Geaart n° 11

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anno IV numero 11 luglio-settembre 2015 direttore Massimo Bignardi distribuzione gratuita

Periodico di cultura, arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative

Archeologia: le molte storie del cibo

A

lcuni progetti di ricerca sulle origini e la diffusione della vite e dell’olivo in Toscana e nel Lazio, sono stati il punto di inizio per attivare dal 2004 una stretta collaborazione interdisciplinare tra archeologi, botanici e biologi molecolari, afferenti alle Università di Siena e di Milano, con il coordinamento dell’Associazione Nazionale Città del Vino. Undici anni dopo, si proverà qui a valutarne i risultati e a presentare in estrema sintesi le nuove direzioni aperte alla ricerca archeologica.

ISSN 2420-7934

a pagina 5 u Andrea Ciacci, Andrea Zifferero

CIBO

cibarsi cibati ustodire la sorella terra, la madre terra, affinché non risponda con la distruzione. Ma, soprattutto, nessun sistema di discriminazione, di fatto o di diritto, vincolato alla capacità di accesso al mercato degli alimenti, deve essere preso come modello delle azioni internazionali che si propongono di eliminare la fame»*

«C

Papa Francesco *dall’intervento alla Seconda Conferenza Internazionale sulla Nutrizione

CONTROCOPERTINA

CARTE SUL TAVOLO

SCRITTURE

METROPOLIS

Paolo Bini untitled02, 2015

Nutriamoci di bellezza! Expo, un’occasione da cogliere

Giardini e filosofia: le metamorfosi del rapporto tra uomo e natura

Buenos Aires, viaggio sospeso tra l’attesa e la memoria di una lettura di Borges

acrilico su carta gommata su tela

L’Expo di Milano è un’occasione da cogliere. A dispetto di diete e controdiete, continuiamo ad azzannare la vita nelle cose che più amiamo e di cui sentiamo di non poter fare a meno, con l’eccesso e la moderazione del momento.

Nella storia dell’Occidente, lo spazio del giardino è stato associato, quasi sempre, a idee positive (fertilità, innocenza, amenità, serenità, gioia) contrapposte alla negatività dell’esterno (aridità, malizia, sgradevolezza, inquietudine, dolore).

Gli argentini, come gli italiani, sono espansivi, affabili, amano raccontarsi, pieni di una invadenza benigna . L’emigrazione italiana, rappresenta un tassello fondamentale per comprendere Buenos Aires. È tanto immensa quanto affascinante.

a pagina 2 u Francesco D’Episcopo

a pagina 14 u Enzo Cocco

a pagina 18 u Roberta Bignardi

Ci sono persone nel mondo che hanno così tanta fame, che Dio non può apparire loro se non in forma di pane (Gandhi)


carte sul tavolo

carte sul tavolo Questo nostro mondo umano, / che ai poveri toglie il pane, ai poeti la pace (P.P. Pasolini)

Nutriamoci di Bellezza

L’Expo di Milano, dedicata alla nutrizione del mondo: un’occasione da cogliere

di

FRANCESCO D’EPISCOPO*

stro pianeta e, purtroppo, le nostre coscienze. Questa crisi potrebbe rivelarsi apocalittica, a livello mondiale, se non si fronteggia subito con una vera e propria rivoluzione culturale, che informi correttamente, come sempre più si tenta di fare, ma soprattutto recuperi e rilanci quelle fonti inesauribili di energie, che la terra, il mare, il cielo continuano a custodire e che aspettano solo di essere meglio investite ed indirizzate. Purtroppo, spesso, dinanzi a un pur rispettabile progetto si nasconde un subdolo interesse economico e sono davvero pochi, rispetto ai troppi, coloro che veramente credono ed operano per un universo, dominato dall’amore e dal rispetto della natura, nostra prima e ultima madre, che, da figli degeneri, abbiamo non solo tradita, ma persino violentata. Mai come oggi, il mondo ha quasi tutti gli strumenti per salvarsi il corpo e l’anima, ma mai come oggi essi vengono impiegati per fini distorti e spesso illogici. A chi bisogna appellarsi perché il mondo torni a riscoprire la sua più autentica “natura”, quella che non tradisce, quella che non si piega a compromessi sempre più illeciti e violenti? Che l’Expo di Milano non manchi l’occasione eccezionale, che le viene offerta, di testimoniare, sì, ciò che ancora di buono c’è nel mondo, ma, soprattutto, di investire, nel modo più solidale e onesto, per una civiltà, in cui la natura torni ad essere la sacra e inviolabile madre di tutti, capendo, correggendo, studiando, valorizzando le specifiche entità ed evitando i rischi di una meccanica globalizzazione, che vorrebbe rendere il mondo un’asettica catena di montaggio, in cui l’umanità, l’artigianalità del fare, del produrre, sia paradossalmente bandita.Torniamo alle nostre vigne, alle nostre masserie,

ai nostri contadini, inimitabili piantatori di sogni e potatori di illusioni; torniamo ai nostri marinai, tenaci esploratori di un orizzonte che non ha mai fine. Continuiamo a creare scuole di terre e di mare, istituti alberghieri, dove i nostri giovani possano apprendere la nobile arte dell’accogliere e dell’assistere. Che ogni cucina ritrovi le sue specialità e che sia sempre più l’espressione non di un’archeologica museografia del corpo e dello spirito, ma di una realtà quotidiana, vibrante, come ci hanno insegnato le nostre madri, che non cucinavano mai lo stesso cibo per un’intera settimana. I nostri centri storici continuano, per fortuna, a profumare, specie di domenica, di ragù, di aglio e cipolla, di cibi cosiddetti poveri, ma che poveri non sono mai stati, per bellezza e ricchezza di ingredienti che compongono, con un eroismo quotidiano che meriterebbe una sobria monumentalità alle massaie del mondo, autentiche opere d’arte, le quali aiutano a vivere e ad alleggerirne, paradossalmente, il peso. Anche l’amore, sosteneva il poeta salernitano Alfonso Gatto, fa ingrassare, ma come si potrebbe rinunciare ad esso, con il rischio di rimanere troppo magri? A dispetto di diete e controdiete, continuiamo ad azzannare la vita nelle cose che più amiamo e di cui sentiamo di non poter fare a meno, con l’eccesso e la moderazione del momento. Chi scrive sa di non dare un buon consiglio, ma la vita è troppo breve per essere esorcizzata e rimossa nei desideri più veri. La sua poesia, forse, è solo in questa ricetta, discutibile finché si vuole, ma ancora capace di riservare qualche forte piacere a una società sempre più frigida e triste. *Università Federico II, Napoli

Cucina come creazione e conoscenza per battere il “Grande Fratello” FRANCO MATTEO

I

l gusto è un algoritmo. Il teorema non è dei più rassicuranti per chi aspira all’unicità dei sapori, alle tipicità: in una parola alla diversità nel campo dell’alimentazione. Ma è bene essere prudenti anche sulla retorica delle “identità” gastronomiche, sul mito dei prodotti tipici e della territorialità del gusto, una idea più adatta alla musealizzazione gastronomica che a una concezione relazionale, dunque dinamica, dell’alimentazione. Che tale è sin dal momento della nascita e dalla ricerca del capezzolo materno da parte del bambino. Non solo una relazione umana, ma un rapporto di conoscenza con l’ambiente. Che, in era cibernetica, non necessariamente è l’ambiente che ci circonda, quello dell’ormai anch’esso retorico cibo a chilometri zero. Molto si è discusso sul rapporto tra alimentazione e globalizzazione. Lo stesso Expo di Milano ha ospitato il 27 giugno l’antropologo Marc Augé per una conferenza su “Le vie del cibo nella società contemporanea tra McDonald's e Slow Food”. Dunque una discussione sul “non luogo” per eccellenza della gastronomia americana globalizzata cui si contrapporrebbe una visione identitaria, territorializzata, educata e politicamente corretta della cultura del cibo. Augé è del resto il fondatore stesso della teoria del “non luogo”, ossia del posto di passaggio, senza storia e frequentato da persone che sostanzialmente non si relazionano tra loro. Posto che, nel caso dell’alimentazione, è identificabile nel classico fast food all’americana, figlio della cultura del marketing più che di una idea gastronomica originale. L’industria del panino è studiata nei minimi dettagli, dai colori dell’arredo al grado di acidità delle salse, per

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numero

11 - luglio-settembre 2015

DORA DI MURO

e l’uomo è ciò che mangia, come affermava Feuerbach, S sarebbe opportuno riflettere

