell’ambito della cerimonia inaugurale tenutasi ai Giardini è stato consegnato all’architetto canadese Phyllis Lambert il Leone d’oro alla carriera, con la seguente motivazione: «Non come architetto, ma come committente e curatore, Phyllis Lambert ha offerto un eccezionale contributo all’architettura. Senza la sua partecipazione, uno dei pochi esempi di perfezione assoluta realizzato nel XX secolo, il Seagram Building a New York, non sarebbe mai esistito. La creazione del Canadian Centre for Architecture di Montreal combina una rara visione con una rara generosità nel conservare episodi fondamentali del patrimonio architettonico, e permette di studiarli in condizioni ideali. Gli architetti creano architettura; Phyllis Lambert ha creato architetti...».
n piena bufera Mose, per le vicende di mal costume che turbano la Serenissima, a giugno è stata inaugurata la XIV Biennale di Architettura. A differenza delle precedenti edizioni, la mostra si protrarrà per sei mesi, fino al 23 novembre 2014. Il tema scelto dal curatore Rem Koolhass è emblematico: “Fundamentals”. «Questa è una Biennale sull’Architettura, non sugli architetti», ha dichiarato Koolhass perché si concentra sulla storia e sull’evoluzione delle architetture nazionali negli ultimi cento anni e sugli inevitabili elementi utilizzati dagli architetti, in ogni tempo e luogo. Questa retrospettiva dà luogo a una rinnovata comprensione della ricchezza del repertorio nell’ultimo secolo, e mira ad indagare lo stato attuale e ad offrire margini all’immaginazione e a possibili future proiezioni. Diverse sono le novità di questa edizione, la più rilevante è sicuramente la nomina del curatore avvenuta con largo anticipo rispetto alle scorse edizioni, scelta che ha permesso di avviare i lavori con un anno di anticipo e la fusione della Biennale di Architettura con quelle della Danza, della Musica, del Teatro e, inevitabilmente, del Cinema, dando vita ad molteplicità di visioni, perfettamente riuscita che già dalle Corderie si rende palese al pubblico. L’esposizione, divisa in tre eventi complementari tra loro, ospita al Padiglione Centrale la mostra dal titolo “Elements of Architecture” intendendo per essi il significato letterale di pavimenti, pareti, soffitti, tetti, porte, finestre, facciate, balconi, corridoi, camini, servizi, scale, scale mobili, ascensori, rampe…, esempi antichi, passati, presenti e futuri degli elementi messi a confronto in stanze dedicate ciascuna ad un singolo elemento. All’Arsenale il “fundamental” è una scansione dell’Italia in 82 film e in 41 progetti di ricerca della collezione
Nelle foto da sinistra: Peter Zumthor, Cappella di Bruder Klaus, Mechernich, Germania, 2007; Renzo Piano, modulo abitativo Diogene, Vitra Campus di Weil am Rhein, Germania, 2013; Renzo Piano, interno del modulo abitativo Diogene, Vitra Campus di Weil am Rhein, Germania, 2013
Nelle foto sopra il titolo: Rem Koolhass; Sopra: L’entrata del Padiglione Centrale
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numero
8 - luglio-settembre 2014
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scritture
filosofia/estetica Lʼatto filosofico per eccellenza è scoprire un problema in ogni soluzione (N. G. Dávila)
Quando la religione si secolarizza, lʼultimo testimone di Dio rimane Satana (N. G. Dávila)
Gioacchino Ventura: un filosofo dimenticato
Gnoseologia
L’antinomia nella conoscenza secondo Pavel Florenskij
Teocrazia e democrazia in un esponente del pensiero cattolico dell’Ottocento di
ALEKSANDER SEBASTIAN IWASZCZONEK
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ienamente inserito nei drammatici avvenimenti della sua epoca, interlocutore di alcuni tra i più importanti intellettuali europei, Gioacchino Ventura può essere considerato, senza esagerazioni, uno dei più significativi pensatori italiani del secolo XIX. Nonostante l’oblio in cui è caduta la sua figura e la sua vasta opera teorica, una ricostruzione sistematica e scientificamente fondata della sua riflessione deve essere auspicata per una compiuta ricostruzione del pensiero filosofico-politico dell’Ottocento italiano ed europeo. La sua cospicua produzione speculativa, dedicata interamente alla filosofia, alla politica ed alla teologia, è caratterizzata fino agli anni Trenta dell’Ottocento da una impronta tradizionalistica e ultramontana, in seguito da una originale impostazione democratica. Nato a Palermo nel 1792 nella famiglia dei baroni di Raulica, dopo il suo ingresso nel 1808 nella Compagnia di Gesù egli lascia i gesuiti per entrare, nel 1817, nell’Ordine dei Chierici Regolari Teatini, ai quali lega la sua esistenza fino alla morte, avvenuta in esilio in Francia nel 1861.
in italiano la sua famosa opera su legislazione primitiva e divorzio, aggiungendo in un saggio che accompagna la traduzione alcune originali considerazioni apprezzate dallo stesso autore francese. Personali sono invece i rapporti che il filosofo italiano instaura con Lamennais, il quale peraltro compirà un viaggio a Napoli per incontrarlo personalmente. A Roma, dove continua la sua intensa attività pubblicistica ed è sostenuto dalla simpatia dello stesso Leone XII, Ventura fonda presso la Basilica di Sant’Andrea della Valle, sede della curia generalizia dei Teatini, una accademia il cui scopo è lo sviluppo dei principi dell’autorità in tutti i suoi rapporti e implicazioni. In quel tempo Ventura viene nominato primo professore della nuova cattedra di Diritto pubblico ecclesiastico della Sapienza. Il pensiero politico venturiano in questa fase, fondamentalmente teocratico e di impronta ultramontanista, legato al pensiero controrivoluzionario francese, trova espressione nel volume De iure publico ecclesiastico del 1826. Questo volume ha grandissima diffusione in Francia, dove suscita una immensa preoccupazione nell’episcopato di impronta gallicana, le cui veementi proteste presso la Santa Sede inducono Ventura a rinunciare alla docenza. Intanto rimane al servizio della Santa Sede, partecipando agli affari circa il concordato con l’arciducato di Modena nel 1828. Nello stesso anno Ventura pubblica il libro De methodo philosophandi, dedicato a Chateaubriand, il famoso autore del Genio del Cristianesimo. Anche il De methodo ha un notevole successo, non soltanto in Italia,
Dibattito pubblico e attività giornalistica La partecipazione al dibattito pubblico, che caratterizzerà tutta la sua vita, si manifesta fin dall’inizio con una intensa attività giornalistica. L’ancora giovane religioso fonda infatti a Napoli, nel 1821, uno dei primi periodici cattolici, l’“Enciclopedia ecclesiastica e morale”. In questo periodico Ventura si accosta a temi quali la religione pubblica, la disciplina ecclesiastica, le sette religiose, la morale pubblica e privata, e soprattutto il pensiero francese a lui contemporaneo di cui si fa promotore in Italia. Egli infatti propone e difende le idee di Chateaubriand, Lamennais, De Bonald e De Maistre, traducendo per la prima volta in italiano alcuni loro scritti. Una parte significativa del periodico è poi, ovviamente, dedicata al dibattito politico nel Regno di Napoli. In modo assai significativo Ventura afferma nell’ultimo numero dell’“Enciclopedia”: «la rivoluzione è incominciata dal proclamarsi dai governi i diritti dell’uomo, e non finirà se non quando si proclameranno i diritti di Dio». L’esperienza dell’“Enciclopedia”, la cui pubblicazione si interrompe in seguito al trasferimento del teatino a Roma, è comunque segnata un grande successo: settantamila fascicoli diffusi nel Regno di Napoli e in tutta Italia con milletrecento abbonati. Un successo che apre la strada alla nascita di una serie cospicua di giornali cattolici tutti in maniera diretta o indiretta riconducibili all’impresa napoletana di Ventura, opportunamente definito da uno dei suoi biografi il «padre e decano del giornalismo religioso in Italia».
