Geaart ottobre novembre 2014

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anno III numero 9 ottobre-novembre 2014 direttore Massimo Bignardi distribuzione gratuita

A Matera con Pasolini, parlando del presente alazzo Lanfranchi di Matera dedicata (fino al 9 novembre) una mostra al capolavoro pasoliniano, Il Vangelo seP condo Matteo, a cinquant’anni dall’uscita nelle sale cinematografiche. La visita alla mostra nella città dei “Sassi”, oggi candidata a Capitale europea della cultura per il 2019, ha offerto l’occasione per rileggere Pasolini e la sua eredità di intellettuale scomodo, negli anni che disegnano la scia del boom economico italiano. Rilettura che ha suggerito una personale riflessione sulla esperienza di storico e critico d’arte e, prim’ancora, di docente nel vortice di una università collassata.

Periodico di cultura, arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative

a pagina 12 u Massimo Bignardi

effimero e resistenza di

FRANCO MATTEO

ffimero e resistenza, due concetti votati alla contrapposizione per destino dialettico? Oppure c’è un punto di intersezione, una possibilità di trarre l’una dall’altro? Capita talvolta nella storia, come nel caso delle rivoluzioni, che l’effimera verità della follia lasci il segno nel divenire temporale, nel percorso dell’uomo. Estrarre la resistenza dall’effimero è il nodo centrale, ciò che riguarda artisti e rivoluzionari, nei cui atti di volontà folle, nel senso fucaultiano, è tracciato un percorso, è marcata una diversità da un punto di origine. È questo che crea identità resistenti, non nel senso in qualche misura ideologico dell’antropologia culturale, ma in quello concreto randomizzato dell’intreccio di punti di partenza e di arrivo che altro non sono che altre partenze, linee che si aggiungono ad altre linee. Cosa è che le può disegnare se non ciò che eccede l’ordine stesso delle cose, ciò che va oltre la riproduzione del segno dell’economia

E

CONTROCOPERTINA

CARTE SUL TAVOLO

e si dirige verso il gesto della creazione. È nella volontà e nel gesto dell’artista che troviamo il punto di riconciliazione tra effimero e resistenza, resistente ai tempi e alla storia secolare come la Gioconda di Leonardo. Come sosteneva con semplicità Malraux, l’arte è la sola cosa che resista alla morte. Ma può bastare da sola a costruire resistenza? Deleuze fa l’esempio di Bach: la musica è la sua parola, la sua creazione, l’atto di resistenza è la lotta contro la divisione ideologica tra sacro e profano. E dunque cosa è che fa davvero la differenza tra effimero e resistenza se non l’atto di volontà che determina una differenza, un passaggio da uno stato di cose a un altro, la follia di voler pensare un ordine diverso dal luogo comune o dall’ideologia dominante. Ed è lo stesso Deleuze, partendo dalle società disciplinari di Fucault per approdare alla profezia burroughsiana della società del controllo, a introdurci nella dimensione contemporanea del problema. continua a p. 3

ARTE&ISTITUZIONI

MUSICA

Caterina Arcuri Nel bianco, 2014

La scuola: una promessa di modernità in crash con la realtà

Bronzi di Riace - Expo2015 si rinnova la commedia italiana

Può esistere una sociologia del Jazz?

Matita, foglia argento su cartoncino

Nel tentativo di riflettere sull’attuale posizione della scuola italiana, si rischia facilmente di scivolare sulla diffusa opinione che la vede come sinonimo di un’entità inscindibile da una concezione passatista di “resistenza”.

La querelle del prestito alla universale kermesse milanese, riaccende vecchie polemiche e riposiziona vecchi schieramenti culturali. La proposta è quella di proporre idee nuove: guardare al presente lanciando lo sguardo verso il futuro.

Nell’attuale globalizzazione ciò che ricorre con una certa frequenza è un concetto coniato dal creatore di un altro iper-concetto, quello della ‘modernità liquida’: la ‘musica liquida’ L’allusione è al sociologo Zygmunt Bauman.

a pagina 2 u Federica Zabarri

a pagina 9 u Alessandro Cuccé

a pagina 21 u Gillo De Stefano

Il problema è avere gli occhi e non saper vedere, non guardare le cose che accadono. >>


carte sul tavolo

carte sul tavolo Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non sono più curiosi. Che non si aspettano che accada più niente. >>

Forse perché non credono che la bellezza esista. >>

Cultura e mondo del lavoro nuova alleanza decisiva per il futuro della società italiana di

Effimero

e resistenza V’è la necessità di riflettere su due concetti votati alla contrapposizione per destino dialettico?

PIERO LUCIA*

di

N

ella complessità dei tempi attuali, dopo la fine del mondo bipolare, i conflitti, lungi dal contrarsi, si sono moltiplicati a dismisura. Innumerevoli e sanguinose le crisi regionali, sintomo crudo di un globo instabile ed inquieto, non pacificato e ridisegnato nelle sue antecedenti gerarchie. Con nuovi ruoli, protagonisti e di rilievo, di grandi paesi come Brasile, India e Cina. La crisi dell’economia mondiale, che si trascina irrisolta ormai da troppo tempo, più che congiunturale, appare di struttura e di sistema. E dagli sbocchi assolutamente incerti e imprevedibili. Essa procede ininterrotta dal 2008, polverizzando risorse produttive e innumerevoli posti di lavoro. È ingenuo ed illusorio immaginare di fuoriuscirne ripristinando logori, già sperimentati e falliti modelli di sviluppo. In tale scenario, l’Italia si propone come realtà d’instabile incertezza, in grave ritardo con le sfide e le necessità dell’ora. Il nostro paese è gracile ed in costante stagnazione, privo di smalto e dinamismo, ancora incapace di avviare una netta, radicale e subitanea inversione di tendenza. Ha perso terreno, in via definitiva, nei tradizionali comparti manifatturieri ed è sempre più marginale nei nuovi settori d’avanguardia della ricerca e dell’innovazione. Estesa è la sfiducia, s’amplia a dismisura la platea di chi appare inesorabilmente condannato ad un avvenire di pura povertà. Milioni di persone hanno visto repentinamente cancellate le proprie aspirazioni ad un futuro di maggiore benessere e di più ampia, personale e collettiva, libertà. E chi avrebbe dovuto fronteggiare l’eccezionale situazione ha platealmente evidenziato la propria, colpevole e grave inconsistenza ed è rimasto inerte, senza indicare una credibile e vincente prospettiva progettuale. La strutturale assenza di equilibrio finanziario nei conti dello Stato, con il livello insostenibile raggiunto dal debito pubblico, ipoteca drammaticamente in negativo qualsivoglia ipotesi di ripresa dell’economia, minando alla radice la coesione ed il rilancio della società italiana. Priorità assoluta è l’aggressione strutturale alla spesa improduttiva, con una lotta senza tregua e ad ampio spettro ai molteplici e persistenti fenomeni di corruzione, sprechi e corporativismi che stringono in una morsa asfissiante la società italiana, ostacolandone una qualsiasi, incisiva svolta. Il non aver ridotto, nei decenni passati, il grave divario tra il Nord ed il Sud del Paese, che anzi di recente si è accentuato, è il sintomo più evidente dei limiti e dei fallimenti delle classi dirigenti che si sono nel tempo succedute. Nella Germania unificata, dal 1989 ad oggi, con una grande prova di coesione nazionale, il gap tra l’Est e l’Ovest è stato nella sostanza superato. In Italia, e in specie nel Mezzogiorno del Paese, di converso, la situazione è invece progressivamente divenuta più critica e stagnante. Da decenni il Sud non si configura più come problema agrario e contadino. Il nodo più intricato e doloroso è quello della gran massa di giovani disoccupati, di elevato livello medio d’istruzione, privi di qualsivoglia prospettiva, d’identità, di vita e di lavoro. Figli di emigrati prima, poi della fitta, stratificata piccola borghesia impiegatizia e delle professioni, più acculturati delle generazioni che le hanno precedute. Il Sud, se valorizzato, è una straordinaria risorsa potenziale, e non un freno ed un ostacolo alla crescita dell’insieme del Paese. Ai giovani del Sud è stato più volte ribadito il concetto secondo cui studiare con profitto era l’unica possibilità per conquistare un futuro di vita e di lavoro decorosi. Una generazione che invece è rimasta dolorosamente in mezzo al guado. La società, anche nelle componenti più evolute, più che aprirsi, ha accentuato l’assunzione di forme di chiusura neo corporative ed è ancora inquinata, in maniera devastante, da sprechi e corruzione e dal peso stritolante di lobby e corporazioni economiche e finanziarie assai potenti. Non premia l’impegno, il merito, le capacità. Ed appare tutt’ora per più versi priva di un valido progetto, un’idea-forza ambiziosa e generale di riferimento. La carta peculiare dell’Italia, nell’Europa e nel mondo a noi contemporaneo, non può innanzitutto prescindere dalla tutela, valorizzazione e promozione, più piena e sistematica, da troppo tempo colpevolmente eluse, dell’enorme patrimonio storico e culturale, artistico, architettonico, archeologico e ambientale senza eguali nel mondo. L’Italia dispone di oltre 2.500 musei e di circa 12.500 chiese e monasteri. Un giacimento sterminato, di saperi e ricchezze accumulate, tramandato dalle generazioni che ci hanno preceduto e concentrato, in maniera capillare, su un territorio che trasuda, in ogni suo segmento, di storia e di cultura millenarie, tracce indelebili dell’ingegno umano. È, in sostanza, urgente riscoprire la nostra natura peculiare, di paese dell’arte e della memoria di tutto l’Occidente. La piena rivalutazione di questa straordinaria ricchezza nazionale è impedito da più fattori, in parte decisiva anche dovuti all’evanescenza del ruolo dei Partiti,

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ombre sbiadite di ciò che sono stati, sempre più simili a meri comitati elettorali, all’indebolimento delle organizzazioni sindacali, da troppo tempo costrette sulla difensiva, all’assenza di un’imprenditoria moderna, in grado di svolgere una funzione competitiva e vincente a livello globale sul libero mercato. In particolare il mondo del lavoro, nella fisionomia non più compatta a lungo conosciuta, esplicita al suo interno grandi frammentazioni e differenze, con forme di tutela diseguali. E storicamente la forza del mondo del lavoro è più incisiva nelle fasi di crescita dell’economia, nel mentre riduce il proprio potere negoziale quando la crisi dell’economia s’accentua in modo più grave e prolungato. Inoltre alcune aree, nel Sud del paese ma non solo, assieme a servizi e ad infrastrutture inadeguati o inesistenti, vedono il sempre più strutturato radicarsi della criminalità organizzata, ostacolo invalicabile a qualsivoglia volontà d’investimento. Più fattori, che hanno concorso al decadimento dello spirito pubblico, sacrificando all’interesse di parte quello generale e collettivo. Di conseguenza, non essendo il tutto risolvibile col richiamo ideologico al presunto effetto salvifico del libero mercato, non sembra esistere alcuna alternativa all’intervento pubblico e diretto dello Stato, tramite un’auspicabile azione rinnovata di governo, aperto ad un raccordo con quella parte, seppur minoritaria, dell’imprenditoria privata più avvertita. Un’azione combinata, che inizi ad aggredire alla radice, con l’avvio di un piano straordinario per il lavoro dei giovani meridionali, la piaga endemica della disoccupazione giovanile che, se non aggredita con urgenza e determinazione, concorrerà ad accentuare, ancora oltre e a dismisura, la persistente frattura tra il centro nord ed il sud del paese, con conseguenze disastrose per il complesso della società. Scelte politiche nette, mirate e comprensibili, di riconversione della spesa, frutto di una corretta analisi aggiornata e di una chiara strategia, con l’individuazione di precise priorità da perseguire, un’azione non schiacciata sulla gestione del quotidiano e della perenne contingenza. Il primario obbligo dell’oggi è ridare alla Nazione una speranza nel futuro! L’uomo si relaziona al mondo con molteplici strumenti, arte, filosofia, letteratura, scienza, tecnologia. È il campo delle idee il piano privilegiato su cui per primo va prodotto uno scatto d’impegno collettivo, spingendo per un nuovo progetto di sviluppo innovatore. In questo quadro, frammentariamente tratteggiato, riacquista

perciò inestimabile valore il tema della cultura ed della conoscenza. Una cultura, armata di un metodo affinato di lettura del reale, dei molteplici fermenti che in esso pullulano incessanti, non contemplativa, ma capace di concorrere al percepibile mutamento delle cose. Cultura quale potente collante e forza materiale, in grado di innestare processi di permanenti mutazioni, autentico moltiplicatore di opportunità, di crescita e sviluppo economico e civile. La cultura, pur con ambivalenze e ambiguità, ha sempre esercitato un ruolo di rilievo nel dipanarsi della vita umana. L’attuazione di un nuovo processo virtuoso di sviluppo è in ogni caso imprescindibile dalla rimozione di limiti gravissimi, di tipo strutturale. L’inadeguatezza delle infrastrutture, il deficit di ricerca e innovazione, già prima richiamati, spiegano l’insufficienza di un qualificato e moderno tessuto d’imprese d’avanguardia, l’assenza di una diffusa imprenditoria vincente nella dimensione della globalizzazione. Una democrazia nuova e più avanzata non si afferma eludendo tali nodi. Ed inoltre la stessa autonomia della politica è minata alla radice dalla gravissima crisi economico e sociale che persiste. E nuovi, immensi problemi si sommano agli antichi. L’immigrazione, ormai senza controllo, impone con urgenza la fuoriuscita da ogni dimensione angusta e localistica ed obbliga l’Europa ad una visione nuova e consapevole sull’interdipendenza del mondo nel suo insieme. Al giorno d’oggi, ben più velocemente del passato, tutto immediatamente si consuma, e l’uomo moderno appare più gracile e smarrito, spesso in una relazione solo di superficie col repentino succedersi dei fatti e delle cose. Più di 70 anni or sono, in una fase drammatica in cui il paese era piegato e coperto di rovine, le avanguardie del mondo del pensiero, in sintonia col mondo del lavoro, davano vita ad uno straordinario scatto d’impegno collettivo che consentiva alla Nazione la Rinascita. Oggi, di nuovo, il meglio delle forze progressive del paese, d’intesa tra di loro, mossi dalla fiducia nel futuro, devono assumere su di sé, con decisione, la responsabilità e l’impegno di questa nuova sfida. Ritessere una trama lacerata, realizzare la svolta, è una stringente urgenza ed una necessità. *Dirigente e storico contemporaneo del movimento operaio e sindacale italiano Le illustrazioni di pagina 2, 3 e 4 sono dell’artista FRANCESCO CECCHETTO

La scuola che resiste

Una profetica promessa di modernità costantemente in crash con la realtà di

FEDERICA ZABARRI*

el tentativo di riflettere sull’attuale posizione della scuola italiana, si rischia faN cilmente di scivolare sulla diffusa opinione

che la vede come sinonimo di un’entità inscindibile da una concezione passatista di “resistenza”. Ma per indagare la verità di un campo, bisogna anche tener presente che, i luoghi comuni a esso correlati sono spesso il consolidarsi di pregiudizi, ossia di quei processi di analisi che, per economia di tempo, non possono far altro che basarsi su dati e fattori superficiali. È quindi vero che la scuola italiana è per sua natura ancorata a un concetto di resistenza? E nella misura in cui ciò possa essere vero, è sempre negativo? Gli ‘addetti ai lavori’ sanno bene che la ‘nostra’ scuola ha intrapreso negli ultimi anni un profondo processo di mutazione e, anche se molte di queste trasformazioni sono state vissute come ‘imposizioni dall’alto’, dettate più da esigenze economiche che da rivoluzioni pedagogiche, oggi per la prima volta chi si approccia alla professione docente si trova in una scuola, in cui a suo tempo come studente, non ha mai messo piede. A giungo si concluderà il primo ciclo di studi in vigore da cinque anni che ha ap-

portato un ulteriore contrazione dell’orario didattico e in molte scuole, già da tempo, gli studenti attestano da soli la loro presenza con un badge da ‘strisciare’ ogni mattino. I registri cartacei hanno lasciato il posto a notebook e software e le sperimentazioni delle “Classi 2.0”, in cui si professa l’abbandono dei libri a favore di tablet, vedono già l’insegnante non più distribuire fotocopie ma condividere contenuti tramite cloud. Una rincorsa alla digitalizzazione che, tuttavia, vede molte scuole arrancare. Da un lato ci sono le indigenti risorse economiche e dall’altro l’inevitabile muro con cui questo sistema si scontra: l’Italia gode del personale docente con l’età media più alta d’Europa, il che significa, spesso dotato di scarsa dimestichezza informatica. E non è solo questo tipo di contraddizioni a far comprendere come quell’ammodernamento che si vuole percorrere, non può far affidamento sulla presenza o meno, di una connessione internet in ognuna delle nostre aule. È comprensibile che, per dialogare nel panorama internazionale si cerchi di offrire agli studenti quanti più strumenti possibili per rapportarsi alla modernità, ma ciò non è sufficiente per pensare di aver cambiato in meglio il sistema. Non bisogna confondere la rete d’informazioni veloce e su-

perficiale con una didattica altrettanto frammentata solo perché si cerca di utilizzare gli stessi media. La didattica dovrebbe guidare i nostri alunni nella realtà, dando loro gli strumenti critici per affrontare l’effimero e per riconoscerlo; per ricercare la verità delle cose, anche quando essa è riconducibile solo a plurimi punti di vista. Per fare questo allora, quel rinnovamento di cui si sente l’esigenza non può sostituire i principi educativi con le metodologie, ma deve essere in grado di conservare e promuovere i fondamenti della nostra identità culturale. Ovvero, quella di uno dei primi Stati europei, che con la propria Costituzione, ha garantito una scuola obbligatoria, gratuita e aperta a tutti e che ha compreso il valore di inserire tra le discipline fondamentali, l’educazione artistica e musicale. Di fronte a una connessione che salta e a un contenuto che non ne vuole sapere di caricarsi, io mi auguro che la scuola Italiana sappia resistere alla tentazione di scambiare saperi con tecnologie e sia in grado di recuperare il proprio patrimonio culturale fatto ancora di esperienze dirette sul territorio. In questa forma di resistenza non ci sarà mai nulla di ‘passatista’. *Docente presso il Liceo Artistico "D. Dossi" di Ferrara

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dalla prima pagina

a società globalizzata dei grandi media, delle superpotenze della tecnologia e della comunicazione, dei big data e dei metadata: è questo lo scenario in cui si dispiega il conflitto tra effimero e resistenza, laddove la frammentazione spaziale e temporale è richiesta come presupposto per un mondo di consumatori controllati. L’uomo deevoluto, come ben prefigurato negli anni Ottanta dalla profetica ironia del gruppo musicale dei Devo, è smontato e rimontato nelle sue identità vere o presunte. È la tabula rasa a cui vendere qualcosa, dall’ultimo modello di smartphone al pacchetto ideologico preconfezionato a sua misura. E ha il “privilegio” di comunicare coi consumatori simili a lui attraverso i social network dove potrà esprimere, nella sua nicchia tecno-ideologica di amici e followers, le sue opinioni fotocopia e i suoi gradimenti. Ma tutto questo spezzatino di effimero, che pure deve sembrare a molti assai gratificante visto il successo che ha, a qualcosa dovrà pur servire. La raccolta, che sembra quasi infinita, di dati dovrà poi essere trasferita su un altro livello considerato che, di per sé, sarebbe tutta limitata al senso del dato fine a se stesso. È il livello più alto del controllo, quello metacibernetico, che fa da collettore dei dati e da rifornitore di senso per la raccolta. Sono i cosiddetti metadata il nocciolo duro della struttura del controllo, quello che riflette e produce un ordine di cose e che lo guida attraverso un sistema di che si alimenta da solo perché a fornirne i contenuti sono proprio i miliardi di operai della rete: dagli “smanettatori” cronici ai frequentatori occasionali di internet. È questo l’ordine parallelo a quello di più di tre secoli fa contro cui Bach insorgeva con le sue note che si ribellavano e resistevano alla separazione tra sacro e profano. Allo stesso modo c’è oggi il modo di introdurre elementi di diversità rispetto alle meccaniche sempre diverse ma sempre uguali a sé stesse, della società del controllo? Può bastare la diserzione dei media e della rete? Di sicuro nessun modello di società può essere eterno, ma per cambiarlo, soprattutto oggi, non è possibile sottrarsi alle sue dinamiche e ai suoi strumenti. Certo non è più così facile immaginare scorciatoie eversive di

tipo ideologico. La storia del secolo passato ci racconta il fallimento dell’eversione ideologica finalizzata a costruire un mondo diverso e alternativo ma destinata a riprodurre in forme modificate e talvolta peggiori il modello contestato. La Cina “comunista” non è forse oggi la patria per eccellenza del capitalismo selvaggio? Basta dire che quello però non era il vero comunismo e neanche quello russo o albanese o vietnamita? Davvero no, non funziona più. C’è una

Il trionfo dell’effimero

La giovinezza è l’età delle grandi e dolorose incertezze di

SARA PETRI

uando penso ai giovani del XXI secolo – Q dei quali anch’io faccio parte – mi sorge istintivamente la domanda: è possibile dare

loro un futuro quantomeno non peggiore di quello dei loro genitori? La giovinezza è solitamente caratterizzata da ottimismo, forza vitale e speranza per il domani. Adesso, invece, sempre più under 30 guardano al futuro senza illusioni, anzi oserei dire con un crescente cinismo. Sono loro a essere cambiati, o la realtà che li circonda? È scomparso il sogno di voler contribuire a migliorare la società in cui viviamo, di lottare per annullare – o quanto meno arginare – le ingiustizie, di costruire un futuro migliore? È scoraggiante assistere impotenti ai profondi e spesso disastrosi mutamenti che avvengono intorno a noi. Trovare lavoro è sempre più difficile e addirittura, per avere un impiego, è a volte indispensabile ricorrere a raccomandazioni per evitare di essere superati da altri meno competenti. I giovani si trovano costretti, più o meno controvoglia, a restare in famiglia perché non possono mantenersi autonomamente, a ritardare la costruzione di un proprio nucleo familiare e addirittura a rinunciare alla procreazione. E cosa si può dire – sempre parlando del mondo del lavoro – della

FRANCO MATTEO

propensione a vedere l’esperienza e quindi l’avanzare dell’età come unica misura del merito? Non bisogna dimenticare che l’età della giovinezza è anche una fase di grandi e dolorose incertezze, le quali sembrano essersi amplificate per le generazioni del XXI secolo. Noi giovani, che ci sentiamo ripetere di essere il futuro del nostro Paese, abbiamo una sola certezza, quella di non avere certezze. Il futuro spaventa. Stiamo crescendo senza quella spensieratezza che dovrebbe caratterizzare questo periodo della nostra esistenza; tutto è incerto, precario. E cerchiamo di evadere, di fuggire questa realtà distraendoci con il consumismo sfrenato (quando è possibile, considerando la crisi economica), con divertimenti effimeri e relazioni superficiali. Affogare i propri dispiaceri, se così si può dire, nell’alcool e nelle droghe sono solo i problemi che ergono con più evidenza, ma c’è molto altro. Lo stesso uso ossessivo dei social networks diffonde tipologie relazionali spesso false e, appunto, effimere, relegando i giovani in una solitudine soffocante e opprimente. In periodi di crisi come quello che stiamo vivendo, un atteggiamento tipico è proprio quello di non pensare al futuro, o almeno cercare di non farlo. In una società fondata sul consumo come la nostra, è inevitabile l’esaltazione dell’effimero. E i giovani, pur senza lavoro, sono dei

grandi consumatori, persino, anche se può sembrare incredibile, di prodotti di lusso. La prospettiva più inquietante è che queste persone, “il futuro del Paese”, arrivino ad avere una concezione della vita basata sulla superficialità più sfrenata, nel senso di “del domani non vi è certezza, conviene distrarsi”. Bisogna invece lottare, opporsi, fare resistenza in ogni modo contro una simile deriva. I giovani sembrano sempre più omologati, si lasciano trascinare dalle masse, incapaci di distinguersi, non per snobismo o eccentricità, ma per rivendicare la propria autonomia di vita e di pensiero. Terrorizzati dalla mancanza di sicurezze, plagiati da una società che stigmatizza “il diverso”, cercano di farsi accettare, di non restare soli, ma così facendo finiscono per subire in silenzio senza trovare la forza (e la voglia) di resistere. Per affrontare la realtà e costruirsi un’identità forte ci vuole coraggio e grande forza di volontà, ma si tratta del nostro futuro! Penso che sia di vitale importanza resistere alla tendenza di abbandonarsi all’effimero e trovare invece la determinazione di costruire qualcosa che dia al domani un senso di futuro. Perché, altrimenti, i rischi sono gravissimi. Come diceva Wilhelm Reich, le masse «desiderano il fascismo». E quindi, per citare Umberto Galimberti, «capita a tutti coloro che non pensano di desiderare uno che pensi e provveda per loro».

partita aperta che si gioca sulle libertà dell’uomo, sui diritti, sulla condivisione di vita vera e non di malinconici selfie postati su un social. Ma soprattutto si tratta di ritracciare una profondità temporale che oggi pare schiacciata in una gigantesca ed eterna dimensione del presente. In ogni luogo e in ogni tempo è la dimensione della rete condensata nell’attimo di un click, attraverso il quale si possono richiamare informazioni dai luoghi e da tempi più disparati. In questo schiacciamento gli stessi concetti di effimero e resistenza sembrano perdere senso, essendo entrambi fondati su una dimensione temporale, di durata nel tempo e nella storia. L’azzardo folle e necessario è dunque tornare a progettare futuro, consapevoli che pure, a essere rigorosi, parliamo comunque di un’atto riguardante il presente, ma che dà profondità al percorso dell’uomo, al suo cammino nella storia. La sfida è costruire nuove resistenze, magari tratte anche dalle miserie della frammentazione e della contingenza. Si tratta di estrarre l’eterno dall’effimero, come auspicavano i futuristi da cui è oggi utile accogliere il messaggio di velocità. Per trasformare bisogna stare dentro le cose e forzarne il ritmo, le coordinate spazio-temporali. Come sottolineava Baudelaire, «affinché ogni modernità acquisti il diritto di diventare antichità occorre che ne sia tratta fuori la bellezza misteriosa che vi immette, inconsapevolmente, la vita umana». Paradossalmente, si tratta di progettare dunque l’antichità del futuro. Non nel senso di rilanciare nostalgicamente il passato, ma in quello di fare in modo che il futuro contenga elementi di resistenza destinati a durare e diventare, con il tempo, il passato. Progettare futuro in un mondo in cui la frammentazione, la scomposizione puntiforme ha proiettato gli uomini in una sorta di eterno presente, piatto e privo di dimensione eroico-erotica sarebbe di per sé l’atto rivoluzionario, la follia di una utopia possibile basata però non sulla interiorizzazione di una necessità etica, ma su una ribellione concreta, materiale a una società morta nelle diversità e dunque nelle identità. Ci sarebbe da riflettere sul fatto che certe forme estreme e devastanti di reazione e di tentativi di riconquistare una dimensione epica, eroica dell’esistenza e della storia, come ad esempio il fondamentalismo religioso militante e militare, guadagnino adepti anche nei paesi occidentali. Gli ultimi dati parlano addirittura di tremila combattenti dell’ISIS provenienti dall’Europa. A questa domanda di identità, di diversità, di riconquista del senso del tempo e della storia bisogna trovare subito risposte pacifiche, globalmente condivise, liberatorie, ispirate al valore della bellezza e alla ricerca della felicità. L’alternativa potrebbe essere terrificante.