Se il gusto diventa industriale di

Noi giovani e i riti della persuasione di

F

orse conviene cominciare dalla nascita: quando nasciamo, prima di conquistare la parola, il nostro corpo invoca disperatamente, spesso piangendo, la necessità di nutrirsi. Questo le mamme ben lo sanno e fanno di tutto per garantire ai loro figli quel nutrimento, che li renda sani e belli. Esempi eclatanti vengono poi dal mondo animale, dove la mamma dei pellicani sembra addirittura squarciarsi il petto, pur di garantire il nutrimento per il suoi piccoli. Nutrirsi, dunque; ma il primo nutrimento è l’amore, che segna dall’inizio la nostra vita e che dovrebbe guidarla per sempre lungo la retta via. Per restare agli inizi, ai primordi, basterebbe consultare il libro dei libri, la Bibbia, nell’Antico e Nuovo Testamento, per cogliere il senso e il valore, non epidermico, ma profondo, che il cibo assume nella nostra vita, in un rapporto stretto, e purtroppo smarrito, con la natura, che tutto dona, se non la si tradisce. I mari, le montagne, i laghi, i fiumi, un tempo, erano di tutti e tutti attingevano a piene mani a una madre-natura, che colmava di doni i suoi figli. Ma il patto è stato poi, nel tempo, ripetutamente tradito e la natura è stata costretta a rivoltarsi contro uomini, ignoranti e violenti, che hanno sconvolto persino le sue viscere, creando continui buchi neri, non però nella loro coscienza. I tempi moderni sono costretti ormai a coniare con una paradossale terminologia beneficante ciò che all’origine era naturalmente biologico. I contadini del nostro Cilento hanno praticato da sempre la ‘miracolosa’ dieta mediterranea, ma è dovuto venire un nutrizionista americano per scoprirla e lanciarla in una dimensione internazionale. L’Expo di Milano, dedicata alla nutrizione del mondo, inaugurata il I maggio, dovrebbe provare a ricomporre un’armonia, perduta o smarrita, non solo reclamizzando i prodotti che aiutano a vivere e nutrirsi correttamente, ma compiendo un enorme sforzo culturale, per recuperare, in forma demoetnoantropologica, le estreme risorse della terra, del mare, del cielo; quelle che ancora resistono alla contaminazione e all’usura di una pseudociviltà, in cui l’economia si è strettamente alleata con la politica, sempre meno intelligente e solidale, per perpetrare ciclici crimini ecologici e, di conseguenza, alimentari nei confronti di un’umanità, sempre più divisa tra ricchi e poveri, tra potenti protetti e deboli, sempre più lasciati alla deriva. Le grandi istituzioni mondiali si rivelano ormai incapaci a fronteggiare, su una linea comune d’intesa, i grandi problemi politici, economici, sociali, di cui quelli ecologici e alimentari sono una diretta conseguenza. Grazie ai mezzi di comunicazione di massa, è possibile toccare con mano le manipolazioni e mistificazioni industriali a cui sono esposti i prodotti, di cui ci nutriamo, con il risultato, quanto mai grave, di malattie talvolta mortali. Un cancro corrode lentamente il no-

La fantasia è come la marmellata, bisogna che sia spalmata su una solida fetta di pane (I.Calvino)

incontrare il favore di un pubblico che è stato accuratamente studiato e che continua ad esserlo. Ogni panino che noi ordiniamo lascia puntualmente una traccia, ogni menù, ogni bibita. E le scelte di ciascuno contribuiscono algoritmicamente a orientare la proposta gastronomica dei grandi marchi di fast food. McDonald’s è un luogo inventato, un luogo ideale sotto il profilo della sua costruzione. Chi ne ha voglia può facilmente rintracciare in internet tutto lo studio di marketing che ha accompagnato la creazione del più noto marchio di fast food del mondo globalizzato. Dunque il meccanismo, il metodo, non è molto dissimile da quanto avviene per tutto ciò che è grande consumo, compresi i consumi immateriali, gli stessi social network che si muovono secondo logiche algoritmiche precise. Una delle più note è quella dell’Edgerank, uno degli algoritmi più importanti del mondo del marketing che viene applicato anche da Facebook per determinare ciò che deve apparire nel flusso di notizie di ogni utente del social network. Allo stesso modo, la grande industria alimentare decide “matematicamente” quale sia il prodotto da proporre a ciascuna fascia di consumatori. E il metodo si va affinando sempre di più. A partire dallo studio stesso dei sapori, che è fatto secondo tecniche scientifiche molto sofisticate, per finire al monitoraggio delle tendenze del gusto che, come si sa, sono condizionate anche dalle mode gastronomiche, sane o insane che siano. È per questo che, ad esempio, nei menù di MacDonald’s o di Burger King può capitare da qualche tempo di imbatterci anche in prodotti in qualche misura tipizzati secondo il gusto del pubblico nazionale o, se preferite, proposte di qualità con carni di razze particolari e l’uso di formaggi tipici. Cosa che ci sembra

un paradosso per un “non luogo” gastronomico, ma non lo è perché rientra perfettamente nell’algoritmo del gusto che cambia e che tiene conto delle evoluzioni e delle mode. Nell’alimentazione, come in tante altre tipologie di consumi, questo è l’universo industriale in cui siamo immersi. E’ lo slow food, il cibo a Km zero, il prodotto tipico l’alternativa a questo sistema? L’industria globale dell’alimentazione pare preparata anche a inglobare questa tendenza, svuotandola sostanzialmente della sua qualità o, se preferite, diversità, inserendola in una macchina truffaldina in cui la dieta mediterranea, tanto per fare un esempio, passa attraverso la proposta di parmigiano taroccato e altre “bufale” alimentari. Il discorso è molto complicato. Innanzitutto sul piano commerciale, non avendo i paesi produttori di tipicità la forza materiale di contrastare i giganti dell’industria alimentare. Lo è anche sul piano puramente teorico in cui la diversità può essere data solo dalla diffusione di una idea relazionale della propria alimentazione dettata dal proprio gusto e dal rapporto con ciò che questo gusto incontra e da come riesce a trasformarlo, reinventarlo, proporlo e riproporlo in forme diverse. In poche parole: la cucina creativa, che però non deve essere uno slogan, una moda, un vezzo borghese, ma un percorso di conoscenza, di deterritorializzazione e riterritorializzazione nel rapporto con il cibo e, al tempo stesso, con le persone. Che sono quelle che il cibo ce lo forniscono e quelle insieme alle quali noi consumiamo il cibo. Insomma una dimensione sociale e dinamica, relazionale dell’alimentazione: l’esatto contrario del non luogo descritto da Augé. Non un rapporto freddo con il cibo, ma la celebrazione di un piccolo rito fatto di piacere e condito quando è possibile di allegra convivialità.

e selezionare accuratamente e continuamente tutto ciò che inseriamo nella macchina più complessa che esista, il corpo umano. Non sempre, anzi forse quasi mai, ciò che risulta buono al palato è un “buon carburante” perché dietro l’apparente persuasione del messaggio pubblicitario “squisitezza e convenienza” di tanti cibi, c’è quasi sempre un processo di produzione sul quale i dubbi si addensano. I mass media con il loro sistema unicamente orientato alla produzione e al consumo di massa, sono in prima fila nella gerarchia delle responsabilità; essi ci propongono continuamente spot pubblicitari progettati a modo, conducendoci, perché trascendentalmente persuasivi, a scegliere il prodotto. Considerando quindi che il problema principale è che i prodotti pubblicizzati in tv, per radio o su un comune cartello pubblicitario nel centro della città, nella gran parte dei casi celano qualcosa o, meglio ancora, non dichiarano l’effettiva autenticità del prodotto. Voglio dire che la persuasione carpisce l’immaginazione ma ne piega il giudizio. È noto, le abitudini alimentari vanno differenziate; in primis per cultura anche se oggi non esiste più una vera cultura gastronomica dato che ogni paese, forse per sostenere l’integrazione tra popoli, propone cibi delle più svariate etnie. L’enorme diffusione dei cosiddetti “cibi spazzatura”, delle tendenze alimentari stile “americano”, facendo un resoconto, sembra interessare particolarmente la fascia d’età che va dall’infanzia all’adolescenza. Il loro cibo preferito: Coca cola, patatine (surgelate) fritte, panini ipercalorici, sono i capisaldi degli ormai globalizzati fast food che hanno, anche in Italia e in particolare al Sud, soppiantato le tradizionali pizzerie. Da uno studio condotto dalla HBSC (Healt Behaviour in School-aged Children) promosso dall’Organizzazione mondiale della sanità, si evince infatti che l’italia non è più il paese “della buona tavola”. Ma quale può essere il metodo giusto mirato ad un’educazione alimentare corretta? Come trasmettere l’idea che un piatto di pasta è decisamente più salutare, ma anche più buono di un pubblicizzato hamburger? Spesso è il rapporto inversamente proporzionale tra costo e contenuto calorico a trarre in inganno, trascurando che tra il gusto ed il prezzo esiste un inciso che prende il nome di “qualità”. Non va assolutamente trascurata la “quantità”, anch’essa complice delle cattive abitudini alimentari. Ma l’atteggiamento alimentare è solo la manifestazione dell’essenziale bisogno di nutrirsi o anche il risultato di moventi psicologici e sociali? Non sempre la gola è l’unica responsabile di una morbosità o di un rifiuto nei confronti del cibo. Col cibo si lotta per l’esclusione sociale, si combatte la solitudine e spesso si tenta di riempire vuoti. È cosi che il cibarsi si trasforma da necessità primaria di sopravvivenza ad atteggiamento che tira in ballo le emozioni, gli affetti e le mancanze. Tante cose ci rendono prigionieri del cibo e sta a noi dare ad esso il giusto valore e riflettere sulla necessità primaria che esso costituisce per la nostra macchina cercando di equilibrare il piacere del palato con un corretto apporto calorico ma soprattutto con una buona qualità.