Il pensiero politico: la fase teocratica e ultramontanista
di
FRANCESCO ALIBERTI
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numero
8 - luglio-Settembre 2014
Se resta costante, durante la sua intera esperienza di vita, la fedeltà alla Chiesa, un mutamento decisivo avviene – a partire dagli anni Quaranta dell’Ottocento – nell’elaborazione del pensiero politico di Ventura. Ad influire sulla revisione dell’impostazione del filosofo siciliano è la partecipazione alle drammatiche vicende politiche di quegli anni. Egli prende infatti direttamente parte al governo della Sicilia ed ha relazioni con la Repubblica Romana del 1848. Queste esperienze si concludono in modo amaro per il teatino. Nel 1849, dopo il crollo dei suoi ideali di religione, di democrazia e di libertà, dopo il fallimento dell’indipendenza siciliana e delle speranze riposte in un Papa presunto liberale alla testa del Risorgimento italiano, Ventura decide di ritirarsi definitivamente dalla politica e di recarsi in esilio volontario in Francia. A questa seconda fase della sua riflessione filosofico-politica è riconducibile una serie di opere: La raison philosophique et la raison catholique ou démonstration philosophique du christianisme del 1851, Della vera e della falsa filosofia del 1853, il Saggio sull’origine delle idee e sul fondamento della certezza del 1854, La tradizione e i semi-pelagiani della filosofia, ossia il semi-razionalismo svelato del 1856, infine il Corso della filosofia cristiana del 1861. Se si volesse riassumere la seconda fase del pensiero politico del filosofo, si potrebbe affermare che essa ruota attorno alla nozione di rivoluzione. Nella rivoluzione egli vede lo sforzo disperato di un popolo per far rientrare il potere politico nei giusti limiti assegnatigli dal cristianesimo; nel liberalismo e nella democrazia egli vede l’attuazione concreta dei principi naturali, patrimonio dell’umanità redenta. Soltanto in questo modo la Chiesa, la quale deve essere liberata dall’influenza e dall’appoggio dello Stato, può riprendere la supremazia spirituale e temporale che il medioevo le aveva riconosciuta. Significativo in tal senso lo stretto rapporto che Ventura ha con papa Pio IX all’inizio del suo pontificato. Il filosofo elabora una nozione di liberalismo cristianamente orientato che cerca di incontrare le convinzioni dello stesso pontefice sulla difesa della libertà individuale contro ogni assolutismo. Nel quadro di questa impostazione ‘democratica’ va collocato il discorso funebre per Daniel O’Connel, eroe dell’indipendenza dell’Irlanda, tenuto da Ventura nel 1847 a Sant’Andrea della Valle. In esso egli preconizza una piena legittimazione del regime democratico da parte della Chiesa cattolica: «la Chiesa si volgerà con tenero amore alla democrazia, come altra volta si volse alla barbarie; segnerà colla croce questa matrona selvaggia, la farà santa e gloriosa; le dirà: regna, ed essa regnerà».
Le pagine 18 e 19 sono a cura di ANGELO MARIA VITALE
ono trascorsi cento anni dalla tragica morte di S Francesco Ferdinando d’As-
Il centenario dell’assassinio di Francesco Ferdinando d’Asburgo
La svolta: dall’ultramontanismo alla democrazia
Nella foto in alto: Gioacchino Ventura di Raulica in un ritratto coevo; Sopra: frontespizio del volume La filosofia cristiana, Napoli 1862
Nel frattempo, sul versante della più rigorosa elaborazione teorica, Ventura lavora anche sui testi di De Bonald, del quale traduce
Una soluzione asburgica per la nuova Europa?
ma anche in Francia, Belgio ed Olanda. Il libro è criticato da Rosmini, il quale, pur apprezzando altrove la vasta cultura del filosofo siciliano, giustamente vi vede riproposte alcune idee di Lamennais. In realtà Ventura cerca di ancorare la sua riflessione al pensiero di Tommaso d’Aquino, interpretato tuttavia non in chiave neoscolastica, come testimonia il suo saggio del 1844 sul pensiero di Tommaso, il Ragionamento sul principio fondamentale della filosofia. Nel 1829 vede la luce un opuscolo dal titolo Schiarimenti sulla questione del fondamento della certezza. L’anno successivo, dopo aver rinunciato per ben due volte alla dignità vescovile, il filosofo diviene generale dell’Ordine dei Teatini.
burgo-Este, principe ereditario d’Austria-Ungheria. Il suo assassinio, il 28 giugno 1914 a Sarajevo per mano di Gavrilo Princip, membro dell’organizzazione “Giovane Bosnia”, è considerato come la causa principale della dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, da cui si è originata la guerra che ha segnato il declino delle istanze culturali e istituzionali eurocentriche nel corso del Novecento. Il ricordo in questa epoca di crisi non vuole essere un nostalgico riferimento a glorie politiche tramontate, ma un’occasione per riflettere sull’attualità dei progetti di un principe che, pur mantenendo un legame con la tradizione, si rivela consapevole della necessità di un rinnovamento istituzionale dell’Impero, finalizzato alla sua prosecuzione. Gli storici attribuiscono a Francesco Ferdinando idee piuttosto ‘liberali’. Il principe era intenzionato a concedere larghe autonomie ai diversi gruppi etnici presenti nel territorio imperiale, in particolare ai cechi in Boemia e agli slavi in Croazia e Bosnia, proseguendo idealmente ciò che era stato realizzato con la creazione, nel 1867, della monarchia astro-ungarica. L’Impero – come testimonia ad esempio il grande sforzo teorico compiuto di lì a poco da Ignaz Seipel nell’opera Nation und Staat – si sarebbe dovuto trasformare in una grande federazione sovranazionale, erede nello spirito dell’Imperium Romanum. Le tensioni prodotte dai nazionalismi nel mondo
slavo, incoraggiate dalla politica imperialistica (ma non universalistica) dei paesi occidentali, avrebbero infranto il progetto determinando lo smembramento di un organismo statuale dalla storia millenaria, edificato in evidente continuità con l’impero cristiano di Costantino e Carlo Magno, e custode dei più raffinati ideali politici prodotti dalla cultura europea. La morte di Francesco Ferdinando scandisce l’ora estrema di quell’universalismo politico che ha rappresentato la parte migliore del pensiero politico occidentale; e ancora oggi essa suggerisce una riflessione sulla questione della convivenza tra civiltà e religioni diverse all’interno di una stessa realtà istituzionale. I fatti recenti dimostrano che una moneta comune da sola non può garantire alcuna coesione tra i popoli. Ciò che più conta è la salvaguardia dello spirito europeo: uno spirito predisposto alla contaminazione, al pluralismo, ma che rischia di dissolversi senza che nessun Asburgo possa salvarlo. È tempo che la nuova Europa si assuma la responsabilità di restituire ai cittadini europei la dimora che hanno perduto con la Grande Guerra e che hanno tragicamente creduto di recuperare attraverso il nazismo e l’imitazione dei modelli politici d’oltreoceano. Nella foto sopra il titolo: Francesco Ferdinando d’Austria-Este; Sopra: Mario Sironi, Chiaro di luna, 1915
Il diritto naturale come criterio
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n termini generali il punto di partenza di ogni teoria della conoscenza è la constatazione della compresenza di soggetto e oggetto nell’atto conoscitivo. Alla base di ogni atto conoscitivo si trova la bipolarità soggetto/oggetto. Se il punto di partenza dell'atto conoscitivo è la compresenza di soggetto e oggetto, se esso si configura dualisticamente, il punto di arrivo è necessariamente monista, è la risoluzione del dualismo. Senza questo procedere dalla dualità all’unità non ci sarebbe conoscenza. Nella teoria della conoscenza si è giunti al monismo perseguendo due strade. La prima via parte dall'oggetto considerato come qualcosa di “immediatamente noto”: dopo una serie di arricchimenti del concetto di oggetto, essa giunge a dedurre il soggetto dall'oggetto. Questo percorso si manifesta in una varietà di indirizzi: sensismo, positivismo, fenomenismo, realismo, empiriocriticismo, immanentismo. La seconda via è opposta alla prima: mediante una serie di trasformazioni giunge a dedurre l'oggetto dal soggetto, pervenendo all'annullamento nella conoscenza dell'oggetto. Essa prende il nome di razionalismo, panlogismo, hegelismo, panmetodismo di Hermann Cohen e dei suoi discepoli. Le due vie si possono classificare rispettivamente in realismo e razionalismo. La teoria della conoscenza, secondo quanto sostenuto da Florenskij ne L'infinito nella conoscenza (Mimesis, Milano) risulta confinata in queste due vie essendo incapace di risolversi in una o nell’altra; essa non è neanche capace di creare una terza via perché non crede in istanze superiori.