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teatro contemporaneo

carte sul tavolo

Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non, di fatto, per uscire dallʼinferno (A. Artaud)

Ma sul deserto delle nostre strade Lei passa, rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio (P. P. Pasolini)

Il viaggio di Eugenio Barba dal Salento al Mondo

Tra effimero e/o resistenza: le rotte del mare come del teatro sono solo immaginarie di

La “notte” dei musei

Cercare una via d’uscita dall’euforia del contenitore per recuperare una funzione critica

di

MASSIMO MARCHETTI

I

l tema di questo numero di geaArt, “effimero e resistenza”, tocca nel vivo una questione cruciale nel sistema dell’arte contemporanea. Quanto ci può essere di “resistente” in un ambito dove la stragrande maggioranza delle opere non solo è costruita con materiali fragili, ma soprattutto viene progettata per una fruizione che raramente si proietta nel futuro? Sarebbe istruttivo fare una ricognizione nella collezione di opere permanenti del parco di Villa Manin, (Passariano di Cogroipo, Udine) sede fino a sei anni fa di importanti mostre di artisti internazionali. Ciò che resta a distanza di così poco tempo assomiglia a delle macerie. È evidente che queste opere, tutte di autori di primo piano, necessiterebbero di una cura regolare perché altrimenti destinate a un rapido deterioramento. In lavori progettati per uno spazio pubblico la lunga durata, dunque, non sembra essere prevista. È chiaro che si tratta di una questione che va al di là di aspetti meramente tecnici di manutenzione e restauro, e che riguarda l’estetica: ancora una volta l’arte registra e sottolinea un approccio più generale che la società del nostro tempo ha verso ciò che produce. Il museo, luogo di salvaguardia dei valori per le generazioni che verranno, che ruolo riveste in questo contesto? Come si ri-

flette questa tendenza nell’istituzione più “conservatrice”? Si tende a dare per scontato che l’impianto ideologico del museo, quello che si basa su di un doppio sguardo rivolto al passato ma proiettato nel futuro, non possa che essere fisso, immutabile nel tempo. L’esatto contrario di ciò che evoca il concetto di effimero. In realtà, al riscontro dei fatti, anche i musei d’arte contemporanea sono calati in una situazione fluida che si è resa manifesta soprattutto a partire dagli anni Ottanta. A questo riguardo, si è rivelato importante e profetico il testo scritto da Rosalind Krauss nel 1990 intitolato The Cultural Logic of the Last Capitalist Museum, dove veniva spiegato come l’incontro con l’opera d’arte all’interno dei musei tendesse sempre di più a essere subordinata all’esperienza del contenitore architettonico. Per noi, a distanza di un ventennio e segnati dalla comparsa di alcune “icone” tra cui il Guggenheim di Bilbao, si tratta di un fatto ormai acquisito: piuttosto che un’epifania individuale con l’opera, i visitatori vivono innanzitutto l’eccitazione di uno spazio. Durante gli anni Novanta, difatti, il museo d’arte contemporanea ha vissuto una proliferazione mai vista prima di allora, accompagnata da una crescente enfasi nelle dimensioni dei suoi edifici e da una sempre più evidente prossimità al mondo della speculazione finanziaria. Se il museo dell’Ottocento si rivolgeva a un’elite culturale, ora la stessa istituzione è giunta a una fase in cui può essere definita, usando le parole di Claire Bishop nel saggio Radical Museology, un «tempio populista del tempo libero e dell’intrattenimento». Il trait-d’union che la critica americana individua fra molte di queste esperienze risiede in una logica di funzionamento, quella che ha visto l’ingresso sempre più incisivo di interessi privati, siano quelli delle gallerie commerciali che quelli di potenti collezionisti che allo stesso tempo rivestono ruoli amministrativi all’interno degli stessi musei. Se in Italia abbiamo sempre guardato con un sospetto forse eccessivo l’iniziativa dei privati nella cultura – quando in passato degli stimoli in questo senso sarebbero stati probabilmente salutari per l’interesse della collettività – bisogna dire che in Europa da più di un decennio si è assistito a un progressivo squilibrio di interessi prodotto dalla crescente dipendenza dei musei da donazioni e sponsorizzazioni, determinata in buona parte dalla graduale diminuzione dei fondi statali per la cultura. Anche negli Stati Uniti, pur essendo un contesto da sempre basato sull’iniziativa privata, si osservano con preoccupazione diversi episodi in cui l’interesse pubblico non viene sufficientemente distinto da quello privato. Se è noto come il MoMA

Federico Abate Arturo Borsa Michele e Rachele Cantarella Anna Carrabba Giovanna Cassese Carlo Catuogno Felice Cavaliere Andrea De Luca Giulio De Mitri Teo de Palma Simona Ferrai Edmondo Ferro Patrizia Ferro Gennaro ed Anna Gasparini Rossella Giasai Carmen Guadagni Ermanno Guerra Gerardo Marotta Felicita Pisanti Andrea Reale Rolando Rubino Teresa Sorrentino Nino ed Angela Sorvillo Nino Tricarico

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riallestisca regolarmente la sua collezione sulla base delle ultime acquisizioni dei membri del suo consiglio, nel 2010 due fatti significativi si succedono a distanza di pochi mesi: il mercante d’arte Jeffrey Deitch viene nominato, non senza polemiche, direttore del Moca di Los Angeles, mentre poco più tardi il New Museum di New York allestisce una grande mostra della collezione di un suo importantissimo consigliere, il magnate greco Dakis Joannou, con Jeff Koons, artista di punta della collezione, addirittura in veste di curatore. Per certi versi sembra che i musei contemporanei abbiano ceduto una parte consistente della propria missione ad altri soggetti, come può essere l’attività di ricerca su maestri del Novecento che viene presentata da famosi storici dell’arte nella programmazione di potenti gallerie commerciali. Di tutta questa dinamica il trionfo dell’architettura è dunque l’espressione più visibile: l’involucro esterno è più importante di ciò che contiene. Il MAXXI di Zaha Hadid a Roma è solo uno degli ultimi esempi in ordine cronologico, e all’orizzonte iniziano a emergere i mega-progetti di Abu Dhabi, con le succursali del Louvre e del Guggenheim affidate alle maggiori archistar. Si sta costruendo un luogo di indubbio fascino turistico e commerciale dove ciò che questi edifici andranno a contenere diventa un fatto di gran lunga secondario. A questo punto ritorniamo alle “macerie” di Villa Manin: lo spirito che sembra sotteso a tutti questi progetti non è un interesse verso la costruzione o il rinnovamento di una collezione, di una storia, di una mission, quanto l’organizzazione della contemporaneità come immagine, e in particolare un’immagine di novità e di spettacolo, concetti che per definizione sono legati a un rapido consumo. Ciò che servirebbe – e che la Bishop vede delinearsi in alcune esperienze museali degli anni Duemila come il Van Abbemuseum di Eindhoven e il Reìna Sofia di Madrid – sono quindi dei nuovi modelli di visione dell’arte contemporanea, degli approcci anche più radicali e sperimentali che contrastino il mainstream spostando la percezione dell’arte in territori che favoriscano l’elaborazione di un pensiero critico sulla nostra collocazione nella storia. Può suonare idealistico, ma è proprio questa facoltà a essersi oscurata. Si può iniziare offrendo un’alternativa alla magniloquenza e al dominio dei grandi nomi attraverso la rivalutazione di una relazione artistica più individuale e a “scala umana”. Il presente come unico punto di riferimento è un orizzonte troppo angusto per l’arte, ed è contro questa miopia che l’istituzione museale deve opporre una resistenza etica e culturale.

alter Siti nel suo romanzo più recente ammonisce che «Resistere non serve a niente». Ma resistere a cosa? Ai tempi odierni dell’alienazione, del relativismo, del disincanto e/o dell’ effimero? E resistere a tutto ciò non significa, forse, avere nostalgia soltanto di ciò che non è più? Ma ciò che non è più, cos’è stato veramente? “Un’età dell’oro”, dove l’umanità nostra più profonda era ancora in qualche modo preservata dal mondo omologante e virtuale della nuova società dell’immagine? Sono, queste, le preoccupazioni di uno spirito un po’ reazionario e restio alle innovazioni tecnologiche o, semplicemente, espressione di un apocalittico non integrato o, ancora, di un marxista arresosi troppo velocemente alla potenza del capitale e della finanza internazionale? Interrogativi, a mio parere, più che legittimi, invece anche dal fronte più progressista. Detto questo, non si può non considerare ciò che già i greci pensavano intorno alla natura umana e, cioè, che essa non fosse altro che un veloce passaggio dall’ombra alla luce per far ritorno, subito, di nuovo e per sempre nell’ombra. Gli dèi del teatro ateniese chiamavano l’uomo, l’effimero per eccellenza. Effimero, effimeri, questa sembra essere la nostra realtà più autentica. La vera tragedia nostra è che abbiamo dentro di noi coscienza dell’Eterno ma il nostro essere caduchi ci angoscia, ci produce sconcerto e scandalo. Ma effimera per antonomasia è anche la natura del teatro. Del “teatro”, infatti, non resta quasi niente. Quel poco che resta sono, spesso, un testo drammaturgico, delle foto, qualche registrazione sonora o video dello spettacolo, le recensioni, qualche saggio teorico su quella specifica messa in scena, impressioni e, soprattutto, molta aneddotica. Dello spettacolo in sé, nulla; svanito per sempre appena calato il sipario. Noi possiamo solo dolorosamente chinarci su quei labilissimi documenti e cercare di ricomporli, pur sapendo della vanità del nostro operare e ben consapevoli che nulla potrà restituirci l’esperienza dello spettacolo andato definitivamente per-

nel prossimo numero

geaArt è grata…. La pubblicazione del numero 9 è stata resa possibile grazie al contributo degli sponsor e al sostegno di

PASQUALE DE CRISTOFARO

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design for print Siamo certi di aver lasciato alle spalle la società industriale e le sue contraddizioni sociali? GeaArt ha invitato ad una riflessione sul tema artisti, sindacalisti, industriali, economisti, sociologi, storici e politici. Metropolis ci porta a Gracovia. La controcopertina è dell’artista Nino Tricarico geaArt non ha fini di lucro. La collaborazione è da ritenersi completamente a titolo gratuito, sotto qualsiasi aspetto, comprese le attività di Direzione e Redazione. Gli articoli e i lavori pubblicati riflettono esclusivamente il pensiero dei loro autori, che ne sono unici responsabili di fronte alla legge, e che possono di conseguenza non coincidere con la linea direzionale e editoriale del giornale. Attività editoriale di natura non commerciale ai sensi previsti dall’art. 4 del D.P.R. 26-10-1972 n. 633 e successive modifiche.

Direttore responsabile Massimo Bignardi Direttore editoriale Giuseppe Funicelli In redazione: Roberta Bignardi (danza) Gemma Criscuoli e Pasquale De Cristofaro (teatro) Giuseppe De Marco (orientalista) Giuseppe Di Muro (architettura) Elio Di Pace (cinema) Ada Patrizia Fiorillo (arte contemporanea) Luca Mansueto (arte moderna) Ciro Manzolillo (musica) Franco Matteo (attualità) Marcella Ferro, Maria Letizia Paiato Pasquale Ruocco (arte&istituzioni) Angelo Maria Vitale (filosofia/estetica e libri) Progetto grafico e impaginazione Antonio De Marco antonio.demarco1@gmail.com centomanidesign@gmail.com Pubblicità e stampa Stampa Fusco Srl Via G. V. Robertiello, 3/5 84128 Salerno - tel. 089.755035 info@tipografiafusco.it - www.stampafusco.it Tiratura 2.000 copie Registrata presso il Tribunale di Salerno n. 6/2012 del 17.05.2012

In copertina, Chapeau!, (ph@ tauros, 2013)

duto. Ancora qualche eco dentro di noi, poi soltanto un silenzio assordante. Se le cose stanno così, possiamo, dunque, usare il teatro come arma di resistenza? Penso di si, e proverò a spiegarmi. Intanto, il teatro è anche un viaggio; un viaggio favoloso tra le età passate e/o paesi lontani ed esotici. Tra i più grandi teatranti viaggiatori, c’è senza alcun dubbio Eugenio Barba, salentino di nascita come Carmelo Bene, ma da subito cittadino del mondo (i due condizioneranno enormemente il “nuovo teatro” pur se da posizioni molto diverse tra loro). «[…] Eugenio viaggia sempre anche da solo, insofferente della terra ferma e del tempo vuoto: lo spettatore è avido e instancabile, e si deve muovere sempre se vuole catturare più visioni possibili e intanto mutare fino all’impossibile il proprio punto di vista. Barba è uno spettatore attivo che cattura tutto con gli occhi, ma poi tocca con le mani tutti quelli che vogliono essere “attori”; è uno spettatore partecipante che ha l’etnologia nel sangue e la biologia in testa, mentre cerca di vedere dentro i corpi e dietro le anime di quelli che il teatro lo fanno e dunque lo sanno. L’Estremo Oriente è la sua miniera e il Sud dell’Occidente la sua meta, come fossero un passato e un futuro culturale da ricollegare, ma anche una ricchezza e una miseria teatrale da riequilibrare. La poetica non è che una forma politica, l’unica praticabile e infine efficace, se è vero che il teatro è un rifugio ma anche un ponte, un tempo chiuso ma anche uno spazio aperto: da lì gli attori si affacciano verso una società malata e sbagliata di cui condividono certo la sorte e la morte, ma non la mancanza di senso. Non del tutto almeno, se è vero che, mentre fingono di “farsi vedere”, in realtà guardano e riflettono il mondo, per così dire “da fuori”. Adesso che la religione è morta e la coscienza è moribonda, gli attori sono forse gli ultimi spettatori e gli unici critici» così Piegiorgio Giacché descrive magistralmente l’operatività di Barba, uno tra gli ultimi “cavalieri dell’impossibile”, colui che ha sdoganato negli anni sessanta del secolo scorso Grotowski, imponendolo di fatto al mondo intero. Nella seconda metà del XX secolo, Peter Brook e Jerzy Grotowski, sulla sia di Artaud, riscoprono una necessità del fare teatro, come rifiuto della finzione dei comportamenti, come “una danza alla rovescia”, come un bisogno di rifare “la vita”, ed entrambi diventano da subito stelle polari per teatranti in cerca del “nuovo”. «[…] Che cosa mi ha prima attratto e poi fortemente avvinto al teatro? Non è stata per me una passione precoce, come quella che ha illuminato gli anni dell’adolescenza di molti attori, registi e spettatori che ho conosciuto. Non mi deprimono né mi indignano le ricorrenti decadenze di questa cosiddetta arte. Nei confronti dei teatri potenti nel successo o artisticamente valenti, non nutro le naturali gelosie che punteggiano le vere storie d’amore. Per il teatro nutro un interesse intellettuale senza le complicazioni dell’amore. Quel che amo con passione e tenerezza è un isolotto defilato e nascosto quanto basta per conservarmi libero. È una piccola società con pochi individui, che non è ansiosa di espandersi, che si governa a suo modo e che può persino tentare di mettere in pratica alcuni sogni considerati impraticabili. Oltre al mio, amo qualche altro isolotto, alcuni ubertosi, altri polverosi, con i quali sento d’avere in comune qualcosa che potrei chiamare l’essenziale. O più semplicemente un passato simile: un cammino dettato da una fame misteriosa. Quando da adulto entrai nel teatro per affrontare i problemi relativi alla mia condizione d’emigrante, scelsi la strada di un apprendistato scolastico. Volevo un diploma che mi fornisse l’alibi di un’identità professionale e di uno status. Quasi subito le

Fiabe: tra introspezione e forma

La Compagnia dell’Arte le propone nel suo carnet di

TIZIANA DI MURO

a stagione 2014/2015 della Compagnia dell’Arte di Salerno avrà inizio il 19 ottobre presso il Teatro delle Arti. La rassegna teatrale da due anni allieta le domeniche pomeriggio di grandi e piccini, con la direzione artistica di Antonello Ronga, le coreografie del Professional Ballett di Pina Testa e le scenografie della Bottega San Lazzaro. Sette spettacoli domenicali ed un solo comune denominatore: la fiaba. Dalla Bella addormentata al Mago di Oz, dagli Aristogatti al meraviglio mondo di Alice, dall’orientale Aladdin a Mary Poppins in una rivisitazione moderna per incantare grandi e piccini. Ma cos’è la fiaba? «L’insieme di magico e meraviglioso che pervadono la vita di ogni giorno, mostrandoci che tutti possono vivere felici e contenti, che anche il povero può fare fortuna e che ognuno ha di fronte a sé delle prove da superare per ottenere una vita migliore. In questo senso le fiabe trattano problemi reali e in esse è presente un significato profondo che bisogna saper cogliere per capire la natura umana e comprender meglio le proprie storie individuali. Sebbene oggi viviamo in un ambiente profondamente diverso, il linguaggio delle fiabe è tuttora vivo e ricco di significato: è vero che quei racconti si riferiscono sempre a tempi lontani (C’era una volta…), ma il messaggio che contengono - di felicità e successo raggiunti per meriti propri e per l’aiuto altrui - è universale» (da lefavole.org). La fonte del carnet del regista Antonello Ronga è Walt Disney, che conservando le trame delle fiabe, le rivisita in spettacoli teatrali musicali. Ma la fiaba a teatro cos’è? E’ illusione, «e solo nell’illusione teatrale

circostanze mi sviarono verso un angolino di minoranza. Così, finii fra i dissidenti. Vi conobbi una patria», così, invece Barba stesso definisce la sua scelta. Una scelta di minoranza, di “fame”, di necessità, che non ha paura dell’emarginazione e che ama fare scandalo. La stessa “fame” che da sempre gli attori quelli veri hanno patito. Fame vera o metaforica che necessita agli artisti per evadere dalla gabbia d’oro del conformismo. Una fame che t’avvia su percorsi impervi, dove il gioco cambia continuamente e dove non è importante raggiungere una meta ma essere in continuo movimento. «[…] Se i miei compagni e io abbiamo ora assai meno paura, la minaccia non è minore. Col tempo abbiamo scoperto che il solo modo per orientarci è continuare a remare», con quest’immagine bella e pregnante di Barba che sembra affiancare il teatro al mito di Sisifo, mi piace concludere questo piccolo viaggio senza voler consapevolmente approdare da nessuna parte. Infatti, mi piace pensare che in teatro come nel mare, per restare liberi, le rotte possono e debbono essere solo immaginarie.

possono vivere, allegorizzate, le ‘forti passioni’, solo nella parvenza di un incantamento costruito artificialmente, teatralmente, è possibile prendere le distanze dalle ‘situazioni’ quotidiane’». Sulla scena, un mutamento continuo del «ritmo cadenzato della fiaba, alternando compressione ed esplosione, ironia comica e tensione drammatica, mondo delle maschere e personaggi aristocratici». Nelle fiabe disneyane della Compagnia dell’Arte, la “resistenza” del trionfo di mutamenti scenici a vista, di lazzi comici, di accadimenti magici e di insegnamenti sottili, da estrapolare e che “restano” impressi nella crescita del bambino e nella maturità dell’adulto. L’effimero fiabesco, l’incantesimo, la metamorfosi, la composizione e la scomposizione magica, il “mirabile”: questi possono essere gli obbiettivi del gioco scenico ed espressivo, che induce alla resistenza fiabesca. In ogni fiaba, una location utopica dove avviene il lieto fine. Perché per qualcuno, «la supremazia dei sentimenti non può realizzarsi nella comune realtà della storia e della quotidianità. È compito e privilegio dello spettacolo teatrale - con la sua effimera durata e la manifesta finzione scenica - esibire i valori alternativi a quelli rappresentati nel “mondo” (G.Emiliani)». La fiaba è effimera realtà, in cui cogliere insegnamenti per la resistenza alla vita. Infatti ammonisce, trasmette istruzioni sui comportamenti da assumere e veicola un insegnamento morale che riesce perfettamente ad adeguarsi alle esigenze storiche e sociali che caratterizzano il contesto nel quale nasce e si diffonde.

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proscenio

danza

Bisogna sempre giocare onestamente quando si hanno le carte vincenti (O. Wilde)

La danza, un minimo di spiegazione, un minimo di aneddoti, e un massimo di sensazioni (M. Béjart)

In Vite in pericolo di Pippo Montedoro un omaggio alla storica compagnia

Stagioni ‘contemporaneamente’ in fermento

Il teatro di Curò

C’

Pasolini la nudità teatrale nel Vangelo Il Vangelo secondo Matteo mostra il suo debito verso una castità scenica di

GEMMA CRISCUOLI

È

un concetto che si presta a deformazioni e ambiguità. La nudità nel campo artistico - intesa come manifestazione di un’essenza che sembri bastare a se stessa, felicemente autarchica - può con facilità confluire in un autocompiacimento estetizzante o divenire la maschera rovesciata dell’eccesso. Può in qualche modo divenire, dunque, occasione di ostentazione proprio laddove sembrerebbe rinnegarla. Il palcoscenico permette, più di altri mezzi espressivi, la manifestazione di una simile ottica, scomoda e destabilizzante, e Il vangelo secondo Matteo, diretto e sceneggiato da Pier Paolo Pasolini nel 1964, si avvale di questa scelta senza alcuna remora. Fu l’abbagliante essenzialità della pellicola a suscitare avversione e fascino. Molti non erano preparati a trovarsi di fronte a un’opera che si estrinseca senza sovrastrutture, che s’impone senza mediazioni, e al tempo stesso si nutre di suggestioni profonde, che rendono immediatamente vicino ciò

che è lontano. La narrazione di San Matteo è restituita senza filtri nella sua energia, con una limpidezza d’approccio che ha dello stupefacente, e del resto il regista, che volle Alfonso Gatto nei panni di uno degli apostoli, ne ha sottolineato a più riprese la capacità di seduzione, la forza poetica, la sintesi in grado di tratteggiare eventi che il lettore non dimentica. La fedele trasposizione del Vangelo si eleva molto al di sopra di tutto quello che era stato girato fino ad allora, perché la prospettiva in cui si inquadra la narrazione induce a scoprire quel che di sacro esiste nella vita stessa e non solo nel Figlio dell’Uomo. L’extraterritorialità in cui si muovono le figure, in un contesto riconoscibile e contemporaneamente universale, dove la ruralità e l’antico si lasciano contaminare dal tempo dello spettatore, i volti che scandiscono il fluire delle immagini nei loro tratti primordiali e umanissimi, la luce che sembra non potere fare a meno della cupezza della terra anche quando si libera in tutto il suo splendore, la macchina da presa che mostra le incertezze del testimone che sta scoprendo passo passo la verità, come nel caso in cui il Redentore viene portato al cospetto di Ponzio Pilato, rivelano che l’umano va cercato, esplorato, compreso, considerato prezioso, anche e soprattutto quando gli ultimi sembrano crocifissi alla loro condizione. Se l’ipnotica inesorabilità del Cristo nel seguire il suo destino lo rende per un attimo dolce dinanzi al coro festante dei bambini al suo ingresso in Gerusalemme, il mondo che lo circonda non è meno vitale del suo insegnamento, per quanto prigoniero della propria fragilità. Pasolini non poteva non essere affascinato da Gesù, dalla portata rivoluzionaria delle sue parole e del suo operato, dalla necessità costante di mettere i contemporanei in guardia dalla loro cecità. La stessa scelta di far impersonare la Vergine anziana a sua madre (con buona pace di tutta un’iconografia trionfante che ci mostra una Madre sempre e comunque nel fiore degli anni) è una spia del legame complesso intessuto con questa figura, dato che il cammino dell’intellettuale non è molto diverso da quello del Messia. Che oggi l’Osservatore Romano definisca il suo il miglior film su Gesù mai girato conta poco. Fu subito chiaro già nel 1964 che le cose stavano esattamente così e per questo la parte più retriva della destra, della Chiesa, della sinistra si scagliò contro di lui. Che l’impegno sociale e l’amore per la vita si fondessero con la lucidità di chi non si lascia incasellare in alcuna categoria risultava insopportabile ai sepolcri imbiancati di allora, i difensori della morale, della religione e della politica sepolti nei propri dogmi. Non si perdona a un uomo non allineato di aver donato al pubblico qualcosa di raro.

è stato un momento in cui assistere a uno spettacolo riservava sorprese straordinarie. La convulsa stagione degli anni Settanta non ha risparmiato la Sicilia, come mostra una raccolta di racconti decisamente fuori dalla norma, Vite in pericolo di Pippo Montedoro edito da Qanat. L’urgenza di riscrivere ciò che si vorrebbe fissato definitivamente attraversa l’opera, sospesa tra ironia e paradosso, ma è il capitolo Colonia penale e altre fragranze a restituire in tutta la sua vivacità uno spaccato di vita degno di memoria. Qui si rievocano i fasti della compagnia Curò, tra i cui fondatori c’è il Nostro insieme al noto musicista e attore Piero Costa, attiva a Palermo e non solo quarant’anni fa, nel bianco e nero ammaliante delle foto di Letizia Battaglia. Allora era vitale che l’azione scenica divenisse un mezzo per fare a pezzi qualunque gerarchia mentale e fisica, che il nonsenso si tramutasse in possibilità di senso da condividere e magari calpestare con gli spettatori. Quella di Curò era una lotta senza respiro contro l’acquiescenza al sistema, un macigno nello stagno, un inno all’inventiva, un oltraggio a quelle prigioni che sono le categorie, una riflessione a briglia sciolta sull’ambiguità volutamente irrisolta di ruolo, luogo, parola. Bruno De Marco

Invito a teatro/1

Invito a teatro/2

Invito a teatro/3

Al Carcano di Milano va in scena Il Cappotto di Gogol

Servo per due a novembre al Teatro Morlacchi di Perugia

R III – Riccardoterzo al Teatro delle Muse di Ancona a fine gennaio

uò essere molto difficile la vita di un anonimo copista. Sono P molti gli obblighi a cui lo costringe la vita sociale, come per esempio l’acquisto di un capo d’abbigliamento degno del ri-

paziare da Fellini a D’Alessio strizzando l’occhio al trio Lescano S e a una Wanda Osiris en travesti? Tutto è possibile quando a farla da padrone è uno spudorato senso del gioco. In Servo per

on esiste una febbre più pericolosa di quella del potere. E N non è affatto vero, secondo il vecchio adagio, che logori chi non ce l’ha: colui che pretende di imporre il proprio ego su tutti

Marco De Rosa

g. c.

redazione proscenio

spetto dei notabili. Cosa accade però se gli viene rubato ciò che non gli è certo costato poco? Come recuperare poi l’effimero vantaggio che sembrava aver conquistato? Il Teatro Carcano di Milano ospita dal 10 al 21 dicembre Il Cappotto, liberamente ispirato all’omonimo racconto di Nikolaj V.Gogol’, per la regia di Alessandro D’Alatri. Vittorio Franceschi, con la sua classe, è il protagonista, Akàkij Akàkievic Bašmackin, e al suo fianco compaiono inoltre Umberto Bortolani, Marina Pitta, Federica Fabiani, Andrea Lupo, Giuliano Brunazzi, Matteo Alì, Alessio Genchi e Valentina Grasso. Le scene sono di Matteo Soltanto, i costumi di Elena Pozzo, Paolo Mazzi firma le luci e Germano Mazzocchetti le musiche. La Russia zarista in cui si dipana la vicenda risulta straordinariamente familiare: una società dove l’apparenza è tutto, dove le convenzioni contano molto di più di un’onorata coscienza e la giustizia non è che una chimera ingannevole non può che ricordare i nostri tempi. I dialoghi hanno ampio spazio rispetto alla versione originale, che privilegia nettamente sequenze narrative e descrittive, e ciò che accade al copista, vittima di un destino a dir poco beffardo, induce a comprendere la sostanziale crudeltà di coloro che pretendono di dettar legge nel campo della morale, ma non sono disposti ad accordare benevolenza a chi si ritrova in circostanze avverse.

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due, in scena al Teatro Morlacchi di Perugia dal 12 al 16 novembre, Pierfrancesco Favino, protagonista e regista con Paolo Sassanelli, rende omaggio alla Commedia dell’Arte, esaltando tutte le potenzialità espressive del corpo dell’attore, che si fa saltimbanco, mimo, tenero innamorato, burattino pasticcione, inno vivente alla voracità. Nell’adattamento di One man, two guvnors di Richard Bean (ispirato all’Arlecchino goldoniano) che lo ha impegnato con Marit Nissen e Simonetta Solder, oltre allo stesso Sassanelli, l’interprete è Pippo (nomen omen, data la sua capacità di agire in modo illogico) che nella Rimini del 1936 deve destraggiarsi tra due padroni che si scopriranno essere due fidanzati sotto mentite spoglie. La trama è solo un pretesto che asseconda la dimensione totalizzante dello spettacolo, l’allegra celebrazione della finzione che, anche e soprattutto nel coinvolgimento degli spettatori, esalta il carattere fittizio di tutto quel che si muove in scena. Ecco allora che la nave di “Amarcord” o l’intonare una canzone di D’Alessio con tanto di illuminazione da discoteca rientrano in una dimensione circense paga di se stessa. Il repertorio di inseguimenti, travestimenti, doppi sensi, porte sbattute in faccia con la precisione di una partitura non conosce cedimento grazie al cast del Gruppo Danny Rose che ispira la sua recitazione al jazz.