La “grande abbuffata”

profezia

della deriva

Il punto di vista di un cannibale raffinato, come sguardo fuori campo di un’umanità che contempla il proprio tramonto di

HANNIBAL LECTER traduzione di DANILO MAESTOSI

N

o a Milano non mi hanno invitato. Forse si sono lasciati spaventare da quell’orribile museruola splatter con cui mi hanno raffigurato. Eppure io Hannibal Lecter, due bestseller da milioni di copie, tre film di culto, schiere di adoratori, avrei tutti i titoli per finire nel registro dei vip, tra gli ospiti eccellenti di questa Fiera internazionale. E il punto di vista di un cannibale raffinato come me potrebbe aggiungere molti spunti eccentrici e meno scontati al dibattito. Aiutare a correggerne il tiro, ampliarne il campo. Perché, credetemi, non ha molto senso costruire una festa come questa votata alla santificazione internazionale della cucina, dei sapori, dei piaceri del cibo, insomma celebrare l’apoteosi del gusto, mettendo fuori della porta il disgusto, cioè il rumore di fondo che ne è il contraltare, l’unità di misura di questo mondo in crisi, sempre più sospeso tra bulimia e anoressia. Voglie di trasgressione e ritorni all’ordine del conformismo. Brividi di paura e rassegnazione, camuffati da spezie e sapori più o meno esotici. No, non parlo della noia, che pure al disgusto ha spianato la strada. Quella, evocata da Sartre e da Camus, è stata una febbre esistenziale dell’immediato dopoguerra, lo sgomento di fronte alla forza tragica e distruttiva dell’irrazionale che ancora lasciava sopravvivere la speranza di un cambiamento, soluzioni impervie ma praticabili di comunità. Parlo di un sentimento molto più carnale di sconfitta, di frantumazione e di resa. Quel senso di naufragio e di irreparabile solitudine di fronte al destino che già si poteva avvertire nel banchetto di Trimalcione di Petronio. Oggi lo citano come un vangelo dei nuovi gourmet, ma quell’infinito flusso di pietanze, libagioni, riti conviviali non era forse solo un modo complice e artificioso di ingannare l’attesa di un’umanità che contempla inerte e sdraiata la scomparsa, il tramonto del proprio tempo? Un sussulto di vitalità o soltanto una natura morta, come quelle che, chiusa la parentesi del Rinascimento, la pittura comincia a sfornare e a imporre in tutte le case, impadronendosi come mai prima del tema e della «democrazia» del cibo? Un immaginario dell’ingordigia che tocca il suo culmine in quel capolavoro della cinematografia anni Settanta che è il film La grande abbuffata di Marco Ferreri: un gruppo di amici che decide di suicidarsi mangiando. Lucida profezia della deriva che la società del benessere e del postmoderno stava imboccando, trasformando in lusso persino la fame. Con esiti spietati come quelli raccontati nella Ricotta di

di

MANUELA PALMISANO

N

ell’epoca della gastronomia ‘plurisensoriale’ legata al ciberspazio o al light-food, mangiare “slow” diventa un lusso riservato a pochi privilegiati. Il cibo “locale”, quello “lento”, quello a “chilometro zero”, sempre più contrapposto alla visione inglese del “fast-food”, diventa la quint’essenza di un perfetto connubio tra enogastronomia e tradizione. Cibo come espressione del territorio. Il mangiare “geografico”, si coniuga perfettamente con l’atmosfera dei luoghi di cui è espressione, con quel bisogno di preservare l’identità dai processi di omologazione che tentano di trasformare i cultori del cibo in semplici consumatori di un prodotto che perde il proprio contenuto identitario per diventare sinonimo di “global-cucine”. La nostalgia alimentare, espressione di un territorio, si nutre quindi di rinnovato interesse per la riscoperta delle produzioni locali e regionali. Dietro il revival dei cibi locali, infatti, si nasconde “l’esperienza polisensoriale di alcune privilegiate categorie di persone post-consumatrici di massa che fanno del ricorso al tradizionale, al genuino, al tipico casereccio, uno stile alternativo di vita per attuare nuove forme di distinzione sociale”. Si verifica il cosiddetto paradosso alimentare, legato ai cibi locali,

Pasolini: una povera comparsa che si ingozza fino a morire d’indigestione, dimenticato come Cristo sulla Croce. O da parodia: quei finti stenti da malnutrizione che scandiscono le grottesche vicende dei vip ingaggiati nell’Isola dei Famosi. Il cannibalismo trasformato in caricatura. No, lasciatevi consigliare da un vero cannibale, restituite la fame e la voracità alla sua essenza archetipica. Alla profezia degli zombie. L’uomo divora la vita e la morte vendica lo spreco, spedendoci contro a sbranarci le orde dei morti viventi come nel film di Romero. Già, non sarebbe male se l’Expo adottasse come manifesto uno dei Capricci più noti di Goya. Che spettacolo di verità in quel Saturno che divora i suoi figli, nella vana speranza di salvare il proprio scettro dalle ambizioni degli eredi. Tradito- non è forse un messaggio in linea con il tono dell’Expo?- proprio dal gusto, perché quel Nume ottuso e spietato, ingannato dalla moglie, non si accorge che al posto del neonato Giove sta sgranocchiando una pietra. Col tempo, certo, la tribù dei cannibali ha imparato a migliorar la ricetta e a camuffare con ingredienti sofisticati la nudità «dell’orrendo pasto», come Dante definisce la straziante condanna di Farinata degli Uberti. Avvolta nel suo scafandro virtuale la società postcapitalistica ormai quasi neppure si accorge di aver ripreso simbolicamente a muoversi sulle orme insensate di Saturno e<HS0.1>di cucinare sulla graticola dei propri calcoli di profitto le nuove generazioni che dovrebbero scalzarne o renderne più umano e tollerabile il potere. E molti giovani, turisti per caso in questo pianeta antropofago, stentano a prender coscienza di esser finiti nel pentolone come quei personaggi dei giornaletti di Topolino in viaggio nell’Africa nera che cadono nelle mani dei pigmei e capiscono di esser diventati menù solo quando l’acqua arriva a bollore. Nei fumetti all’ultimo momento i nostri arrivano sempre a salvarli. Nella realtà della metafora queste cavie da mensa occidentale possono contare solo sulla distrazione che fa spegnere il fuoco o sulla disappetenza di cuochi già ipernutriti, che hanno deciso di mettersi a digiuno o si sono convertiti a una dieta vegetariana. Non ci rimettono le penne, ma finiscono con l’anima irreparabilmente lessata, una generazione a mezza cottura. Non mi date del cinico se divago così. È che da mostro qual sono riesco sempre a percepire quel retrogusto di perfidia che segna il trapasso dal crudo al cotto,l’avvento della società dell’abbondanza e dello spreco. E sigilla tutti i riti di massa della buona tavola. Anche i più innocui. Comunque la si metta a regolare il mondo sono le leggi crudeli della catena alimentare: il lupo che divora la pecora, il leone

Cibo, Cibarsi, Cibato

Cibo “locale”, cibo “lento”, a “chilometro zero” espressione di un’identità locale quale dimensione territoriale partecipata dei contadini, ai cibi poveri, che rivisitati in chiave di “nouvelle-cuisine” diventano esclusiva solo di quella frangia di estimatori abbienti. Raccontare il cibo nella sua ‘espressione plastica’ e nella sua componente nutrizionale rappresenta l’occasione concreta per la scoperta o la riscoperta di un territorio e delle ritualità che accompagnano le tradizioni gastronomiche. Attraverso l’analisi degli aspetti storico-antropologici che hanno condotto alla nascita di un particolare tipo di cibo, la ricetta si connota di una propria soggettività e ritrova l’indissolubile legame con il territorio d’origine. La tavola si connota da sempre per essere il mezzo più immediato per porsi in sintonia con i luoghi, per essere lo spazio in cui far emergere ricordi, gesti e ritualità racchiusi nel cibo. La valorizzazione del territorio, nelle sue emergenze materiali ed immateriali, ivi compresa la tradizione enogastronomica, fatta di saperi e sapori locali, si pone tra gli obiettivi degli Eco-

musei che in maniera sempre più esponenziale si diffondono su scala nazionale, uno fra tanti e il più territorialmente esteso d’Europa per esempio l’Ecomuseo di Valle d’Itria, in Puglia. Valorizzazione non in forma nostalgica e quasi malinconica, ma come metodo filologico per ricostruire una prassi storica, rinsaldare i legami tra generazioni portatrici di valori ed ideali differenti. Essi hanno il pregio di favorire uno scambio esperienziale finalizzato all’acquisizione di saperi da parte delle nuove generazioni ed alla presa di coscienza del proprio patrimonio identitario. L’identità locale e la dimensione territoriale partecipata sono stati al centro delle riflessioni della nuova museologia di Hugues de Varine e Georges Henri Rivière, che ribaltano per primi il rapporto fra patrimonio culturale e museo: la comunità locale, il territorio e la partecipazione si pongono, infatti, al centro della riflessione dei due studiosi francesi. Sarà lo stesso Rivière, il padre

la gazzella, il vegano che fa strage di vegetali e germogli. Basta trovarsi dalla parte giusta. Come già nel Settecento aveva ben spiegato con sublime ironia Jonhatan Swift mettendo mano alla sua Modesta proposta, vero e proprio manuale di economia e demografia cannibale. Come salvare gli irlandesi dallo loro endemica miseria. E far tornare i conti di un’intera nazione sul lastrico? Elementare, risponde e argomenta l’autore di Gulliver: Consentendo ai poveri di allevare e poi consegnare i propri figli come cibo sulle mense dei ricchi. All’epoca molti insorsero contro il cinismo di questa ricetta. Oggi forse rimprovererebbero a Swift di aver trascurato gli ingredienti per insaporirla, i contorni con cui guarnirla. E soprattutto di non aver fornito un’adeguata lista di vini per mandarla giù. Già che cosa è meglio per un brasato di carne umana: un rosso corposo o un bianco frizzantino? Le illustrazioni di pagina 2, 3 e 4 sono dell’artista VINCENZO FRATTINI

fondatore del movimento ecomuseale a definire gli ecomusei come “[…] espressione dell’uomo e della natura” e al contempo ad essere uno dei primi studiosi a percepire la complessità della definizione del “patrimonio culturale” e delle sue possibili ramificazioni”. Nati in Francia, gli Ecomusei hanno conosciuto una lenta ma progressiva crescita. L’Italia, come molte nazioni dell’Europa, non è stata interessata da una forte espansione dei musei all’aperto e l’esperienza degli ecomusei ha investito con ritardo il nostro Paese. Accanto alla loro nascita, il panorama italiano si arricchisce contemporaneamente dei musei rurali e della civiltà contadina, in cui il ruolo primario del cibo e dei prodotti e degli attrezzi legati al territorio diventa strumento di trasmissione, di scambio e fruizione. Il coinvolgimento degli attori sociali locali, finalizzato alla riscoperta del cibo e delle tradizioni ad esso legate, rimane una priorità per tutti e la partecipazione diviene un fondamentale strumento per il raggiungimento degli obiettivi finali. Nel tempo in cui siamo immersi e sommersi dall’Expo, una delle ultime grandi esposizioni universali in cui si avverte il trascinamento della comunità mondiale nella dimensione del “cibato” e del “cibarsi”, gli ecomusei rappresentano la più alta forma di valorizzazione del mangiare “geografico” legato al “cibo”.