Le nuove sfide della società e del diritto in un convegno internazionale a Napoli di
BRUNO DE MARCO
I
l tema del diritto naturale, considerato in se stesso e nei suoi rapporti con l’attuale situazione dominata dal diritto positivo, appare sempre di più come una delle nuove frontiere di elaborazione teorica tanto sul piano strettamente filosofico-giuridico, quanto sul piano politico-sociale. Un contributo di non poco rilievo per l’approfondimento del tema è venuto dal convegno internazionale “Il diritto naturale come criterio”, tenutosi a Napoli lo scorso 10 maggio nel Convento di S. Domenico Maggiore e promosso dal Consiglio di Studi Ispanici “Filippo II” di Madrid, in collaborazione con la Società Internazionale Tommaso d’Aquino e con l’Unione Internazionale Giuristi Cattolici. All’incontro hanno partecipato Miguel Ayuso dell’Università “Comillas” di Madrid, Paola d’Addino Serravalle e Fabio Piemonte dell’Università di Salerno, Giuliano Mignini, Procuratore della Repubblica di Perugia, Mariolina Spadaro dell’Università “Federico II” di Napoli, Giovanni Turco dell’Università di Udine. Uno dei punti più significativi emersi è la necessità di intendere il diritto come sistema di valori imperniato intorno al principio giuridico di dignità della persona umana. Approfondendo questa tesi, e considerando che se i valori sono indefinibili rimane solo il mero dato normativo, è apparso evidente il rapporto sussistente tra ordinamento giuridico e natura umana, poiché il diritto naturale è ciò che aiuta la persona a definire la propria natura. È dunque opportuno distinguere tra essenza ed esistenza del diritto, poiché la prima rimane immutabile, mentre la seconda allude al suo modo di manifestarsi. Esistono in realtà alcuni diritti, come quello alla vita e all’integrità fisica della persona, che preesistono all’ordinamento giuridico. Essi non vengono presi in considerazione dal diritto civile non perché non esistano, ma perché evidentemente sono indisponibili, ossia non dipendono dallo Stato o dal capriccio del legislatore. Costoro possono soltanto limitarsi a riconoscerli, in quanto la persona non è fungibile come qualsiasi altra cosa della natura. Questa dimensione del diritto naturale emerge in modo netto dal confronto con le tradizioni giuridiche dell’antichità, del medioevo (dominato dal modello di Tommaso d’Aquino) e della prima modernità. Se infatti nel modello tomista l’aequitas si configura come il cardine della giustizia e quale criterio fondamentale per una valutazione adeguata degli atti umani in vista del bene di tutti e di ciascuno, con la Riforma protestante si spezza il profondo legame tra la creatura e il suo fon-
Alfonso Salvatore
Nella foto: Pavel Aleksandrovič Florenskij
damento metafisico, per cui il diritto naturale prende una piega razionalistica su base contrattualistica che lo riduce progressivamente a mera espressione della volontà di potenza e dell’edonismo umano. Nel suo complesso il convegno ha fornito un apprezzabile contributo alla necessità di considerare l’imprescindibilità del diritto naturale nella sua dimensione ontologica e criteriologica, quale metodo per disciplinare i casi concreti nella maniera migliore trovando soluzioni giuste ed eque. Il recupero del diritto naturale come orizzonte giuridico consente infatti di evitare che la giustizia sia utopica o soltanto di tipo procedurale. Da tale consapevolezza nasce allora l’esigenza di prendere le distanze dal positivismo giuridico oggi preponderante, che si configura come un sistema autoreferenziale, puramente logico e formalistico (si pensi al modello kelseniano), che pretende di fare a meno della realtà, una realtà che, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra come una «tirannia dei valori» - per citare Carl Schmitt –, creando in modo paradossale un’ideologia. Nella foto in alto: Luca Giordano, Allegoria della Giustizia, 1680 c.a., Londra, National Gallery, Denis Mahon Collection.
a Lettera sulle due nature composta dal vescovo di Roma Gelasio alla fine del V secolo e L ora pubblicata a cura di Rocco Ronzani (Edizioni
Teologia e storia / 1
La controversia sulla natura di Cristo
Dehoniane, Bologna) rappresenta uno dei documenti più importanti per comprendere la vicenda dottrinale della controversia intorno alla natura di Cristo che interessa l’oriente e l’occidente cristiano fin dai primi secoli. L’ampio saggio introduttivo del curatore, dopo aver tratteggiato la biografia di Gelasio nei suoi elementi essenziali, colloca la Lettera all’interno della controversia cristologica ed entro le vicende politico-religiose dell’area balcanica. In modo efficace vengono ricostruiti tanto gli aspetti della controversia connessi all’interpretazione della nozione di “natura”, quanto i caratteri peculiari della interpretazione fornita da Gelasio. L’analisi del contesto storico-politico in cui l’epistola si colloca insieme alle altre opere gelasiane, la ricostruzione dell’influenza della politica imperiale sulla controversia cristologica (ad esempio la politica religiosa di Zenone l’Isaurico), l’esame accurato della lingua e dello stile dell’epistola, così come il commento al testo, rispondono non soltanto ad una esigenza di carattere storico-filologico, ma al bisogno primario di rendere disponibile un’opera che appare centrale nella riflessione cristologica occidentale. L’edizione è anche corredata da una bibliografia utile per l’approfondimento e lo studio dei temi presenti nell’epistola e di aspetti di grande interesse della controversia cristologica.
Alfonso Salvatore
Nella foto: Papa Gelasio
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Teologia e storia / 2
I limiti del dialogo tra le religioni
l dialogo interreligioso, che tanta parte occupa nel dibattito pubblico attuale, ha una lunga e complessa storia. Il volume Dialogus. Il dialogo filosofico fra le religioni nel pensiero tardo-antico, medievale e umanistico, curato da Mario Coppola, Germana Fernicola e Lucia Pappalardo (Città Nuova, Roma), tenta di mettere a fuoco i momenti più significativi di questa vicenda dalla tarda antichità fino alla sua crisi nel Rinascimento. Al dialogo tra mondo pagano e cristiano, in particolare, è dedicato il saggio di Maria Carmen De Vita. Ampio spazio è riservato al dialogo in epoca medievale, dove si segnalano gli studi di Giulio d’Onofrio, rivolto ad una ricostruzione complessiva dei modelli dialogici nell’età di mezzo, di Germana Fernicola, nel quale è approfondito il dialogo ebreo-cristiano nel XII secolo, e di Mario Coppola, nel quale viene affrontato il problema del dialogo nel pensiero di Abelardo. All’età moderna sono dedicati gli studi di Domenico Taranto, in cui viene ricostruito il dibattito tra Las Casas e Sepúlveda sulla conversione degli indios, di Sergio Carletto, nel quale è approfondito il tema della tolleranza in età moderna, e di Angelo Maria Vitale dedicato alla figura di Girolamo Seripando e alla crisi del modello dialogico nel secolo XVI, al tempo del Concilio di Trento. Emerge così chiaramente la profonda e incolmabile distanza tra il raffinato umanesimo cristiano di Seripando, figlio dell’umanesimo napoletano e del neoplatonismo rinascimentale, e l’impostazione teologica di Lutero.
Maria Bruno
Nella foto: Anonimo, Girolamo Seripando, ritratto coevo, Salerno, Palazzo Arcivescovile
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cinema
cinema
Il cinema deve essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole. E per me lo spettacolo più bello è quello del mito. Il cinema è mito (S. Leone)
Penso che ogni immagine cominci ad esistere solo quando qualcuno la sta guardando (W. Wenders)
Le signore del cinema Si può fare cinema al femminile in un settore dominato da uomini?