Dall’ultimo lavoro di Virgilio Sieni ai cartelloni di Ferrara e Vicenza Danza

di

ROBERTA BIGNARDI

I

l Romaeuropa Festival in collaborazione con il Teatro di Roma ha presentato lo scorso 4 e 5 ottobre, in prima assoluta, l’ultimo lavoro del coreografo Virgilio Sieni, una delle voci più autorevoli della danza contemporanea italiana, dal titolo Dolce Vita. Archeologia della Passione. Nella sua ultima creazione, il maestro si confronta con le sacre scritture e in particolare con quella serie di episodi che formano la passione di Cristo. Sulla scena, questi episodi prendono vita in cinque quadri coreografici «ciascuno dei quali si inoltra nel racconto evangelico della passione di Gesù e allo stesso tempo ricerca il senso della comunità attraverso un arcipelago di avvicinamenti, tangenze, riconoscimenti, solidarietà, complicità, sguardi», spiega lo stesso Sieni. Annuncio, Crocifissione, Deposizione, Pietà, Resurrezione sono i titoli dei cinque quadri formano il polittico, dove l’esplorazione del gesto, della genealogia del movimento come archeologia spirituale, sono la cifra del lavoro di un coreografo che, agli stimoli e al rigore intellettuale, sa unire visioni poetiche e liriche di grande fascino. Ricca di debutti e presenze internazionali, la prossima stagione di danza del Teatro Comunale di Ferrara “Claudio Abbado” si presenta come uno degli appuntamenti più stimolanti della programmazione italiana 2014/2015. Si comincia con Wim Vandekeybus con la sua compagnia Ultima Vez, che propone in prima nazionale la nuova produzione Talk to the Demon. Questo spettacolo avvia anche la sezione Danza Contemporanea 2014, quest’anno caratterizzata da tre spettacoli dedicati ad artisti e compagnie giapponesi di spicco internazionale: Saburo Teshigawara, Sayoko Onishi e Ushio Amagatsu, tutti impegnati con spettacoli al debutto o in esclusiva. Una segnalazione particolare, oltre al riallestimento di Terramara di Michele Abbondanza, merita poi la presenza in questa sezione di due coreografe e danzatrici di Ferrara che sono ormai considerate tra i nomi più interessanti della nuova danza: Francesca Pennini / CollettivO CineticO, alla guida di un gruppo di adolescenti nella performance <Age>, e Alessandra Fabbri, protagonista di un intenso “assolo” firmato con Davide Iodice. Nel corso della stagione il repertorio classico sarà proposto in preziose rivisitazioni firmate da Fabrizio Monteverde (Il lago dei cigni per il Balletto di Roma), Eugenio Scigliano (Giselle per JBT- Junior Balletto di Toscana); infine Luciano Padovani per Naturalis Laborri leggerà Romeo

e Giulietta secondo gli stilemi del tango. Il programma sarà poi completato da due compagnie presenti per la prima volta a Ferrara: Les Ballets Jazz de Montréal dal Canada e, dalla Francia, la compagnia di danza acrobatica Cie 111. La sezione Danza del cartellone del Teatro Comunale - VicenzaDanza XIX edizione - si caratterizza per la proposta eclettica, di sicuro valore artistico e forte connotazione, in grado di portare sulla scena titoli importanti e un forte carisma nell’interpretazione del contemporaneo. La Stagione di Danza inizia in dicembre con il nuovo lavoro di Mauro Bigonzetti, coreografo italiano tra i più acclamati all’estero Alice ispirato ad “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll, una messa in scena ricca di situazioni oniriche, ispi-

rate all’immaginazione ed alla libertà senza limiti, rappresentate con classe dalla Gauthier Dance – Dance Company Theaterhaus Stuttgart, compagnia tedesca fortemente contemporanea, fiore all’occhiello della produzione coreutica d’oltralpe, diretta dal coreografo canadese Eric Gauthier. In gennaio il Balletto di Roma presenterà al pubblico Il lago dei cigni, ovvero il canto”, coreografia e regia di Fabrizio Monteverde, titolo per eccellenza nel repertorio del grande balletto classico, in cui si fondono con inimitabile fluidità il sofisticato arco drammaturgico della struggente vicenda e la musica di Cajkovskij. A marzo, ancora un celebre titolo, Cenerentola presentata dal Malandain Ballet Biarritz, raffinatissimo ensemble francese, diretto dal coreografo Thierry Malandain, ricono-

sciuto per le sue eleganti rivisitazioni del repertorio classico. Sarà una novità molto gradita al pubblico, il quarto appuntamento in calendario ad aprile: la Hofesh Shechter Company, compagnia residente nei migliori teatri inglesi (Brighton e Londra, tra gli altri), diretta dal coreografo anglo-israeliano da cui prende il nome, con il nuovo spettacolo Sun. Il quinto spettacolo è in programma ad inizio maggio, si tratta di uno strepitoso Ciak si gira presentato dai Pokemon Crew, scatenatissima band di danzatori hip-hop e di break-dance, con la direzione artistica di Riyad Fghani, gruppo residente all’Opéra di Lione dal 2003. Nella nuova produzione la band propone un omaggio ai film musicali “danzanti” hollywoodiani, e alla città che li ospita, Lione, in cui proprio nel 1895 è nato il cinema con Sortie d'Usine dei Fratelli Lumière. Un trionfo di energia, forza e innovazione in tutte le sfumature di questo stile particolarissimo, oramai apprezzato in tutti i paesi e in contesti anche inusuali come i palcoscenici di danza più tradizionali. La fine della Stagione, in maggio, è affidata al fascino senza tempo della danza classica, con il Gala con i Solisti dell’Opera di Vienna, direzione artistica di Manuel Legris, Sul palcoscenico di Vicenza Danza XIX edizione proseguirà anche nella nuova Stagione, il Progetto Supporter, una breve esibizione di giovani e giovanissime promesse della danza nazionale, segnalate da critici ed esperti del settore, prima degli spettacoli ufficiali. Sarà ampliata, come già detto, la rassegna sperimentale Luoghi del Contemporaneo-Danza dedicata alla coreografia e alla danza di ricerca dei nuovi autori, rassegna che proporrà quattro importanti performances. In programma a gennaio Kaze Monoke. Il vento e i petali di ciliegio presentata dalla Dacru Dance Company, coreografie di Marisa Ragazzo e Omid Ighanì, spettacolo che porta in scena la raffinata contemplazione di un fenomeno naturale della primavera giapponese. In febbraio sarà la volta di Pupilla della Dancehaus Company nuovo tassello del Progetto Ric.Ci. - Reconstruction Italian Contemporary Choreography, Anni ’80 ‘90 - ideazione e direzione artistica di Marinella Guatterini, performance sulle coreografie originali di Valeria Magli, un’evocazione poetica del rapporto tra bambola, infanzia, erotismo. Nella foto in alto: Cenerentola, Ballet Biarritz; al centro: Dolce vita, di Virgilio Sieni

senza preoccuparsi delle conseguenze si sta condannando all’autodistruzione, perché non potrà risparmiare neppure se stesso. Alessandro Gassmann offre una grande prova interpretativa in R III –Riccardoterzo, che arà allestito al Teatro delle Muse di Ancona dal 29 gennaio al 1 febbraio. La rilettura qui proposta propende per un’immediatezza che toglie il respiro e si nutre di atmosfere cupe, soffocanti, in cui la luce sembra soltanto preludere al buio. La messinscena si avvale della traduzione e dell’adattamento di Vitaliano Trevisan e la scena è sospesa tra un contesto medievale e quello che ricorda la seconda guerra mondiale, come a voler immediatamente evidenziare la vicinanza di un mondo in cui è fin troppo facile riconoscersi. Il protagonista non si ferma davanti a nulla nel seminare la sua strada di cadaveri pur di cingere la corona d’Inghilterra, ricorrendo all’intrigo, alla seduzione, alla manipolazione, alla violenza, ma tutto ha un prezzo e sarà costretto a pagarne uno molto alto. Il ricorso a musiche moderne e a un trucco che esalta la tendenza al doppio gioco, come veli, cappucci e cerone, concorrono a creare una sorta di grottesco campo di forze in cui Riccardo è si il mostro da combattere che pervade tutto con il suo veleno, ma chi l’attornia è costretto, suo malgrado, a leggere nella propria coscienza ciò che non vorrebbe mai vedere.

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arte&istituzioni

arte moderna Metti in pratica quello che sai, e ciò ti aiuterà a rendere chiaro ciò che ora non conosci (Rembrandt)

La povertà di beni può essere curata facilmente; quella di spirito, è incurabile. (M. de Montaigne)

Viaggio attraverso le visioni elegiache di un artista raffinato

Hans Memling e la cultura fiamminga in abito da sera

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La rivelazione di un uomo L’ultimo Rembrandt alla National Gallery di Londra

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CRISTINA CECI

uesta mostra storica, realizzata grazie a prestiti senza precedenti da tutto il mondo, è un’occasione unica per vivere la passione, l’emozione e l’innovazione di Rembrandt, il più grande maestro del Secolo d’Oro olandese. Protagonista, in questo caso, è l’arte degli ultimi anni della sua vita, sentimentale, onesta e profondamente commovente che definisce in modo indelebile la nostra immagine di Rembrandt come uomo e come artista. Proprio a quest’ultimi, prolifici anni di attività, la National Gallery di Londra dedica, fino al 18 gennaio 2015, la mostra Rembrandt: the late works: un approfondito studio attraverso un consistente corpus di opere che permette di comporre un suo ritratto suggestivo e sfaccettato. Betsy Wieseman, curatore della mostra dice: «Anche tre secoli e mezzo dopo la sua morte, Rembrandt continua a stupire. Le sue invenzioni tecniche, e la sua profonda comprensione delle emozioni umane, sono oggi freschi e pertinenti come erano nel XVII secolo». Dal 1650 fino alla sua morte, Rembrandt (1606-1669) ha cercato coscientemente un nuovo stile che fosse ancora più espressivo e profondo. Egli ha liberamente manipolato tecniche di stampa e di pittura per dare alla materia tradizionale nuove e originali interpretazioni. La mostra cerca di illuminare la sua padronanza versatile, dividendo dipinti, disegni e stampe al fine di esaminare le idee che lo preoccuparono nel corso di questi ultimi anni: i suoi dipinti divennero di maggiori dimensioni, il colore si fece più ricco ed intenso ed i colpi di pen-

nello più evidenti e pronunciati. Con questi cambiamenti Rembrandt prese le distanze dai suoi primi lavori e dalla moda del tempo che al contrario tendeva verso opere formalmente più curate e ricche di dettagli. La sua attenzione si spostò sulla ricerca di nuovi aspetti poco approfonditi in precedenza come l’auto-controllo, l’uso della luce, l’osservazione della vita quotidiana, così come le espressioni di intimità, la contemplazione, il conflitto e la riconciliazione. Questi sono infatti, gli anni in cui passò dalle scene di gruppo ad alta intensità drammatica a singole figure più delicate e gli anni in cui dipinse i suoi autoritratti più riflessivi e introspettivi. L’allestimento è composto da circa 40 dipinti, 20 disegni e 30 stampe; prestatori privati e istituzionali si sono dimostrati eccezionalmente generosi con prestiti provenienti da collezioni di tutto il mondo. Tra le opere di rilievo: La sposa ebrea (Rijksmuseum, Amsterdam, 1666), Un uomo in armatura (Musei di Glasgow: Art Gallery, Kelvingrove, 1655), Juno (Hammer Museum, Los Angeles, 1662-65), Il suicidio di Lucrezia (Il Minneapolis Institute of Arts, Minnesota, 1664), Betsabea con la lettera di David (Muséedu Louvre, Parigi, 1654), Tito al suo scrittorio (Museo Boijmans van Beuningen, Rotterdam, 1655), un Ritratto di signora con un cagnolino (Art Gallery of Ontario, Toronto, 1665), Lucrezia (National Gallery of Art, Washington DC, 1664). La mostra offre ai visitatori la possibilità di conoscere in maniera nuova alcune delle opere più iconiche di Rembrandt come i Sei sindaci dei drappieri di Amsterdam (1662), conosciuta come I sindaci dei drappieri, rivelando la genialità dell’artista nel combinare luce e ombra, colore e consistenza per donare un impatto visivo radicale a un dipinto tradizionale. Tra le novità principali della mostra vi sono i vari autoritratti esposti uno a fianco all’altro, tra questi Autoritratto come l’apostolo Paolo (Rijksmuseum, Amsterdam, 1661), Autoritratto con due cerchi (English Heritage, The Iveagh Bequest,1665-69), Autoritratto (Royal Picture Gallery Mauritshuis, L’Aia), e Autoritratto all’età di 63 anni (National Gallery, 1669). Gli ultimi due, dipinti negli anni finali della sua vita, dimostrano l’eccezionale onestà dell’artista nel ritrarre i suoi stessi lineamenti mentre invecchiava. La mostra è stata organizzata in collaborazione con il Rijksmuseum di Amsterdam dove sarà allestita dal 12 febbraio al 17 maggio 2015.

all’11 Ottobre 2014 al 18 Gennaio 2015 le Scuderie del Quirinale di Roma ospiteranno la prima retrospettiva italiana dell’artista Hans Memling. La mostra, curata dallo storico dell’arte Till-Holger Borchertma e posta sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, è suddivisa in sette sezioni e presenterà una cinquantina di dipinti. Fra le opere, capolavori di arte sacra come dittici e trittici ricomposti per la prima volta: il celebre Trittico Pagagnotti (Firenze, Uffizi; Londra, National Gallery), il Trittico di Jan Crabbe (Vicenza, Museo civico; New York, Morgan Library; Bruges, Groeningemuseum) e il Trittico della famiglia Moreel (Bruges, Groeningemuseum), tutte esperienze prossime alla pittura di Rogier van der Weyden, di cui Memling è allievo a Bruxelles e da cui si distacca abbastanza precocemente. Il mondo delle creature di Memling è meno sofferente e opaco, egli smussa le angolosità del maestro e non partecipa alle inquietudini religiose del suo tempo. Una parte importante della mostra è riservata ai ritratti, il luogo della sentimentalità dell’artista che non eccede mai in sdolcinatura. Si potranno ammirare il Ritratto di giovane dalle Gallerie dell'Accademia di Venezia, il Ritratto di uomo dalla Royal Collection di Londra, prestito straordinario della Regina Elisabetta II, il Ritratto di uomo della Frick Collection di New York (1470ca). Qui sostituisce il tradizionale fondo scuro con una luminosa veduta di paesaggio, malgrado la minuzia dell’analisi urbanista e paesaggistica, è evidente la tendenza a idealizzare e nobilitare il modello. Nessun accenno però ai moti interiori, la passionalità di van der Weyden viene, soprattutto nei ritratti, completamente stemperata in una rappresentazione calibrata, placida, elegante, certamente influenzata da Jan van Eyck come nel magnifico Ritratto di uomo con moneta romana di Anversa, ritenuto l'effigie dell'umanista Bernardo Bembo (1475ca.). La mostra darà pertanto l’opportunità di percorrere più da vicino la storia e le influenze di una stagione della cultura fiamminga, attraverso l’attività opulente e raffinata di uno degli artisti più amati dalla comunità di mercanti e agenti commerciali italiani a Bruges, che non a caso viene ricordato come il Beato Angelico del Nord.

Ylenia Serena Sottile

Nella foto: Hans Memling, Trittico di Jan Crabbe, 1485 ca., Vicenza, Museo civico; New York, Morgan Library; Bruges, Groeningemuseum

Nella foto: Rembrandt, I sindaci dei drappieri, 1662, Amsterdam, Rijksmuseum

Il trash culturale, nuovo idolo

Arezzo e l’oro nei secoli

Le Dame dei Pollaiolo al Museo Poldi Pezzoli di Milano

Il mercato delle mostre blockbuster da dicembre a Vicenza

La città dell'oro omaggia la famiglia di orafi Castellani

partire dal 7 novembre 2014, quattro dame, appartenenti alA l'aristocrazia fiorentina della seconda metà del Quattrocento, si danno appuntamento al Museo Poldi Pezzoli di Milano. Sono,

arco Goldin (Treviso, 1961) è il fondatore e direttore di “Linea d’ombra”, società che «fornisce la gestione completa di un M evento espositivo dal momento di progettazione alla conclusione.

o sguardo della Civetta, da secoli ormai, con i suoi occhi enormi e tondi colpisce in modo inquietante, segreto, affascinante; L l’unica via d’uscita, istintiva quasi, è di distogliere lo sguardo. La

Rinascimento fiorentino

in realtà, quattro ritratti eseguiti tra il 1465 e il 1485 dalle abili mani dei fratelli Antonio e Piero Pollaiolo. L'incontro è stato reso possibile soprattutto grazie ai generosi prestiti di tre grandi musei: il Metropolitan Museum of Art di New York, la Gemäldegalerie di Berlino e la Galleria degli Uffizi di Firenze; da questi provengono tre delle quattro opere che giungono nella città meneghina per incontrare il Ritratto di Dama di mano di Piero, punta di diamante delle collezioni Poldi Pezzoli. Si anima così la mostra Le dame dei Pollaiolo. Una bottega fiorentina del Rinascimento, evento che permette di porre a confronto, per la prima volta e fino al 16 febbraio 2015, questi capolavori dell'arte italiana. I curatori, Aldo Galli e Andrea Di Lorenzo, ponendo l'attenzione sul problema della personalità di Piero, il fratello più giovane che la critica passata aveva trascurato in favore della fama di Antonio, mettono in dialogo opere di pittura, scultura, ricamo e oreficeria provenienti dalla vivace bottega dei fratelli fiorentini. Si tratta di un evento unico che, per quattro anni, ha impegnato in delicate trattative le amministrazioni del Poldi Pezzoli e delle grandi istituzioni museali internazionali, fornendo ai curatori l'occasione di approfondire studi e ricerche che hanno condotto a nuove ipotesi attributive.

Alessandro Darra

Nella foto: Piero Pollaiolo, Ritratto di Dama, 1470ca., (part.), Milano, Museo Poldi Pezzoli

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Unendo dunque, unica in Italia, la cura scientifica e l’organizzazione». Ormai da anni ha ottenuto il monopolio delle mostre blockbuster nell’intera penisola, come “Gli Impressionisti e la neve” (Torino, 27 novembre 2004 - 25 aprile 2005) o “Raffaello verso Picasso” (Vicenza, 6 ottobre 2012-20 gennaio 2013). Come non citare quella realizzata a Bologna “La ragazza con l'orecchino di perla” (8 febbraio-25 maggio 2014) esposta come una reliquia in una teca che ingombrava la sala con gli affreschi dei Carracci di Palazzo Fava oscurati ‘saggiamente’. Il nuovo parto culturale di Goldin è la mostra “Tutankhamon Caravaggio Van Goh” allestita nella Basilica Palladiana di Vicenza dal dicembre 2014 al giugno 2015. Un Caravaggio è sempre comodo per attirare le masse in un’epoca in cui «le parole da imbonitori di fiera non servono a comunicare idee o a descrivere fatti - scrive Tomaso Montanari - ma a muovere la pancia degli ascoltatori, trasformandoli in clienti, avventori». A Goldin non interessa che il pubblico si ponga delle domande sulle opere che ammira o provi a carpirne il contenuto o il perché un artista abbia operato certe scelte stilistiche. Oltre a “Botticelli e Matisse”, da “Vermeer a Kandinsky” e “Rembrant a Gauguin”, per il prossimo evento proporrei “Homo Sapiens e Caravaggio”, per non smentire che «La mamma di Caravaggio è sempre incinta».

Luca Mansueto

Nella foto: La locandina della mostra di Vicenza

spilla a testa di civetta è l’immagine simbolo della mostra “L’oro nei secoli dalla Collezione Castellani”, custodita presso la Basilica di San Francesco ad Arezzo fino al mese di novembre, curata da Alfonsina Russo e da Ida Caruso. Sottrarsi agli occhi verdi non è cosa facile e l’osservatore rimane incantato dal taglio a cabochon degli smeraldi incastonati su una base d’oro. La testa a civetta è uno dei tanti gioielli selezionati all’interno della mostra, costituita in massima parte da monili provenienti dal Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia dove, a partire dal 1919, si trova l’intera collezione della famiglia Castellani, casata di eccellenti orafi, raffinati collezionisti e cultori del mondo classico. Inoltre il visitatore, attraverso documenti di archivio e un modernissimo allestimento multimediale, che fa prendere vita ad alcuni celebri dipinti, potrà conoscere la storia dell’oreficeria italiana del XIX secolo. Una bottega orafa, di fronte all’ingresso della mostra e aperta tutti i giorni, grazie a veri artigiani esibisce l’antico e misterioso mestiere muovendosi fra bulini, ceselli e una macchina schiaccia filo. Un luogo remoto, ricreato grazie alla collaborazione di Giovanni Raspini, con un allestimento fatto di antichi coralli, modelli in cera, stampe del ‘700 in cui il mobilio, originale dell’epoca, sembra riprendere vita.

Valentina Lattari

Nella foto: Spilla in oro e smeraldi cabochon a forma di testa di civetta, Manifattura Castellani

I Bronzi di Riace non devono andare a Milano Non sarebbe meglio incentivare la conoscenza delle sculture a Reggio Calabria? di

ALESSANDRO CUCÉ

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a non particolarmente calda (meteorologicamente parlando) estate 2014 è stata riscaldata, dal punto di vista culturale, da un’accesa polemica, scoppiata a fine luglio e proseguita nelle settimane successive, incentrata sui Bronzi di Riace. Ad accenderla, con consueta vis polemica, il neo nominato Ambasciatore alle Belle Arti dell’Expo di Milano 2015, Vittorio Sgarbi il quale ha lanciato la proposta di portare i Bronzi in Lombardia per i sei mesi dell’Esposizione Universale. Un progetto alla quale ha risposto con un secco no la Sovrintendente dei beni archeologici della Calabria, l’archeologa Simonetta Bonomi. Accanto alla funzionaria si è schierato in maniera abbastanza compatta il mondo accademico. Per Tomaso Montanari si tratta di «un’inutile tournee» mentre secondo Salvatore Settis: «L’idea di deportare a Milano i Bronzi di Riace, come fossero soprammobili da salotto buono, non può essere definito un progetto culturale ma solo un trucco mediatico». Più bizzarra (e forse provocatoria) la posizione di Philippe Daverio che ha affermato: «Si potrebbe portare un solo Bronzo di Riace a Milano, lasciando l’altro a Reggio Calabria. Però poi nascerebbe la polemica su quale dei due inviare, allora potremmo chiedere al ministro Franceschini di tirare a sorte lanciando una moneta». Nel frattempo Sgarbi e il presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, hanno scritto una lettera al Ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini, affinché autorizzi il prestito. Quest’ultimo, in maniera alquanto pilatesca, ha deciso di non decidere istituendo una commissione di esperti (figurano, tra gli altri, la stessa Bonomi e il restauratore Bruno Zanardi, la cui presenza è stata caldeggiata dallo stesso Sgarbi) che stabilirà nel giro di alcune settimane se le sculture sono trasportabili o meno. Fin qui i fatti. Al di là delle posizioni prese, quel che ci interessa è capire che senso avrebbe spostare, o meglio deportare, come ha scritto Settis, i Bronzi a Milano. Partiamo subito col dire che, come ha sottolineato la Bonomi, ragioni conservative sconsiglierebbero categoricamente il lungo trasferimento delle opere in Lombardia. Si tratta infatti di sculture assai fragili (il restauro è terminato solo qualche mese fa) e la loro movimentazione potrebbe portare dei rischi allo stato di conservazione futura. Inoltre, da un punto di vista culturale, alle spalle di un simile trasloco in stile Gondrand, non c’è alcuna mostra seria, alcun confronto con altre coeve sculture ma esclusivamente la riduzione dei due pezzi al solito feticcio. Diciamolo a scanso di equivoci: non siamo totalmente contro lo spostamento delle opere d’arte anche perché, altrimenti, non esisterebbero le mostre e non esisterebbe il progresso scientifico in campo storico-artistico e archeologico. Se alla base della movimentazione dei Bronzi ci fosse anche a Milano – perché no – una mostra seria con confronti che permetterebbero un arricchimento educativo e culturale da parte del visitatore, allora sì che si potrebbero persino spostare i Bronzi. Ma quel che manca nella proposta di Sgarbi è proprio questo: un trasferimento di due opere che, narcisisticamente, non fanno altro che guardarsi allo specchio senza confrontarsi con nessuno. Saremmo di fronte alla solita ostensione del capolavoro isolato, con la conseguente rinuncia a ricostruire adeguatamente un contesto figurativo, storico e culturale. E allora cosa sarebbe meglio fare? Vittorio Sgarbi afferma che la momentanea esposizione dei Bronzi a Milano avrebbe ricadute positive per il turismo in Calabria. Stentiamo a credere, con tutta sincerità, che uno straniero che veda all’Expo di Milano le due sculture si precipiti a comprare un biglietto per andare in Calabria. Un turista che vede i Bronzi in Lombardia uscirebbe probabilmente appagato, sazio e senza voglia di vedere alcunché di calabro poiché convinto di aver percepito il massimo della bellezza incarnato dal fascino erculeo delle due opere. La vera sfida, in realtà, potrebbe essere un’altra. Perché non prendere 4-5 pezzi, magari meno famosi, dal Museo Archeologico di Reggio Calabria (luogo che conserva i Bronzi) e portarli a Milano? Magari sarebbe questo il modo più corretto per incentivare uno straniero a recarsi in Calabria, a calpestare il suolo che fu delle colonie greche, per vedere musei, parchi archeologici e tanto altro che la Calabria oggi offre (non solo i Bronzi). Già Giulio Carlo Argan nel 1981, bocciando la proposta di un eventuale prestito dei due guerrieri in America per le Olimpiadi di Los Angeles, si poneva un simile problema:«Lo Stato ha fatto tutto quello che doveva fare: li ha restaurati bene, li ha fatti conoscere come era giusto che facesse e li ha degnissimamente sistemati in un museo. Che altro deve fare? Si tratta, semmai, di discutere ora del problema della valorizzazione dell’intero patrimonio artistico della Calabria». E ancora: perché non investire le risorse che andrebbero nelle casse della Regione in caso di prestito (si parla di 5 milioni di euro) per completare il museo che conserva i due guerrieri? Progettato da Marcello Piacentini, l’edificio – lo ricordiamo – è stato ristrutturato e riaperto alla fine del 2013 dall’ex Ministro dei Beni Culturali, Massimo Bray, ma gran parte delle sale sono ancora mestamente chiuse. Inoltre a chi sostiene che i Bronzi di Riace non siano visti da nessuno (lo abbiamo sentito spesso in queste ultime settimane), si potrebbe rispondere col boom di visitatori che il museo reggino ha registrato nel mese di agosto: 40.247 persone rispetto ai 16.440 di luglio. Non guardiamoci, come farebbero i Bronzi se andassero a Milano, narcisisticamente nello specchio del nostro passato. Proviamo a lanciare nuove sfide, proviamo a proporre idee nuove: guardiamo al presente lanciando lo sguardo verso il futuro.

Disegno e architettura

Chierici progettista e storico

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n occasione delle Giornate Europee del Patrimonio 2014 (20-21 settembre), inaugura nella Chiesa della Madonna delle Nevi in via Montanini a Siena la mostra su Gino Chierici (1877-1961), uno dei più importanti protagonisti nell’ambito del restauro architettonico della prima metà del ‘900. È proprio in questo periodo che si colloca il momento di maggior attività del Chierici, dalla sua formazione fino al suo operato nella Soprintendenza ai Monumenti a Siena, a Napoli, infine in Lombardia. L’esposizione intende sottolineare il suo legame con Siena, dove ha lavorato dal 1919 al 1924, ed intende farlo mettendo in evidenza la sua levatura culturale come architetto, progettista, storico e restauratore. La mostra è stata possibile grazie ad una donazione da parte degli eredi di Chierici alla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Siena e Grosseto, la quale si impegna ad assicurarne la conservazione, la catalogazione, la tutela e la valorizzazione. La donazione consta di 43 disegni, quasi tutti firmati, realizzati con diverse tecniche ed un fascicolo rilegato contenente 5 tavole, due fotografiche e tre grafiche, raffiguranti architetture toscane ed in particolare senesi. Queste opere, che andranno ad arricchire l’Archivio dei Disegni della Soprintendenza, documentano non solo il suo impegno nella tutela e valorizzazione del nostro territorio, ma anche l’evoluzione del suo stile che, partendo dall’eclettismo, approda al Liberty per giungere al neomedievalismo. La mostra, anticipata dalla presentazione di un volume per il quale ha collaborato anche l’Università degli Studi di Siena, intende supportare il progetto di candidatura della città a Capitale Europea della Cultura 2019.

Maria Martina Soricaro

ll’avvio del nuovo anno scolastico le novità maggiori provengono dalla riforma o, meglio, manovra per dirla in gergo renziano che dovrebbe rivoluzionare l’istruzione A italiana a tutti i livelli. Così, lette le cinquanta pagine circa del documento programmatico

La scuola riapre all’insegna della manovra La buona Scuola Progetti e mostre fra le linee guida previste per il futuro dell’istruzione

La buona scuola, pubblicato sul sito del MIUR e su quello creato ad hoc, sembra chiaro che l’efficienza della divulgazione culturale italiana parta proprio dalla cellula istruzione e che il prolificare di quest’ultima derivi quasi esclusivamente dal rinvigorimento del comparto docente nonché del personale amministrativo e ATA. Beninteso che quanto letto nel rapporto pubblicato nella parte propositiva non faccia una piega non si può e non si deve dimenticare che la scuola si regge innanzitutto sugli alunni che la frequentano e sulle loro famiglie che ne seguono, seppur spesso svogliatamente, le vicissitudini. Certo la svolta proposta significherebbe dare una bella ripulita a un settore ormai avvilito e stanco ma se a questo progetto non si affianca una ridistribuzione delle risorse che investano anche il campo della ricerca, dell’arte e più in generale della cultura si rischia di fare un buco nell’acqua. Ciò che deve cambiare, in sostanza, è la mentalità comune che vede la vita quotidiana, l’agire giornaliero svincolato dalla pianificazione educativa quando, invece, la formazione dell’allievo oggi, coincide con quella del cittadino di domani. Concetto dibattuto nel testo della Road Map per l’educazione artistica pubblicato dall’Unesco nel 2006 secondo il quale fra gli obiettivi principali dell’insegnamento di questa disciplina ci sono: difendere il diritto dell’uomo all’istruzione e alla partecipazione culturale; sviluppare le attitudini individuali; migliorare la qualità dell’educazione e promuovere l’espressione della diversità culturale. Ciò che appare ancora più chiaro è la trasversalità della materia rispetto a tutte le altre. Quindi la mostra MaTeinItaly alla Triennale di Milano che racconta attraverso immagini e oggetti particolari la storia e le applicazioni della matematica, deve essere vista come un’occasione di crescita collettiva e non come un evento concentrato in un tempo limitato e completamente avulso dal vivere di tutti i giorni. Stessa considerazione per il progetto di Roberto Natalini, Direttore dell’Istituto Applicazioni del calcolo presso il Cnr, che porta avanti una ricerca su algoritmi che possano in qualche modo combattere il degrado dei beni artistici nella città eterna. Continuando è impossibile dimenticare DoReMat ideato da Denise Lentini per l’Enfap che ha fuso musica e matematica al fine di aiutare la comprensione di quest’ultima disciplina. In conclusione non è solo assumendo nuovo personale che si cambierà la scuola ma soprattutto provando a immaginare oltre gli stereotipi e investendo moltissimo nella creatività attitudine che dovrebbero avere tutti i docenti qualunque materia siano chiamati a insegnare.

Marcella Ferro

Nella foto: Bansky, Rain girl, 2008, New Orleans

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arte contemporanea

interviews

In ogni attività creativa, colui che crea si fonde con la propria materia, che rappresenta il mondo che lo circonda (E. Fromm)

La pazzia, a volte, non è altro che la ragione presentata sotto diversa forma (Goethe)

Negli Enti tra le apparenze e il progetto: rapporto dalla trincea Come le scelte amministrative cambiano il volto di una città e il carattere dei cittadini

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el momento in cui una amministrazione si trova ad intervenire nel tessuto urbano al fine di una riqualificazione artistica del territorio, la scelta tra azione effimera o resistente è primaria e determina la visione paesaggistica e sociale alla quale 'costringerà' i suoi cittadini. La parola costringere non è casuale poiché a seconda di quanto un intervento sia condiviso, esso sarà salvaguardato, riducendo gli atti di vandalismo. Alcuni giorni fa al Centro di Documentazione per le Arti Visive di Grosseto una telefonata denuncia che il murale World Wide Trap alla cittadella dello studente, è stato spazzato via da una mano di bianco. Il lavoro è stato realizzato da Blu, anonimo

Dall’oblio alla memoria Una conversazione con Giovanni Sesia di VALERIA

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GIOVANNI SESIA è nato nel 1955 a Magenta, dove vive e opera, e si è diplomato in pittura presso l’Accademia di Brera (Milano) alla fine degli anni Settanta. Per vent’anni ha operato come pittore nell’ambito dell’astrazione informale. La svolta avviene nel 1998 quando scopre un archivio di fotografie di inizio Novecento di degenti di un ospedale psichiatrico. Da allora contamina le fotografie dei pazienti di diversi ex ospedali psichiatrici italiani con la pittura. Queste opere gli valgono l’invito a importanti manifestazioni: nel 2003 è alla rassegna “Photo España”. Nel 2005 Sandro Parmiggiani lo richiede alla mostra “Il volto della follia”. Nel 2006 è Vittorio Sgarbi a volerlo alla mostra “Il male”; nello stesso anno è presente alla mostra “Da Dada” curata da Achille Bonito Oliva. Sesia espone in tutta Italia e anche in Europa (Parigi, Rotterdam, Copenaghen, Zurigo, Amburgo), arrivando fino a Beirut e in Sud Corea. Nel mentre elabora diversi altri cicli che hanno come protagonisti alcuni oggetti che trova per casa: sedie, vecchie lenzuola, barattoli che utilizza per dipingere e poi moto. Dal 2014 si dedica alla videoinstallazione.