miró

(2005-2015) Anima che accarezzo a sera, e sei un cane stanco, ma un cane sempre fedele. Un cane che balbetta un nome: padrone, padrone mio. Non lasciarmi anima cane, non lasciarmi mai. Alda Merini

geaArt

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11 - luglio-settembre 2015

3


carte sul tavolo

archeologia Grande è la fortuna di colui che possiede una buona bottiglia, un buon libro, un buon amico (Molière)

Si dice che lʼappetito vien mangiando, in realta viene a star digiuni (Totò)

Le molte storie del cibo:

Pane e potere un binomio della storia

archeologia

del vino e dell’olio in Toscana e nel Lazio

Nelle pagine della storia l’organizzazione del rapporto tra la città e la campagna luogo di produzione delle derrate alimentari

di di

GIUSEPPE RESCIGNO

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l processo di crescita economica e demografica in Italia tra X e XIV secolo interessa soprattutto le città. Tuttavia era ancora la campagna a produrre cibo e materie prime per la città, ma raramente il territorio sul quale queste esercitavano il controllo era in grado di fornire risorse alimentari sufficienti. Cosicché le autorità cittadine erano costrette necessariamente ad occuparsi del problema attraverso l’annona, un ufficio pubblico in grado di sovrintendere ai rifornimenti alimentario di altri generi essenziali attraverso il controllo di qualità e prezzi.I primi elementi di una politica annonaria si ritrovano negli statuti cittadini. Inizialmente l’intervento delle autorità si limitava a disciplinare le iniziative individuali, sia attraverso il controllo delle professioni legate all’approvvigionamento, sia mediante divieti di esportare derrate alimentari e l’obbligo di condurre in città tutto quanto si produceva nel contado. In seguito all’aggravarsi dei problemi alimentari si rese necessario l’intervento diretto delle autorità pubbliche che istituirono apposite magistrature incaricate della gestione del settore annonario e dotate di ampi poteri in materia di approvvigionamento, distribuzione, dazi, controlli di pesi e misure, giurisdizione. Nacquero così nel Medioevo a Siena l’Ufficio del divieto, a Perugia gli Ufficiali dell’abbondanza, a Venezia gli Ufficiali al formento ecc. I provvedimenti adottati da tali magistrature riguardavano quasi esclusivamente l’approvvigionamento dei cereali. Ai quali era riconosciuta una priorità assoluta, considerato che nel tardo Medioevo costituivano l’elemento di base dell’alimentazione. Il loro consumo era diverso da zona a zona e a seconda del tenore di vita dei vari ceti sociali. A partire dal Duecento nelle città si consumava prevalentemente pane di frumento; i cittadini meno abbienti e le masse rurali si nutrivano invece di pane fatto di cereali minori (orzo, miglio, segale ecc.). In Italia erano poche le città che in tempo di raccolto normale potevano usufruire dal contado di cereali a sufficienza. Ad eccezione del Mezzogiorno, che poteva contare sull’alta produttività di frumento della Puglia e della Sicilia, principali mercati di sbocco della derrata. Ciononostante è proprio nelle province meridionali che si registrarono lungo i secoli le carestie con successive pestilenze tra le più nefaste che si ricordino. A Napoli, la nutritissima legislazione in materia di Annona, particolarmente rigida durante il governo vicereale, si fonda sulla preoccupazione del legislatore di garantire l’accesso alle risorse alimentari innanzitutto al popolo della capitale e ad un prezzo accessibile a tutti gli strati sociali attraverso il meccanismo delle assise, cioè la fissazione del

prezzo dei beni di prima necessità da parte della pubblica autorità.Napoli, non a caso, funzionava da centro di espansione commerciale e da grande mercato di consumo dei prodotti del Mezzogiorno. Infatti le materie prime prodotte e trasformate nel regno confluivano all’interno stesso della capitale, mentre il territorio urbano era quasi del tutto escluso dalla loro produzione. Tra i principali provvedimenti predisposti dal governo per regolare il vettovagliamento della capitale, il più ricorrente nei confronti del popolo minuto e degli operatori di commercio concerneva la limitazione dell’approvvigionamento delle derrate, che per i cittadini in particolare non doveva eccedere i propri bisogni. Dagli Editti annonarj emerge che, tra i beni di prima necessità, il divieto colpiva in primo luogo l’approvvigionamento di grano, che non poteva acquistarsi per trenta miglia attorno alla città per farne commercio; solo si poteva trattenere quanto fosse sufficiente per il proprio bisogno. Pene severe erano previste per i trasgressori. Il timore di speculazioni sulle spese del vettovagliamento di grano della capitale era tale che – secondo un editto del 1590 – la sua estrazione fuori dal regno veniva punita addirittura con la pena di morte. Oltre che al grano, il divieto di superare il consumo superiore alle quote consentite era esteso a tutte le categorie concernenti la grassa (vettovaglie destinate all’approvvigionamento delle città). Ma oltre all’acquisto al minuto delle derrate alimentari, era contingentato anche l’approvvigionamento da parte degli esercenti. Secondo un editto del 1671, ai bottegai era proibito “ammassare” più di otto tomola di vettovaglie, limite poi ampliato a venti tomola con un successivo editto. In ambedue i casi la trasgressione veniva punita con la perdita della merce e con una multa di 50 ducati. Tuttavia, tutta la filiera del commercio legato alla grassa risentiva di una normativa – spesso rinnovata da un susseguirsi di editti di ispirazione prevalentemente congiunturale – articolata e macchinosa della quale a volte si stenta a comprenderne la logica. Andando per categorie, alla maggior parte dei venditori era proibito andare incontro ai fornitori, per cui l’approvvigionamento andava effettuato in ben precisati luoghi (dogana, mercato ecc.) e alla presenza di determinati funzionari (consoli delle corporazioni, deputati della città ecc.). Prescritta per editto era anche l’epoca delle contrattazioni delle derrate: che dovevano avvenire alla luce del giorno, affinché se ne constatasse la qualità; iniziare dopo un preciso segnale (lo scampanio di una campana o lo scoccare di una determinata ora), affinché non se ne avvantaggiassero venditori e compratori; svolgere entro determinate scadenze annuali o periodicità mensili per evitare transazioni fuori sta-

gione. Fermo restando il principio che all’interno del Mercato Grande i venditori erano distribuiti per settori merceologici, più che l’ubicazione della vendita di determinate merci in altri siti, stravaganti appaino particolari modalità, come l’obbligo dell’attraversamento di certe derrate per determinati percorsi, la distanza dei venditori da particolari luoghi sacri o tra singoli esercizi. Il tema dell’annona assunse una posizione di assoluta centralità nella politica dei viceré. Per secoli l’approvvigionamento alimentare della capitale, divenuta ormai una delle più grandi metropoli d’Europa, si configurò come un problema di vero e proprio governo politico. I viceré, infatti, prescindendo dall’abbondanza dei raccolti delle principali vettovaglie, assicuravano la loro vendita sempre allo stesso prezzo, anche se non remunerativo e svantaggioso per le pubbliche finanze. Il prezzo del pane a Napoli era sempre inferiore a quello delle province del Regno. Il grano della città veniva immesso in grandi fosse site in punti strategici della capitale, come pure le farine macinate a Castellammare, a Torre Annunziata e in alcuni centri della Costa di Amalfi. In osservanza alla linea politica del governo il prezzo imposto del pane quasi mai corrispondeva al costo dei grani. Quando lievitava il popolo reagiva con proteste e tumulti; quando ribassava i grani scomparivano dal mercato. Incettati dai mercanti, venivano esportati clandestinamente o nascosti in attesa di tempi migliori. Situazioni dalle quali scaturivano pericolose carestie che mietevano migliaia di vittime soprattutto tra i meno abbienti. Oltre ai mercanti, tutti incettavano: popolo, nobili, ecclesiastici…, perfino i viceré! Ad ogni carestia, ad ogni penuria dei grani il governo si affannava nella ricerca di sempre nuovi criteri di correzione dell’annona, laddove la soluzione era la sua soppressione. Cosicché i nuovi piani della sua ristrutturazione finivano quasi sempre per penalizzare le già precarie finanze del governo. La carestia del 1764, la più dura delle precedenti, anche per la successiva epidemia con migliaia di vittime, riportò sul banco d’accusa il sistema annonario della Capitale. L’affermarsi del pensiero di economisti fisiocratici e degli illuministi napoletani, propugnatori di una totale libertà del commercio dei grani, gli avvenimenti politici del periodo (Rivoluzione del 1799, Decennio francese) agevolarono lo smantellamento dell’apparato annonario napoletano, a partire da una serie di provvedimenti assunti dal restaurato governo borbonico. Superata la congiuntura rivoluzionaria, a partire dal 1821, nonostante i timori di nuove carestie, l’orientamento prevalente a livello centrale e periferico sarà sempre proteso a salvaguardare la libera distribuzione interna dei generi e avverso ai monopoli.