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Le strade del Cinema
L’Abruzzo riscopre Welles Ford e Ulmer I
l cinema che conta, quello, per intenderci, la cui visione rappresenta un atto altamente morale, vive nel nostro Paese trincerato in piccole roccaforti. Una di esse è Conversazioni Visive, rassegna che un rampante cineasta indipendente – della cui amicizia mi fregio con fierezza – a nome Claudio Romano ha organizzato il 15 e 16 giugno scorsi nel comune di Alba Adriatica (AQ). “La responsabilità di tutto è condivisa con Betty”, mi precisa, quando lo raggiungo telefonicamente nottetempo, sottraendolo per la durata della nostra intervista alla visione del raro film di Gianni Da Campo Pagine chiuse, 1966, in onda su Fuori orario. Betty è Elisabetta (“Elisabetta solo per i carabinieri”) L’Innocente (“cognome dannunzian-viscontiano che tutti credono finto”). Chiedo a Claudio di raccontarmi quando si è manifestata, in lui e Betty, l’urgenza di proporre questo tipo di rassegna, come vedremo anomala e preziosissima. “Da queste parti non c’è mai un cazzo”, esordisce con controllata asciuttezza, “e allora ho pensato di fare io qualcosa”. Continua: “Vuole essere un gesto di sopravvivenza. Ho pensato di portare qualche film decente da proporre alla gente di questi luoghi, che purtroppo deve subire una proposta cinematografica mediamente scarsissima. A quel punto mi è venuto spontaneo organizzare a margine anche un dibattito, per cui ho contattato Ciro Giorgini (uno degli autori storici di Fuori orario, ndr) che a sua volta mi ha suggerito di coinvolgere anche Enrico Ghezzi”. Le scelte non sono state casuali: Giorgini, wellesiano (ma come si fa a non esserlo?) e wellesologo (non è da tutti esserlo), studia da tempo il tragicamente frammentario girato del Don Quixote (film “impossibile” il cui destino somiglia a quello dell’ultimo Ejzenstejn, Que viva Mexico, che il regista non vide concluso e che fu sottoposto a scellerati assemblaggi non autorizzati), che si è scelto di proiettare durante la rassegna abruzzese, insieme a Torpedo Squadron, cortometraggio ‘privato’ che John Ford montò nel 1942 per consegnare ai familiari dei marines caduti in battaglia la ultime eroiche immagini dei cari che non fecero ritorno a casa. “Del Quixote Ciro ha praticamente proiettato i giornalieri, ovviamente non sonori. Lui detesta il montaggio che fu fatto in Spagna nel 1992. Del film non esiste un montaggio definitivo, e quindi chiunque affronti l’argomento in un certo senso opera un proprio montaggio critico”. Ghezzi ha optato per un revivale di Edgar G. Ulmer proiettando Damaged Lives e Bluebeard, rispettivamente del ’33 e del ’44. Il protagonista della seconda giornata è stato Gianluca Arcopinto, che ha presentato Un fiume in piena. Storie di un’altra Scampia, libro sull’esperienza laboratoriale cinematografica condotta nel quartiere napoletano e concepito durante la realizzazione della serie televisiva andata in onda su Sky lo scorso maggio. Moderatore e presentatore delle serate è stato Leonardo Persia, redattore della rivista ‘Rapporto Confidenziale’, amico mio e di Claudio, depositario di una conoscenza del Cinema nella quale, in anni di amicizia, non siamo riusciti a trovare lacune o confini. e.d.p. Nella foto in alto: Un fotogramma del Don Quixote di Orson Welles
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a vittoria di Alice Rohrwacher al Festival di Cannes (Gran Prix Speciale della Giuria) oltre a rappresentare un ulteriore motivo di orgoglio italiano (dopo i successi di Rosi e Sorrentino) pone una riflessione sul cinema femminile. Ovunque, nel mondo, le donne rappresentano una minoranza rispetto ai loro colleghi maschi; sebbene si possa facilmente pensare a politiche di genere e a un sistema di potere maschilista, in realtà in questo campo il ruolo della donna si sviluppa prevalentemente come oggetto sullo schermo (diva) e non dietro la macchina da presa. Ci sono sempre state donne dedite alla regia, come Elvira Notari, pioniera del cinema partenopeo, o Leni Riefenstahl, autrice di Olympia. Benché oggi sia cospicuamente ovunque cresciuto il numero delle registe, il valore del loro lavoro non è del tutto riconosciuto da critica e spettatori. Nei loro confronti c’è sempre stato un errore di giudizio, nella volontà di identificarlo a partire dal genere di appartenenza e di farlo corrispondere a una tematica o a certa visione del mondo. Chantal Akerman, Naomi Kawase, Gina Kim, Sofia Coppola, Mira Nair sono l’esempio che il cinema al femminile si può fare in qualsiasi parte del mondo senza che quest'accezione debba avere connotazioni negative. Manuela Nastri
La fine di Cannes, l’inizio di Venezia
Dalla croisette alla lunga passerella rossa della laguna, ecco le novità sul grande schermo di
Nella foto: Una scena del film Le Meraviglie di Alice Rohrwacher
ELIO DI PACE
P
rendo una decisione radicale. Che lascia scettico me per primo, ma la ritengo necessaria, in questa circostanza. Scelgo di parlare in prima persona di un festival, quello di Cannes, che mi ha regalato, negli anni in cui l’ho frequentato da accreditato per questo giornale, emozioni memorabili, che ancora oggi rispolvero piacevolmente – e non senza nostalgia – con amici e colleghi: gli incontri con Lav Diaz e Roman Polanski, le proiezioni epocali del Ruiz postumo – La noche de enfrente – in compagnia di Enrico Ghezzi o quella di Vertigo alla presenza di Kim Novak sono solo alcuni dei momenti epocali su cui fondo una passione totalizzante che, ahimè spesso, sento di non ricambiare con equa gratitudine. Eppure, questo stesso festival sa essere anche, quando vuole – e lo vuole spesso – un campo di battaglia piuttosto che un evento lieto e festante. Per l’edizione 2013 potrei riportare semplicemente il caso – che in quei giorni fece non poco rumore – dell’esclusione del sottoscritto e di altri pochi colleghi della stampa italiana dalla proiezione del film dei fratelli Coen Inside Llewyn Davis: già rimasti fuori dalla prima scéance, ci stavamo vedendo interdetto anche l’ingresso alla replica, con almeno una fila sicuramente vuota e disponibile; dopo due ore di spintoni e gomitate, sarebbe stato davvero un oltraggio: con la giusta dose di diplomazia, convincemmo i responsabili di sala. L’ultimo colpo grosso del festival – ed è quanto mi preme denunciare in questa sede – è stato negarmi l’accredito stampa per l’edizione appena conclusasi. Questo giornale, impegnato a seguire la biennale veneziana, non poté dare spazio, per forza di cose, a un resoconto dei premi. Neanche con la promessa di una sezione appositamente dedicata sul numero successivo si è riusciti a convincere il severissimo ufficio accrediti. Quindi, quanto annoterò in queste righe sul festival sarà soltanto una overlook sommaria di nomi, titoli e riconoscimenti. Da cui, però, pure proveremo a tirar fuori qualche conclusione. Vince la palma d’oro Nuri Bilge Ceylan con Winter Sleep. Lo si paragona ad Antonioni, il regista nativo di Istanbul, a ragion veduta, tutto sommato: sospensioni narrative, scavo psicologico, predilezioni per i silenzi, cura compositiva dell’inquadratura sono, senza dubbio, elementi comuni. Quello che Ceylan ormai spinge a riconoscere come propria cifra stilistica è il passo lungo delle storie: superiore alle tre ore, questo, di poco inferiore il precedente, pure premiato sulla croisette nel 2011, Once upon a time in Anatolia. Fondamentale nel lavoro di Ceylan è il sonoro: i registi emergenti che si innamorano troppo dell’immagine e sottovalutano l’importanza di un prezioso lavoro sul suono sono calorosamente invitati a studiare le soluzioni adottate dal cineasta turco. Che non è amatissimo dalla critica, c’è da dire: questo suo gusto per la lungaggine – forse teatralità, se aggiunta a una certa prolissità dialogica, a quanto pare – stanca (stancherebbe) lo spettatore. Aspettiamo di vederlo: per ora dif-