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MILETI NARDO

elefono a Giovanni Sesia come d’accordo e subito l’artista si dimostra molto gentile e disponibile, pronto a dedicare un’ora del suo tempo per questa intervista. È molto semplice parlare con lui e il dialogo si sviluppa con grande spontaneità. Quando Sesia parla di arte e della propria arte, i rimandi e gli spunti di riflessione sono interessanti e molteplici e purtroppo l’esigenza di sintesi porta a una selezione che comunque non impoverisce il discorso. Dalla fine degli anni novanta si concentra sul disagio psichico e sull’emarginazione sociale legata agli ormai chiusi ospedali psichiatrici. Com’è passato a queste tematiche? «Il passaggio è avvenuto casualmente. Mi è capitato di mettere mano su dei negativi, trovati da un mio amico psicologo, provenienti da un ospedale psichiatrico dismesso. Da allora, il mio lavoro si concentra sull’umanità dimenticata che non è solo quella degli ospedali psichiatrici ma anche, arrivando ai giorni nostri, quella dei paesi in guerra o di chi non ha un posto nella società: il mio lavoro si allarga all’Umano. Questo ritrovamento mi ha fatto pensare alla cancellazione dell’esistenza e della memoria e poi al disagio psichico che nasce da quello sociale: questa è cosa di tutti i giorni». Questo ritrovamento l’ha portata, sembra in modo consequenziale, a passare dalla pittura tout court alla fotografia? «Certo. L’utilizzo della fotografia in pittura mi aveva sempre affascinato: l’incontro tra l’oggettività e la soggettività. Non sono un fotografo e non interpreto la realtà tramite la fotografia ma ho interpretato, con la pittura, le fotografie di questi degenti che, con gli anni, ho raccolto da varie strutture dismesse. Chi ha scattato queste foto, che comprendevano il busto e le mani, non doveva interpretare dei ritratti, doveva solo farle per la scheda segnaletica del paziente. La posa, le mani e il volto sono elementi forti, elementi di realtà. Ho usato la pittura, coi suoi segni, le patine, le corrosioni, per l’intensificazione drammaticadi queste fotografie oggettive. Ho sacrificato anni di pittura e alla fine non ho fatto né il pittore né il fotografo!». Come interviene sulle immagini per far convivere l’oggettività delle fotografie con la pittura? «In pratica, faccio stampare i negativi in bianco e nero e faccio incollare l’immagine su legno. Poi intervengo con i colori a olio. Quando uno vede come inizio un quadro si spaventa: passo con un pennello largo il colore su tutta la superficie fino a nascondere l’immagine e poi, con uno straccio con essenza di trementina, strofino la tavola e la fotografia riaffiora. E poi ancora pittura: luci, ombre, segni, macchie, numeri. L’immagine che ricompare dal nero è, metaforicamente, il ritorno della memoria». Ha accennato a segni, macchie e numeri. Qual è il valore degli elementi ricorrenti nelle sue opere? Partiamo dalla scrittura. «Tutti i negativi che ho trovato avevano in basso e al centro un’incisione con il numero della cartella clinica del paziente. Questo graffio era una spersonalizzazione. I segni sulle mie opere sono illeggibili, come è illeggibile l’identità della persona effigiata. E poi guardo al passato: sono sempre stato attratto dalle opere medievali con le dediche in latino e dalla scrittura al contrario di Leonardo, apparentemente indecifrabile. La scrittura dunque è come una patina che ci allontana

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dall’identità della persona. Bacon faceva un qualcosa di simile quando incorniciava i suoi dipinti con un vetro davanti, in modo che ci si potesse specchiare. L’immagine riflessa ci distoglie un po’ dalla pittura e rende tutto più morbido, come per me la scrittura rende più morbide queste immagini di grande forza». E l’oro? «L’oro è il sacro, è la luce, l’oro è luce coagulata. L’oro porta a una dimensione sacrale, come nella tradizione pittorica cristiana. Le immagini, con l’oro, diventano come delle icone. Di solito, nei miei lavori, l’oro fa da sfondo ai numeri delle cartelle cliniche e alle diagnosi e quindi rappresenta la sacralità del dolore: l’oro suggerisce il rispetto, il rispetto del dolore». E il colore della terra? «Da un punto di vista pratico è molto semplice: le fotografie sono virate seppia. Questo però va a mio vantaggio perché è una tonalità calda e credo che il concetto di memoria sia legato a una tonalità calda, non fredda, è qualcosa di malinconico, di autunnale, direi. Inoltre questa tonalità si integra bene con i colori a olio e tutto risulta armonioso». I numeri, infine. Sono un rimando alla spersonalizzazione? «Certo. I numeri sono una catalogazione. Il punto di partenza, per me, è stato il fatto che ad ogni fotografia corrispondeva un numero; il numero sostituiva il nome e il cognome, sostituiva l’essere. Inoltre il numero è magico, misterioso, il numero riguarda la sequenza del tempo e il suo scorrere infinito». Nelle sue opere, oltre ai volti, troviamo ancheambienti e oggetti. I luoghi e le cose “parlano” come i volti? Trasmettono lo stesso messaggio? «Un mio soggetto ricorrente (mi hanno anche rimproverato per questo ma anche Morandi ha sempre fatto le bottiglie!) è il lenzuolo appoggiato sulla sedia. Il lenzuolo, come lo contorci, assume sempre forme nuove e poi suggerisce la presenza nell’assenza, come nelle icone sacre medievali. Il lenzuolo sulla sedia simboleggia una persona che non c’è più e che ha lasciato il suo segno: la sedia viene usata durante il giorno, il lenzuolo invece è la notte. Inoltre, se pensiamo alla nostra tradizione pittorica, per esempio al Caravaggio, quanti lenzuoli annodati sono stati dipinti? E poi mi fa pensare anche al sacro: il sacro non si può toccare se non attraverso un lenzuolo e dunque è ancora un rimando alla sacralità del dolore». Fino ad ora ha fatto molti riferimenti all’arte del passato ma anche a quella più recente. Che valore hanno per lei la tradizione e il contemporaneo? «Nei miei lavori cerco sempre di dare spazio alla tradizione pittorica antica: le luci e le ombre riportano al Seicento. L’oro è il Medioevo. Ma c’è anche molto Moderno: mi hanno detto che sono affine all’Arte Povera e al Minimalismo. In effetti, queste grandi superfici vuote a foglia d’oro con un numero e un po’ di ossidazione riportano a queste correnti. E poi l’uso della fotografia è sempre stato fondamentale fin da quando è nata, basti pensare agli Impressionisti. Inoltre, negli ultimi cinquant’anni, ho guardato a Bacon, a Freud; insomma guardo tutto e tutti. L’arte ha raggiunto tante sfaccettature e c’è posto per tutto fino al video e all’installazione; l’importante è che si trasmetta un’emozione, un pensiero, uno spunto di riflessione». Parliamo delsuo recente passaggio all’installazione a cui ha appena accennato. Com’è avvenuta questa transizione e come costruisce le sue in-

writer bolognese, nel 2004, contestualmente ai campionati di atletica juniores per cui ha creato un disegno su commissione – e dai più ignorato - allo stadio. Un'opera pubblica deve esprimere le esigenze comunicative di una realtà in rapida trasformazione. I graffiti hanno dimostrato in tutta Europa di saper dare una interpretazione contemporanea: l'espressione artistica in cui si dipingono murate avvicendandosi gli uni con gli altri, cancellando vecchi lavori e apponendo il proprio tag, ha l'effimero insito nel dna. In alcuni casi particolari però, data l'importanza dell'autore o l'interesse che suscita, si va incontro alla musealizzazione. Si vedano, ad esempio, le polemiche per le

protezioni installate a Tuttomondo, l'ultimo lavoro di Keith Haring a Pisa. La street art esce dall'ombra dell'illegalità, legandosi a committenti, colorando le periferie e scontrandosi, talvolta, con il parere della soprintendenza. Fin dall’ottocento le nostre città hanno espresso la loro vocazione educativa attraverso statue, busti che, diventando parte dell’arredo urbano, celebravano figure storiche da prendere ad esempio: a livello nazionale, è immancabile il busto di Garibaldi insieme ai volti degli eroi locali salvati dall’oblio della macro storia. Per Grosseto Leopoldo II di Lorena fa mostra di sé in piazza Dante mentre risolleva la Maremma dalla malaria; sempre sul tema della bonifica, dal 2008 Il Badilante, scultura in rame lavorato a

sbalzo, sorveglia dall’alto dei suoi tre metri la zona nord della città, dono di una associazione culturale non da tutti gradito, tanto che la statua è stata più volte vittima di atti goliardici fino all'ultimo furto della vanga. Il Comune che conosce il proprio territorio, che ne studia le caratteristiche e si mette a disposizione delle esigenze, anche estetiche, di chi lo abita, saprà scegliere il tipo di intervento più adatto, senza accontentare l'ego di qualche artista locale, senza l'ansia di lasciare firme ingombranti e indelebili sono nelle premesse. I segni realmente riconosciuti entrano a far parte in modo naturale del tessuto urbano e, cosa ancor più importante, della memoria collettiva.

Claudia Gennari

Hans Op de Beeck alla Continua

Ugo Marano al Museo-Frac di Baronissi

A Beijing tornano i suoi grandi acquerelli

icembre è in arrivo e fervono i preparativi per la retrospetD tiva che il Museo-Fondo Regio-

on la personale dal titolo The night time drawings visitabile fino al 23 novembre, Hans Op de Beeck torna ad esporre in Italia. C Nato a Turnhout nel 1969, vive e lavora tra Bruxelles e Gooik,

nale d’Arte Contemporanea di Baronissi, dedicata (fino al 1 marzo 2015) ad Ugo Marano a tre anni dalla sua scomparsa. La mostra, curata da Massimo Bignardi, è stata promossa dal Comune di Baronissi e realizzata grazie al sostegno della Regione Campania, in collaborazione con la Scuola di Specializzazione in beni storico artisti dell’Università di Siena, il Comune di Cetara – cittadina ove l’artista ha vissuto fino alla morte - la Galerie Mercier&Associés di Parigi. Si tratta della prima mostra organicamente costruita che, dai mosaici dei primi anni sessanta, giunge alle ceramiche per il MuseoVivo, alle sculture degli anni ottanta, alle opere di design per la grande produzione, ai progetti. Infine la novità della pittura che Bignardi ha voluto inserire proponendo inedite tele realizzate dall’artista nel corso del Duemila. Il percorso organizzato sui tre livelli del FRAC, propone l’incontro con settanta opere, tra “sculture, mosaici, ceramiche, disegni performances” realizzate dal 1965 al 2011. Nato nel 1943, aveva studiato all’Accademia del Mosaico di Roma e all’Accademia del Nudo di Ravenna; la sua prima personale

ad Amalfi è del 1968; nel 1976 partecipa alla XXXVIII Biennale di Venezia. Numerosissime le presenze nelle grandi rassegne internazionali di design, fra queste edizioni di “Abitare il tempo”, tenutesi a Verona. Nel 2006 ha realizzato due grandi interventi per la Stazione Salvator Rosa della Metropolitana di Napoli, nonché sculture per il Villaggio olimpico a Torino. Accompagnerà la mostra

una monografia curata da Bignardi, con interventi di Enrico Crispolti, Pasquale Ruocco, Vanessa Maggi, un’ampia documentazione fotografica delle opere lasciate dall’artista sia nello studio di Capriglia, sia in quello di Cetara,apparati critici e biobibliografici.

Ciro Manzolillo Nella foto: Ugo Marano, Uovo del Paradiso, 1984, mosaico

Belgio, esponendo in varie collettive e personali in tutto il mondo. La sua ricerca lo vede impegnato nello studio di vari linguaggi artistici: dal disegno, alle installazioni, alla video art, arrivando a cimentarsi anche in composizioni musicali e stesure di brevi racconti. Alla Galleria Continua di San Gimignano Beijing espone sculture, lavori fotografici, film animati e la nuova serie di grandi acquerelli, da cui deriva il titolo della mostra. Infatti, queste immagini in bianco e nero, fanno respirare l’atmosfera buia dei film noir. Evidente risulta la natura solitaria e l’ambientazione notturna degli acquerelli (comuni nella sua poetica), derivate dal processo creativo. Op de Beeck li ha dipinti di notte, nel suo studio, dopo che tutti avevano lasciato l’edificio. Le scene sono inserite in ambienti metropolitani postmoderni, misteriosi paesaggi e anonimi personaggi di cui possiamo immaginare la storia. L’allestimento prosegue in un’altra sala con la proiezione del film Night time, in cui possiamo vedere un mondo dipinto con gli acquerelli. Tra le opere scultoree, Gesturesè la serie formata da braccia anonime che compiono azioni semplici, l’artista crede fermamente che dietro i piccoli gesti si nascondono grandi storie. Molto interessante anche il suo lavoro fotografico, in cui oggetti vari sono inseriti in ambientazioni nebbiose, poetiche, sospese. Non vi è alcun tentativo di nascondere gli attrezzi di scena, come il riflettore ed il treppiedi, perché così in ogni momento lo spettatore sarà cosciente di trovarsi di fronte ad un’immagine costruita e non davanti ad un dipinto.

Alice Ioffrida

la carta è...

DE LUCA SALERNO

stallazioni? «L’uso di video e installazioni va ad integrare il mio percorso pittorico e ne supera i limiti. Ogni espressione artistica hai suoi limiti. Per affrontare una tematica, cedo che ogni metodo sia buono; l’importante è fare un discorso completo, indipendentemente dalla tecnica. Non sono un esperto di video, ho un aiutante eccezionale che si presta a realizzare il mio progetto e che ha fatto cose straordinarie come far rivivere una fotografia con il movimento degli occhi e delle labbra. Così posso fare cose che con la pittura non posso fare». Quindi, in base a come lei concepisce l’installazione, si può dire che l’arrivo a questo mezzo espressivo sia stato un processo naturale? «Secondo me sì, è un’evoluzione naturale del mio lavoro e porta a un maggior coinvolgimento dell’osservatore, scopo che ho sempre cercato di perseguire con la pittura. Di recente, ho portato una mia installazione a Pavia e una visitatrice mi ha lasciato scritto che le avevo lacerato il cuore. Quindi, con questo maggior coinvolgimento, si capisce anche meglio quello che sto facendo con la pittura. L’installazione è un mezzo per intensificare il messaggio che voglio trasmettere». Nelle foto in alto da sinistra: Giovanni Sesia, Senza titolo, 2002, tecnica mista su base fotografica; Giovanni Sesia, Senza titolo, 2002, tecnica mista su base fotografica; Sopra: Giovanni Sesia, Senza titolo, 2006, tecnica mista su base fotografica

DE LUCA

INDUSTRIA GRAFICA E CARTARIA

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geaArt

numero

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arte contemporanea In ogni attività creativa, colui che crea si fonde con la propria materia, che rappresenta il mondo che lo circonda (E. Fromm)

Un Vangelo tra i sassi della memoria e la coscienza del contemporaneo

di

GLORIA MUZI

P

atrocinata dall’Ambasciata del Regno dei Paesi Bassi di Roma e inserita negli eventi ufficiali di Van Gogh Europe, “L’uomo e la terra”, la mostra sarà ospitata fino all’8 marzo 2015 presso il Palazzo Reale di Milano. La grande retrospettiva milanese dedicata all’opera di Van Gogh, è il risultato di forze straordinarie: la curatrice è Kathleen Adler, tra i maggiori conoscitori dell’Impressionismo, assistita da studiosi tra i quali spiccano i nomi di Cornelia Homburg, nota esperta in ambito internazionale dell’opera del maestro olandese e dell’allestitore KengoKuma, archistar giapponese. A distanza di sei decenni dalla prima importante retrospettiva dedicata in Italia al pittore dei “girasoli” e a quella romana del 1989, ecco tornare di nuovo a Milano più di 50 capolavori provenienti dal KröllerMüller Museum di Otterlo, dal Van Gogh Museum di Amsterdam e da altre collezioni pubbliche e private. Il fil rouge di questa esposizione, diversamente della precedente del 1952, va ricercato nella tematica dell’Expo 2015: il rapporto tra la terra e l’uomo e la vita agreste contesa tra fatica e bellezza. È un’occasione unica per poter approfondire una delle tematiche che da sempre ha affascinato l’essere umano e, in particolare gli artisti. «Caro Theo, scrive l’artista al fratello, quale è mai la vita che io considero la migliore? Indubbiamente è una vita fatta di lunghi anni di comunione con la natura in campagna […]. Sii un contadino […] e alla fine sarai divenuto qualcosa di migliore e di più profondo». È, in fondo, la traccia sulla quale si articola la mostra, offrendo l’occasione di riconsiderare il rapporto con l’esistente, attraverso gli occhi di un artista che fu tra i pittori più inclini a liberare sulla tela l’autentica essenza della natura, a svelarne anche l’anima crudele e cinica delle sue regole, facendola esplodere nella forma e nel colore. Una luminosità che in Van Gogh acquista il valore di una violenta metafora; una natura così vera da risultare inaccettabile non solo per i suoi contemporanei, ma per lo stesso artista. Prima di affidare la sua vita al colpo di una pistola l’artista aveva scritto: «dopo tutta una vita virile di ricerche, di lotta a corpo a corpo con la natura, voglio morire». Tra gli altri capolavori esposti nelle austere sale di Palazzo Reale, figureranno capolavori quali Contadini che piantano patate (1884), l’Autoritratto del 1887, Natura morta con piatto di cipolle (1889) e lo splendido Paesaggio con covoni di grano e luna che sorge (1889), opere che ci offrono uno spaccato intenso dell’esperienza quanto fosse viscerale il rapporto che il pittore intendeva con la terra e la stima che egli poneva nei confronti del lavoro manuale, al punto che mai più così vibrante sembra essere un verso di Whitman: «Terra! Sembra che tu aspetti qualcosa dalle mie mani.» Nella foto in alto: Vincent van Gogh, Paesaggio con covoni di grano e luna che sorge 1889, Kröller-Müller Museum © Kröller-Müller Museum

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Inneres Auge/Visione contemporanea L’occhio interiore è il terzo occhio, quello dell’intuizione, quello che vede senza vedere. Ed è proprio il concetto d’intuizione, il lietmotiv che accompagnerà la prossima stagione espositiva di casa Sponge. Si parte con la personale di Piero Roi, a cura di Loretta di Tuccio, dove l’artista, nelle due serie fotografiche in mostra, mette in evidenza l’intimità della propria visione legata all’immaginario notturno, e dove un particolare uso della luce mette ne fa risaltare il senso di paradosso che l’accompagna. Fino al 31 ottobre. Dal 3 al 18 ottobre ha luogo anche In Levare, residenza artistica di Giacomo Rizzo, a cura di Helga Marsala. www.spongeartecontemporanea.net

La mostra che Matera dedica al capolavoro pasoliniano attualizza il tema dell’“impegno”, ponendo disordinate domande sul presente e sul proprio destino

PALAZZO REALE

Milano: Van Gogh l’uomo e la terra

Sponge Arte Contemporanea Pergola (PU)

di

a blandire i vincitori, o ad animare opposizioni, a perpetrare logiche autogratificanti. A distanza di tre decenni, all’incirca da quando ho iniziato a rivolgere il mio interesse principalmente all’insegnamento, il bilancio, se pur con vistose segnature in rosso sul piano delle attese politiche, ha trovato e trova segni positivi nel confronto con le generazioni che ho incontrato nel mio lavoro: con esse ho provato a tradurre la visione polifonica dei padri in un coinvolgimento diretto – come parte attiva al mondo, suggeriva Flaubert – accogliendo la semplicità e il desiderio da parte degli studenti di farsi coinvolgere, gomito a gomito, nell’esperienza diretta. Ho appreso tanto e con piacere, a volte, ho rivisto gli schemi abusati propri della critica della mia generazione, per far largo alla curiosità ora sollecitata dai nuovi registri della tecnologia digitale, ora implicata in presa diretta nel mondo dei giovani che diciamo di conoscere. Guardare, dunque, alle pulsioni culturali, alle tradizioni, alla concretezza della ricerca scientifica ma anche alla disponibilità e duttilità ad articolarsi nei livelli operativi dell’economia. In questo senso l’esperienza della Scuola di Specializzazione in beni storico artistici dell’Università di Siena, è stata, certamente, il laboratorio più fertile: una realtà culturale che, se pur strutturata su una tradizione di studio, cerca di dare risposte alle necessità, di costruire una direttrice per il futuro, di dar vita ad un vettore immaginativo dotato della capacità di rendere palese l’identità di una formazione specialistica nell’ambito vasto del mercato del lavoro, dell’economia. La seconda riflessione investe l’idea di luogo e per essa l’immagine del Sud che si radica quale archetipo del mio essere, indotta dalle proiezioni di brevi sequenze del film. A distanza di tempo l’“occhio” della sua macchina da presa Arriflex interroga il destino di una realtà oggi non più lontana dall’Europa: Pasolini è tornato a porre domande, nella trama del racconto esplicitato dalla mostra, a quel che resta del mondo arcaico della civiltà contadina, accordando la sua voce a quella del paesaggio naturale. Lo strapiombo della Gravina che si apriva alle spalle delle tre croci, reso ancora più magico dalle musiche di Luis Bacalov, segnava il limite estremo oltre il quale l’uomo cade nell’oblio del tempo, dimenticato nelle mille pieghe della contemporaneità. La magia dell’opera d’arte l’ha, invece, reso universale ed eterno. Il Sud è per il poeta, per lo scrittore e cineasta, una terra nuova: Matera la nuova Gerusalemme; la spiaggia di Le Castella in Calabria il luogo del miracolo della moltplicazione dei pani e dei pesci; la boscaglia intorno Barile o gli scorci della Puglia, della Sicilia e, risalendo lo stivale, le campagne del viterbese gli angoli per ospitare le scene della “fuga in Egitto”. Quello di Pasolini è un realismo che pervade le immagini di un Sud, ancora arcaico mondo tenuto lontano dalla nazione, inquadrato in una prospettiva che non cede alla retorica dell’apostolato marxista, anzi si fa didattica del “vedere”, in polemica con quanti auspicavano un Sud industriale, sul modello del capitalismo nazionale. Non riapre i capitoli di una “questione” al centro del dibattito politico e culturale che ha animato il Novecento, bensì si rivolge direttamente alle nuove generazioni, alle genti del Sud, ai suoi giovani, mostrando loro la bellezza di un mondo oramai preda della “civiltà dei consumi”. Parlando della bellezza dirà: «Il problema è avere gli occhi e non saper vedere».

MASSIMO BIGNARDI

L

a notte aveva già avvolto di surreale le luci della Gravina, all’uscita da Palazzo Lanfranchi a Matera, dove ci aveva accolto la mostra dedicata al film di Pier Paolo Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo. I “Sassi” scivolavano sotto i nostri piedi perdendosi nella gola del piccolo torrente; gli occhi, sospesi come cannocchiali dalla terrazza che si apre a lato della Chiesa del Carmine, spaziavano sull’immagine irreale fatta di case che si annidano come cubi sovrapposti disegnando, con i tetti incuneati a spina di pesce, una sequenza narrativa, di figure e di scene, tale da suggerire un’ulteriore sala, esterna e conclusiva, al percorso espositivo lasciato alle nostre spalle. Difficile distrarsi da una irrealtà così reale, così lontana e, al tempo stesso, così dentro le immagini che Pasolini ha saputo tradurre nel suo Vangelo. Un film che dopo cinquant’anni non ha perso la “sincerità” di parlare alle generazioni, affermando il senso di una lotta «per la democratizzazione del “diritto ad esprimersi”», come dalle parole dello stesso Pasolini in un articolo apparso postumo sul “Corriere della Sera”, all’indomani del suo assassinio avvenuto il 2 novembre del 1975. Ricordo che quattro anni dopo, con Michele Schiavino, oggi regista, allestimmo un’esposizione dei suoi disegni, nel Salone dei Marmi di Palazzo di Città a Salerno, per affermare, a voce alta, la necessità di quel “diritto”. La visita alla mostra (aperta fino al 9 novembre) nella città dei “Sassi”, candidata a Capitale europea della cultura per il 2019, mi ha offerto l’occasione per rileggere il regista e la sua eredità di intellettuale scomodo, negli anni che segnano la scia finale del boom economico italiano ma anche nell’inquieta stagione che ha connotato l’avvio dei settanta, suggerendomi disordinate riflessioni sui miei anni di formazione e sull’esperienza di storico e critico d’arte proiettato nella fenomenologia del contemporaneo, prim’ancora di docente nel vortice di una università collassata. Riflessioni avanzate come momenti dialettici che, di volta in volta, si sono interfacciati con le immagini, con i documenti che si allineano nelle sale di Palazzo Lanfranchi, in particolare, con le voci dei narratori, a partire da quella di Goffredo Fofi che accoglie il visitatore nell’attigua Chiesa del Carmine, su uno schermo posto al di là della grande installazione che ripropone la performance realizzata da Fabio Mauri nel 1975. Tornando alla mostra, curata con grande attenzione da Marta Ragozzino e Giuseppe Appella con la consulenza di Ermanno Taviani, essa riesce ad interpretare ed attualizzare il senso di realismo e, contestualmente, di prospettiva che Pasolini affida alla realtà di un Sud nascosto ed arcaico, scelto come set per il suo Vangelo: sullo sfondo del Golgota, ovvero il pianoro in cima alla Gravina, si stende Matera e i suoi “Sassi”, al tempo bollati come vergogna nazionale. Di essi, divenuti luoghi della Passione, oggi, si potrebbe dire, della Redenzione e della Rinascita, Pasolini aveva accolto i segni più tangibili a testimonianza di una scenografia della fede: dalle chiese barocche dalle facciate di tufo “corrose” dal vento e dall’abbandono ai volti del popolo che «aveva una sua storia a parte, scrive, arcaica, in cui i figli, semplicemente, come insegna l’antropologia delle vecchie culture, reincarnavano e ripetevano i padri». Figli dei figli, dei figli che nella Lucania dei nostri giorni sono certamente, aveva profetizzato lo stesso regista, «più avanzati, sottili, informati, dei gruppi analoghi di dieci

o vent’anni fa». Aggiungendo, però, un inquietante e mai così attuale quesito all’ombra di una crisi devastante: «Ma che cosa possono farsene della loro finezza e della loro cultura?». La Matera che Pasolini ripropone è ben diversa dal luogo che aveva prestato le scene a films girati in precedenza; dalla Lupa di Lattuada alla pellicola di Rondi Il demonio. La realtà non è più specchio della narrazione, quanto immagine di un racconto millenario ed universale che valica il confine delle cose terrene per toccare l’immateriale della fede. In esso vi scorgo i lemmi di un dibattito maturato in quegli stessi anni, sullo sfondo della società che si avviava ad essere “civiltà dei consumi”. Quello di Pasolini è un realismo che perde la retorica propria della figurazione ideologizzata, per farsi dichiarazione di libertà interiore, profonda, antica e, al contempo, esplosiva di attualità che scorgiamo nelle sculture di alcuni protagonisti della scena artistica italiana dei primi anni sessanta, da Nicola Carrino a Gastone Novelli, a Toti Scialoja, a Giuseppe Uncini, per citare solo alcuni degli artisti le cui opere danno vita all’ultima sezione di questa mostra allestita nella Sala delle Arcate. È una polifonia di linguaggi che dichiara una certa convergenza con il pensiero pasoliniano, fondato su una ferma identità dell’essere contemporaneo quasi ad anticipare la definizione data a distanza di anni da Giorgio Agamben: «Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo.» Non è un caso quindi che il regista avesse affidato ai volti di intellettuali quelli degli apostoli: ad Alfonso Gatto il volto raggrinzito dal sole del pescatore Andrea, al giovanissimo Agamben la parte di Filippo, ad Elio Spaziani quella di Taddeo, mentre Enzo Siciliano interpreterà Simeone e Natalia Ginzburg la parte di Maria di Betania. Un’idea di realismo tra linguaggi diversi all’interno di un parlare comune che ha segnato la prima pausa di riflessione, spingendomi a sollevare gli occhi dalla memoria della storia per riporli nella realtà. Qual è l’idea oggi di contemporaneo? Qual è la scena del dibattito che presiede l’attualità? Per poi ancora: quali le prospettive di formazione all’interno della scuola italiana e, in primis, dell’università? Un velo grigio e diafano

avvolge le possibili risposte: sullo sfondo di ciascuna, la scena di spazi che hanno perso il loro valore di luogo e con esso l’anima della quale parlava Hillman. Sulle ultime generazioni di docenti, quelli entrati nel corpo già sfilacciato dell’università tra gli anni novanta e il duemila, incombe una falsa idea di meritocrazia – quasi sempre ricondotta ad una valutazione che dà risposta all’appartenenza o meno ad un gruppo di “potere” o che si riconosce tale –, ma anche il miraggio di un’ internazionalità, il più delle volte di facciata, con il rischio di marginalizzare temi o argomenti che investono la propria identità. Il risultato, non c’è da meravigliarsi, è la corsa smodata al riconoscimento, al carrierismo che svilisce qualsiasi prospettiva pluralista e partecipativa. La mia è la generazione formatasi negli anni settanta, la stessa verso la quale si scagliò l’accusa di Pasolini. «Sono figli “puniti” – dirà – per le nostre colpe, cioè per le colpe dei padri» chiedendosi anche se fosse giusto punirli. «Ebbene sì, è giusto», fu la risposta, perché «i figli che non si liberano delle colpe dei padri sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità». Nella mia quotidianità tale punizione specchia l’impossibilità, l’incapacità di far lievitare i sogni di tanti giovani, di partecipare al concretizzarsi delle loro aspirazioni. Una giungla di norme burocratiche dietro le quali, in più occasioni, trovano facile riparo paure e miserie personali, ha sopraffatto ogni apertura, lasciando il campo, specie per l’ultimissima generazione, ad una sorta di anemia congenita. Nell’articolo titolato I giovani infelici, scritto nei primi giorni di gennaio del 1975 ed apparso postumo in apertura di Lettere luterane (Einaudi, 1976), Pasolini si rivolge, innanzitutto, ai giovani ancora presi dall’apostolato marxista postsessantottino: il dito era puntato verso l’incapacità di gestire i nostri atti o di non misurare la «distanza tra causa ed effetto», verso il nostro essere afasici, il non saper «sorridere o ridere». Puniti per il nostro «modo di essere» preannunciando una punizione futura – qui il poeta si fa veggente – «da qualcosa di più oggettivo e di più terribile». È palese che parlo della massa e non dei pochi che, nell’ideologia, hanno fatto carriera e fortuna, ancora oggi pronti

In alto: Matera 1964. Pier Paolo Pasolini insieme a Elsa Morante, Susanna Pasolini e Graziella Chiarcossi; Da sinistra: Il Miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Catanzaro, Le Castella; Il costumista sistema il copricapo del sacerdote; A destra: Pasolini con un gruppo di bambini. Fotografia di Angelo Novi Cineteca di Bologna.