Medioevo: l’appetito non sempre vien mangiando! di

ALESSANDRO DARRA

n Italia, si sa, il cibo è roba seria. In queste righe, Inostra però, andiamo oltre questa visione nobilitante della tradizione culinaria per guardare al momento

del pasto con altri occhi. Dalla Cena Trimalchionis (nel Satyricon di Petronio del 60 d. C.) a La cena dei cretini (film diretto da Francis Verber nel 1998), il momento conviviale diviene palcoscenico dove si esibiscono attori inconsapevoli, vittime delle loro presunzioni o delle loro passioni. Allo stesso modo J. Austen racconta come la famiglia Bennet (Orgoglio e pregiudizio, 1813) sia capace di esporsi al ridicolo durante la cena a Netherfield. Questi esempi ci parlano del cibo come una sorta di “occasione sociale”, una cornice in cui è inserita la rappresentazione realistica, grottesca o caricaturale di tipi umani. Vi è stato un tempo, però, in cui il cibo era in grado di definire l’immagine di un sovrano, di fare la differenza tra una alleanza e una inimicizia e di distinguere nettamente l’alta società dal popolino. Entriamo alla corte di Carlo Magno, il sovrano più noto dell’Europa medievale. Carlo sapeva bene che, in un impero multietnico come quello su cui regnava, buona parte del suo dovere era apparire. In sostanza: il concetto di regalità si intrecciava con l’immagine che l’imperatore dava di sé. Curioso è vedere come l’appetito dimostrato a tavola contribuisse a formare questa immagine. Una robusta fame era segno di forza e virilità e un buon sovrano prediligeva arrosti ben cotti, unti, speziati. Al contrario un re debole preferiva i bolliti, o peggio, le verdure! Leggendo la descrizione di

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A fianco: Montalcino (SI). Olivi secolari nei pressi dell’Abbazia di Sant’Antimo in Val d’Orcia; Sotto: Ghiaccio Forte (Scansano, GR). Dettaglio dell’impianto del vigneto sperimentale etrusco e romano, realizzato nel 2015 in prossimità del sito archeologico etrusco: in primo piano il tutore vivo della futura alberata etrusca, costituito da un acero campestre che fungerà da supporto per lo sviluppo di due barbatelle preparate in vivaio e provenienti dalle viti selvatiche censite e campionate intorno al sito. In secondo piano, i filari impiantati con la tecnica di coltivazione romana, che permetterà la crescita delle piante su tutori formati da pali di castagno.

Carlo, opera di Eginardo, si apprende che il regnante amava fare di testa sua in fatto di cucina anche in tarda età. In barba ai medici di corte, che raccomandavano l’assunzione di bolliti, Carlo preferiva un arrosto. Interessante è il racconto di un monaco dell’abbazia di Novalesa del X secolo. Siamo sempre alla corte di Carlo che, in occasione della conquista del regno dei Longobardi, era di stanza a Pavia. Adelchi, figlio del deposto re Desiderio, non è nelle condizioni di poter riconquistare il regno, ma vuole esibire la propria forza e la propria dignità ai Franchi e, soprattutto, a Carlo. Il principe, travestito da popolano, s’intrufola al banchetto della vittoria e, da buon guerriero, mangia la cacciagione arrostita (carne d’orso, di bue selvatico e di cervo), ne spezza le ossa e, succhiatone il midollo, le getta sotto il tavolo. A pasto concluso, e con Adelchi ormai lontano, Carlo si accorge di quel posto vuoto e degli avanzi lasciati in una sorta di mucchietto. Chi mai, se non un re, aveva un appetito sì tenace e la forza di spezzare le ossa per succhiarne il midollo? Agli occhi di Carlo, quel mucchio d’ossa, era la consistente realtà di un terribile nemico. A onor del vero si tratta di una leggenda fiorita negli ambienti di tradizione longobarda, insofferenti al dominio franco, ma la leggenda testimonia il ruolo del cibo come specchio dell’immagine del sovrano, o di un temibile avversario. E quando ci sono in gioco le alleanze? Guardiamo alla brutta esperienza del vescovo Liutprando da Cremona, ambasciatore per Ottone I di Sassonia alla corte di Bisanzio. Il 7 giugno 968 il vescovo è ospite alla mensa dell’imperatore Niceforo II Foca. Il posto a tavola

non è roba di poco conto nelle cerimonie di corte e Liutprando si ritrova a quindici posti di distanza da Niceforo. Non è il posto d’onore, tanto meno la distanza ideale per poter intavolare un’alleanza. Anzi: si tratta di un vero e proprio sgarbo! Il vescovo comprende bene di essere l’ultimo dei pensieri di Niceforo anche perché il tavolo a lui destinato è sfornito di tovaglia. Ma vogliamo parlare del cibo? Le pietanze sono troppo condite con olio e, orrore, con il garum, la famigerata salsa prodotta con interiora di pesci marcescenti. Il trattamento, che lo stesso Liutprano non esita a definire osceno, è narrato in un documento ufficiale: la Realatio De Legatione Costantinopolitana, relazione che doveva passare per le mani di Ottone I e che aveva il compito di spiegare i motivi del fallimento della missione. Va da sé che anche la cucina fu uno degli elementi determinanti di tale flop. Il cibo, nel medioevo (e non solo), era un elemento di distinzione sociale: le mense dei ricchi abbondavano di carne, fosse essa di cacciagione o d’allevamento, e pesce . Praticamente priva di questi alimenti era la tavola del povero. Pena per una tale abbondanza sulle tavole dei signori, quasi per contrappasso, era l’insorgere della gotta, malattia che pare avesse reso claudicante lo stesso Carlo Magno. Ciò che rendeva ancora più opulenta questa dieta erano le pregiatissime spezie, vero e proprio status-symbol della tavola dei ricchi. La più costosa era lo zafferano, la più utilizzata era lo zenzero, che batteva: pepe, chiodi di garofano, noce moscata, cumino, anice, e altre, quasi tutte provenienti dall’oriente e dall’India, con la buona pace di chi crede nel cibo a chilometro zero.

Auguri! Ingegnere De Marco

Lo scorso 23 luglio si è laureato, con il massimo dei voti e lode, in In­ gegneria meccanica Bruno De Marco, presso la Scuola Politecnica e delle Scienze di base della Facoltà di Inge­ gneria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Bruno ha discusso una tesi in In­ gegneria meccanica per la progetta­ zione e la produzione, dal titolo Caratterizzazione numerica dei pa­ rametri del modello costitutivo di Johnson e Cook della lega al 2024­t3 per una prova di impatto frontale di un attenuatore d’urto per monopo­ sto di formula sae, relatore il prof. ing. Francesco Timpone e correla­ tore l’ing. PhD Flavio Farroni. A Bruno gli auguri di tutta la re­ dazione che si associano a quelli del papà Antonio, cofondatore di gea­ Art e responsabile dell’immagine grafica, della mamma prof.ssa An­ tonina Giampaglia, dei fratelli Ales­ sandro e Davide e della fidanzata Daniela, da tempo nostri collabora­ tori.

ANDREA CIACCI, ANDREA ZIFFERERO*

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lcuni progetti di ricerca sulle origini e la diffusione della vite e dell’olivo in Toscana e nel Lazio, sono stati il punto di inizio per attivare dal 2004 una stretta collaborazione interdisciplinare tra archeologi, botanici e biologi molecolari, afferenti alle Università di Siena e di Milano, con il coordinamento dell’Associazione Nazionale Città del Vino. Undici anni dopo, si proverà qui a valutarne i risultati e a presentare in estrema sintesi le nuove direzioni aperte alla ricerca archeologica. Tutto è iniziato da tre interrogativi iniziali: si può studiare l’ambiente con una prospettiva di ricerca storica, che aiuti a fissarne i caratteri e ne colga al tempo stesso i momenti evolutivi? Si può interpretare l’attuale assetto dell’ambiente anche con gli strumenti messi a disposizione dall’archeologia? Si può, infine, pensare a forme di valorizzazione dell’ambiente che si ispirino all’evoluzione storica del paesaggio e ai condizionamenti imposti dall’azione persistente dell’uomo sulle risorse naturali, per trarne le risorse utili alla sopravvivenza? In altri termini l’obiettivo della ricerca andava ad abbracciare, oltre al sito archeologico, classico campo di azione indagato con lo scavo, anche il contesto vegetale circostante per recuperare brandelli di paesaggio antico che ancora vi potessero essere nascosti. Il postulato del primo Progetto, infatti, da noi denominato in modo emblematico VINUM, dal termine etrusco indicante il prodotto fermentato dell’uva, era: al pari delle tracce lasciate dalle attività umane, anche l’ambiente può offrire nella vegetazione attuale forme di domesticazione delle viti selvatiche o, al contrario, forme di rinselvatichimento delle antiche viti domestiche. Partendo da tale presupposto, in tre anni di lavoro il Progetto ha tracciato un solco metodologico centrato sull’analisi delle popolazioni di vite selvatica (Vitis vinifera ssp. sylvestris) oggi presenti in prossimità di siti di carattere produttivo (che mantenessero cioè resti documentabili, quali vinaccioli recuperati dallo scavo, impianti di spremitura e/o contenitori per la fermentazione, la conservazione ed il trasporto del vino), con particolare riferimento ai periodi etrusco e romano. Il contributo della botanica e della biologia molecolare è stato quindi essenziale per studiare i caratteri ampelografici e genetici di queste popolazioni, utili per approfondirne i rapporti con le varietà domestiche contemporanee (cioè i vitigni). I risultati del Progetto VINUM sono stati incoraggianti perché hanno fatto emergere, oltre ogni dubbio e per la prima volta, le differenze genetiche tra le viti selvatiche campionate in prossimità dei siti archeologici e quelle censite lontano da essi: un probabile indizio della domesticazione ad opera delle comunità residenti nel sito, impresso nel germoplasma delle piante coltivate e arrivato fino a noi nelle popolazioni ridiventate selvatiche. In realtà il Progetto VINUM ci ha insegnato, nella