fuso solo in Francia e in Turchia, è auspicabile un passaggio nelle sale italiane forte del massimo premio cannense. Con orgoglio accogliamo il secondo premio, il Grand Prix du Jurie, ad Alice Rohrwacher, che con Le meraviglie conferma il suo talento personalissimo che in quest’ultimo film si esprime anche attraverso scelte di stampo tecnico più sottili ed esperte: per esempio i toni cromatici del film e la grana fotografica d’altri tempi. Un suo punto di forza è, naturalmente, anche la direzione degli attori. La amano all’estero, e ciò è molto bello. Non essendosela sentita di preferire il vecchio maestro o l’astro nascente, la giuria presieduta da Jane Campion ha dato un premio speciale ex-aequo a Jean-Luc Godard e a Xavier Dolan: francofoni, ma rispettivamente esule in svizzera e canadese del Québec, entrambi funamboli del linguaggio cinematografico; il primo disfacendolo, scomponendolo, decontestualizzandolo, offrendo in Adieu au langage un catalogo delle immagini del mondo in diversi formati – digitali e non – e poi amalgamando tutto con il 3D; il secondo ancora assaporando il piacere della narrazione classica, affrontando ogni opera in qualità di autore totale (ne cura, oltre che regia e sceneggiatura, anche costumi, musiche e montaggio) e operando un’interessante gesto concettuale sull’aspect ratio. Il capitolo conclusivo è sul festival di Venezia. Ritorna il nome di Alice Rohrwacher, a capo della giuria che assegna il premio alla migliore opera prima. La cinese Ann Hui, già in concorso in laguna nel 2011 con A Simple Life (Deanie Ip ebbe la Coppa Volpi) presiederà la giuria Orizzonti. Ho tardato la consegna di questo articolo per attendere il nome del presidente della giuria principale: con gioia, apprendiamo la notizia della scelta di Alexandre Desplat, il più grande compositore contemporaneo di musica per il cinema, uomo coltissimo, raffinato e profondissimo conoscitore della settima arte. Nel momento in cui scrivo non ci sono ancora certezze sui film che verranno presentati. Le anticipazioni, però, sono succose. Fatih Akin, per esempio. Un altro vessillifero del cinema turco. Ha rastrellato riconoscimenti in tutti i festival più importanti, riuscendo in una sorta di “grand slam” cinematografico raccogliendo premi a Berlino, Cannes, Locarno e Venezia. Il nuovo lavoro, che era atteso già sulla croisette, si intitolerà The Cut. Non sono disponibili ulteriori informazioni sul plot. Molto atteso anche J.C. Chandor – ha ingranato una splendida ‘doppietta’ con Margin Call e All is Lost – che disporrà di Jessica Chastain per il suo A Most Violent Year. Ci sarà David Fincher con Gone Girl, dal romanzo omonimo di Gillian Flynn, con Ben Affleck e Neil Patrick Harris, ed è lecito aspettarsi anche uno degli ultimi frutti del proficuo periodo creativo che sta attraversando Terrence Malick, probabilmente Knight of Cups, con Christian Bale. Si parla di Tim Burton, di Ozon, di Cantet (che ‘tradisce’ la palma per il leone), addirittura (e ce lo auguriamo) Christian Petzold con Phoenix, un dramma sull’Olocausto. Forse sarà della partita anche Mario Martone con Il giovane favoloso, titolo preso in prestito
Dal libro al film
Buoni e cattivi
Un caso eccezionale
Donne con la macchina da presa: Marguerite Duras
Donne con la macchina da presa: Kathryn Bigelow
Donne con la macchina da presa: le sorelle Makhmalbaf
n secolo fa, il 4 aprile 1914, nasceva a Gia Dinh, nei pressi di Saigon, Marguerite Duras. Scrittrice e cineasta, Duras è un’innoU vatrice a tutto tondo, capace di rivoluzionare forme e linguaggi in
ero Dark Thirty, sulla morte di Bin Laden, mette il critico di fronte Z a un out out: giudicare l'opera a partire dal contenuto o limitarsi agli aspetti stilistici? Si pretende, infatti, che un cineasta debba
amira e Hana Makhmalbaf sono un vero e proprio caso cinematografico. Esponenti di spicco di quello che potrebbe essere chiaS mato “il nuovo cinema iraniano”, che non è una corrente nel vero
tutti gli ambiti in cui opera. La novità che introduce in campo letterario consiste nella decostruzione della lingua, nello smembramento della sintassi tradizionale e della grammatica di base, attraverso l’omissione del soggetto, l’utilizzo del rigo bianco, la frase lasciata in sospeso. In ambito cinematografico l’effetto è dato da quella che Deleuze chiama immagine eautonoma, cioè la scissione del sonoro dal visivo, che non viaggiano più in sincronia sulla stessa pista, ma parallelamente su due binari diversi, come accade nel film Le Camion. Un altro espediente di cui si serve spesso è lo schermo nero, che le permette di ottenere un’immagine neutrale, sovrapponibile a qualsiasi lettura, ovvero a qualsiasi immagine sonora. In Détruire ditelle chiede al tecnico del suono di massacrare persino la musica classica: la Fuga n. 15 di Bach. Se è vero che i film di Duras nascono come adattamento sullo schermo dei suoi romanzi, è altrettanto vero che il cinema ha influenzato il suo stile letterario. Nel romanzo L’Amante della Cina del nord l’autrice dà al lettore anche le indicazioni di regia per l’eventuale trasposizione sullo schermo. Rifarsi a un’altra arte, quindi, non significa trasposizione di temi, trame e figure da un contesto artistico a un altro, ma traduzione di sintassi e grammatica da un linguaggio a un altro, in questo caso il cinema.
m.n.
avere un punto di vista etico sulla Storia schierandosi sempre o di qui o di là. La rappresentazione della morte, sia pure di un terrorista, crea problemi di carattere iconoclastico, perché pone lo spettatore nella condizione di identificarsi con il protagonista e, conseguentemente, di parteggiare con lui contro qualcun altro. E chi ha il coraggio di filmare tutto ciò scegliendo un aspetto piuttosto che un altro è etichettato come fanatico nazionalista. Questa è la maggiore accusa che viene rivolta a Kathryn Bigelow, autrice del film in questione. In realtà, la regista non fa altro che superare quei tabù, in primis quello della rappresentazione della guerra in Medio Oriente, prediligendo un punto di vista sulla storia contemporanea americana. Lei non crea eroi, tutt'altro. Scatta così l’identificazione dello spettatore col protagonista, ma è un’identificazione che non ricerca l’approvazione, la condivisione ideologica, bensì solamente la partecipazione emotiva. Ciò avviene attraverso la costruzione narrativa, il ritmo, il gioco hitchockiano tra suspense e sorpresa. E anche se il finale del film è già noto, la cattura e l’uccisione di Bin Laden, si resta col fiato sospeso fino all’ultimo fotogramma, fregandosene se i buoni siano in realtà cattivi e i cattivi forse siano i buoni oppure se siano tutti allo stesso modo da condannare.
Nella foto: India song di Marguerite Duras
m.n.
Nella foto: Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow
senso dell’espressione, ma è una cinematografia attenta ai problemi sociali, alle trasformazioni politiche del Medio Oriente, al ruolo della donna, prima di tutto, nella cultura araba. Figlie d’arte (il padre è Mohsen Makhmalbaf, regista e produttore), vantano una carriera del tutto eccezionale nel panorama cinematografico. Entrambe esordiscono adolescenti alla regia (diciassette anni Samira e quindici anni Hana) presentando le rispettive opere in prestigiose competizioni internazionali: Cannes, Venezia, San Se- bastiano, Toronto. Nel 2008, appena diciottenne, Samira conquista a Cannes il Gran Premio della Giuria con il suo secondo lungometraggio, Lavagne. L’anno successivo replica con Alle cinque della Sera, pellicola che per le tematiche trattate, per il linguaggio, lo stile e lo sguardo sulla realtà ricorda l’impegno e la sensibilità dei grandi registi italiani del Neorealismo. Ne è protagonista una ragazzina che in Afghanistan, dopo la fine del regime talebano, sogna di ritornare a scuola (le era stato proibito), studiare e diventare il futuro presidente della repubblica. Durante le riprese di questa pellicola esordisce alla regia anche Hana, che ne dirige il backstage, intitolato Joy of madness, in cui filma sua sorella maggiore mentre cerca di ingaggiare degli afgani come attori. Joy of madness è presentato poi alla Mostra del Cinema di Venezia.
redazione cinema
Nella foto: Alle cinque della sera di Samira Makhmalbaf
Pasolini e Wenders: riflessioni sulla città
Nella foto in alto: Winter Sleep di Nuri Bilge Ceylan; Sopra: Mommy di Xavier Dolan; Adieu au langage di Jean-Luc Godard; A Simple Life di Ann Hui
da Anna Maria Ortese per il racconto degli anni napoletani di Giacomo Leopardi (starring Elio Germano). Chiudiamo con l’Oriente, che a Venezia – con o senza Müller – sarà sempre di casa: tornerà Sion Sono con Tokio Tribe ma soprattutto (e dichiaro sfacciatamente la mia predilezione sottolineando questo ‘soprattutto’) Hou Hsiaohsien, già trionfatore qui con Città dolente (1989), che potrebbe terminare in tempi utili la post-produzione del suo The Assassin. Speriamo.