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9 - ottobre-novembre 2014

in vetrina

Sigmar Polke: dal MoMA alla Tate di Londra di

Giacomo Rizzo, Respiro, fase lavorativa, 2014

Torino, Galleria d’arte moderna

Le carte di Lichtestein In mostra alla Galleria d’arte moderna di Torino fino al 25 gennaio 2015 la rassegna dedicata al maestro della Pop Art, Roy Lichtenstein (New York, 1923-1997). Esposte nel museo oltre 230 opere per la prima volta riunite in Italia grazie ai musei e alle istituzioni che hanno prestato le loro opere: la National Gallery di Washington, il MoMA di New York, la Roy Lichteinstein Foundation. In mostra dunque la parte più intima e privata dell’artista e tra le opere, le Prime Idee, ovvero le idee primigenie che meglio lo rappresentano, fonte d’ispirazione di lavori che in un secondo tempo sono divenuti i grandi capolavori conosciuti nel mondo.

CRISTINA CECI

proprio la sua enorme capacità È attrattiva e lo stupore che provocano le sue opere a rendere

questa mostra unica nel suo genere. Sigmar Polke (1941-2010), artista tedesco, è considerato uno dei più influenti personaggi della generazione artistica del dopoguerra; Polke possedeva uno spirito irriverente che, unito alla sua attenzione eccezionale per le proprietà dei suoi materiali, lo spinse a confrontarsi liberamente con le convenzioni dell’arte e della sua storia. Costantemente alla ricerca di nuove tecniche, Polke ha accuratamente evitato qualsiasi stile che rientrasse nella sfera del conosciuto per dedicarsi ad una vasta gamma di supporti insoliti con cui ha lavorato durante tutti gli anni della sua carriera non solo pittura, disegno, fotografia, cinema e scultura, ma anche notebook, proiezioni di diapositive e fotocopie. Ha lavorato con materiali “off-the-wall” che vanno dalla polvere meteorica all’oro, imballaggi, bava di lumaca, patate, fuliggine e anche uranio, resistendo per tutto il tempo ad una facile categorizzazione. Questa mostra dal titolo Alibis: Sigmar Polke 1963–2010, si presenta come la prima retrospettiva dell’artista tedesco, e mette in scena l’enorme scetticismo di Polke per tutte le forme di tradizioni sociali, politiche, artistiche e dimostra quanto lui fosse contro la storia tedesca e la trasformazione del paese nel dopoguerra. L’esposizione è stata organizzata dal Museum of modern art di New York in collaborazione con la Tate Modern di Londra. Il MoMA ha accolto la mostra dal 19 aprile al 3 agosto 2014 segnalandosi come una delle più grandi mostre mai organizzate presso il Museo; alla Tate Modern sarà fino all’8 febbraio 2015. L’allestimento comprende più di 250 opere ed è organizzato cronologicamente: dall’intimità dei suoi appunti a pezzi che mettono alla prova la scala architettonica della maggior parte degli spazi del museo. Tra le diverse opere celebri in mostra ci sono 13 film di Polke, tra cui otto mai proposti al pubblico e un gruppo di dipinti monumentali fatto interamente di fuliggine sul vetro. Il suo approccio diverso all’arte è una risposta provocatoria e irriverente alla società degli anni 60 e un palesare sempre di più il suo interesse per i viaggi, la droga e la vita nelle comuni del 1970 che sfocia nella sua pratica sempre più sperimentale dopo il 1980. Il titolo scelto per la mostra si adatta perfettamente a quello spirito di denuncia presente in molte opere di Polke: il rifiuto della tendenza di molti tedeschi della sua generazione a non voler ricordare, ad ignorare il passato buio delle persecuzioni naziste; un’alibi fuori dal tempo. Nella foto in alto: Sigmar Polke, Girlfriends, 1965-66

Roy Lichtenstein, Oh Jeff

Parigi, Gallerie del Grand Palais

Hokusai: paesaggi e visioni dal Giappone Dal fino al 18 gennaio il Grand Palais dedica una mostra al maestro Katsushika Hokusai (1760-1849). Una retrospettiva che realizzata per la prima volta in Europa rivela l’opera e la vita del maestro giapponese. Pittore, incisore, illustratore e celebre disegnatore, Hokusai, racconta il Giappone attraverso una forma di perfetto equilibrio tra espressione personale e tradizione iconografica. La mostra riunisce opere che fino ad ora non erano mai uscite dal Giappone e che per la loro fragilità necessitano di un’esposizione limitata. Per questo motivo un centinaio di opere verrà sostituito e gli spazi chiusi al pubblico dal 21 al 30 Novembre. Katsushika Hokusai, Longue vue, collezione privata © Galerie Sebastian Izzard LLC

Napoli. Quando l’antico incontra la modernità

Un progetto a cura di Essearte Ogni week end, fino al 6 gennaio, presso le Catacombe di San Gennaro sarà possibile, su prenotazione, assistere a Le Luci di Dentro, spettacolo multimediale inaugurato lo scorso settembre. Una visita che si snoda tra gallerie e cubicoli, in cui si fondono archeologia, teatro e nuove tecnologie dell’arte; un viaggio culturale, fatto per immagini, attraverso la storia del luogo e dell’uomo, frutto dell’impegno di un team di artisti e professionisti espressione della creatività e delle competenze presenti sul territorio campano tra cui Mario Gelardi, Mary Cinque, Studio Kanaka e il collettivo Hypoikòn. Per info: www.catacombedinapoli.it Le Luci di Dentro, sezione didattica

Mendrisio, Museo d’arte

Not Vital e le forme del mondo Fino la prossimo 11 gennaio, il Museo d’Arte di Mendrisio propone la personale dello scultore svizzero Not Vital. Realizzata per la cura di Simone Soldini e Alma Zevi, la mostra propone una selezionata scelta di sculture, dipinti, fotografie e lavori grafici. Nel linguaggio di Not Vital che incarna in pieno il carattere dell’artista viaggiatore, si assommano varie esperienze assoggettate anche alle lunghe peregrinazioni nel mondo: al deserto del Sahara, alle vette delle Ande, alla Cina o alla Patagonia. È quanto la mostra documenta con opere che vanno dall’arte povera, al minimalismo, dall’arte concettuale a quella pop, fino all’evidenza di suggestioni surreali. Not Vital, Snowballs, vetro bianco e vetro trasparente

HANNO COLLABORATO: Maria Letizia Paiato, Marcella ferro, Caterina Pocaterra, Pasquale Ruocco, Annamaria Restieri

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arte/ambiente

arte contemporanea In ogni attività creativa, colui che crea si fonde con la propria materia, che rappresenta il mondo che lo circonda (E. Fromm)

Il problema oggi non è lʼenergia nucleare ma il cuore dellʼuomo (A. Einstein)

L’arte fra natura e inquinamento visivo

Il design italiano e il racconto della crisi

di

«C

arrivò a dedicare un poema, illustrato da Bruno Munari. Sintomatiche di questa fase sono le calzature in sughero di Ferragamo, gli abiti in canapa di Gegia e Marisa Bronzini, ancora gli arredamenti in Buxus, ricavato da cellulosa ossificata, disegnati da Giuseppe Pagano e Gino Levi Montalicini. Tale pragmatismo si manifestò del resto ancora negli del dopoguerra, quando furono poste le basi del boom economico e dell’affermarsi del Made in Italy. La seconda sezione è dedicata agli Settanta, in particolare alla crisi petrolifera, legata alla situazione arabo-israeliana, e al sentimento di austerity che attraversò l’Italia, quando per controllare il consumo di carburanti si proibì addirittura l’uso dell’automobile nei giorni feriali. Quella degli anni Settanta è una storia di riformulazioni radicali, che interessano tutto il mondo culturale, in cui fondamentali diventano parole come ecologia, partecipazione, collettività, autoproduzione, utopia, ponendo le basi nel design per la proposta di forme alternative alla progettazione industriale, all’alienazione della produzione in serie. Si fanno largo le riflessioni di Soleri sulla costruzione ecologica del nostro habitat, l’esperienza partecipativa di Riccardo Dalisi nel Rione Traiano, gli interventi nell’urbano di Ugo La Pietra e il radicalismo di Andrea Branzi, ancora la Proposta per un’autoprogettazione di Enzo Mari. Una stimolante lettura della crisi del modello produttivo contemporaneo, che va dagli Ottanta, dal ritorno cioè ad alti livelli di consumo e alla cultura dell’oggetto e del privato, fino alle più recenti ri-proposte di autoproduzione, di, suggerisce Stefano Miceli, un Futuro Artigiano legato alla specificità locali e quell’unicum a livello internazionale che sono i distretti industriali italiani. Al fianco di maestri come Ettore Sottsass, Alessandro Mendini, Nanni Strada, Ugo La Pietra, Ugo Marano, al quale questo inverno verranno dedicate due importanti mostre dal Museo Plart di Napoli e dal Fondo Regionale d’Arte Contemporanea di Baronissi (Sa), si trova infatti la generazione del dei makers di cui, per fare qualche nome, Nucleo, Anna Gill, Donata Parucchini, Ilaria Innocenti. Si tratta di designers/imprenditori, capaci di porre la progettazione

nella dimensione dell’autoproduzione, di essere cardini tra artigianato e tecnologia, tra trazione e contemporaneità, tra il genius loci e la realtà globale che viviamo, mediante lo sfruttamento del web sia come principale mezzo di comunicazione e vendita, sia come possibilità di fare rete, gruppo. In altre parole l’immagine di un paese più veloce di chi lo governa, capace di muoversi al di là delle discussioni sull’art.18 o della riforma del Senato, che chiede piuttosto investimenti nelle infrastrutture, come la banda larga per colmare il gap tecnologico con il resto del mondo, e ancora nella ricerca e nell’istruzione. Nella foto in alto: Sonia Pedrazzini, le Morandine, 2011 courtesy dell’autore; Sopra: Enzo Mari, proposta per un'autoprogettazione, 1974

Masbedo alla Fondazione Merz

Ferrara, Museo Archeologico

Marcel Duchamp la pittura? La ricerca della verità

Storie dell’Io riflesse dal ghiaccio artico

Gianni Vallieri dalla storia il respiro di immagini contemporanee

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Centro Pompidou

ino al 5 gennaio al Centro Pompidou di Parigi, una mostra dedicata a Marcel Duchamp ci sedurrà attraverso l’opera pittorica di una delle figure più emblematiche dell’arte del XX secolo. Un approccio inedito, volontariamente paradossale che intende mostrare come questo anti-artista iconoclasta dadaista si possa rivelare attraverso dipinti che, elaborati tra il 1910 e il 1923, evidenziano il suo carattere fauve, simbolista e cubista. L’inventore dei ready mades, il creatore di Fontana (1917) non ha mai realmente abbandonato la pittura e questa mostra ne mette in luce la passione. Non si tratta tanto della volontà di riabilitare Duchamp al dipinto ma piuttosto di documentarne il rapporto. Da Nudo che scende le scale (1912) fino alla creazione del Grande Vetro (1915-1923), l’esposizione mette insieme un centinaio di opere segnate da tutte le correnti artistiche di inizio secolo. L’artista attraverso Kandinsky, Kupka e De Chirico, Brancusi e Picabia, sperimenta diversi stili per infine liberarsi di tutte le influenze acquisite. Duchamp assimila, decostruisce, reinventa. A cent’anni dal primo ready made, Ruota di bicicletta (1913), la curatrice Cécile Debray, rende omaggio all’artista puntando dunque a ricostruirne il percorso pittorico. L’esposizione sottolinea come il readymade non sia da considerare punto di rottura ma piuttosto di continuità, in un equilibrio che condurrà l’artista all’elaborazione del Grande Vetro opera realizzata nel segreto assoluto per dieci anni e sintesi artistico-letteraria del suo percorso.

e opere di video arte dei Masbedo (Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni) sono frammenti di una realtà visionaria, sospesa, che narra le angosce, le difficoltà di relazione di un’umanità che tenta di lenire profonde ferite interiori. La natura ostile dei paesaggi islandesi non è uno scenario neutraleallo svolgersi dei rapporti umani, all’interrogarsi degli individui, ma ne amplifica la portata semantica facendoci percepire la violenza e la drammaticità come nella lotta narrata in Glima, dove l’uomo e la donna si scontrano come fiere in mezzo al ghiaccio e ai frammenti vulcanici in un’atmosfera desolante e primordiale. Nella ricerca estetica dei Masbedo hanno un ruolo fondamentale il bianco e il nerodel ghiaccio e della terrache rafforzano la dicotomia dei protagonisti della serie girata in Islanda, e il suono,che sposta la narrazione su un piano onirico, ancestrale. The Lack, il loro primo lungometraggio (76’) è stato presentato alle Giornate degli Autori, svoltesi durante la 71a Mostra del Cinema di Venezia: protagoniste sono sei donne che, all’interno del loro frammento narrativo affrontano il tema della mancanza. Le riprese fatte tra l’Islanda e l’isola vulcanica di Lisca Bianca nelle Eolie sono lo scenario sublime di uno dramma e di una ricerca interiore sospesa nel tempo. The Lack verrà proiettato durante la mostra Todestriebe, che si terrà alla Fondazione Merz (fino all’11 gennaio 2015), insieme a nove opere video, incentrate sul tema ell’incomunicabilità, che ripercorrono i dieci anni di lavoro dei Masbedo.

Nella foto: MARCEL DUCHAMP, L.H.O.O.Q, 1919, readymade rectifié, Collection particuliere, ©Succession Marcel Duchap / ADAGP, Paris

Nella foto: Masbedo, Fotogramma tratto dal lungometraggio The Lack (2014)

Caterina Pocaterra

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FEDERICA COI

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PASQUALE RUOCCO

osa ha fatto – si chiede infatti in catalogo Silvana Annicchiarico, Direttore Triennale Design Museum – il design italiano quando si è trovato a operare in una società ‘con le spalle al muro’?» Come ha reagito, cioè, nei momenti di maggiore depressione politica, sociale ed economica, alla carenza cronica di materie prime, alla mancanza di infrastrutture, di serie politiche di sviluppo soprattutto nei campi dell’istruzione e della ricerca? Sono queste gli interrogativi che muovono, l’articolata ed esaustiva mostra inaugurata lo scorso 4 aprile, vistabile fino al 22 luglio, a cura di Beppe Finessi in occasione della settima del Triennale Design Museum, “Il design italiano oltre la crisi. Autarchia, austerità, autoproduzione”. Un Ritorno al Futuro dagli anni Trenta agli anni Zero, dalla Littorina Autarchica in legno e alluminio del 1939 alla Casatuttadiunpezzo realizzata da Marco Ferreri nel 2011 grazie alle innovative stampanti 3d; un viaggio che cerca nel passato elementi di continuità con il presente, termini di paragone tra le più importanti crisi che hanno attraversato il nostro paese: oltre l’attuale, il baratro segnato dal regime fascista e la crisi energetica degli anni Settanta, concentrando l’attenzione su concetti quali indipendenza, autosufficienza e autoproduzione. Il percorso parte dunque dagli anni Trenta, rappresentati dalla poliedricità di Fortunato Depero con la sua Casa D’Arte e il genio di Giò Ponti, quando il Duce ‘approfittando’ dell’embargo a cui l’Italia fu condannata dalle Nazioni Unite nel 1935, lanciò il suo grande, quanto velleitario, programma economico basato sull’autosufficienza economica della penisola. Dinanzi a tale situazione l’‘ingegno italico’ reagì puntando ad un eccezionale momento di coesione tra il mondo della scienza e quello dell’industria, che porrà il design italiano sia ad utilizzare vecchi materiali come il vimini, il midollino, il rattan, la canapa e la ceramica, rinnovandone la tradizione, tenendo un dialogo sempre aperto con il mondo delle arti visive; sia nuove sostanze, di invenzione italiana, tra cui il Lanital, surrogato della lana a base di caseina, al quale Marinetti

Niki De Saint Phalle e le sue Nanas

a grande retrospettiva dedicata alla magica Niki De Saint Phalle, fra L Nanas, madri e dee che popolano la sua

Le grandi installazioni di Salvatore Sava aprono le pagine di un nuovo racconto con la terra

Tra bellezza dell’artificio e amore per la materia di

Parigi, al Grand Palais

Federica Strufaldi

i umili e fiere origini contadine, Salvatore Sava ha l'aspetto di una persona semplice, dal cui volto traspare la gioia piena del fare creativo. L'artista ha sempre vissuto un profondo legame con la terra; scopre tra i frutti la bellezza e ne restituisce l'essenza formale in sculture fatte di materie povere che, fuori da ogni piglio descrittivo, suggeriscono l'idea di ciò che la natura gli rivela: «La bravura non sta nel riprodurre la “cosa” come fosse vera, ma nel saperne dare l'idea», mi ricorda in un recente incontro. Con le idee chiare sul proprio futuro, Sava intraprende presto gli studi artistici, conclusi nel 1989 nel corso di pittura presso l'Accademia di Belle Arti di Lecce della quale, dall'anno successivo, sarà docente, senza abbandonare mai la cura dei campi agricoli: «Le scuole a orientamento artistico» confidava ad Aldo Mazzei in un intervista del 2001 «mi sono servite per impossessarmi delle varie tecniche, di affinare e disciplinare la mia creatività, ma l'aver vissuto praticamente in campagna, l'aver lavorato al fianco di mio padre nei campi è l'autentica sorgente della mia ricerca». Sintetizzando in forme semplici profonde riflessioni provenienti dal proprio sostrato antropologico, dalla civiltà contadina, Sava dimostra una sorprendente abilità nel piegare gli elementi della quotidianità alle proprie esigenze espressive, mai esteticamente fine a se stesse ma piuttosto di pregnante impatto sociale: «Quando crea, l'artista segue un filo logico, ispirato anche inconsciamente, ma spesso è l'ambiente che ti chiede quell'opera. L'opera nasce proprio dalla necessità» sostiene, manifestando quel bisogno comunicativo che lo guida nella sua caratteristica accanita operatività. Come un inquieto mediatore fra noi frenetici abitanti di questo mondo in rovina, ci spiazza con la semplicità del suo fare e lo shock percettivo delle sue creazioni. Queste animano i tre studi dell'artista, situati a Surbo, a pochi chilometri da Lecce. In realtà, si tratta dei luoghi della sua quotidianità, ovvero gli agri di famiglia e la sua casa, intrisi della sua impronta, che rende gli orti terreno fertile anche per il germoglio continuo della sua arte, i muri fogli su cui appuntare pensieri propri e frasi altrui. Persino il tetto coniugale diviene il nido protettivo che racchiude innumerevoli opere, che abitano lo spazio insediandosi ovunque. Nei luoghi gremiti di ricordi e creazioni, si snoda pazientemente la sua vicenda artistica, incentrata sull'accordo inscindibile del fare estetico con quello della natura. Accade così che, in una stanza a cui il dominio assoluto delle opere nega l'accesso, fra il pullulare di decennali forme estetiche, si scorge la presenza di un Gabbiano, unico superstite di un incendio domestico. L'esemplare in metallo e legno colorato appartiene alla serie apparsa per la prima volta a Gallipoli, nel 1989, in occasione della collettiva “Lavori in

corso”. Dalla cittadina ionica, i “Gabbiani”sarebbero presto migrati negli anni successivi a Surbo, a Lecce, nel porto di Brindisi caricandosi della necessità di denuncia ecologista sempre più forte in Sava. Quando, nel 1995, “I gabbiani non volano al buio...”, giunsero (in mostra) nella piazza principale di Surbo, l'artista volle provocare uno sviamento percettivo nei fruitori e in chi abitualmente frequentava quel luogo di incontri paesani, disorientandoli come gli uccelli che, forse per qualche mutazione ambientale, scelgono di migrare non più in una città di mare, ma verso un paese dell'entroterra. L’esordio di quei “volatili” apriva un periodo di fervida sperimentazione, segnato dal fondamentale incontro, nel 1992, con Luciano Caramel, che cura la mostra leccese “Magica Luna” (1996), dando risalto alla «raggiunta prima maturità di Sava». Mostrandomi una luna dedicata a Fabrizio De André, l'artista mi rivela ermeticamente che «“Magica Luna” nasce da un duello tra Fazzini e Zola». Istintivamente, l'occhio volge – nella vana ricerca di risposta – verso le librerie in cui, tra gli altri, si notano volumi su Pascali, Rodin, Giacometti, Bernini, Wildt. Quel che è più evidente in quest'asserzione è il fascino e il mistero che la luna emana influenzando, con le sue fasi, i mutamenti terrestri e guidando, per questa via, le vicissitudini più intime della sfera umana. Presto, però, l'artista volgerà verso una nuova ricerca estetica, più scultorea, sempre connessa all'humus culturale di origine, ma purificata dall'afflato sentimentale e soggettivo. Non a caso, il nuovo ciclo prende il nome di “Tramontana” (1998), il vento benevolo dell'ambiente contadino. È, dunque, un alito di rigenerazione, che accarezza e rende sonora questa nuova produzione in ferro saldato. Si tratta di sculture ricavate da materiali di recupero, anch'essi rigenerati a nuova vita estetica, all'interno di una riflessione che percorre e fonde la scultura contemporanea del Novecento e la tradizione manifatturiera degli strumenti agricoli. Negli anni, diviene sempre più esplicita, nelle opere di Sava, la denuncia contro la distruzione del patrimonio naturale e culturale del territorio. L'artista manifesta, con abile sottigliezza, questa situazione di emergenza sociale ed ecologico-culturale anche nella recente personale “Follie Barocche” (Lecce, ex Convento degli Olivetani, 1 settembre – 16 dicembre 2014) che inscena l'assordante urlo di ribellione della pietra e della natura e, per loro tramite, del Salento e del suo Barocco, alla follia gialla fluorescente della civiltà contemporanea che, invece di preservare il patrimonio ambientale e culturale, lo devasta. Nella piena coscienza del dramma vissuto dalla natura infestata dall'uomo, la nobilitazione di materiali poveri traduce l'aspirazione a una salvezza derivata da un fare umano più rispettoso dell'ambiente, alla ricerca di un equilibrio delicato ma ancora possibile. E, sostiene l'artista, «l'equilibrio si può insegnare». Nella foto: Salvatore Sava, Follie barocche, 2014, installazione site specific, Lecce, Ex Convento degli Olivetani

da novembre puoi sostenere

na mostra singolare quella ospitata fino al 2 novembre a Palazzo Costabili di Ferrara che mette in scena, nel suggestivo allestimento del Museo Archeologico Nazionale, opere recenti del pittore Gianni Vallieri. Al centro della sua poetica, l’artista pone da decenni l’incontro con la natura, inquadrata nel dettato di una pittura pervasa da un’intensa luminosità e posta nei registri di un’astrazione naturalistica, densamente lirica che non nasconde, come ha avuto modo di scrivere Giorgio Bassani, e la «dipendenza gioiosa» da Matisse. Ad essa oggi si aggiunge il desiderio di un dialogo con la storia, e lo fa ponendo nel percorso espositivo brani immaginativi ispirati ad opere presenti nel celebre museo ferrarese: l’immagine assume subito il tempo narrativo che rende attuale il confronto di età e di culture lontane tra loro ma fortemente saldate dal respiro della contemporaneità. Vallieri, rileva Ada Patrizia Fiorillo, nel testo che accompagna la mostra «ha messo insieme alcuni dei soggetti che lo hanno nel tempo particolarmente stimolato: la natura, nella sua estensione più ampia, gli scorci urbani, gli interni. Ma v’è di più e va sottolineato perché è il punto di partenza della mostra. Mi riferisco ad un autoritratto, genere, si sa,meno attraversato nella produzione dell’artista, che trova posto in una composizione il cui titolo è per l’esattezza Gli sposi, così come è più diffusamente conosciuto il pregevole reperto etrusco dell’urna funeraria di Cerveteri. È interessante vedere però come Vallieri lo abbia trattato».

Annamaria Restieri

Nella foto: Gianni Vallieri, Fontana del parco Massari, olio su tela

Periodico di cultura, arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative

su

ci contiamo!

arte, ripercorre alcuni nodi centrali della sua graduale, e non sempre facile, carriera ed emancipazione femminile. Dalla professione di modella (in mostra alcune celebri copertine di Vogue), il passo verso l’arte è breve. Già nelle prime prove di pittura, nel retaggio di modi informali, iniziano a farsi largo l’utilizzo di tasselli di vetro, sua successiva cifra distintiva e una quantità di oggetti che rappresentano la strada verso il Nouveau Realisme. Sono impressionanti le varie Mariée (1960-64), veri e propri agglomerati, al limite del macabro, di piccoli bambolotti, piante di plastica e tessuti cuciti. Metafore dei vari ruoli della donna in società, esse rappresentano il primo passo verso quell’affermazione di libertà disperatamente ricercata. Una necessità che presto confluisce nel ciclo delle Nanas: icone della gloria femminile dove i corpi si gonfiano, fluttuano nello spazio, si colorano di gioia e sprigionando il “Nana Power”. Discendenti delle dee preistoriche, simboli della fecondità, come regine e guerriere si oppongono allo stereotipo della modella e casalinga perfetta. Volano ovunque e diventano immense fino a occupare lo spazio pubblico, come quella costruita (e poi smontata) a Hon nel 1966. La donna è “casa”: da qui l’intuizione di realizzare il Giardino dei Tarocchi, parco edificato fra il 1978 e 1998 a Capalbio in Italia, dove la nana-casa Imperatrice si fa simbolo di nuova vita, trovando la sua completezza nel dialogo con la natura.

Maria Letizia Paiato

Nella foto: Niki De Saint Phalle, Nanas,

Nuovo spazio ai giovani

Inaugura Passkey Art Festival

al 29 Settembre al 5 ottobre l’Arte Contemporanea è andata in scena D a Montepulciano e nella Val di Chiana.

Inserito in una cornice del tutto inedita, questo progetto aveva come obiettivo di promuovere il territorio, creando un connubio tra l’arte contemporanea e la tradizione culturale ed enogastronomica della zona. Un Festival articolato su più livelli: degustazioni, workshop, spettacoli di danza, musica e mostre d’arte. Le “arti visive” sono state le protagoniste indiscusse. Montepulciano ha ospitato la mostra “Colours and Soul” a Palazzo Avignonesi (edificio storico chiuso al pubblico e aperto proprio in questa occasione) con le opere dei maestri Eugenio Carmi e Giuseppe de Gregorio, a sottolineare il loro percorso e approdo all’arte Astratta e Informale. Sempre nell’intento di fornire una chiave di lettura dell’evoluzione che ha caratterizzato l’arte nel suo passaggio nel corso del decennio cinquanta, la mostra “L’Astrattismo nel ‘900” alle Logge della Mercanzia. Le cantine storiche di Montepulciano hanno ospitato “Under the ground”, una collettiva di 16 artisti emergenti selezionati tra i più interessanti nel panorama giovanile, in una nuova dimensione che vede coesistere arte e vino. “Passkey” deve il suo nome ad un progetto che si svolge durante la settimana: studenti delle Accademie italiane ed europee hanno realizzato delle tele posizionate alle porte della città come simbolo di totale apertura a nuove forme d’arte. Al progetto hganno dato la loro adesione anche i comuni di Chianciano Terme, Sarteano e San Casciano dei Bagni.

Maria Martina Soricaro

Nella foto: Logo Passkey Art Festival

Calabria: nuovo parco di scultura

Antonio Pugliese e l’oriente

on Tanabata “Il canto delle stelle”, l’opera site specific realizzata dalC l’artista lametino Antonio Pugliese, ha

preso avvio a Paterno Calabro l’attività del nuovo parco di sculture en plein air che l’associazione culturale “Progetto Paterno”, con la direzione artistica di Gianfranco Labrosciano, intende creare tra le valli del piccolo centro in provincia di Cosenza. Un’opera che accelera un processo di riconoscimento del territorio, dando ad esso una prospettiva turistica. Non un’opera, dunque, auto celebrativa bensì un corpo plastico in grado di dialogare simultaneamente con mondi vicini e lontani: l’ambiente circostante, fortemente intriso di spiritualità francescana; il cielo e l’oriente, tramite la minuta architettura che si cela all’interno della scultura-ciotola e che apre a una dimensione ulteriore, un luogo di meditazione dal quale poter osservare nelle serate estive Vega e Altair, le stelle innamorate che la tradizione giapponese ricorda nella festa della tanabata. Artista da tempo affermato a livello nazionale e partecipe di numerose manifestazioni, tra queste la XIV Quadriennale d’Arte di Roma del 2003 e la 54° Esposizione internazionale d’Arte della Biennale di Venezia del 2011, Antonio Pugliese è anche curatore di eventi di arte, artigianato e design, animatore del Centro “Angelo Savelli”. Nella sua esperienza notevole è l’attenzione ad una pratica ambientale, come testimoniano i progetti realizzati nel 2000, “Acqua Potabile” museo en plein air per il comune di Lamezia Terme e “Angelo e Angeli” per la Provincia di Catanzaro nel 2003.