veste di archeologi, ad affinare nuovi strumenti di indagine traendoli dalle altre discipline: dal punto di vista teorico, infatti, un decisivo passo in avanti nella caratterizzazione storica dei vitigni si è avuto da una parte con il sequenziamento del germoplasma della vite coltivata, che ha portato a definire precisi rapporti di parentela e affinità genetica tra i vitigni dell’area mediterranea, dall’altra con l’analisi della circolazione varietale della vite, costruita sullo studio combinato dei vitigni rispetto alla loro attuale distribuzione geografica. Questa circolazione può essere molto antica e può risalire in diversi casi alla fondazione delle colonie greche nell’Italia meridionale e nella Sicilia: i coloni che si apprestavano a fondare una nuova colonia recavano dalla madrepatria semi e talee dei tre prodotti tipici della policoltura mediterranea, i cereali, la vite e l’olivo. Nel quadro più generale della domesticazione della vite, la ricerca sul paesaggio archeologico ha prodotto significative implicazioni con lo studio della vegetazione spontanea prossima ai siti, purché collocati in condizioni di elevata conservazione ambientale: il metodo di lavoro ha previsto la creazione di protocolli operativi basati sulla registrazione e sul censimento delle piante distribuite intorno al sito, con il prelievo di parti vitali (di solito infiorescenze o foglie) utili all’estrazione del codice genetico della pianta. L’analisi del germoplasma delle popolazioni indagate ha così consentito di tracciare mappe di confronto tra le viti selvatiche e i vitigni oggi coltivati e di verificarne gli eventuali contatti, attribuibili a forme di domesticazione operate dall’uomo nel corso del tempo; la scala cronologica della domesticazione è stata ricavata dalla cronologia del sito, la cui comunità ha messo in atto, spesso per lungo tempo e in forma diversa, la cura e lo sviluppo delle piante. Il Progetto ArcheoVino, realizzato a Scansano nella Maremma grossetana, ha in particolare permesso di tracciare con relativa precisione un’area di domesticazione secondaria della vite, circoscrivibile alla media e bassa Valle dell’Albegna, un comparto che le fonti archeologiche (soprattutto fornaci di anfore da trasporto, ma anche relitti provenienti dall’area in questione, dislocati tra l’Alto Tirreno e il Mar Ligure), qualificano come grande produttore di vino durante il periodo etrusco e romano, una sorta di Chianti dell’antichità. Se, quindi, il contributo dell’archeologia può approfondire e storicizzare la domesticazione delle specie vegetali, anche e soprattutto quelle ritornate allo stato selvatico, i progressi nell’estrazione del DNA antico, talvolta conservato nei reperti paleobotanici (quali vinaccioli o noccioli d’olivo provenienti dagli scavi), può concorrere ad inquadrare meglio sotto il profilo cronologico le forme e i tempi della domesticazione delle specie fruttifere. Un percorso simile è stato compiuto con l’olivo, indagato attraverso la forma rinselvatichita dell’olivastro (Olea europaea ssp. sylvestris) in prossimità dei siti archeologici della Toscana e del Lazio settentrionale (Progetto Eleiva, dalla de-

(foto Archivio ILEAI, Università di Siena)

nominazione dell’olio in lingua etrusca). Anche il paesaggio vitato della città di Siena e della fascia suburbana è stato esplorato con l’intenzione di recuperare informazioni e campioni di vitigni a rischio di estinzione e di antico radicamento nel territorio, sparsi tra i conventi e dimenticati negli orti urbani, insieme al recupero delle forme tradizionali della viticoltura senese, quali spalliere ed alberate, con i sostegni (testucchi) formati da aceri campestri con ramificazioni a sviluppo orizzontale adatte allo sviluppo dei tralci (Progetto Senarum Vinea). Il lavoro interdisciplinare degli archeologi con botanici e biologi appare quindi ricco di implicazioni utili al progresso di queste discipline e alla realizzazione di nuovi progetti. L’esperienza maturata dal 2004 a oggi ha portato alla nascita del Progetto FARFALLA, finanziato dalla Regione Toscana e condiviso dalle tre Università toscane con aziende, consorzi e associazioni; la ricerca sarà condotta su aree e prodotti specifici, con l’intento di collegare le produzioni agricole alla storia e al paesaggio, ponendo particolare attenzione ai caratteri dei paesaggi agrari di età etrusca e romana. Il Progetto, che si avvale anche delle competenze degli ingegneri dell’informazione, si propone di dare vita ad una iniziativa pilota per l’identificazione, la conservazione e la valorizzazione di alcune coltivazioni, in primis quelle varietà a rischio di scomparsa perché sostituite da coltivazioni concorrenti, mettendone in luce l’identità storica in rapporto col territorio di origine. Il riconoscimento dell’eredità culturale che unisce il prodotto tipico al territorio di origine costituisce uno degli obiettivi del progetto, diretto alla creazione di una menzione aggiuntiva di identità storica, da associare al sistema vigente di certificazioni. Una rete disciplinare che leghi l’archeologia al mondo della produzione agricola, passando per la storia, la botanica, la genetica, il marketing e l’information and communication technology, si configura oggi come un potente strumento in grado di contrastare le forme di globalizzazione che impongono la riduzione delle varietà per ragioni di mercato (soprattutto nella viticoltura, ma anche e con caratteri molto preoccupanti, nella cerealicoltura e nella frutticoltura), con l’effetto di una inevitabile riduzione della biodiversità delle specie. La possibilità di recuperare per mezzo di azioni di ricerca mirate, porzioni inaspettate di paesaggio archeologico vivente, sotto forma di specie vegetali, può portare da un lato alla protezione di paesaggi residuali a rischio di distruzione e può arricchire dall’altro in modo assolutamente imprevedibile il mosaico delle identità e tipicità alimentari della Penisola, con il recupero di varietà quasi scomparse, per introdurre nuove (e veritiere sotto il profilo storico) forme di tipicità. Un passaggio essenziale è il trasferimento dei risultati al mondo della produzione e della trasformazione alimentare, per stimolare di più e meglio la disseminazione di buone pratiche. I

due vigneti sperimentali allestiti a Siena nell’Orto de’ Pecci, con i vitigni recuperati dal Progetto Senarum Vinea e piantati con la tecnica medievale ad alberello documentata nell’Allegoria del Buono e del Cattivo Governo (1338) di Ambrogio Lorenzetti e a Scansano presso il sito etrusco di Ghiaccio Forte, con le viti selvatiche a riprodurre l’alberata etrusca e la tecnica romana a palo secco, sono oggi la prova vivente del percorso intrapreso: con il frutto delle viti senesi si spera di produrre in futuro un vino simile nel gusto al vino medievale, mentre le viti maremmane potrebbero riprodurre il vino etrusco e romano prodotto in quantità massicce tra VI e IV secolo a.C. ed esportato per via marittima fino alle lontane terre dei Celti e degli Iberi. (andrea.ciacci@unisi.it andrea.zifferero@unisi.it) *Dipartimento di Scienze storiche e dei Beni culturali, Università degli Studi di Siena

Per saperne di più A. CIACCI, G. BARBIERI e A. ZIFFERERO (a cura di), Eleiva, Oleum, Olio. Le origini dell’olivicoltura in Toscana: nuovi percorsi di ricerca tra archeologia, botanica e biologia molecolare, San Quirico d’Orcia, Editrice DonChisciotte, 2010. A. CIACCI, M. GIANNACE (a cura di), Senarum Vinea: il paesaggio urbano di Siena. Forme di recupero e valorizzazione dei vitigni storici, Siena, Nuova Immagine Editrice, 2012. A. CIACCI, P. RENDINI, A. ZIFFERERO (a cura di), Archeologia della vite e del vino in Toscana e nel Lazio. Dalle tecniche dell’indagine archeologica alle prospettive della biologia molecolare, Firenze, Edizioni All’Insegna del Giglio, 2012.

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danza

paesologia

La danza può rivelare tutto ciò che la musica racchiude (C. Baudelaire)

Uno dei poeti più importanti di questo paese, il migliore che abbia mai raccontato il terremoto e ciò che ha generato (R. Saviano)

foto: © Franco Arminio

Il risveglio del corpo

Matteo Trivisone versi sulle pagine del monitor geaArt apre una sua nuova piccola sezione, accogliendo i versi di “poeti in erba”. Un’altra strada che desideriamo percorrere nella consapevolezza di nuovi incontri, di paesaggi e di scene sui quali ‘spalancare’ le nostre anime. «Il fondo del mio insegnamento – facendo nostro il pensiero di Pier Paolo Pasolini – consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in bruti e stupidi automi adoratori di feticci». In questo numero ospitiamo due poesie scritte dal diciassettenne Matteo Trivisone, salernitano, vincitore - sezione “giovani”- della XXII edizione (2014) del concorso nazionale biennale di Poesia Religiosa “Camposampiero”(PD).