Sguardi sull’urbano e le sue dinamiche orientati dall’“occhio” della macchina fotografica di
GIULIA BARTALESI
“P
asolini. Roma” e “Urban Solitude” di Wim Wenders: due mostre diverse per costruzione e temi. La prima, di approccio biografico, ripercorre la vita dell’intellettuale dal suo trasferimento nella capitale fino alla morte; nella seconda troviamo una ventina di fotografie del regista tedesco che hanno per oggetto la città. In entrambi la riflessione sul contesto urbano è una questione centrale ma se Wenders ci mostra direttamente il suo “atto di vedere”, quello di Pasolini deve essere estrapolato da immagini e documenti. È rilevante che dal suo trasferimento a Roma negli anni Cinquanta l’intellettuale abbia sempre scelto di abitare fuori dal centro storico della città, anzi allontanandosene progressi-
vamente. Sceglie la periferia “pre-industriale” costruita dagli operai in opposizione a quella sottoproletaria voluta dal fascismo che compare nei suoi primi film come Mamma Roma (1962). Questa attira le speranze di una nuova vita ma alla fine si mostra per quello che è: “un campo di concentramento per poveri”. Al di là del giudizio negativo possiamo rilevare dalle lunghe inquadrature con cui Pasolini riprende la periferia romana che era ancoraindividuabileuna forma della città. Lo stacco netto con la campagna, con l’ambiente naturale lo permetteva. Era, dunque, ancora possibile racchiudere in quella forma una precisa identità storica e culturale. Un decennio più tardi Pasolini riconsidererà la situazione definendola “catastrofica”. Era già in atto quell’accrescimento sregolato che ha generato l’odierna città diffusa dai confini impercepibili. La città è stata, ed è tutt’ora, lasciata a se stessa. Sola. In nome del progresso sono state abbattute le mura storiche e sono stati innalzati edifici che possiamo trovare tali e quali in tutto il mondo. La civiltà dei consumi, secondo Pasolini, è riuscita ad omologare là dove neppure il fascismo era riuscito a farlo. Ed è così che le facciate delle enormi palazzine anonime fotografate a Roma potrebbero benissimo trovarsi in qualsiasi altra parte del mondo. Questa tendenza ad omologare è de-
nunciata da Wenders nelle proprie fotografie in cui troviamo edifici che a Berlino non esistono più. È la fotografia in questo caso che funge da “capsula temporale”, da testimone di una storia demolita. Wenders ci mostra una città paradossale perché deserta, quasi da scenario postatomico in cui la traccia umana è ancora visibile. Ma è con questo che la nostra attenzione si concentra completamente sull’architettura, sulla struttura ossea della città. Allora ne possiamo vedere le stratificazioni, le geometrie, i colori,il tutto evidenziato dalla qualità pittorica che la luce assume in questi scatti. Anche se da punti di vista diversi sia Pasolini che Wenders ci invitano a indagare la città come luogo e non come mero spazio di transizione, in quanto operare sulla città significa operare sulla nostra storia e identità e fino ad ora lo abbiamo fatto in modo troppo superficiale. Che fare dunque? Tornare ad osservare con attenzione così che la città possa rivelarci la sua storia, il suo volto e il suo carattere al pari di una persona e ricordarci che forma della città e ambiente naturale costituiscono, oggi più che mai, un problema unico. A lato in alto: Pier paolo Pasolini, una scena dal film Uccellacci e uccellini, 1966; Sotto: WimWenders, Woman in the window, 1999
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libri & notes
musica Ad unʼaltezza maggiore / a bandiere spiegate / raggiungevamo le folli vette di quel mondo sognato (Pink Floyd)
La musica dei Pink Floyd sullo sfondo degli anni
Alla band è dedicata la mostra “The Pink Floyd Exhibition – Their Mortal Remains” che, per le sue caratteristiche multimediali, si configura come un evento mondiale
Sessanta di
Il lessico del vero scrittore non si trova in alcun dizionario (N. G. Dávila)
Giuseppe De Marco e l’epifania poetica di Alda Merini ’ dal volume Le stagioni dell’epifania poetica di Alda Merini A di Giuseppe De Marco (Ripostes, Salerno-Roma) DISTANZA DI QUASI VENT ANNI
appare opportuno ritornare su questa originale e appassionata lettura di una delle più significative espressioni della poesia italiana del Novecento. Il travagliato percorso esistenziale della Merini è stato segnato dal lungo internamento, dal 1965 al 1972, presso il Paolo Pini di Milano. Numerosi sono gli intervalli durante i quali ha la possibilità di ritornare a casa, poi arrivano le due figli e la morte del primo marito, quindi un secondo matrimonio con il poeta Michele Pierri e di nuovo l’ospedale psichiatrico di Taranto. Nel silenzio e nell’orrore dei suoi ricoveri sboccia il Fiore di poesia, cui seguono Superba è la notte, L’anima in-
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Band”, nacque dalla fusione dei nomi di battesimo di due musicisti Blues della Carolina apprezzati dal chitarrista fondatore Roger Keith “Syd” Barret, cioè Pink Anderson (1900-1974) e Floyd “Dipper Boy” Council (1911-1976). Il nome sembra essere diventato definitivo solamente per una necessità del momento e per la mancanza di idee migliori, all’inizio del 1966. Probabilmente, il detto “di necessità, virtù” non è mai stato più calzante. Il gruppo, nato a Londra nel 1965, si formò grazie al cantante e chitarrista Roger Keith "Syd" Barrett (Cambridge, 6 gennaio 19467 luglio 2006), sostituito nel dicembre del 1967 dal chitarrista David “Dave” Jon Gilmour (Cambridge, 6 marzo 1946) per problemi psichiatrici acuiti dall'uso di droghe pesanti; il bassista George Roger Waters (Great Bookham, 6 settembre 1943) che lascerà la band subito dopo “The Final Cut”, del 1983; il batterista Nicholas “Nick” Berkeley Mason (Birmingham, 27 gennaio 1944) e il tastierista Richard “Rick” William Wright (Londra, 28 luglio 1943 - 15 settembre 2008). Verranno ingaggiati in maniera discontinua pure altri musicisti di supporto per la volontà di mantenere, anche nel corso dei live, la complessità delle musiche ottenuta durante le registrazioni in studio, che nel corso degli anni raggiungono sempre più articolazione e difficoltà. Seguire il percorso creativo dei Pink Floyd significa però seguire principalmente tre personalità chiave: Barrett, Waters e Gilmour, grazie ai quali lo stile musicale si evolve da un genere prettamente psichedelico-visionario (come il primo album della band, The Piper at the Gates of Dawn, del 1967) ad uno più melodico e formale (The Division Bell, 1994), passando per una fase più concreta e tagliente (The Wall,1979). Il contributo dei Pink Floyd, oltre ad essere vastissimo, è per lo più irrinunciabile, al punto che il termine Pink Floyd Sound identifica una peculiarità musicale e sonora ben precisa. Con la carriera della band, la musica Rock oltrepassa le barriere “tradizionali” mediante sperimentazioni complesse e ambiziose volte all’evoluzione del genere in sé e per sé, alla scoperta di tutte le sue possibilità espressive e alla consacrazione del genere come espressione artistica e intellettuale. Album capitolari sono The Piper at the Gates of Down, fondamentale per il sottogenere Psichedelico e The Dark Side of the Moon del 1973 e The Wall, entrambi necessari per l’evoluzione
dello stile Progressivo. Impossibile non nominare Wish You Were Here del 1975 come memorabile è l’antologia Echoes: Storia completa dei Pink Floyd del 2009 ad opera di Glenn Povey. Musica Astronomica o Sferica che sia, i riconoscimenti nel corso della loro storia si sprecano. Non ultimo grande riscontro del loro straordinario successo planetario è la mostra “The Pink Floyd Exhibition – Their Mortal Remains” che, più che esposizione, si sta configurando piuttosto come un evento mondiale per le sue caratteristiche multimediali e visive-sensoriali. Ideatore è Fran Tomasi, promoter italiano della band, che ha pensato di celebrare la quarantennale carriera del gruppo inglese con una prima retrospettiva internazionale in Italia, in memoria di quello che fu il cosmico Live At Pompei del 1972. Presso la Fabbrica del Vapore di Milano, a partire dal 19 settembre, 2.500 mq ospiteranno più di 300 oggetti raccolti nel corso del tempo, grazie anche alla continua e attiva partecipazione di Waters, Gilmour e Mason. La collaborazione tra Stufish (lo studio di architettura che ha curato per molti anni il design dei palchi dei Pink Floyd) e il curatore e direttore artistico Aubrey Powell (colui il quale, insieme a Storm Thorgerson, si è occupato della grafica di molte copertine degli album del gruppo) ha permesso di ricreare un ambiente simile a quello di un concerto reale dei Pink Floyd, in cui lo spazio diventa teatro delle sperimentazioni musicali e degli effetti speciali elaborati nel corso di una carriera pluridecennale. Informazioni disponibili sul sito:www.pinkfloydexhibition.com/it/
VRENOS DI
EORGES
IMENON
Poesia. Cantare Dio nell’assenza
F del ro, così come manzo Il caso Eddy Bellegueule di Édouard l’ampio spettro delle esperienze ordinarie, si L’ L Louis (Bompiani, Milano) non fa ombra alla grande fondono nell’ultima raccolta di poesie di Alessanqualità dell’opera. Forgiato con una scrittura intensa, priva di qualunque reticenza estetica ed espressiva, violenta, il romanzo è la narrazione, in gran parte autobiografica, della fuga di Eddy dalla sua famiglia e dal suo luogo di origine. Una fuga tanto radicale da implicare il cambiamento del nome. Scenario è la provincia francese, claustrofobica, ignorante, brutale. Pronta ad esercitare la sua crudeltà nei confronti di ciò che è diverso. Eddy rappresenta, nel piccolo villaggio della sua infanzia, una vergogna da cui tenersi lontano e su cui esercitare violenza. Incapace di conformarsi, ad Eddy non resta che la fuga e la denuncia.