Grazia Tornese

Nella foto: Antonio Pugliese, Tanabata, 2014, scultura site specific

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architettura

metropolis

Le città sono indispensabili a Mnemosyne, e alle Muse, le sue figlie (J. Hillman)

Se è questo il Messico, sono contenta di essere venuta, sono contenta di fermarmi (N.Hartwell)

Mani che progettano una città con-divisa

Città del Messico metropoli

Ripensare alla città degli artigiani e ai suoi luoghi per restituire alla comunità lo specchio della propria identità di

atzeca

Contraddizioni di una metropoli latinoamericana verso la globalizzazione

GIUSEPPE DI MURO

L’

architetto Ippodamo da Mileto collaboratore di Pericle aveva teorizzato una città ideale di diecimila uomini, divisa in tre classi sociali; artigiani, agricoltori, difensori. La città, a pianta ortogonale è posta al centro di un territorio, è suddivisa in tre parti, ciascuna delle quali provvede al proprio sostentamento. È una città organizzata secondo un piano preciso in cui gli isolati, il loro orientamento e lo sviluppo del nucleo urbano, sono perfettamente regolati. Essa si articola in un complesso sistema di edifici pubblici e privati, di piazze che ospitano mercati, santuari, biblioteche in testimonianza di ricchezza e di vitalità. Da sempre e in tutte le civiltà l’artigianato ha rappresentato un settore vitale nella crescita e nel sostentamento della città: nell’antichità la formazione di comunità stabili, ha costituito un incentivo allo sviluppo delle attività artigiane. Il perfezionamento di particolari manufatti ha richiesto una sempre maggiore specializzazione e quindi la nascita di caste detentrici di conoscenze e di segreti professionali. La domanda crescente di mano d’opera ha determinato lo sviluppo di nuclei urbani, in cui comunità stabili di artigiani hanno occupato definitivamente determinate vie o aree del centro. L’evoluzione di tali attività procede, dunque, pari passo con quella delle città e del commercio, amplificando la complessità sociale e produttiva che ha comportato una diversificazione delle attività artigianali. Favorite dallo sviluppo del commercio alcune città si specializzano nella produzione di specifici manufatti, di conseguenza l’artigiano, visto da un profilo sociale, diventa tanto più centrale ed autonomo, quanto più rispondente al fabbisogno quotidiano è l’attività svolta. Botteghe artigiane di tipo familiare si tramandano il lavoro, i saperi e i segreti di generazione in generazione. In alcune realtà più vitali, grandi manifatture, proprietà di mercanti-imprenditori, spesso organizzati in società, impiegano decine di operai salariati. Ma il trionfo dell’artigianato si afferma dopo l’anno Mille ed è strettamente legato allo sviluppo del mercato cittadino. Nella piazza del mercato e nelle stradine circostanti si vanno presto addensando, distribuite per lo più secondo i vari mestieri, le botteghe degli artigiani che nei eventi periodici della popolazione rurale, hanno l’occasione di scambiare i loro manufatti coi prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento. Cominciano a diffondersi le corporazioni, organizzazioni di mestieri che nascono con l’intento di proteggere i manufatti prodotti da quelli importati e di assistere i componenti della corpora-

zione in caso di malattie, disgrazie, tracolli economici, lutti. Queste associazioni regolano minuziosamente l’attività e l’organizzazione della città; concordano infatti precise normative sui prezzi delle merci, sugli orari di lavoro, sui salari e perfino sulle modalità di lavorazione dei prodotti. La figura dell’artigiano acquista così un più forte valore sociale all’interno delle città: non ci sono più preclusioni di carriera politica, avvantaggiati, soprattutto, da patrimoni ben più consistenti, di molti proprietari terrieri. Attraverso le corporazioni, il ceto artigiano giunge a controllare politicamente la vita di molte città. La decadenza rapida dell’artigianato, si manifesta soltanto dopo la metà del secolo XVIII, a causa dell’intensificazione del commercio interno e internazionale, destinato a soddisfare i bisogni non più d’una piccola minoranza di potenti e di ricchi, ma di masse sempre più numerose. L’applicazione delle macchine più estesa sottrae di anno in anno nuovi campi di attività, conquistati dalla grande industria. Sebbene sconfitto dalla fabbrica, che è la forma dominante e caratteristica dell’economia industriale dell’età tardo moderna e poi contemporanea, l’artigianato non scompare, ma subisce un grave colpo, correndo il rischio che si perdano le tracce delle antiche tecniche artigianali, a causa della graduale scomparsa dei pochi artieri che ancora le praticano. Oggi non ha alcun senso pensare ad una conservazione artificiale delle botteghe dei diversi mestieri realizzando per loro pietose “riserve” come quelle in cui sono stati rinchiusi in America gli ultimi pellirosse. I nostri artigiani custodi di una storia fatta di tradizioni e passione, sono capaci di rinnovarsi continuamente abbinando le moderne tecnologie ai saperi della tradizione facendo convivere passato e presente. Un ruolo importante deve essere svolto dalle scuole in cui si insegnano realmente quelle tecniche artigianali che stanno cadendo in disuso. Occorre correggere gli errori fatti in questi ultimi anni con la riforma della Scuola e in particolare degli Istituti d’Arte, dove si dovrebbero insegnare i mestieri artigiani, rivedendo gli insegnamenti legati strettamente al mondo delle “manualità sapienti”. Basterebbe prendere spunto, in un ottica più contemporanea, da quella che è stata la grande scuola di arti e mestieri tedesca del Bauhaus, “autrice” di molti oggetti ancora oggi richiesti dai mercati. Per ridare spazio alle attività artigiane, è necessario una trasformazione radicale del sistema economico attorno a cui esse gravitano. Con maggiore frequenza i nostri centri storici sono teatro di conflitti, anche

di

L

intensi, tra una pluralità di interessi ed esigenze che rinviano a diverse potenziali vocazioni dei luoghi. Proprio la vocazione specifica di questi ultimi, fa anche da incubatore a comportamenti devianti, a volte illegali, che generano delicati problemi di gestione dell’ordine pubblico e che rendono difficile la coesistenza delle diverse esigenze che si trovano a convivere gli stessi spazi. La complessità non si governa a colpi di ordinanze “creative” ma con un disegno coerente che mette ogni cosa al posto giusto. Abbiamo visto che le misure assistenziali non servono, bisogna valorizzare i contesti, ridare ad essi l’ossigeno, la vitalità della domanda. I centri storici devono tornare luoghi dall’anima molteplice, in cui si fondono la vocazione artigiana, quella commerciale e di socializzazione, cioè versatili in cui convivono sinergicamente botteghe artigiane, negozi, gallerie, officine creative, ristoranti bar e locali della movida. Bisogna, dunque, osare, mettere in campo idee innovative e creative, prendendo spunto, a cento anni dalla sua pubblicazione dal manifesto Ricostruzione futurista dell’universo, firmato da Giacomo Balla e Fortunato Depero nel marzo del 1915: ispirarsi ai loro intendimenti innovativi ma che non lasceranno alle spalle il “sapere artigiano”. «Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare – è quando si legge nella chiusa – questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente. Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto.»

Progettare la giusta “atmosfera” Note a margine delle riflessioni avanzate da Peter Zumthor di

STELLA CUOMO

U

na riflessione sull’architettura contemporanea e sulle sue prospettive trova, nel libro di Peter Zumthor (Atmosfere. Ambienti architettonici. Le cose che ci circondano, Mondadori Electa, 2007), un punto di riferimento, in particolare per la generazione formatasi nel corso del primo decennio del Duemila. Certamente lo è stato per la mia formazione. Nato in occasione di una lezione tenuta il primo giugno 2003 dall’architetto svizzero, durante il Festival di musica e letteratura “Wegedurchdas Land” al castello rinascimentale di Wendlingheusen, il libro non è né un’autobiografia né una raccolta di interviste all’architetto, famoso per la sua riservatezza, ma è un raffinato saggio capace di trasmettere bene il carattere spontaneo proprio del discorso rivolto al pubblico. Una lunga introduzione, che occupa le prime dieci pagine del libro,chiarisce ciò che Peter Zumthor definisce “atmosfere”, approfondendo, poi, nei nove brevissimi capitoli successivi, le nove risposte al suo “metodo di progetto”, al suo modo di operare. Zumthorsi sofferma ora sui suoi stessi progetti

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ROMINA VIGGIANO

quali le “Terme di Vals” a Grigioni (Svizzera) oppure il “Padiglione della Svizzera” per l’Expo 2000 ad Hannover, ora sull’installazione I Ching dell’artista americano Walter De Maria, toccando l’arte, la fotografia, il cinema, tutte le esperienze di una vita che, in varia misura, sono state fonti di sensazioni positive e che egli considera fondamentali per la creazione di un’opera. Il concetto di “atmosfera”, afferma l’architetto, sta ad indicare la qualità principale di un edificio, di un’architettura, di un luogo, «quando un edificio riesce a toccarmi emotivamente». L’”atmosfera” costituisce l’identità di un’architettura che, in tal modo, resterà eterna nella memoria di chi l’ha vissuta. Ma cosa la genera? Niente di astratto, niente di effimero. Zumthor fa degli esempi: egli immagina di essere all’interno di una piazza ed avverte delle emozioni, poi, all’improvviso, la stessa piazza scompare portando via con se tutte le sensazioni. L’“atmosfera” è, paradossalmente, più concreta di quel che si pensa e costituisce il fondamento stabile delle sue opere. In che modo, quindi, si può pensare di progettare un edificio che abbia una propria “atmosfera”? Si parte dalla

struttura dell’opera architettonica, si procede con la scelta dei materiali, con i suoni, con la temperatura, con gli oggetti che contiene, si cerca di creare un ambiente che a volte calma a volte sorprende, ci si sofferma sul concetto di “soglia” e di “rapporto interno-esterno”, si arriva alla ricerca della “scala umana” ed all’importanza della luce. Quello che traspare è un’idea di “architettura come ambiente” in cui vivono le persone e crescono i bambini: un valore solido, un punto di riferimento, quello che sarà un ricordo. «L’architettura è fatta per essere vissuta, per essere utilizzata. Non è un’arte libera[…]Tutto si mette in relazione con il resto, ed è impossibile togliere anche solo una piccola parte senza rovinare l’insieme» afferma Zumthor. In chiusura egli parla del suo obiettivo ultimo ossia la sempre dibattuta questione della forma che diventa una diretta conseguenza di tutti gli aspetti analizzati in precedenza. Niente di aleatorio o d’incerto. La forma è ispirata da tutto quello che, nel corso della vita, ci ha formati: dall’oggetto quotidiano al quadro, dal brano musicale al film.

a leggenda narra che gli antichi Mexica avrebbero dovuto costruire la propria città laddove avessero visto un’aquila su un fico d’India mentre si mangiava un serpente. L’evento, illustrato nello scudo della bandiera nazionale, si verificò in una zona ‘improbabile’: in un’isola nel mezzo dell’impressionante lago di Texcoco, contornato da vulcani, in una valle a più di 2000 metri, nel centro di quelli che oggi sono gli Stati Uniti Messicani. Tenochtitlan, la capitale dell’Impero Azteco viene così fondata all’inizio del 1300 e, due secoli dopo, all’arrivo degli spagnoli di Hernán Cortés, è una dei nuclei abitati più importanti del mondo, snodo del commercio e soggiogatrice di moltissimi territori; per questo motivo viene scelta per amministrare il governo della “Nueva España”. Oggi come allora l’Area Metropolitana si mostra enorme, impensabile agli occhi di chi non l’ha mai vista. Durante il giorno un brulichio di gente di tutte le razze e classi sociali si affolla nel centro storico dove i negozi, le bancarelle e i venditori occasionali sono onnipresenti e la loro attività si aggiunge agli innumerevoli suoni, odori, colori dello spazio urbano. Passeggiare per le vie è una scoperta continua, non c’è ordine, tutti gli elementi si sovrappongono in una metamorfosi che evidenzia la ricca storia del luogo; dal passato precolombiano alla rivoluzione del secolo scorso, passando per il lungo periodo di conquista spagnola e, in generale, dell’influenza europea, fino al presente globalizzato. La diversità si osserva confrontando la cattedrale e tutti gli edifici intorno alla piazza principale dello Zocalo (con le caratteristiche facciate in mattoni di roccia vulcanica rossiccia) in contrasto con i vicini scavi archeologici del Templio Maggiore o facendosi sorprendere dai primi murali di Orozco, Siqueiros e Rivera nel Collegio-Museo Ildefonso oppure, visitando il poco distante Ex-Teresa Arte Actual, piattaforma di arte contemporanea ospitato in una delle molte chiese sconsacrate e non agibili per lo sprofondamento e l’irregolarità del pavimento (dato dal prosciugamento del lago sottostante). E così è sempre il Distretto Federale, dove camminando tra il traffico e le grida della multietnica società messicana, tra negozi specializzati in base alla via (quella delle librerie, dell’elettronica, della musica, dei vestiti da sposa...) ci si ritrova nell’armoniosa piazza coloniale di Santo Domingo (conosciuta per la falsificazione di documenti) o nel parco Alameda con l’eclettica architettura delle Belle Arti, in marmo e con una gigantesca cupola Tiffany. Il passaggio temporale si riscontra nel viale Riforma, spesso animato da una mostra all’aperto o da manifestazioni, sovrastata dalla colonna con il famoso Angelo dorato dell’Indipendenza e dalla geometrica scultura gialla del Caballito, e in fondo, tra tanti grattacieli e costruzioni tecnologiche, il Monumento alla Rivoluzione. La capitale messicana non è solo il centro storico. Organizzata in delegazioni poi suddivise in colonie, offre al visitante quantità di luoghi peculiari: la zona Rosa di stile europeo-francese con vie pedonali e una vita notturna vivace; la Condesa o la Roma, quartieri alla moda pieni di locali, gallerie e attività culturali; Polanco parte ricca dove sono ubicati il Museo Soumaya (del multimilionario Carlos Slim) e la Fondazione Jumex con la collezione d’arte più attuale; il bosco millenario di Chapultepec con il lago, gli scoiattoli che ospita vari istituti museali (primo tra tutti quello di Antropologia); l’accogliente Coyacan, nota per la casa di Frida Khalo e per quella dove fu assassinato Trotsky, e più a sud il campus universitario, uno degli spazi pubblici più significativi e generosi della città. La natura che circonda il Distretto ma è nascosta perché la vallata è interamente costruita. Malgrado la giungla d’asfalto ne limiti la prospettiva, dall’alto di una superstrada (raggiungono i quattro livelli), o soprattutto uscendo dall’urbe, la panoramica è emozionante e ancora ricorda i paesaggi di José María Velasco e i picchi dei vulcani con neve e fumarola appassionatamente dipinti da Dr. Atl. La vita culturale è attiva e il governo (almeno per la pubblicità) investe molto nell’educazione artistica: è facile iscriversi a corsi e congressi di qualsiasi tipo e costo. A parte quelli promossi dall’infinità di musei, parecchi gestiti dalla stessa Universidad Nacional Autonoma de México (UNAM), ogni delegazione ha il proprio centro culturale, per lo più piccoli spazi d’incontro e servizio alla comunità. Recentemente sono state create le Fábricas de Artes y Oficios (Fabbriche di Arte e Mestieri), nominate FArO; sono una proposta alternativa d’intervento culturale, nate in quattro punti limitrofi dell’Entità federativa, promotrici dell’integrazione degli abitanti indigeni per mezzo di attività libere che uniscono l’artigianato locale all’arte. In grandi architetture multifunzionali sono al-

In alto: Bellas Artes A lato: Biblioteca centrale della Città Universitaria (UNAM) con mosaici di Juan O'Gorman, 1952; Calle Juarez di fronte a Bellas Artes, con Monumento alla Rivoluzione nel fondo. Foto dell’autore, courtesy “Faro de Oriente”

lestite esposizioni, proiezioni cinematografiche, biblioteche, sale con computer, zone di taller per ogni età e regolarmente sono organizzate iniziative, dando spazio all’esperienza creativa e collettiva, decentrando le attività culturali. Qui si riscopre il Messico genuino, lo stesso apprezzabile nel Sud della Repubblica (nelle regioni di Oaxaca e Chapas), e appena intuibile nei luoghi turistici perché troppo intaccati dalla società statunitense: è quel ricchissimo mosaico, rievocato anche da Italo Calvino, di valori propri, umani e popolari che spingono verso l’innovazione senza convenzioni o dimostrazioni di gigantismo. Il probema è, valutando la mia esperienza personale, la profonda divisione della società messicana, soprattutto nella capitale in cui si concentra la maggior ricchezza; esiste un’evidente divergenza tra la classe alta e il resto, tra i Due Messico di Octavio Paz. L’elite ‘sviluppata’ è orgogliosa del suo status: ville, servitori domestici, servizi sociali e medici costosi, tecnologie più avanzate, macchine all’ultima moda e vacanze per il mondo li fa sentiredei newyorckesi. Tuttavia questa loro “globalizzazione” è una sfera di cristallo antitetica alla realtà, in quanto il modello nordamericano gli ha chiuso gli occhi nascondendo sia le ristrettezze che le ricchezze del proprio Paese. Infatti, la maggiorparte della popolazione vive facendo spesso più di un lavoro, sottopagato e in nero, mantenendo famiglie numerose e allargate, senza una vera educazione e costrette a mercanteggiare o rubare per poter dare risposta a necessità. E in più, come in tutte le metropoli, ci sono i veramente poveri, gli abitanti delle zone limitrofe, in baracche e senza servizi pubblici o igenici. Una contraddizione triste perché spesso gli emarginati sono proprio gli indigeni, simbolo “delle radici dell’identità messicana”, tanto lodati nella teoria ma unicamente come entità astratta del passato lontano e non del presente della vita di tutti i giorni.La prospettiva etnocentrica rende difficile accettare queste strane dinamiche, creando un amore-odio, ma per fortuna, aiuta a bilanciare gli ideali inizialmente immaginati e non vissuti sulla propria pelle. L’esperienza più estraniante e attrattiva di questa capitale centroamericana è la relatività dello spazio-tempo. Le smisurate distanze rompono gli schemi mentali e i paradigmi di un ‘europeo conforme’ e i contrattempi non mancano mai: è abituale percorrere mediamente due ore (ma anche quattro) soltanto per andare a lavoro. Ciò nonostante

dopo lo shock iniziale risulta affascinante mischiarsi tra la folla scrutando il presentarsi dei momenti, i frammenti di purezza del messicano nella sua vita quotidiana. Chiaccherare con un taxista, vedere il succedersi dei volti nel metro e di tutte le persone che lì raccimolano spiccioli, vendendo cd musicali e presentandosi con uno zaino con delle casse o cantando, o ancora, commercializzando qualunque cosa: tagliaunghie, calze antigonfiore, caramelle e riviste. Lo stesso accade nei “microbus”, piccole corriere normalmente vecchissime e sgangherate che nel loro compito di unire tutti i punti della città racchiudono un inframondo autoctono e prezioso, fatto d’incontri e scontri tra giovani e anziani, bambini e donne che condividono un tragitto stretti tra la massa, a volte scomodo, altre in serenità. Poi è risaputo, le metropoli hanno un traffico spaventoso e qui il regolamento stradale è un optional, il disordine e il suono dei clacson è perenne e negli orari di punta si può restare imbottigliati per ore. Anche il trasporto pubblico collassa, senza contare eventuali acquazzoni stagionali. Tutto però si calma quando scende la sera, quando tutti hanno fretta di tornare a casa e anche il dinamismo dello Zocalo assume una presenza metafisica. La metropoli sfinisce, per di più trovandosi a 2000 metri.

Le rovine di Teotihuacán immagine di un paesaggio lunare

Sperimentazione e dialogo nella piattaforma internazionale Soma

50 Km da Città del Messico, A ad un' altezza di 2300m sono conservati i monumenti archeolo-

n America Latina, negli ultimi Isitàanni, è stata avvertita la necesdi nuovi spazi di riflessione e

gici di una delle città preispaniche più antiche e maestose. Le rovine sono solamente la reminiscenza della civilizazzione che fu il cuore della politica, economia e cultura mesoamericana dal II al VII secolo, di un centro abitato esteso quasi 21 km2 con una popolazione di 2000 abitanti. La suggestione del panorama, del peso della sua storia e della sua sacralità, risulta inspiegabile per la sua intensità e forse per il mistero che ancora nasconde. Quando i Mexica la trovarono abbandonata, decisero di darle questo nome, che significa “Luogo degli dei” e di considerarsi diretti discendenti dei suoi fondatori, di cui praticamente non sappiamo nulla. Secondo questa mitologia, all’origine dei tempi, qui si riunirono gli dei per creare il giorno e la notte e di conseguenza le due piramidi principali, quella del Sole, di 64 metri (originariamente 75 m) e con 365 gradini, e quella della Luna di 44 m, sono dedicate alle divinità sacrificate per dar inizio al ciclo della vita. Dall’alto dei monumenti si ammira un paesaggio atemporale: una grande spianata senza vegetazione e con disseminati vari altari e palazzi; tutta un’altra visione rispetto alle rovine maya che s’innalzano dentro alla selva caraibica, però ugualmente coinvolgente. La sintesi degli dei cosmici precolombiani è rappresentanta dalle decorazioni in bassorilievi o pitture murali raffiguranti giaguari, serpenti ondulati con il corpo coperto da piume (Tlalòc, dio della pioggia) e altri miti. (r.v.)

trasmissione del sapere, compromettendo anche la produzione artistica. Nel contesto messicano, la decisione di alcuni creatori di dar vita ad un’esperienza di dialogo tra loro, con altri attori della cultura e l’integrazione tramite l’avvicinamento con il pubblico, si è trasformato in un progetto educativo e sociale significativo, nonchè a larga scala. SOMA non è una sigla e non ha un significato determinato, tuttavia potrebbe alludere alla droga ideale descritta in Il mondo nuovo. Quest’associazione civile, nel cui consiglio ci sono nomi di fama mondiale come Francis Alÿs o Teresa Margolles, sta proponendo un corso biennale e una residenza internazionale per artisti, critici e curatori con l’obbiettivo di ricercare mezzi e parametri innovatori per lo sviluppo di una visione globale del mondo dell’arte e di un’attività coerente alla società del presente. Oltre agli studi di specializzazione teorici e pratici, la struttura fomenta una dinamica partecipativa rivolta al processo artistico e all’esperienza sempre in contatto con il pubblico. Lo spazio SOMA pianifica azioni collettive e laboratori comunitari e ogni mercoledì offre una conferenza degli stessi partecipanti o di professionisti, donando quindi la possibilità di apprendere, socializzare e criticare processi e conseguenze estetiche, politiche e sociali della produzione artistica. Tutte le attività sono caratterizzate da una certa libertà poiché non dipendono da nessuna istituzione. (r.v.)

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scritture

filosofia/estetica Genio è ciò che ci fa dimenticare l'abilità (L. Wittgenstein)

Quel che non è religioso non è interessante (N. Gómez Dávila)

Estetica musicale

Caducità e religioni

La strana assonanza tra Meyerbeer e Sherlock Holmes

L’impermanenza e la morte nelle tradizioni religiose tra Occidente ed Oriente di

Filosofia come

FRANCESCO DE SIO LAZZARI*

L

a piccola città medievale di Pistoia si è trasformata lo scorso settembre in un prezioso teatro per le discussioni musicologiche ed estetiche del convegno «Meyerbeer e il Grand opéra francese». Il simposio ha avuto come keynote speakers Jürgen Maehder (Freie Universität Berlin) e Mark Everist (University of Southampton). Il meeting estetico-musicologico è stato pianificato in concomitanza con il centocinquantesimo anniversario della morte di Giacomo Meyerbeer (17911864), allo scopo di ricordarne e celebrarne la figura e l’opera, ma anche per creare una occasione di studio sugli sviluppi del Grand opéra francese e della tradizione musicale operistica europea. Meyerbeer fu un compositore di musica operistica tedesco (ma di origini ebraiche), molto attivo soprattutto in Francia. Oltre alle questioni musicologiche più specifiche il nucleo teoricoestetico più rilevante ha riguardato l’influenza meyerbeeriana su altri compositori, su altri generi artistici e su altre epoche. Tale influenza è non solo evidente in compositori quali Wagner e Berlioz, e nella Meyerbeer-Renaissance avvenuta nel Novecento, ossia la ripresa e riproposizione delle opere meyerbeeriane, ma addirittura in ambiti differenti, come nella Filosofia della musica di Mazzini. Interessante in quest’ottica l’intervento di Everist, che ha analizzato il percorso storico-letterario compiuto dal quarto atto dell’opera «Les Huguenots» e studiato il modo in cui questo frammento della produzione del compositore sia stato variamente citato e recepito dalla letteratura e cultura europea successiva. Echi e tracce di questo atto lirico sono rintracciabili in Verne, in Zola, fino ad arrivare a Il mastino dei Baskerville di Conan Doyle.

professione Prospettive e limiti della specializzazione del pensiero di

GIAN PAOLO FAELLA

N

U

n testo egizio della fine del terzo millennio a.C. (Il dialogo del disperato con la sua anima) esprime il tentativo di considerare la morte come una liberazione. Morire sarebbe come essere di nuovo sani, uscire da una prigione o tornare a casa dopo una spedizione di guerra. E questa idea della morte dà una sorta di ebbrezza: «La morte è davanti a me oggi, come il profumo della mirra, come seder sotto una vela in un giorno di vento. La morte è davanti a me oggi, come il profumo dei loti, come seder sulla riva del Paese dell’Ebbrezza» (Ora in Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Torino 1969). Ma la lieta attesa della morte come una liberazione è, in fondo, piuttosto rara. Quasi tutte le grandi tradizioni religiose insistono piuttosto sulla caducità come sintomo fondamentale per valutare che cosa sia l’uomo, quella che sarà definita la «miseria della condizione umana». Parole splendide ha dedicato alla caducità l’Ecclesiaste (III. 1-2 e 20): «Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire. […] Tutti sono diretti verso la medesima dimora: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere».