Alla scoperta della danza terapia: intervista a Viviana Mercurio danza terapeuta italiana a Buenos Aires di

ROBERTA BIGNARDI

L Franco Arminio, poeta nel corpo del paesaggio “La paesologia è una via di mezzo tra l’etnologia e la poesia, una disciplina fondata sulla terra e sulla carne” Intervista di ATTILIO

L

FRANCO ARMINIO

È nato e vive a Bisaccia (AV). Poeta, scrittore, giornalista collabora con “Il Manifesto”, “Il Fatto quotidiano", “Il Mattino”, “Il Corriere del Mezzogiorno”. È animatore del blog “Comunità Provvisorie”, Direttore artistico del Festival della paesologia “La Luna e i Calanchi” di Aliano (MT). È documentarista e animatore di battaglie civili contro le discariche in Alta Irpinia e la chiusura dell'ospedale di Bisaccia. Candidato alle elezioni europee 2014 nella lista Tsipras (con 13.253 preferenze). Roberto Saviano ha definito Franco Arminio «uno dei poeti più importanti di questo paese, il migliore che abbia mai raccontato il terremoto e ciò che ha generato». Nel 2009, con Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia ha vinto il Premio Napoli. Nel luglio 2011, con Cartoline dai morti ha vinto il Premio Stephen Dedalusper per la sezione “Altre scritture”. Con Terracarne edito da Mondadori (2011) ha vinto il Premio Carlo Levi e il Premio Volponi. Nel 2013 è uscito il suo ultimo libro di prosa Geografia commossa dell'Italia interna. Al suo lavoro è dedicato il documentario Di mestiere faccio il paesologo di Andrea D’Ambrosio (Lama Film, 2010), Premio Roberto Rossellini 2012.

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BONADIES

a telefonata mi raggiunge a Frigento, lungo la strada che porta a Bisaccia, il suo paese natale dove vive tuttora e luogo dell’appuntamento pomeridiano, nel cuore dell’Alta Irpinia. Franco Arminio non ha ancora terminato la sua quattro giorni a Trevico dove c’è la Casa della paesologia - con i tanti ospiti che l’hanno animata in questo inizio di maggio - e mi prega di raggiungerlo a Zungoli. Per evitare un giro lunghissimo, su consiglio della giovane donna che gestisce l’agriturismo dove ho assaporato alcune specialità locali, scendo nella splendida vallata sottostante dell’Ufita attraverso un’ interpoderale che costeggia una campagna coltivata,tra i profumi intensi di una matura primavera. Poi devo inerpicarmi sui fianchi del monte Molara di Castel Baronia per arrivare a Zungoli, un grazioso borgo di casette tra vicoli e scale che conducono al castello medioevale del XII secolo. Evidentemente Franco Arminio esige da me un percorso da iniziato per scoprire che “la paesologia è una via di mezzo tra l’etnologia e la poesia, una disciplina fondata sulla terra e sulla carne” attraverso il “passare del mio corpo nel paesaggio e il passare del paesaggio nel mio corpo” ovvero “la scrittura che viene dopo aver bagnato il corpo nella luce di un luogo”. A pochi chilometri da qui sulla cima della montagna c’è da qualche mese la casa della paesologia, nel centro storico di Trevico, il paese più alto e più antico della Baronia (m. 1094) chiamato per questo "balcone dell’Irpinia".Che cosa è per lei e per centinaia di “paesologi” questo luogo e la filosofia che lo sottende? «Trevico è un paese austero, pulito, pieno di gerani. Trevico è un porto sicuro, è un paese invernale anche in piena estate. Da lì si vede il mio paese… mentre lo guardo mi accorgo che non abito più da nessuna parte. I paesi stanno sparendo, i luoghi stanno sparendo letteralmente sotto i nostri occhi, sta sparendo un mondo e da questa sparizione noi che abitiamo i paesi siamo attraversati come da una slavina silenziosa. Assistiamo ad un urbanesimo al contrario. Non sono più tanto i paesani ad andarsene, è la città che raggiunge i paesi e li distrugge. Il paesologo va nei paesi a cercare lo sconforto e si ritrova tra le mani un poco di beatitudine: può essere uno scalino, una casa nuova o antica, può essere la visione di un castello o di un albero di noci, può essere una piazza vuota… sempre si trova qualcosa, ci si riempie perché il mondo ha più senso dove c’è più vuoto. Non sarà sempre così. La paesologia è una scienza a tempo. Non poteva esistere cento anni fa e non potrà esistere tra cento anni. La paesologia è una nuova azione comunitaria, ci piace la dimensione privata, ma crediamo ancora alla storia e alle comunità costruite nella storia. Perciò dopo Aliano, dove da anni si fa il Festival della paesologia, abbiamo pensato di dare un tetto alla poesia: le nostre feste a trevico sono bellissime/ perché avvengono dentro la ferita/nel punto silenzioso della ferita./ i paesi sono rimasti/ ed è rimasto il paesag-

gio/ma mancano le marce degli asini/ la riga rossa degli abitanti,/ non arriviamo in quel che manca,/ poggiamo l'orecchio sull'assenza/ e per questo la nostra musica/ e anche i nostri baci/ a trevico/ hanno più forza». Restiamo sulla sua poesia, che è facile trovare su fb: c’è una dimensione intima ed una civile, politica in senso alto, come il componimento sul terremoto letto da Roberto Saviano a “Vieni via con me” (2010). Partiamo da: Parlo della morte dei paesi/ ma il mio tema è la morte/ la mia morte… per arrivare a: Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane,/ di gente che ama gli alberi e riconosce il vento… «Ho un rapporto molto stranocon la poesia: la compongo, la metto su fb, la cambio come se non dovesse averemai una forma definitiva. E’ un meccanismo nevrotico, come quello di un bambino. Per il mio prossimo libro che dovrà essere pubblicato in Francia, ho dovuto scegliere fra migliaia di testi. La punta del cuore è un libro di poesie dedicato a mia madre dove quel sentimento di precarietà, di spavento, di ansia, di morte che lo pervade proviene da lei e porto dentro di me, come suo indissolubile messaggio. Perciò la morte è presente nelle mie poesie e fa parte di quella linea notturna, melanconica, leopardiana; poi c’è quella diurna, di ardore civile, direi pasoliniana, quella che mi porta a fare il Festival di Aliano e la Casa della paesologia: è come se in me convivessero due fili esistenziali separati». Poi c’è la poesia d’amore: prima del giorno in cui saremo muti/ prima che tutto muti in muto danno/ al lume della luna e delle stelle/ tra verdi sussurranti alberi scuri/ portami al ventre baci densi e puri. «Ho scritto molte poesie d’amore perché ho sempre affidato alla donna un ruolo salvifico rispetto alle ansie ed alle sconfitte che la vita ci riserva. La donna è uno spiraglio verso l’infinito, è l’attesa del Messia. Fare l’amore non è divertirsi, è un miracolo che si vive con tremore, è un continuo mettersi in gioco». Ma la sua poesia e la sua scrittura raccontano soprattutto i luoghi ed i paesi del Sud. Il richiamo automatico va ad un grande cantore dei paesaggi: P.P. Pasolini che in un’intervista di cinquant’anni fa* dichiarava che nella sua poesia c’erano tre categorie di paesaggi: uno del passato (quello friulano), uno del presente che stava ingiallendo (quello delle borgate romane) ed uno del sogno (quello dei suoi viaggi in India ed Africa). C’è qualche relazione con i suoi paesaggi? «Ho molto amato e letto Pasolini, fin da quando ero ragazzo. Leggevo i suoi articoli su Il Corriere della sera che non arrivava a Bisaccia, il mio paese e che mio padre, ristoratore, mi procurava facendoselo lasciare dai clienti forestieri che pranzavano al suo locale. Io non sono un grande viaggiatore, come è stato Pasolini, viaggio nei dintorni e da sempre vivo a Bisaccia senza mai abbandonare la mia terra e senza subire i traumi del distacco dai luoghi natii. Quando mi affac-

cio alla finestra, vedo da un lato l’albero di noce della mia infanzia e dall’altro il portone verde della casa difronte dove buttavo la palla da gioco, sferzato da quel vento e sotto quella luce. Adesso il mio paesaggio si è allargato agli altri paesi del Sud, ma è sempre un paesaggio dell’Appennino. Quando vado a Napoli, Milano, Parigi, sento di essere fuori luogo, anche perché sono in vacanza mentre qui, invece, sono al lavoro». Pasolini sosteneva che la poesia, in quanto scritta, è un fatto di alta cultura che non arriva al popolo che si rinchiude nella sua innocenza e che è disponibile ad accettarla solo se gli arriva come poesia vivente. Lei che è sempre in contatto con gli abitanti dei paesi, ha mai letto le sue poesie a questo popolo? «Penso che, rispetto a Pasolini, i tempi siano cambiati in peggio. L’innocenza è finita, il popolo aspira alla corruzione e registriamo il grande fallimento della società. Occorre costruire politica e poesia, non poesia solamente, perciò ripartiamo da piccoli gruppi, le comunità provvisorie, che cercano di fare altre cose. Il mondo dei poeti che mirano a pubblicare le loro opere è asfittico, sto molto in rete perché è uno spazio che serve a far girare le parole, a fare azioni poetiche. Anche se non so più dove è questo popolo, ho portato la paesologia fuori dai libri e questo mi sembra un passaggio, un salto in avanti. Ho un rapporto molto forte col mio paese, ho condotto tante battaglie civili, ho provato anche a fare il sindaco, ma nessuno mi ha candidato. Ho letto anche le mie poesie ma una voltaè stata un’esperienza infelice perché, alla fine della lettura, nessuno mi ha detto bravo, grazie! Tutti si sono precipitati al buffet per divorare salami e caciocavalli». Mi congedo da lui richiamandogli la sua Lettera dal mio paese: Un paese è un dio, un dio locale. E allora Bisaccia non è il nome di un paese ma il nome di un dio, il tuo dio. *Achille Millo, Conversazioni con Montale e Pasolini, Edizioni dell’Oleandro, Roma 1996