Maria Bruno
Le illustrazioni sono ceramiche dell’artista TONINO D’ACUNTO
A TRADIZIONE LETTERARIA E RELIGIOSA
dro Fo, Mancanze (Einaudi, Torino). Dopo la navigazione lunga e difficile tra i versi di Virgilio, approdata alla fine alla apprezzata versione dell’Eneide (Einaudi, Torino), Fo percorre una originale via ascendente, attraversando, tuttavia, la realtà dell’esperienza comune: «Dal terrazzo si poteva ascendere, / volendo, fino a Dio, / se non come Agostino, / gettandosi lo stesso / oltre i dubbi in un salto / verso la luna, verso l’Orsa Maggiore […]». Un oltrepassare divino e terreno ad un tempo, prossimo e inevitabilmente remoto, scandito con tratti ora aspri, ora leggeri, il ritmo intenso di una intensa ed inconclusa preghiera.
Bruno De Marco
è lingua amministrativa. Si tramandano oralmente passi danteschi. Nel 1735, durante la breve indipendenza della Corsica, viene varata una costituzione e si pubblica una gazzetta ufficiale in toscoitaliano. Dopo la Rivoluzione Francese l’italiano resta la lingua della pratica giudiziaria. Si attua il graduale distanziamento del còrso dall'italiano, ma nel XIX secolo si continua a comporre opere letterarie in italiano. Nel 1861 muore l’ultimo difensore dell’italiano, Salvatore Viale, coevo di Alessandro Manzoni. Durand afferma che la lingua italiana resta «la grande tentazione linguistica dei còrsi colti». Ma anche i Còrsi meno colti ne conservano memoria. Durand adduce esempi di lessemi presi dalla lingua italiana, adattati foneticamente: appuntamentu per rendez-vous; aereu, impiegato in luogo del francesismo aviò. Mi sembra opportuno proporre la rivalutazione dell’italiano per la riscoperta del patrimonio culturale locale. Il contributo dell’italiano accanto al francese e al còrso nelle scuole, potrebbe essere fondamentale perché il còrso acquisisca sempre più la fisionomia di ‘lingua ponte’ tra due culture, quella francese e quella italiana. Secondo Durand, sarebbe opportuno conferire all’italiano lo status di lingua regionale della Corsica. Questa soluzione, adottata nel Canton Ticino e altrove, non ha arrecato danno alle parlate locali. Un atto concreto per il recupero della memoria storica potrebbe essere l’istituzione di una cattedra di Lingua e Cultura Còrsa.
Giuseppe Vitolo
Il marketing della solidarietà apre un nuovo dibattito nel mondo globale
Un percorso fuori traccia, lungo gli itinerari dell’ombra e delle sue “figure”
F P Quando la onlus diventa un (Aracne, Roma) racconta di un’esperienza persoInaleguadagno nell’organizzazione piramidale di un’azienda di marketing
’ . Italo Bressan e Marco Pellizzola nei margini della pittura è stato pubblicato di recente per i tipi V di Gutenberg Edizioni; un libro che attraversa la molteplicità
RANCESCO
ETRONE
Michela Taranto
8 - luglio-settembre 2014
URAND
Ripensare la pittura
a cui si affidano organizzazioni profit e non profit. L’autore, sostituiti con nomi fittizi i nomi delle organizzazioni coinvolte, attraverso uno stile privo di accenti moralistici, guida il lettore alla scoperta di un mondo alla rovescia, nel quale si vende la sofferenza come solidarietà allo scopo di procurare profitti alle organizzazioni. Il racconto si dedica alla descrizione delle tecniche di persuasione che la società di marketing mette a disposizione delle organizzazioni per raggiungere il maggior numero possibile di consumatori. Scopo del libro non è una indagine intorno alla liceità giuridica di pratiche che, dietro il paravento della solidarietà internazionale, impegnano i donatori nell’alimentazione di un sistema di profitto senza che essi ne siano consapevoli. Esso sembra volto a sottolineare il modo in cui, a partire dalla fine delle grandi narrazioni, il capitalismo ha finito per appropriarsi anche della prospettiva umanitariosolidaristica, trasformando in merce la disperazione del beneficiario dell’atto solidale e la forza lavoro del volontario. Il lavoro di Petrone sollecita l’avvio di un dibattito sul nuovo senso da dare al volontariato e alla solidarietà.
numero
LIVIER
Economia e società
L LIBRO DI
22 geaArt
OME SOSTIENE
Alfonso Salvatore
ENORME SUCCESSO OTTENUTO IN RANCIA
Antonia Cardella
O D ne La lingua còrsa (Paideia, Brescia), durante C il dominio genovese in Corsica il toscano
perverse. Centrato sul personaggio femminile di Nouchi, una diciassettenne ad un tempo candida e maliziosa, capace di sedurre chiunque senza mai concedersi a nessuno, l’intero racconto si sviluppa entro le vie strette, sordide e tortuose della città sul Bosforo. Molti i personaggi che si muovono in queste atmosfere oscure e suggestive. Un uomo non più giovanissimo, distinto ma squattrinato, che si è lasciato irretire nel night-club dove Nouchi lavora come entraîneuse e che lei manovra a suo piacimento. Un gruppo di artisti sfaccendati, giornalisti, uomini d'affari, nobili decaduti, viveur di mezza tacca, che si ritrovano nel ristorante di Avrenos e passano le notti a bere raki e a fumare hashish, e che di Nouchi sono tutti più o meno innamorati.
Romanzo. Lo scandalo e il riscatto
pretazione dell’opera della poetessa milanese radicata in una conoscenza delle dinamiche intime della sua esistenza, di cui la stessa poesia – come nell’originale metodo d’indagine proprio di De Marco – diventa luce rischiarante. Si intende così la dinamica di una esistenza caratterizzata da un amore speciale per tutti quelli che vivono ai margini: si innamora dei barboni alla stazione di Milano, così come di alcuni compagni di manicomio. Si getta luce sui particolari della “lacerazione manicomiale”. Un verso della canzone di Vecchioni dedicata ad Alda Merini e alla sua permanenza in manicomio canta: «qui dentro si vive in un lungo letargo». Forse il lungo letargo è fuori ed è il nostro.