In un passo di straordinaria suggestione, il venerabile Beda così descrive, nell’VIII secolo d.C., il sentimento della caducità da cui è dominato: «Quando io penso, o re, al corso di questa nostra vita terrena, e vo paragonandola a tutti quei tempi di cui nulla sappiamo, mi viene in mente un’immagine: in una sera d’inverno tu siedi, o re, a cena; e intorno ti stanno capitani e ministri. Il fuoco è acceso, la stanza è calda; fuori battono turbini di neve. Ed ecco che entra volando rapidissimo un passero smarrito, e traversa la sala, ed esce di nuovo nella notte. Mentre è nella stanza non lo tocca il gelo invernale; ma già quell’attimo è trascorso, ed eccolo ancora travolto di tempesta in tempesta. Tale, o sire, mi sembra la vita dell’uomo: quello che fu, quello che sarà, noi lo ignoriamo» (Beda, Historia ecclesiastica gentis Anglorum, II, 13. Il testo è del 731). Le testimonianze si potrebbero moltiplicare. Sono persuaso che non esisterebbero le religioni se sulla nostra vita non incombessero la caducità e la morte. Nella consapevolezza della caducità è la fonte prima del sentimento religioso. Molto spesso i momenti più alti della riflessione ascetica e mistica sono quelli in cui s’insiste sulla fragilità dell’uomo, sul fatto ch’egli sia destinato alla fine, e che anche i corpi più belli diventeranno maschere orrende. Non a caso, una pratica della meditazione buddhista più antica suggerisce di andare ogni giorno al cimitero, presso uno stesso cadavere, per osservarne i progressivi mutamenti: la solidità del corpo che si disfa, i colori che diventano più cupi, le macchie che appaiono qui e lì (Penso al Bodhicaryāvatāra di Çantideva, monaco buddhista indiano dell’VIII secolo, tradotto per la prima volta dal sanscrito in italiano da Giuseppe Tucci nel 1925). Nel XII secolo, il secolo della “Rinascita” (la vera Rinascita dopo quella carolingia, dell’VIII-IX secolo, e l’ottoniana, del X-XI secolo, entrambe limitate e senza grandi slanci), c’è un testo singolare di Guigo, priore della Grande-Chartreuse: le Meditationes (Nato nel 1083, Guigo entrò nella Grande-Chartreuse nel 1106 e ne fu eletto priore tre anni dopo, a soli 26 anni). Un testo che per alcuni aspetti ricorda i Colloqui con se stesso di Marco Aurelio. Guigo vi consegnò la propria esperienza di uomo a pensieri frammentari, ad appunti messi giù senza preoccupazioni di sistematicità. Le «meditazioni» di Guigo possono apparire sentenze ricavate dalle miniere inesauribili d’una pre-

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cettistica plurisecolare, offerte al pio fervore dei discepoli con oculatezza e distacco, ma sarebbe una prospettiva sbagliata. Guigo non vuole tanto insegnare agli altri quanto a se stesso, e ritiene che il modo migliore per non soffrire sia stare attenti alle proprie emozioni: cercare di cambiarsi, se capirsi è cambiare. Egli si muove con passi fermi e leggeri, verso un obiettivo dal quale nulla lo distoglie. Una tregua all’infinito tormento, una pausa nella sarabanda del desiderio, e infine – se possibile – la distruzione del dolore. Guigo nega alle fondamenta il valore delle cose mondane, e scardina totalmente il miraggio della felicità sulla terra, l’insensato tendere verso i beni terreni come ydola. Anche se la vita non fosse un fiume che sempre fluisce verso il gran mare della morte e del nulla, la danza dell’amore appagato non sarebbe distruzione del male. La «miseria» non è nelle cose, ma nel desiderio che lega l’uomo ad esse, nel fatto che le cose si pongano come idoli: «Omnes amat aliquid principaliter, ubi semper habent intentionem fixam». Il desiderio, l’intenzione, fissa la mente all’oggetto, e l’identità del soggetto (l’anima) – va perduta nel moltiplicarsi delle aspettative, e la persona stessa si frantuma non sapendo verso che cosa dirigersi, perché ogni scelta implica una perdita. Poi, pensando all’anima – fragile come un uccello, ed egualmente dominata dalle forze del mondo – Guigo scivola all’immagine di un passero col quale un bambino può giocare. Dall’anima alienata negli oggetti del mondo al bambino legato alle mutevoli sorti del passero, al passero soggetto a un destino che non può controllare (si ricordi il passo di Beda!). L’anima, il bambino e il passero sono tre immagini della dipendenza dall’altro da sé, e l’una rinvia all’altra, all’ossessione dell’essere agiti dall’esterno, del non padroneggiare se stessi, il proprio futuro. Nel discorso di Guigo il passero è soprattutto metafora dell’anima, come il bambino è metafora dell’uomo. Entrambi trastullo dei loro trastulli. Se passiamo per un istante alle culture orientali, vedremo che il buddhismo è dominato anch’esso dall’idea della caducità. Le “quattro nobili verità” mirano appunto a saper scoprire l’origine del dolore nel desiderio e ad estinguere il desiderio per estinguere il dolore. Ciò che conta, nel cammino di Buddha verso l’illuminazione, è la scoperta della vecchiaia, della malattia, della morte, sicché soltanto la figura dell’asceta, che ha estinto in sé ogni desiderio, gli appare libera dal destino di dolore che domina tutti gli uomini. Ancora la caducità, dunque. Non soltanto non avere ciò che si desidera, ma soprattutto perdere ciò che si ama. Alla sottrazione che la vita comporta alle nostre esistenze Buddha contrappone la sottrazione del sé alla legge del desiderio, che è quella del dolore. Torniamo all’Occidente, all’Europa, e quasi ai giorni nostri. Nel 1930 inizia a percorrere la Germania un mitico adolescente, che ha il gusto delle donne, della vita e dell’amore. È Boccadoro, che appare in un giorno di primavera, un sognatore che risveglia i cuori e ricerca se stesso per conoscere l’ebbrezza. La sua esperienza è simile a quella di tanti “vagabondi”: un nomadismo ch’è negazione del tempo, della storia, dello sviluppo e del progresso, cammini incerti, crepuscolari, talvolta desolati, un errare senza meta nel vuoto dei significati svaniti. E se l’imprevedibile destino del vagabondo è simbolo della fugacità della vita – e della morte che tutti conduce all’abisso da cui nessuno ritorna – Boccadoro vive il momento più autentico della sua ricerca allorché esplora il paese della morte. Tra doloranti e spettrali visioni egli coglie l’assolutezza d’una verità che non ammette dinieghi: la vecchia avvolta in una ragnatela, i visi gonfi e sfigurati dei cadaveri, un braccio o una gamba che sporgono rigidi da un mucchio di corpi gettati l’uno sull’altro. È la storia di Narciso e Boccadoro, narrata da Hermann Hesse nel 1930. Dappertutto morti e tombe, e i vivi travolti dal terrore, e racconti di cose strane e crudeli, e torme di fuggiaschi che non sanno dove andare, mentre altri si dànno a macabre feste in cui la morte guida la danza della fine. È un mondo sconvolto, in cui non c’è più alcun valore che dia senso alla vita, e ogni norma

Nella foto grande: Francesco De Sio Lazzari Sopra: l’ideogramma mujou (impermanenza) nella calligrafia di Zeng Song

sociale è calpestata nell’immane tragedia: «il mondo pareva sovvertito e avvelenato, pareva che non esistessero più gioia, innocenza ed amore sulla terra». C’erano soltanto caducità e morte. Di qui l’importanza della riflessione sul linguaggio, nella cultura tra le due guerre mondiali. N’è documento la psicoanalisi, anche se non essa soltanto. Da un lato, il silenzio appare la sola risposta al deserto delle ragioni di vita. Miseria e solitudine, disperazione e silenzio: ecco l’approdo di molti intellettuali tra le due guerre. Lo dirà Thomas Mann nel 1947. Nella Lamentatio doctoris Fausti il silenzio esprime l’estrema desolazione, e si unisce al tema della notte. Nel silenzio e nella notte un suono svanito che solo l’anima ascolta: spaventosa metafora dell’artista contemporaneo che ha constatato l’inutilità delle proprie parole. Non più la parola è portatrice di verità, ma il silenzio, che diventa come «un lume nella notte». Dall’altro lato, la psiconalisi invita alla lucidità, anche dinanzi all’orrore, anche dinanzi al destino di morte che attende gli uomini. Ancora in uno degli ultimi saggi di Freud – un lavoro molto tecnico, e quasi aspro, Inibizione, sintomo e angoscia – un capitolo termina con la frase: «Quando il viandante canta nell’oscurità, smentisce la sua paura, ma non vede per ciò più chiaro». Un’affermazione concisa, ma illuminante. Vuol dire che la fede religiosa è come il canto del viandante nell’oscurità: conforta, ma non per questo fa vedere meglio. Inutile, allora, rivolgersi alla religione. È preferibile cercare di scorgere, nell’oscurità del mondo, piccoli brevi sentieri che si possano percorrere. * Già Professore di Storia delle Religioni presso l’Università di Napoli “L’Orientale”. Tra i suoi lavori: Il contemptus mundi nella scuola di San Vittore, Napoli 1965; Esperienze religiose e psicoanalisi, Napoli 1972; e il volume autobiografico L’impossibile indifferenza, Napoli 2009

el recente volume Il mestiere di pensare (Einaudi, Torino) Diego Marconi, uno dei rappresentanti di punta della filosofia analitica in Italia, opera una duplice distinzione e una duplice difesa: da un lato distingue e difende la filosofia analitica rispetto alla filosofia continentale; dall’altro distingue e difende la filosofia rispetto alla storia della filosofia. Si tratta perciò, per molti aspetti, di un libro militante. Il lavoro di Marconi, estremamente acuto e ricco di spunti, particolarmente nella prima parte, formata dai primi due e più lunghi capitoli, ricostruisce le ragioni e le conseguenze del «professionismo filosofico», inteso come quell’ampio contesto di pratiche che ha investito lo studio della filosofia e ha consentito il suo definitivo radicarsi, come «disciplina», in quello che potremmo definire un regime pressoché interamente intra-universitario. Tale processo ha finito, a giudizio dell’autore, per trasformare profondamente la filosofia stessa, a partire in particolare dal secondo dopoguerra, e per consegnarla a una sempre più evidente specializzazione non diversamente da quanto è accaduto per le altre discipline accademiche. L’analisi del rapporto tra le diverse correnti della filosofia, e soprattutto l’esame della “geografia” della ricerca filosofica, sono particolarmente interessanti, anche se certamente non appaiono sempre esaustive e persuasive, motivate in modo particolarmente evidente più da esigenze di sistematizzazione teorica, funzionale a sostenere la tesi di partenza (la difesa della impostazione analitica), che da una volontà autenticamente tassonomica. La prima parte del libro finisce per essere soprattutto una difesa della tradizione analitica e del professionismo filosofico, che egli associa in maniera abbastanza stringente. Nella seconda parte del libro Marconi opera una difesa della teoria filosofica – quella che, convenzionalmente, va sotto il nome di «teoresi» – contro la storia della filosofia, la quale non sarebbe in grado di risolvere i problemi teorici né attraverso il metodo della decostruzione né mediante la genealogia storica dei concetti, né tantomeno attraverso altre forme di un pensare che viene classificato come «continentale» (o comunque non-analitico) e nel quale spiccano, tra le diverse correnti, soprattutto lo storicismo e l’ermeneutica. Benché il tema della professionalizzazione della filosofia implichi a diversi livelli la questione ineludibile dei suoi rapporti con il contesto

Lorenzo De Donato

Nella foto: Giacomo Meyerbeer

sociale e anche politico in cui il «mestiere del pensare» si esercita, in modo singolare nel libro non viene data alcuna indicazione sui problemi relativi alla posizione della filosofia nella società. Questa scelta impedisce di considerare alcuni significativi aspetti della filosofia contemporanea, utili proprio nell’ottica di una considerazione della filosofia come mestiere: il rapporto tra il «mestiere del pensare» e il sistema politico, il rapporto tra il «mestiere del pensare» e l’educazione di ampie fasce di specialisti attraverso il sistema universitario, il rapporto tra il «mestiere del pensare» e gli altri mestieri o con la cosiddetta «industria culturale». Nel volume vi è dunque in tal senso una visione estremamente approfondita della filosofia come insieme di pratiche autonome e, al plurale, di «mestieri», ma non vi è alcuna disamina della filosofia come mestiere avente un insieme influente e determinante di rapporti con la società. Nonostante quello che appare senza dubbio come un limite strutturale di non poco conto, il libro di Marconi si presenta tuttavia come un contributo sullo statuto della filosofia e sul suo esercizio attuale che merita una attenta lettura e una riflessione critica. Nella foto: Piet Mondrian, Composizione verticale con blu e bianco, 1936, Düsseldorf, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen

sito di un lavoro di ricerca svolto intorno alla figura del filosofo contemporaneo Alasdair E MacIntyre, il saggio di Leonardi Alasdair MacIn-

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Filosofia del Rinascimento

Marsilio Ficino e il platonico Dionigi

ello sviluppo della riflessione filosofico-teologica di Marsilio Ficino le traduzioni e i commenti alla Teologia mistica e ai Nomi divini di Dionigi Areopagita occupano senza dubbio una posizione privilegiata. Non soltanto, infatti, l’ambiziosa operazione condotta dal filosofo fiorentino sul corpus dionysianum rappresenta il punto terminale di quella «catena dionisiana» che ha come esponenti, tra gli altri, Ambrogio Traversari, Niccolò Cusano e Lefèvre d’Étaples, Egidio da Viterbo, ma essa costituisce il momento speculativamente più alto nel progetto di recupero della tradizione della pia philosophia. In tale progetto, finalizzato alla verifica della possibilità di costruzione di una teologia platonico-cristiana da contrapporre alla teologia degli scolastici, Dionigi (ritenuto da Ficino ancora il discepolo di Paolo) rappresenta la nuova «luce della verità cristiana» attraverso cui interpretare l’intera tradizione platonica e neoplatonica. È dunque proprio nei due commenti a Dionigi che Ficino esplora fino alle sue estreme possibilità teologico-speculative la conciliabilità tra platonismo e cristianesimo. L’edizione dei due commenti ficiniani curata da Pietro Podolak (Dionysii Areopagitae, De mystica theologia – De divinis nominibus, interprete Marsilio Ficino, edidit Pietro Podolak, M. D’Auria Editore, Napoli) ha il grande merito di rendere finalmente disponibile uno dei testi fondamentali del neoplatonismo rinascimentale, finora quasi inaccessibile ai lettori contemporanei.

Bruno De Marco

Nella foto: busto di Marsilio Ficino di Andrea Ferrucci, 1522, Firenze, Santa Maria del Fiore

Filosofia contemporanea

MacIntyre tra filosofia e teologia

tyre. Sul crocevia tra etica, filosofia della religione e teologia (Aracne, Roma) getta una luce inedita sull’opera del filosofo scozzese, prediligendo temi e aspetti ad oggi ancora in parte non sufficientemente scandagliati. Come rileva Mario Micheletti nella prefazione al volume, il progetto intrapreso a partire da After Virtue, volto alla rifondazione della teoria morale di fronte alla crisi esiziale in cui versa la cultura morale contemporanea, rappresenta il luogo della riflessione di MacIntyre più frequentemente visitato dagli studiosi e il più dibattuto. All’interno del volume l’autore muove tuttavia dalla convinzione che per comprendere a pieno l’intero itinerario speculativo di MacIntyre sia necessario indagare la relazione che intercorre tra l’operazione di riabilitazione dell’etica delle virtù, che ha reso il lavoro del 1981 una pietra miliare del dibattito filosofico di fine secolo, e le frequenti incursioni compiute dal pensatore nei territori della filosofia della religione e della teologia. Cogliere il nesso fondamentale tra la teoria morale e il contesto teologico che le fa da sfondo si rivelerebbe, alla luce delle argomentazioni messe in campo da Leonardi, fondamentale sia per ripercorrere, in sede storiografica, l’evoluzione del pensiero di MacIntyre sia per penetrare fino in fondo i motivi che lo attraversano intimamente.

Vito Mariano Giosa

Nella foto: Alasdair MacIntyre

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musica

cinema Sono nato in un momento sbagliato per la Spagna, ma in un ottimo momento per il cinema (P. Almodóvar)

Cos'è il Jazz? Amico, se lo devi chiedere, non lo saprai mai (L. Armstrong)

Salerno DOC Festival La nuova edizione del festival del documentario raccontata dal direttore Franco Cappuccio

Può esistere una sociologia del Jazz?

Lo sviluppo delle scienze sociali dal preadamitismo alla musica liquida

di

N

ELIO DI PACE

I

o e Franco Cappuccio ci conosciamo da tempo immemore. La nostra amicizia è nata prima che egli diventasse un illuminato direttore di festival cinematografici. Il Salerno DOC Festival è la creatura con cui dal 2012 tenta – e riesce – a rinvigorire la vita culturale salernitana, trasformando la saletta di Informagiovani in qualcosa che, di primo acchito, mi verrebbe da definire una “carboneria” del cinema di qualità. In una pausa da un lavoro nella campagna urbinate, sono riuscito acrobaticamente a imbastire un’intervista con Franco raggiungendolo al telefono mentre era in viaggio verso Roma: miracoli della telecomunicazione. Abbiamo parlato della terza edizione di Salerno Doc, e di molto altro. Siamo già al terzo anno. «Sì, direi che quest’anno possiamo dirci un festival in crescita». Vorrei conoscere la genesi della rassegna. «Il festival è nato con la consapevolezza che il documentario, genere poco conosciuto presso il grande pubblico, rappresenta uno dei pochi settori cinematografici in cui l’Italia riesce a esprimere eccellenze a livello internazionale. Nel 2011 Le quattro volte di Michelangelo Frammartino aveva vinto CPH:DOX di Copenaghen, e quindi quando siamo nati, l’anno successivo, l’idea era di dare una vetrina al cinema del reale prodotto in Italia. Poi ci siamo affinati, mantenendo un nucleo centrale forte di produzione italiana, ma con la possibilità di fare confronti con cinematografie di altri paesi. Preciso una cosa: il festival non nasce come festival del documentario in senso canonico, il termine stesso non mi piace granché, perché al giorno d’oggi il cinema documentario non necessariamente documenta qualcosa ma, esattamente come quello cosiddetto di finzione, racconta storie, mostra un punto di vista«. Non è informativo, insomma. «No, infatti. Noi per l’appunto applichiamo nella selezione un concetto molto allargato, che non comprende solo i documentari, ma a volte forme totalmente di finzione che magari del documentario mantengono la forma, lo stile». Quindi in un certo senso con il festival tenti anche di fare luce sulla questione dei generi oggi. «Sì, perché il confine è molto sfumato, come abbiamo visto. In questo momento stiamo vivendo un superamento delle forme classiche cinematografiche, ma aggiungerei che è il concetto stesso di festival che sta cambiando. Da questo punto di vista siamo più vicini a festival internazionali come Doc Lisboa, Doc Leipzig e il già citato CPH». Facciamo un passo indietro. Perché il documentario è poco conosciuto? «È una domanda molto complessa. Prim’ancora che il genere documentario in sé, il problema è a monte, nella distribuzione italiana, che, come sappiamo, è stata molto lacunosa. Paradossalmente, la crisi ha fornito un’alternativa: se fino a qualche anno fa ci trovavamo davanti a grandi case di produzione o distribuzione che in quanto tali prediligevano i lavori mainstream, adesso questi grandi colossi non sono più sostenibili, e ciò ha portato alla formazione di micro-case di produzione e distribuzione che per affacciarsi sulla scena internazionale stanno diversificando l’offerta, per esempio ponendo grande attenzione al cinema documentario, come Wonder Pictures o Officine Ubu. Il successo di film come di

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Tir di Fasulo o La bocca del lupo Marcello ha fatto il resto. E questo l’abbiamo vissuto sulla nostra pelle: quando abbiamo cominciato col festival, per il documentario praticamente non c’era distribuzione, adesso solo nell’ultimo anno sono usciti The Special Need di Carlo Zoratti, Le cose belle di Ferrente e Piperno, Sul vulcano di Pannone – che ospiteremo al festival e che uscirà a novembre – e in questo senso noi ci sentiamo anche un po’ pionieristici». Torniamo a Salerno Doc. Che rapporto ha il festival con le istituzioni? «Un rapporto ottimo, sia con il Comune che con l’Università, che in maniera più o meno operativa ci patrocinano gli eventi e li pubblicizzano attraverso i loro canali. A ciò però bisogna aggiungere che io, per formazione e ideali personali, ritengo un po’ sorpassata la concezione che imperava fino a prima della crisi, e cioè che chi faceva un evento culturale più o meno a grande titolo si sentiva in dovere di essere sostenuto dal settore pubblico, quasi che l’attività culturale diventasse una dependance delle istituzioni. Infatti, quando è arrivata la crisi e le istituzioni non sono state più in grado di sostenere questi eventi, è cascato l’asino perché molte strutture organizzative non si sono mai poste il problema di trovare altre forme di finanziamento. Ecco, ritengo he questa sia una premessa sbagliata. Quello che cercherò di fare a Salerno è un festival che si potrà sostenere sempre da solo, al cento per cento. In questo momento, in cui siamo ancora in una fase di assestamento e crescita, non ci riusciamo del tutto, però per il futuro stiamo già attivando delle misure di auto-sostenibilità, non ultima quella di lanciare una campagna di crowd-funding attraverso la piattaforma De-Rev, per far sostenere il festival con una donazione da spettatori, cinefili, chiunque ne abbia voglia. Questa per noi è anche un’occasione di coesione sociale, di partecipazione attiva della cittadinanza. È un modo per dire che il festival si fa per le persone ed è fatto dalle persone». Il 25 settembre c’è stata una serata d’apertura del festival con Tariq Teguia: avete proiettato Zanj Revolution, che grazie a Donatello Fumarola e Fulvio Baglivi sta girando la penisola in una forma di distribuzione alternativa. Quasi una crociata. «Mah, in verità io non so quanto effettivamente possa aver nuociuto al film una distribuzione di questo tipo piuttosto che una distribuzione su larga scala. Mi spiego: è ovvio che una distribuzione “vera” avrebbe dato – almeno teoricamente – l’opportunità a un pubblico vasto di apprezzare un grande film come quello di Teguia; però l’idea di “percorso” che il regista stesso ha fatto in giro per l’Italia con Fumarola e Baglivi di Fuori Orario ha permesso un confronto diretto con gli spettatori, la possibilità di avere uno scambio culturale, di opinioni, che secondo me ha arricchito sia il pubblico sia il regista stesso. In tutte le città ci sono stati momenti di forte condivisione, con il risultato che del film si godesse meglio, rispetto a una normale visione nelle sale. La prova l’abbiamo avuta anche noi a Salerno, quando abbiamo ospitato Teguia e Fumarola: abbiamo avuto una bella soddisfazione, sia dal punto di vista numerico, che è un valore sempre relativo, ma soprattutto dal punto di vista della condivisione, dello scambio – come, d’altronde, è tradizione per il nostro festival: dopo la proiezione c’è stato il momento delle domande e delle risposte e

GILDO DE STEFANO*

Nella foto grande: Franco Cappuccio, direttore del Salerno Doc Festival; A lato: Tariq Teguia, regista di Zanj Revolution; Sopra: Lav Diaz dopo la vittoria dell’ultima edizione del Festival di Locarno; Wim Wenders, con Cathedrals of Culture

lì sono sorte ricche discussioni in cui si è parlato di Antonioni e Godard, il pubblico ne ha colto riferimenti in Zanj Revolution… Insomma, a un certo punto ce ne siamo dovuti andare, perché s’era fatto troppo tardi! Ecco, una visione così vale molto di più del grande numero». Permettimi di essere provocatorio: un esito del genere è una manna per un direttore di festival, e fin qui ci siamo. Ma per un regista, che si suppone debba vivere del prodotto della sua arte e del suo pensiero, pensi sia soddisfacente allo stesso modo? «Ho avuto occasione di parlarne con Teguia, e posso dirti che secondo me sì, è soddisfacente allo stesso modo. Poi, certo, dipende dal punto di vista con cui affronti la questione: economicamente sicuramente no, nel senso che avere la possibilità di proiettare seicento copie sul territorio nazionale e vendere massicciamente in home video permetterebbe all’autore una vita più tranquilla e soprattutto di produrre con più libertà i suoi film. Ma il nocciolo della questione è che noi in ogni caso non stiamo parlando di prodotti destinati a un pubblico mainstream che ha bisogno di intrattenimento, ma di film di forte valenza artistica, che fanno ricerca per mezzo del cinema. Per cui, compiere una scelta del genere, si tratti di un direttore di festival o di un regista, si fa con la consapevolezza di lanciare un messaggio, di mostrare qualcosa di innovativo a un pubblico da cui si aspetta una reazione diversa da quella normale. E questa è la bellezza di avere davanti spettatori più ricettivi, piuttosto che ragionare in maniera numerica. È chiaro che se portassi Zalone farei più gente, ma non è questo ciò che vuole il festival. Noi andremo sempre al di là del concetto dei numeri. Tra l’altro, rispetto a tre anni fa, il nostro pubblico è cresciuto in maniera considerevole, il che ci fa sperare che da qui a quattro o cinque anni il festival diventerà un organo di formazione del pubblico verso – e attraverso – un altro tipo di cinema». La location di quest’anno sarà ancora Informagiovani? «Non per tutte le proiezioni: a Informagiovani confermeremo, per continuità, il nucleo forte del concorso nazionale, invece per tutte le anteprime internazionali fuori concorso abbiamo deciso di aprire il festival alla città, e anche fuori: ci ospiteranno il Teatro delle Arti, il cinema Fatima, il Duel di Pontecagnano, l’Università e altre sedi che stiamo valutando, come la struttura di Teatri Sospesi a Salerno, non grande ma ben fatta e assai accogliente:

lì, infatti, organizzeremo anche dei laboratori legati al cinema documentario. Il nostro obiettivo è cercare aperture anche verso la città soprattutto nelle zone cosiddette periferiche, nei comuni limitrofi, in modo tale da stimolare un pubblico che sia il più ampio possibile. Inoltre stiamo cercando anche di fare in modo che il festival rappresenti un momento culmine di attività condotte durante tutto l’anno«. Sarebbe bello far dirigere qualche laboratorio agli autori in mostra al festival. «Sì, succederà, in questa edizione ne avremo almeno due. Stiamo ancora trattando per capire tempi e disponibilità, ma ci stiamo lavorando, anche per aumentare il senso di partecipazione attiva della cittadinanza al festival, che si può appassionare a un genere maneggiandolo praticamente e creare prodotti che poi magari verranno proiettati durante una delle edizioni, chi lo sa». Intanto parliamo di quella che sta per cominciare. Date e nomi. «Si tiene dal 12 novembre al 21 dicembre ed è divisa in due sezioni: il concorso, riservato a documentari nazionali prodotti nel 2014, e il fuori concorso con film internazionali. Per il concorso è prevista una giuria internazionale il cui presidente è Sylvain George, uno dei più importanti documentaristi del mondo della nuova generazione». Al festival di Belo Horizonte c’è una retrospettiva dei suoi film, mi pare. «Esatto». Continua, scusa se ti ho interrotto. «Tra le anteprime internazionali i tre eventi principali sono Is the Man Who Is Tall Happy? di Michel Gondry, che sarà presente (e a tal proposito ringrazio l’Istitute Français e il Consolato francese, che sono nostri partner), poi il film a episodi prodotto da Wim Wenders – anch’egli nostro ospite – Cathedrals of Culture, girato in 3D, che racconta le grandi architetture internazionali destinate alla cultura come la Filarmonica di Berlino o il Centre Pompidou, e infine la proiezione di National Gallery di Wiseman». Che non potrà venire, mi hai detto. «Purtroppo no, ma ci stiamo organizzando per ospitare uno dei direttori del museo. Dimenticavo: tra gli italiani, ci saranno il film di montaggio 9x10 e il già citato Sul vulcano di Gianfranco Pannone». C’è anche un altro nome che mi ha rivelato qualche giorno fa. Sembra abbia girato un documentario imperdibile. «Storm Children – Book One, di Lav Diaz».

ell’attuale globalizzazione ciò che ricorre con una certa frequenza è un concetto coniato dal creatore di un altro iper-concetto, quello della ‘modernità liquida’: la ‘musica liquida’. L’allusione è al sociologo Zygmunt Bauman, che nella prefazione al mio libro, Una storia sociale del jazz, ha affermato che la musica è legata ai sentimenti e provoca un’attività celebrale inconscia quindi può diventare parte integrante dello sviluppo mentale. Gli uomini sono molto più capaci di quanto la società permetta loro di essere. Sicuramente anche i jazzisti improvvisatori si sono accorti che ora questo tempo ferito e frammentato sia diventato il Tempo e la quotidianità di tutta una società, scuotendoli non poco. I rapidi sviluppi cui abbiamo assistito in questi ultimi decenni nel campo dell’antropologia, dell’etnologia, della sociologia e delle scienze umane in generale sembrano avere incontestabilmente posta in primo piano l’importanza della musica per lo studio e la comprensione di una cultura. Gli studiosi di storia africana si servono di una enorme varietà di strumenti di indagine e si rivolgono a discipline diverse come l’archeologia, lo studio della letteratura orale, l’etnografia distribuzionalista, la linguistica, la botanica, le arti visive e, recentemente, la musica. In quest’ultimo caso, naturalmente, la domanda che ci si pone riguarda il tipo di contributo che la musica può dare agli studi di storia culturale. Ovviamente la prima cosa da chiedersi è cosa si debba intendere per «ricostruzione della storia culturale», come la musica possa essere utilizzata a tal fine. Perché queste descrizioni siano complete si può far ricorso ai resoconti storici o agli scavi archeologici che, come si sa, ci informano su un periodo di tempo molto ampio. Un metodo del genere, dunque, ci informa sul modo di vita e quindi anche sulla musica di un popolo. Inevitabilmente quando pensiamo alla ricostruzione della storia culturale dobbiamo tenere conto della dinamica complessiva dello sviluppo storico, quindi considerare la modificazione culturale e la storia dei processi che si sviluppano nel tempo. Per questi motivi ogni teoria che cerchi di spiegare tali processi e che intenda metterci in grado di ricostruire quanto è avvenuto nel passato, deve essere presa in considerazione dagli etnomusicologi, in quanto anche la musica deve essere vista in questa prospettiva di-

namica. Giova evidenziare l’importanza potenziale della musica in ordine a questi problemi che varia per via di alcune sue caratteristiche speciali. Sappiamo che nessuna cultura incolta ha sviluppato un sistema di notazione musicale; ciò significa che non è possibile ricostruire la forma della musica in maniera precisa. Certamente si sono fatti molti tentativi in tal senso, sia approfittando di speciali tecniche archeologiche che applicando a priori una teoria antropologica; ma tutti questi tentativi non sembra abbiano avuto molto successo. Quindi per la ricostruzione della storia culturale nel suo complesso non serve limitarsi a tracciare una improbabile storia del suono. Peraltro studiare la musica afro-americana non significa studiare soltanto il suono ma anche gli atteggiamenti sociali i quali, a loro volta, hanno un’esistenza storica. Sono quindi due gli aspetti che bisogna tenere presenti per una ricostruzione storica, e che possono essere considerati isolatamente o insieme, a seconda delle necessità. Infine il suono musicale ha tre caratteristiche principali che sembrano avere un valore particolare nella ricostruzione dei contatti culturali. Sulla base di queste caratteristiche è possibile ridurre il suono a valori statistici, questa particolare tecnica può rivelarsi in futuro uno strumento analitico particolarmente importante. Sappiamo che nella misura in cui un’opera musicale è realistica (in altre parole, nella misura in cui riflette fedelmente la vita umana e sviluppa la sua tecnica per rappresentarla nel modo più completo possibile) essa rappresenta una parte imperitura della cultura del suo creatore, della sua razza. Essa appartiene pero ad un’epoca determinata e, nonostante tutta la sua potenza, non può soddisfare pienamente i bisogni culturali delle epoche successive, poiché ha creato e imposto nuovi problemi e sviluppato nuove idee. Per questo diventa necessario creare nuovi lavori, sollevare nuovi problemi di tecnica e di forma che si innestino sull’eredità del passato. Non tutti i lavori hanno la stessa possibilità di sopravvivere. La storia della musica afro-americana contiene infatti grandi esempi di realismo e innumerevoli di formalismo, di ferree costrizioni, e di un impegno ottuso dei modi tradizionali per impedire agli uomini di comprendere e dominare il proprio mondo. Questo che stiamo affrontando vuol essere un’analisi dell’evoluzione del significato della musica

jazz. Esso non è una storia della musica, ma deve necessariamente affrontare il soggetto da un punto di vista storico e sociologico, dando qualche idea del modo in cui ha progredito tra nuove esperienze, nuovi problemi, nuove idee e nuove mentalità. A tal riguardo esiste una sociologia della musica, e si colloca in ambito musicologico e sociologico. Ai musicologi fornisce una conoscenza di base necessaria alla produzione di tutti i suoni musicali attraverso la quale il suono e il processo sonoro possono essere pienamente compresi. Quanto ai sociologi, il contributo dell’etnomusicologia costituirà un ulteriore passo avanti nella comprensione sia dei prodotti che dei processi della vita, poiché la musica non è altro che un elemento che si aggiunge alla complessità del comportamento umano. Laddove non esistono uomini che pensano, agiscono e creano, il suono musicale non può esistere; comprendiamo la musica nera negli Stati Uniti molto meglio che non l’intera organizzazione della sua produzione. Forniamo, quindi, un supporto tecnico allo studio di questa musica in quanto comportamento umano: chiarire il tipo di processo che deriva da fattori antropologici e musicologici insieme, migliorare infine la nostra conoscenza di entrambe le discipline, sotto la comune prospettiva di studi comportamentali e sociali. Nel presentare una teoria e una metodologia dello studio della musica afro-americana in quanto comportamento umano bisogna risalire ad un concetto fondamentale qual è quello dell’european-mind nel Nuovo Mondo e delle sue conseguenze sociali e concettualizzate. Senza dubbio c’è un’analogia tra i problemi del comportamento creativo umano e la coscienza sociale che ogni cultura manifesta. Ed è proprio da qui che deve partire qualsiasi studio socioantropologico ovvero dal preadamitismo alla conseguente teoria razziale. Se l’obiettivo principale del preadamitismo, nella sua veste biblica, è indubbiamente interno alla polemica politico-culturale europea – dimodoché la ricerca delle sue cause storiche coinciderebbe, rispetto all’Inghilterra almeno, con la ricerca delle cause storiche del deismo - altrettanto indubbio è che già nella sua veste biblica il preadamitismo assume un significato ben specifico nel campo delle ideologie coloniali. *Musicologo e saggista ph: © Carlo Pecoraro, 2014