Lingua. L’italiano come idioma della memoria in Corsica
A G S è un romanzo ambientato negli anni Trenta in una Istambul deIgradata e accattivante, ritrovo di figure inquiete e CLIENTI DI
ccendo il computer e faccio partire il mio album preferito. In effetti, la musica è sempre la stessa. «Cambia solo il supporto», mi dicono gli “esperti” che improvvisano il sapere. Come è per i libri, insieme al supporto cambia pure la percezione. Prendere in mano il vinile, sfilarlo dalla custodia, soffiare l’impalpabile polvere, adagiarlo sul piatto, alzare il braccio e spostare delicatamente la testina, sentire l’avvio alle casse e poi il partire della musica è un rituale del gesto che pretende una preparazione emotiva. Con il Tubo, l’esperienza gestuale, tattile, olfattiva perde di intensità e, con lei, di significato. Perché l’esperienza è al centro di tutto, quando si parla dei Pink Floyd. Non è un gruppo che si ascolta e basta: non è la musica adatta per canticchiare in macchina o per ballare alle feste, per trascorrere una serata romantica o per darsi carica prima di un esame. I Pink Floyd si ascoltano quando si necessita di raccoglimento interiore, di riflessione, di isolamento. O quando si ha bisogno di individuare il punto focale di una situazione, di un’emozione, di un sentimento, di un problema. O quando si ha bisogno di andare in un altro mondo, di evadere. In pratica, con i Pink Floyd si può “viaggiare” senza drogarsi. Straordinario! I Pink Floyd hanno creato una musica così speciale che non si può semplicemente sentire; è piuttosto da ascoltare, da catturare con la mente e con il corpo; con la pelle, i muscoli e i nervi. Ascoltarli è una seduzione mistica. Parlare dei Pink Floyd è difficile, sarà forse perché resta una band che, bene o male, è ancora sulla bocca di tutti. La Gran Bretagna, se non per il cibo, la moda e il senseof humor (che trovo spigoloso come il sorriso della regina), è senza dubbio da ringraziare per la quantità di gruppi musicali che, a partire dagli anni sessanta, ha sfornato molto generosamente. Tra i più importanti ecco comparire proprio loro, i Pink Floyd, che, inizialmente psichedelici e concentrati sui Light Shows, si sono sempre distinti per la continua ricerca filosofica, le interminabili sperimentazioni musicali volte all’alternativo, le incessanti elaborazioni grafiche tese all’innovazione e i tentativi mai vani di rendere i loro concerti esperienze coinvolgenti e indimenticabili. Se si volesse catalogare il loro genere musicale, si potrebbe scegliere probabilmente come più appropriato il Rock Progressivo, sottogenere del Rock ed evoluzione del Rock Psichedelico. Il loro nome, che inizialmente dove essere “The Pink Floyd Blues
namorata, Corpo d’amore. Piovono raccolte in versi e prosa e piovono premi. Arrivano interviste, incontri e una canzone per lei scritta da Roberto Vecchioni. Pochi hanno la possibilità di scriverne dopo averla conosciuta personalmente. Tra questi Giuseppe De Marco, studioso di grande acutezza, scomparso improvvisamente un anno fa, che la incontra e ne scrive dopo avere indagato l’intima sostanza del suo dire poetico, allo stesso modo in cui, prima di lui, hanno fatto Dino Campana, Giorgio Manganelli, Luciano Erba e Giacinto Spagnoletti che la scopre per primo, inserendo alcune poesie in una antologia della poesia italiana dal 1909 al 1949. Merini racconta a De Marco molto sia della sua vita che dell’“altra verità” che è nella sua vita. Viene fuori una inter-
La Istambul di Simenon
GLORIA MUZI
Periodico di cultura arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative
IAGGIO NELL OMBRA
di aspetti connessi all’interpretazione della “compagna fedele” nei linguaggi e nelle esperienze dell’arte. Curato da Massimo Bignardi propone riflessioni storico-critiche che, dalla pittura, si spingono verso il cinema, la letteratura, la filosofia, la video art: un percorso fuori traccia disegnato dai saggi, oltre quello del curatore, di Pasquale de Cristoforo, Marcella Ferro, Ada Patrizia Fiorillo, Ico Gasparri, Marco Maria Gazzano, Linda Gezzi, Giovanni Iovane, Mimmo Jodice, Luca Mansueto, Federica Pace, Annamaria Restieri, Pasquale Ruocco, Valeria Tassinari e dagli interventi pittorici di Italo Bressan e Marco Pellizzola. Il punto centrale è la riflessione proposta dagli artisti Bressan e Pellizzola sulla pittura, sulla sua capacità di proporsi quale territorio di nuovi transiti. «Il dato che affiora – rileva Massimo Bignardi nell’introduzione al volume – è certamente il grande interesse che il tema dell’ombra sollecita; un interesse che ci porta a spaziare in ambiti che hanno in comune un’identità culturale propria del nostro tempo, molteplice quanto monologico nella visione così strillata di una globalizzazione imperante».
Rosaria Amoroso
Il numero 8 lo trovi: AMALFI (SA) C&G. corso delle Repubbliche Marinare, 13 AVELLINO Punto Einaudi, galleria via Mancini BARI Librerie Feltrinelli, via Melo, 49 BARONISSI (SA) Museo-Frac Fondo Regionale d’Arte Contemporanea BENEVENTO Libreria Masone Alisei, viale dei Rettori 73F BOLOGNA Bookshop MAMBo, via Don Giovanni Minzoni, 14 CALTAGIRONE (CT) Libreria Dovilio, piazza Bellini, 12 CAMPOBASSO La Nuova Libreria, via Vittorio Veneto, 7 Palladino Company, via Colle delle Api, 170 CATANIA Cavallotto Librerie, viale Ionio, 32 CATANZARO Libreria Mondadori, corso Giuseppe Mazzini, 16 CAVA DE’ TIRRENI (SA) MARTE Mediateca Arte Eventi, corso Umberto I, 137 Biblioteca Comunale, viale Marconi CITTÀ DI CASTELLO Novamusica, viale Abetone, 22 COMO Libreria Ubik, piazza San Fedele, 32 CORTINA D’AMPEZZO (BL) Museo Rimoldi, Ciasa De Ra Regoles, corso Italia, 69 COSENZA Caffe Letterario Città di Cosenza, piazza Matteotti ELLEBI Galleria d’arte, via Riccardo Misasi, 99 FERRARA Università degli Studi Ferrara Dipartimento di Studi Umanistici, via Paradiso Ibs.it Bookshop, piazza Trieste e Trento, 41 Librerie Feltrinelli, Corso Garibaldi, 30 FIRENZE Kunsthisrorisches Institut in Florenz, via Giuseppe Giusti, 44 FISCIANO (SA) Presso la sede di Unis@und Webradio Università degli Studi di Salerno FOGGIA Libreria Dell’Atenea, via Giuseppe Rosati, 1 GENOVA Libreria Feltrinelli, via C. Roccatagliata Ceccardi, 16 GROSSETO Centro documentazione arti visive, via Mazzini, 99 LAMEZIA TERME (CZ) Associazione culturale “Sukiya”, via Ticino,11 LECCE Libreria Adriatica, piazza V. Aymone, 7 Libreria Mondadori, piazza Sant’Oronzo LUCCA Fondazione Centro Studi Ragghianti, via San Micheletto, 3 MILANO Università degli Studi- Bibli. Storia dell’arte, via Noto, 6 Biblioteca Accademia di Belle Arti di Brera, Palazzo di Brera Libreria Hoepli, via Ulrico Hoepli, 5 MINORI Hotel Villa Romana, Corso V. Emanuele, 90 Fes Ceramiche, via Roma, 32 MODENA Bookshop Galleria Civica Palazzo Santa Margherita, corso Canalgrande, 103 Biblioteca Civica “L. Poletti”, viale Vittorio Veneto, 5 NAPOLI Accademia di Belle Arti, Via Costantinopoli, 107/a Bookshop Museo Archeologico Nazionale, piazza Museo, 9 Librerie Dante & Descartes, via Mezzocannone, 55 via Port’Alba, 10, piazza del Gesù Nuovo, 14 Libreria Feltrinelli, piazza dei Martiri Bar Novecento, piazza Bellini PALERMO Libreria del Kursaal Kalhesa, Foro Umberto I, 21 PARMA Librerie la Feltrinelli, via della Repubblica, 2 PERUGIA Libreria Betti, via Sette, 1 PESARO Fondazione Pescheria Centro Arti Visive, via Cavour, 5 PESCARA Libreria Primo Moroni, via Quarto dei Mille, 29 PISTOIA Lo Spazio di via dell’Ospizio, via dell’Ospizio, 26-28 POTENZA Cocco libreria, Palazzo Rizzo, 33 ROMA Libreria Altroquando, via del Governo vecchio Biblioteca Rispoli, piazza Grazioli, 4 Bookshop Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale Aromaticus, via Urbana, 134 SALERNO Libreria Brunolibri, via Torrione, 125 Librerie Feltrinelli, corso Vittorio Emanuele I, 230 Libreria Internazionale, piazza XXIV Maggio, 12 Libreria Mondadori, corso Vittorio Emanuele, 56 Punto Einaudi, piazzetta Barracano int. 13 Galleria Il Catalogo, via A. M. De Luca Galleria Paola Verrengia, via Fieravecchia, 34 Galleria Tiziana Di Caro, via Botteghelle, 55 Pierino, Edicola al Corso, corso Vittorio Emanuele SAN SEVERO (FG) Libreria Orsa Minore, via Soccorso, 123 SARONNO (VA) Galleria Il Chiostro, viale Santuario, 11 SASSARI Libreria Internazionale Koinè, via Roma, 137 SIENA Università degli Studi Siena Dipartimento Scienze Storiche e Beni Culturali, Palazzo di San Galgano Punto Einaudi, via Pantaneto, 66 Mondadori, via Montanini,112 TORINO Librerie Feltrinelli, piazza Castello, 19 TORRECUSO (BN) Art’s Events, località Collepiano TRENTO Libreria Il Papiro, via Galileo Galilei, 5 TRIESTE Biblioteca Comunale, piazza Hortis Libreria Einaudi, via del Coroneo, 1 ULASSAI-OGLIASTRA Fondazione Stazione dell’Arte Museo Arte Contemporanea, Ex Stazione Ferroviaria URBINO Biblioteca Accademia di Belle Arti, via dei Maceri, 2 VENEZIA Bookshop, Museo Peggy Guggenheim, Palazzo Venier dei Leoni Dorsoduro, 701 VICENZA Valmore studio d’arte Contrà, Porta S. Croce, 14
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CORK University College Cork (Ireland), Department of Italian, School of Languages, Literatures and Cultures HEIDELBERG Universität Heidelberg, Institut für Europäische Kunstgeschichte, Ruprecht-Karls (Bibliothek) PARIS Galerie Pièce Unique, Saint-Germain-Des-Prés, 6ème 4 rue Jacques Callot
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