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Jazz: più nulla oppure tutto quello che ascolti Quando afroamericano significava già coabitazione, contaminazione, miscela

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CARLO PECORARO

e Insist”. Il free jazz rappresentò lo sparti acque tra la dichiara“W zione d’indipendenza degli afroamericani e l’emancipazione dal blues come unico scaffale nel quale restringere l’esperienza musicale del jazz. A rompere quell’effimero fenomeno da baraccone che qualcuno voleva come semplice intrattenimento, ci avevano già pensato i bopper. Facendo esplodere dai loro strumenti una panoplia di note a ritmi vertigine imprimendo alla musica afroamericana la stessa velocità moderna di un mondo che si emancipava dal rurale e diventava fabbrica e contemporaneità. Quasi come una contraddizione al sistema responsoriale delle comunità battiste. Che riproducevano il loro blues ad ogni messa come un Rosario da sgranare, come una preghiera rivolta ad un Dio misericordioso che misericordioso poi non lo era mai stato tanto. Il be-bop iniziò a plasmare lo swing. A modellare le curve di una materia sonora più fluida, più facile per riappropriarsi di una autenticità, di un marchio di fabbrica, di un codice segreto, che la cultura occidentale era riuscita a pezzottare, riprodurre e mettere a consumo come

prodotti cinesi a basso costo. Il linguaggio “criptato” del be-bop riaffermando le origine del blues, rompeva il diaframma dell’apartheid e ritornava ad essere afroamericano e colonna sonora di una nuova resistenza. E afroamericano significava già coabitazione, contaminazione, miscela, fusione di culture diverse in terra nuova, l’America. Gente rubata da un altrove di libertà e messa in colonna come una formula matematica di lavoro, oppressione, privazione, violenza. We Insist è la lun- ga suite che il batterista Max Roch diede alla luce nel 1960. Un disco che fece da preludio ad una nuova rivoluzione del jazz, il Free. Dentro c’è tutto dall’improvvisazione al gospel allo spiritual alla poliritmia africana. Il tutto con una linea continua che segna il trascorrere di una esistenza negra in terra bianca. “Noi insistiamo” sembrano voler dire, dalla copertina del disco, i tre ragazzotti di colore che siedono al banco di un bar (presumibilmente solo per bianchi) e guardano verso la macchina fotografica mentre il barman si pulisce gli occhiali imbarazzato. L’anno successivo tocca al sassofonista di Fort Worth, Ornette Coleman pubblicare Free jazz e mettere il cappello su di una nuova stagione che apre questa musica ad un uni-

verso più ampio di cultura e la libera dalla negritudine, facendo diventare il jazz l’espressione ombrello sotto la quale chiunque, nel rispetto della grammatica, è libero di potersi identificare e contribuire alla crescita linguistica di un genere musicale universale. All’esperienza di ammodernamento – musicale e culturale – non deve essere sottratta tutta l’attività del trombettista Miles Davis che traghettò il jazz nelle avanguardie più moderne ma anche nel pop (Doo-Bop del ’92) più raffinato. Dagli anni Sessanta agli anni Zero sono trascorsi quarant’anni e il jazz, che è rimasto baricentrico per tutto il Novecento grazie a questa sua fortuna di nutrirsi di tutto, si affaccia al nuovo millennio capendo che non può rimanere zavorrato ai fantasmi del passato. Il jazz si universalizza, dialoga, influenza, fagocita, rilegge. Certo anche strizzando l’occhio ad una politica poco attenta ai problemi sociali This Is Not America firmato da David Bowie e Pat Metheny e poi ricucito dalla Liberation Orchestra ne è un esempio, come le cose fatte da Charlie Haden; oppure quell’Art Ensemble of Chicago, che denuncia e grida tra trombe, sax, percussioni e volti dipinti. Dal Real Book, Keith Jarrett rimette mano agli arrangiamenti di

standard vecchi offrendo loro nuovi punti di fuga verso una modernità sonora che anticipa il nuovo millennio e amplifica sonorità di musicisti come Esbjorn Svensson, Tord Gustavsen, Yaron Herman, Bobo Stenson, Tomasz Stanko. L’esperienza del trio piano-basso-batteria diventa materia di studio, di possibilità altra di rielaborazione. Così il jazz – che già aveva digerito l’elettrificazione – approda alle sponde dell’elettronica (Matthew Herbert - Eivind Aarset) e sfonda le frontiere del pop rock d’autore. Che non saranno più un dogma per la new thing di musicisti. Così il piano di Brad Mehldau rilegge i Radiohead, ma nel nuovo libro degli standard ci finisco anche il cantautore Nick Drake, i Nirvana, Tom Waits, i Police fino al tormentone dei Baltimora, Tarzan Boy riletto dal pianista napoletano Francesco Villani ne “Il premio di consolazione”. Nel nostro Paese ad aprirsi a queste contaminazione sono il

Doctor Trio del pianista Danilo Rea che inizia anche una sua personale esperienza con live e dischi in solo piano nel quale mischia di tutto, dai Beatles a Sting alla Cavalleria rusticana. Poi c’è lo sguardo attento della pianista Rita Marcotulli (l’omaggio ai Pink Floyd con Us and Them) piuttosto che Fabrizio De Andrè rivisitato dal sassofonista Stefano Di Battista. E poi c’è il folk, la musica popolare, che nel jazz spazia dalla Turchia ad Israele fino alle rive di Napoli. Dalla memorabile “Istambul session” di Ilhan Ersahin, agli Avishai Cohen (contrabbassista e trombettista), ad Omer Avital. In Italia l’eco dell’Argentina degli Aires Tango di Javier Girotto piuttosto che i vicoli di Spaccanapoli con il sax di Marco Zurzolo o nella voce di Maria Pia De Vito (Nauplia). Così alla domanda che cosa è oggi il jazz? La risposta è: più nulla oppure tutto quello che ascolti.

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libri & notes

museum Ignoro dove lʼartificiale finisce e cominci il reale (A.Warhol)

Le parole non comunicano, ricordano (N. Gómez Dávila)

Due esistenze in difesa della civiltà europea I 1914. Ma’ è anche l’anno in cuiE vengono al

L È L ANNO IN CUI LA VECCHIA UROPA SI AVVIA VERSO UNA CATASTROFE DA CUI NON SI SAREBBE PIÙ RIPRESA

mondo due figure che dovrebbero suscitare interesse per aver contrastato il declino inesorabile della nostra civiltà, ciascuna secondo la propria natura. Rudolf Jacobs, tedesco, fu uomo d’azione; Etty Hillesum, ebrea, fu donna di lettere e di pensiero. Capitano della Marina da guerra tedesca, Jacobs, che pure aveva partecipato a campagne belliche tedesche durante la Seconda Guerra Mondiale, decise di render manifesti i propri sentimenti democratici dopo l’8 settembre, prendendo parte alla lotta partigiana per un anno. La sua audacia gli fu fatale. Il 3 novembre 1944, nel

Ripensare al museo e alle sue sale divenute città

Modernità. La riflessione di Cornelio Fabro su essere e pensiero

Il Map di Brindisi è un nuovo modello di concepire un laboratorio didattico e di sperimentazione creativa in dialogo con l’urbano di

C

cali, hanno finora contrassegnato rassegne trans generazionali, poco inclini ad accogliere gerarchie artistiche peculiari del sistema dell’arte. Gestione dello spazio, comunicazione, contributi critici, esperienze curatoriali, visite didattiche, laboratori creativi per i più piccini, hanno visto coinvolti docenti e giovani laureati nel settore e studenti del corso di laurea in Beni Culturali. Dalle relazioni e dagli studi sviluppati in sede universitaria sono emersi i nomi di artisti da coinvolgere e rendere protagonisti, chiedendo loro un fattivo contributo per realizzare all’interno del Map una raccolta permanente di opere d’arte plastica, che ad oggi assomma circa cinquanta lavori dai primi del Novecento a esecuzioni ideate site specific (Andrea Buttazzo e Salvatore Sava) per lo spazio espositivo in San Michele. Tale esposizione stabile è un incontro/confronto tra diverse leve generazionali, differenti esperienze linguistiche e materiche o tecniche e procedurali; gli artisti sono prevalentemente originari della terra salentina e altri di varia provenienza (la bresciana Margherita Serra, l’albanese Alfred Mirashi, la greca Ioanna Kazaki, l’ivoriano Silue, solo per citarne alcuni). Denominata “Simposio della scultura”, la selezione ha, agli inizi, evidenziato qualche scetticismo da parte degli artisti invitati, per una ragione semplice e plausibile: la gran parte delle sedi museali per il contemporaneo del territorio salentino, quelle storiche e quelle recentemente nate o hanno chiuso i battenti, talune appena dopo le inaugurazioni, o continuano a far fatica a proporre aperture costanti e perciò non sempre sono fruibili al pubblico. Garantire una apertura del Map sei giorni alla settimana e finanche per l’intero periodo estivo è stato aspetto, tutt’altro che trascurabile, di affidabilità che ha accresciuto le richieste di donazioni di opere da parte degli artisti. Tant’è che oggi, paradossalmente, il Map deve temporeggiare per nuove acquisizioni (che sono ovviamente graditissime), per via dell’aula unica della chiesa sempre più affastellata e che abbisogna di un ripensamento per allestimenti periodici. Il godimento allargato resta decisivo nel progetto Map, basato su presupposti metodologici di formazione e conoscenza diretta delle opere d’arte contemporanea per gli studenti, che ha tenuto in massima considerazione la fruizione socially correct. Così che la presenza ai corsi di laurea magistrale di un allievo non vedente ha reso possibile che lui stesso, con l’ausilio di esperti delle sedi leccesi dell’Univoc e dell’Uci, portasse avanti un progetto di didascalie in braille (Touch me, Feel me, Map me) che affiancano ora le normali targhette che identificano ognuna delle sculture esposte permanentemente. Né mancano ideazioni che mantengono vivace e unico lo spazio, quali il progetto site specific Pale d’Altare al Map che, approfittando dell’assenza delle tele originali dai tre altari barocchi ancora esistenti nella chiesa, ha riproposto pitture di grandi dimensioni (altezza sino a 3 metri) realizzate specificamente: da Giotto agli Scrovegni a Caravaggio nella Cappella Contarelli e così via, l’opera d’arte già allora era eseguita site specific. *Docente di Storia dell’arte contemporanea, Università del Salento, Lecce

Nelle foto: Anthozoa, body performance di Mona Lisa Tina, Map, ottobre 2012 MAP, ph© Ida Santoro; Massimo Guastella direttore scientifico nel Map di Brindisi, ph© Ida Santoro; Le sculture dei salentini Antonio Mazzotta e Marco Mariano nella raccolta “Simposio della Scultura”, Map, ph© Max Martini; Un dettaglio della scultura Profezia di Anna Maria di Terlizzi e sullo sfondo la Pala d'Altare di Cosimo Epicoco, ph© Max Martini

POLTRONA FRAU SALERNO - TEOS srl – Corso Garibaldi, 28 84123 SALERNO tel. 089 252566 - cell. 3933374550 frausalerno@tiscali.it

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suo popolo, per poi subire la deportazione ad Aushwitz, dove morì nel 1943. Un Diario (Adelphi, Milano) racconta gli ultimi due anni della vita di Etty: al dramma esteriore del genocidio si oppone il contro-dramma interiore di una donna che, da una situazione di paura paralizzante – quasi una depressione – approda a una riconsiderazione del senso della vita, propria e in generale, valorizzando i gesti quotidiani e radicandoli in una serenità alimentata dal divino che è in ciascuno di noi e in cui riposiamo. La storia ci ha insegnato che, una volta eliminato Dio, ne sono stati creati mille surrogati, tutti però molto meno misericordiosi.

guidare un’azione contro la caserma delle brigate nere di Sarzana, alla testa di partigiani ai quali aveva fatto indossare le divise della Wehrmacht, Jacobs perse la vita. Alla sua vicenda si è ispirato Faccini nella stesura del romanzo L’uomo che nacque morendo (Edizioni dell’Ippogrifo, Sarno). Apparentemente tranquilla, invece, la giovinezza della Hillesum: figlia di un professore di lettere, ne seguì gli spostamenti durante l’adolescenza, orientando il suo interesse sulla letteratura slava e la psicologia junghiana. Con l’occupazione tedesca dei Paesi Bassi, la famiglia fu vittima delle persecuzioni naziste. Nel 1942 avrebbe avuto anche la possibilità di salvarsi, ma decise di condividere la sorte del

Francesco Aliberti

Le virtù del re beneamato

È

MASSIMO GUASTELLA*

hiamarlo Museo è stato un po’ presuntuoso, di fatto il Map è un laboratorio didattico e di ricerca con destinazione espositiva, che necessitava di una definizione tradizionale e puntuta per addentrarsi in un contesto culturale piuttosto carente nelle frequentazioni con le produzioni visive di età contemporanea. È Mediterraneo per bacino culturale di riferimento; nel Salento e nella Puglia i richiami al Mediterraneo e alla sua tradizione sono identità costanti anche nella contemporaneità. L’Arte Presente è la “continuità dinamica” dell’arte visiva, per quella sua persistenza ininterrotta nel mondo che mai si arresta, in omaggio alla definizione dell’arte di oggi indicata in un volume degli anni ottanta da Antonio Del Guercio, mio professore di Storia dell’arte contemporanea all’Università di Lecce. L’opportunità di utilizzare per un piano quinquennale lo spazio espositivo permanente della chiesa barocca di San Michele Arcangelo dei Padri delle Scuole Pie, nel centro storico di Brindisi, poteva complicare il progetto, quasi risultasse una profanazione del sacro tempio allestirvi busti in vile cemento, ferri d’astrazione, istallazioni concettuali. Ciononostante il Map, brand per una sede espositiva dell’impresa culturale CRACC - che sta per Conservazione e Ricerca Arti e Culture contemporanee – dell’Università del Salento, vi ha colto l’abbinamento tra valorizzazione e fruizione di un’architettura storica da anni chiusa al pubblico e produzioni delle arti visuali. D’altronde tra i principi fondanti il laboratorio TASC (Territorio Arti Visive e Storia dell’Arte Contemporanea) che ha generato l’academic spin off vi è quel pensiero di Palma Bucarelli «che bisogna arrivare a occuparsi di arte contemporanea dopo aver lavorato approfonditamente su quella antica; un buon critico è per me un buono storico». Il know how del laboratorio didattico universitario TASC ci consente di proporre formule combinate di arte visiva contemporanea e divulgazione del patrimonio storico e artistico. È per farlo ci si è avvantaggiati della condizione legale di creare un modello umanistico di spin off universitaria, la cui mission è nell’ambito della conoscenza, documentazione e divulgazione delle arti visive dall’Otto al Novecento e sino al nuovo millennio. Dunque avviare un discorso sull’arte del nostro tempo e sulla storia dell’arte è stata l’occasione irrinunciabile offertaci dalla storica Fondazione Arcivescovile “A. De Leo” proprietaria dell’immobile. Abbiamo trasferito le attività dal laboratorio universitario all’interno di uno spazio espositivo ancora segnato da suggestioni stilistiche tardo seicentesche, negli stucchi degli altari, nelle cornici mistilinee che accolgono le tele volute dai padri scolopi, nell’umile pulpito ligneo, decorato pittoricamente a fingersi prezioso come gli altari di marmi commessi delle contigue chiese cattedrale e di Santa Teresa. Non propriamente un museo quindi ma uno spazio laboratoriale aperto al territorio, dove si avvicendano, dall’ottobre 2011, sconfinamenti tra arti visive, teatro, musica, video. Installazioni e statue dagli statuti propri dell’arte, carte e disegni ordinate in un dialogo ideale con la chiesa, residenza d’artista e performance bodyartistiche di vocazione mediterranea, videomapping di derivazione letterario musi-

Periodico di cultura arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative

stata ripubblicata l’opera del 1964 di Cornelio Fabro dal titolo Introduzione all’ateismo moderno (Editrice del Verbo Incarnato, Segni). In quest’opera il filosofo ripercorre la storia della filosofia occidentale a partire dall’avvento della modernità per evidenziare il radicale mutamento di prospettiva operato dalla speculazione cartesiana, che ha scelto di subordinare l’essere al pensiero. Il pensiero filosofico moderno opera infatti una riduzione dell’essere alle strutture del cogito per cui, sulla base del principio d’immanenza, la coscienza individuale diviene l’unica fonte e misura dell’essere. Nella riflessione speculativa classica invece l’essere costituisce l’orizzonte veritativo entro il quale ogni cogito prende forma e di cui ogni coscienza è espressione. Al motto cartesiano cogito ergo sum il realismo di Tommaso d’Aquino sembra opportunamente suggerire il più adeguato sum ergo cogito, dal momento che il riconoscimento di un’ontologia rappresenta una precondizione per l’elaborazione di una gnoseologia. Pur riprendendo tale principio realista come presupposto irrinunciabile della propria riflessione, Fabro dedica attenzione al nucleo teorico fondamentale delle filosofie dell’esistenza. Egli è rimasto profondamente affascinato dalla figura di Kierkegaard al punto da divenire traduttore delle sue opere in lingua italiana. L’errore di tutti i pensatori della modernità risiede nell’aver trasformato la filosofia in teoria della conoscenza. In questa coscienza individuale solipsistica, che non riconosce altro che se stessa, affiora così, per dirla con De Lubac, «il dramma dell’umanesimo ateo».

Fabio Piemonte

NF ampio spazio è concesso a Luigi XIV e al suo Grand Siècle, all’Illuminismo e alla Rivoluzione

ELLA BIBLIOGRAFIA IN LINGUA ITALIANA SULLA STORIA DI RANCIA

Francese. In un quadro del genere la vicenda umana e politica di Luigi XV (1710-1774), il Re Beneamato, finisce per essere relegata ai margini dell’interesse a causa di una tradizione che ne mette in risalto la debolezza rispetto al suo augusto predecessore. Eppure Luigi XV volle impegnarsi per difendere la grandezza della Francia. Nel saggio di Gilles Perrault dal titolo I segreti di Luigi XV (Bietti, Milano), si scopre l’intensa attività del re per risolvere la questione polacca nella consapevolezza che una ingerenza russa nell’Europa orientale avrebbe cambiato i destini del continente. Tutto si può imputare a Luigi XV, ma la storia degli ultimi cento anni fino alla problematica crisi di Crimea di questi giorni – si deve ammetterlo – gli hanno dato ragione.

f.a.

Musica. Riscoprire Gluck

Poesia. Il Novecento di Aldo Nove

, una riflessione su un compositore significativo A nella storia del teatro musicale, Christoph

. Questo il tema del nuovo volume di versi di Aldo Nove Addio L mio Novecento (Einaudi, Torino). È la fine di

f.a.

Maria Bruno

TRECENTO ANNI DALLA NASCITA

A FINE DELLA MEMORIA

Gluck, promotore, col librettista Ranieri de’ Calzabigi, di una riforma dell’opera volta a superare gli abusi che ne avevano deformato lo spirito, per ripristinare, nel solco dei teorici rinascimentali del canto monodico, una linea di canto che sia ricondotta, come si legge nella Prefazione all’Alceste, «al suo compito di servire la poesia senza interrompere l’azione o soffocarla sotto inutile superfluità di ornamenti». La semplificazione dell’ordito contrappuntistico a vantaggio della linearità melodica finirà per influire sul classicismo viennese, su Mozart, e sulla tradizione italiana della prima metà dell’Ottocento.

quel legame solido che ci lega al passato e alla tradizione. Una intensa riflessione sul tempo, dunque, svolta attraverso un abile senso del ritmo e dello stile. Tempo individuale e tempo collettivo, sociale, divenuti un puro movimento in cui si dissolvono i ricordi dell’infanzia e appaiono sbiadite le tracce di una storia. Anche la nostalgia svanisce, dunque, in questo progressivo dissolversi delle certezze e dell’identità personale. Non quindi versi autobiografici, non più possibili, ma apparizioni fantasmatiche e rappresentazioni di ere passate, che sembrano richiamare null’altro che il sempre ne quale siamo immessi.

Tradizione classica

Light Art

Pagani e cristiani in un mondo in profonda trasformazione

Lo sguardo della Gellini sulle novità del 2013

di Susanna Elm S H , F IClRlibro(University .E J ,G N , V of California Press, London) costituisce un

HURCH OF OME

MPEROR ULIAN

ONS OF REGORY OF

ELLENISM ATHERS OF THE AZIANZUS AND THE ISION

contributo di grande importanza agli studi sul IV secolo, attraverso l’analisi della vicenda e dell’opera di due dei principali protagonisti di quell’epoca tormentata e confusa, Giuliano Imperatore detto Giuliano l’Apostata e Gregorio di Nazianzo, Padre della Chiesa. La linea interpretativa adottata dall’Autrice (che non ha accolto unanime approvazione da parte degli studiosi del Nazianzeno) si distingue per la sua originalità: consiste infatti nel porre l’accento sul condizionamento puntuale esercitato dall’Apostata sul credo filosofico-teologico elaborato dal Nazianzeno. I due autori, contrapposti nella tradizione filosofico-religiosa, sarebbero stati, viceversa, uniti da una certa «contiguità culturale», in virtù della loro comune appartenenza all’universo della paideia classica. L’insistenza sulla dimensione “propagandistica” della filosofia giulianea – di cui un cristiano colto e smaliziato come Gregorio non poteva non avvertire il fascino insidioso – è un merito del libro della Elm; e nello stesso tempo appare la via storicamente più esatta per ricostruire la temperie spirituale di un’epoca in cui i rapporti di forza fra Ellenismo e Cristianesimo erano tutt’altro che ben definiti.

Maria Carmen De Vita

L A I 2013 (Maggioli Editore, con testo in inglese) il sesto libro che Gisella Gelmini dedica alle Isperimentazione in corso. Realizzato in collaborazione con la N DISTRIBUZIONE

IGHT

RT IN TALY

giornalista Clara Lovisetti, è dedicato agli artisti Paolo Rosa e Marinella Pirelli e al collezionista Giuseppe Panza, scomparsi in questi anni, figure, ricorda l’autrice nell’introduzione, fondamentali nel suo percorso di avvicinamento e approfondimento della Light Art. Come nella prassi del confronto al quale la Gelmini ci ha abituati da tempo, anche l’edizione 2013 porta contributi di altre personalità del dibattito storico critico rivolto alla light art e in generale all’arte ambientale. In apertura saggi di esperti del mondo dell’arte: da Massimo Bignardi che parla della luce come materia della forma alla giovane Carol Rolla che tratta della luce come elemento di connessione. Segue poi l’intervento di Domenico Nicolamarino sul tema della luce come “visione multipla”, con esempi applicativi della luce per installazioni artistiche nello spettacolo. Chiude il saggio di Clara Lovisetti che si rivolge al rapporto tra luce e vetro, partendo dalla recente Biennale veneziana e dai vari eventi collaterali. Letture critiche che introducono al repertorio di opere, rigorosamente in ordine alfabetico. Opere raccolte nel DVD che forma parte integrante di questa pubblicazione.

Annamaria Restieri

Il numero 9 lo trovi: AMALFI (SA) C&G. corso delle Repubbliche Marinare, 13 BARI Librerie Feltrinelli, via Melo, 49 BARONISSI (SA) Museo-Frac Fondo Regionale d’Arte Contemporanea BENEVENTO Libreria Masone Alisei, viale dei Rettori 73F BOLOGNA Bookshop MAMBo, via Don Giovanni Minzoni, 14 BRINDISI Museo Map, via Tarantini, 37 CALTAGIRONE (CT) Libreria Dovilio, piazza Bellini, 12 CAMPOBASSO La Nuova Libreria, via Vittorio Veneto, 7 Palladino Company, via Colle delle Api, 170 CATANIA Cavallotto Librerie, viale Ionio, 32 CATANZARO Libreria Mondadori, corso Giuseppe Mazzini, 16 CAVA DE’ TIRRENI (SA) MARTE Mediateca Arte Eventi, corso Umberto I, 137 Biblioteca Comunale, viale Marconi CITTÀ DI CASTELLO Novamusica, viale Abetone, 22 COMO Libreria Ubik, piazza San Fedele, 32 CORTINA D’AMPEZZO (BL) Museo Rimoldi, Ciasa De Ra Regoles, corso Italia, 69 COSENZA Caffe Letterario Città di Cosenza, piazza Matteotti ELLEBI Galleria d’arte, via Riccardo Misasi, 99 FERRARA Università degli Studi Ferrara Dipartimento di Studi Umanistici, via Paradiso Ibs.it Bookshop, piazza Trieste e Trento, 41 Librerie Feltrinelli, Corso Garibaldi, 30 FIRENZE Kunsthisrorisches Institut in Florenz, via Giuseppe Giusti, 44 FISCIANO (SA) Presso la sede di Unis@und Webradio Università degli Studi di Salerno FOGGIA Libreria Dell’Atenea, via Giuseppe Rosati, 1 GENOVA Libreria Feltrinelli, via C. Roccatagliata Ceccardi, 16 GROSSETO Centro documentazione arti visive, via Mazzini, 99 LAMEZIA TERME (CZ) Associazione culturale “Sukiya”, via Ticino,11 LECCE Libreria Adriatica, piazza V. Aymone, 7 Libreria Mondadori, piazza Sant’Oronzo LUCCA Fondazione Centro Studi Ragghianti, via San Micheletto, 3 MATERA Galleria Opera Arti e Arte, piazza Duomo, 16 MILANO Università degli Studi- Bibli. Storia dell’arte, via Noto, 6 Biblioteca Accademia di Belle Arti di Brera, Palazzo di Brera Libreria Hoepli, via Ulrico Hoepli, 5 MINORI Hotel Villa Romana, Corso V. Emanuele, 90 Fes Ceramiche, via Roma, 32 MODENA Bookshop Galleria Civica Palazzo Santa Margherita, corso Canalgrande, 103 Biblioteca Civica “L. Poletti”, viale Vittorio Veneto, 5 NAPOLI Accademia di Belle Arti, Via Costantinopoli, 107/a Bookshop Museo Archeologico Nazionale, piazza Museo, 9 Librerie Dante & Descartes, via Mezzocannone, 55 via Port’Alba, 10, piazza del Gesù Nuovo, 14 Libreria Feltrinelli, piazza dei Martiri Bar Novecento, piazza Bellini PALERMO Libreria del Kursaal Kalhesa, Foro Umberto I, 21 PARMA Librerie la Feltrinelli, via della Repubblica, 2 PERUGIA Libreria Betti, via Sette, 1 PESARO Fondazione Pescheria Centro Arti Visive, via Cavour, 5 PESCARA Libreria Primo Moroni, via Quarto dei Mille, 29 PISTOIA Lo Spazio di via dell’Ospizio, via dell’Ospizio, 26-28 POTENZA Cocco libreria, Palazzo Rizzo, 33 Ermes libreria, via Firenze ROMA Libreria Altroquando, via del Governo vecchio Biblioteca Rispoli, piazza Grazioli, 4 Bookshop Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale Aromaticus, via Urbana, 134 SALERNO Libreria Brunolibri, via Torrione, 125 Librerie Feltrinelli, corso Vittorio Emanuele I, 230 Libreria Internazionale, piazza XXIV Maggio, 12 Libreria Mondadori, corso Vittorio Emanuele, 56 Galleria Il Catalogo, via A. M. De Luca Galleria Paola Verrengia, via Fieravecchia, 34 Galleria Tiziana Di Caro, via Botteghelle, 55 Pierino, Edicola al Corso, corso Vittorio Emanuele SAN SEVERO (FG) Libreria Orsa Minore, via Soccorso, 123 SARONNO (VA) Galleria Il Chiostro, viale Santuario, 11 SASSARI Libreria Internazionale Koinè, via Roma, 137 SIENA Università degli Studi Siena Dipartimento Scienze Storiche e Beni Culturali, Palazzo di San Galgano Punto Einaudi, via Pantaneto, 66 Mondadori, via Montanini,112 TORINO Librerie Feltrinelli, piazza Castello, 19 TRENTO Libreria Il Papiro, via Galileo Galilei, 5 TRIESTE Biblioteca Comunale, piazza Hortis Libreria Einaudi, via del Coroneo, 1 ULASSAI-OGLIASTRA Fondazione Stazione dell’Arte Museo Arte Contemporanea, Ex Stazione Ferroviaria URBINO Biblioteca Accademia di Belle Arti, via dei Maceri, 2 VENEZIA Bookshop, Museo Peggy Guggenheim, Palazzo Venier dei Leoni Dorsoduro, 701 VICENZA Valmore studio d’arte Contrà, Porta S. Croce, 14

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CORK University College Cork (Ireland), Department of Italian, School of Languages, Literatures and Cultures HEIDELBERG Universität Heidelberg, Institut für Europäische Kunstgeschichte, Ruprecht-Karls (Bibliothek) PARIS Galerie Pièce Unique, Saint-Germain-Des-Prés, 6ème 4 rue Jacques Callot

geaArt

numero

9 - ottobre-novembre 2014

23



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