a danza a Buenos Aires non è soltanto tango. Il balletto classico argentino, ad esempio, è stato la fucina di grandi talenti della danza che hanno iniziato la loro carriera sui palcoscenici dei Teatri Colón e Coliseo per poi entrare nelle più grandi compagnie di ballo. Basti citare Paloma Herrara, Cecilia Figare, Ludmilia Pagliero, Marianela Núñez, e poi i grandi Julio Bocca, Herman Cornejo, Maximiliano Guerra, Jorge Donn. Ballerini carismatici, forti, tecnicamente perfetti e di grande personalità. Nel teatro danza contemporaneo europeo una delle coreografe più interessanti al momento è senza dubbio l’argentina Costanza Macras, fondatrice della compagnia Dorky Park, con il suo linguaggio ironico, provocatorio e irriverente. Un altro aspetto molto interessante della danza argentina è senza dubbio l’insegnamento di Maria Fux e della sua metodologia di danza terapia. Nel mio viaggio a Buenos Aires ho incontrato chi dall’Italia ha deciso di solcare l’Oceano e mettere le proprie radici nella capitale argentina per apprendere, attraverso una formazione intensiva con Maria Fux, quella metodologia dalla fonte primaria, diventando così una “danza terapeuta”. Viviana Mercurio mi accoglie nella sua splendida casa vicino l’Abasto, dopo uno dei suoi intensi taller de danza creativa che svolge mensilmente come maestra al Teatro Colón. Viviana studia danza classica fin da piccola e si diploma in Advanced 1 (metodo RAD - corso privato della Royal Academy of Dancing). Dottoressa in Scienze della Comunicazione all’Università degli studi di Perugia e in Discipline Teatrali (percorso danza) all’Università degli studi di Bologna, collabora nel 2008 con l’Associazione Danza Urbana di Bologna per “Urban Dream” e il “Festival Danza Urbana”, successivamente con la compagnia Aldes del coreografo Roberto Castello e con la compagnia Leggere Strutture di Bologna. Il suo amore per la danza terapia si manifesta subito, accanto al suo interesse per la danza contemporanea tecnica Limón e decide così, di iniziare il percorso di formazione con Elena Cerruto (allieva di Maria Fux). Dopo un soggiorno a Berlino, dove porta avanti un laboratorio in lingua italiana di tarantella con i bambini di una scuola elementare accanto ad un altro di danza creativa con bambini di un asilo tedesco (9 mesi-3 anni), decide di seguire il suo “sole” Maria e arriva a Buenos Aires, quella città che tanti anni prima aveva accolto i suoi nonni. Sorseggiando del mate iniziamo a parlare del suo percorso, la sua formazione e quello che oggi per lei rappresenta l’insegnamento di Maria Fux. Viviana che cosa si intende per danza terapia? «Questa è una bella domanda, alla quale ognuno cerca di dare una risposta in relazione a quello che sente a lezione. Per me la danza terapia è soprattutto creatività, libertà, riscoperta del nostro corpo e del nostro essere. Il lavoro di Maria non è quello di sostituirsi ad uno psicologo o di fare un’analisi del caso dal punto di vista clinico, il suo lavoro è prettamente creativo. Lei parte dalla concezione che tutti noi abbiamo una creatività interna e che questa può essere svegliata grazie all’ascolto della musica. Lei ripete sempre che la musica ci guida: ognuno di noi a lezione l’ascolta con tutte le parti del corpo, dal punto di vista epidermico. Dopo l’ascolto vi è il “sentire la musica” internamente: cosa mi trasmette, che emozioni

mi suscita, in base anche al tema che si intende seguire. La terza fase è il “fare” ovvero danzare: il corpo inizia il suo movimento dopo questa lunga riflessione ed è molto interessante perché ognuno di noi ha un modo in cui sviluppa questo ascolto. Non avviene secondo passi prestabiliti, giusti o sbagliati. Il discorso è legato più ad uno sviluppo e ad un risveglio della propria creatività interna. Non bisogna dimenticare che Maria Fux nasce come ballerina del Teatro Colón. All’età di quindici anni legge la vita di Isidora Duncan capisce che la sua strada era un’altra. Tra i diciotto e i venti anni si trasferisce a New York per seguire l’insegnamento di Martha Graham. Alla fine della sua formazione e dopo aver mostrate i suoi lavori, la maestra la incita a sviluppare quello che aveva trovato e di portarlo nel suo paese. Seguire il proprio “maestro interiore” che ogni danzatore, che ha studiato una tecnica, ha internamente. Seguire la propria idea di danza, riuscendo poi a crearne una metodologia che, più avanti, la sua psicologa conia con il nome di “danza terapia”». In che modo questa metodologia aiuta le persone, i ragazzi diversamente abili, ma anche chi è costretto in rigide forme accademiche? «Non è automatico! Ciò che dice Maria sembra semplice ma al tempo stesso è molto complesso. La prima volta che ho visto questa donna di novanta anni ballare, non ho capito nulla di quello che voleva dire. Ballava la “continuità” ed io ripetevo meccanicamente quello che lei faceva. Solo oggi, a distanza di due anni che seguo questo percorso, posso dire di capire il suo messaggio. Si tratta di uno sguardo filosofico nei confronti della danza. Il lavoro sulla “continuità” che posso fare a lezione si riflette nella vita: ognuno di noi deve continuare quello che ha iniziato per vederlo fiorire. Oggi vedo il mio corpo fisicamente mutato e rinato, così come il mio modo di osservare le cose. Oggi mi sento molto più tranquilla e osservatrice. Si tratta di un lavoro personale, di riscoperta del proprio percorso di vita, di crescita emotiva spirituale. Ciò che sviluppa tutto questo è soprattutto il contatto e il lavoro che si fa in gruppo con l’altro. Ecco che la Fux usa nelle sue lezioni degli oggetti come l’elastico, la corda, la sedia, la piuma, la stoffa: l’oggetto è l’altro che senza di me non si può muovere. Si tratta allora di uno interscambio che avviene nel gruppo e ancor prima tra noi e lei. Non si tratta di una metodologia chiusa, anzi ai corsi può partecipare chiunque. Una persona diversamente abile può danzare più liberamente di uno perfettamente abile che, magari, ha delle neurosi psichiche che gli impediscono di realizzare davvero il suo movimento. La cosa bella delle mostre/saggi con Maria Fux, dove ognuno di noi balla tre minuti la propria musica mostrando al gruppo quello che ha appreso durante l’anno, è il senso di ringraziamento che lei esprime nei nostri confronti. Ringraziare la vita e le esperienze per quello che ci hanno dato, riflettere sull’altro, indagarsi dal profondo ed esprimersi in danza: credo che questo sia il più bell’insegnamento che la danza terapia, il percorso che ho scelto di fare qui nella mia amata Buenos Aires, possa dare». Nella foto: La ballerina Maria Fux in Dancing with Maria

Stremata preghiera*

Lo specchio ricorda

Cosi mi avvicinai inerme Per toccare un ricordo lontano Di qualcosa che mi sfuggì di mano Per fortuna uccidendo solo me

Lo specchio ricorda che Sprofondando senza sapere perché Ride diverse volte nel tempo Vedendolo cambiare sempre corpo

Cosi mi ricordo di notti vuote Pensando un nulla che non tornerà Guardando in alto, cercando te In uno sfogo che non passerà.

E lo specchio vide anche i pianti Sorrisi, monologhi e pensieri Finché vide tutti i suoi volti Spruzzati sui suoi argentei vetri

Ascoltami ancora una volta Ora che posso odiare, dimmi Che ne sarà della mia strana vita Passata ad amare, senza armi

Dimmi se è vero quel riflesso Che va a infrangersi scintillando Su fotoni mai esistiti, creando Spazi perduti lucenti su esso

Che ne sarà delle mie emozioni Se anche l'odio dovesse morire? E la stremata pazienza finire? Il mio è un cuore senza suoni

Fogli persi nel vento ricordano Un passato finito nella cenere. Poesie mai scritte raccontano Fantasie stupide e povere.

Chi come la fenice può rinascere Conserva il più inutile dei doni Chi di voi vuol morire per soffrire? Chi di voi vuol nascere per morire? *vincitrice del Premio Camposampiero

I miei occhi si accecano Guardando l'astro perduto e arcano Spazio infinito in un corpo finito Diventando io stesso un corpo vuoto.

Nella foto: P. Picasso, Le peintre et son modèle, 1914, Parigi, Musée Picasso

Nel prossimo numero

la carta è...

Periodico di cultura, arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative Gutenberg Edizioni Via Giovanni Paolo II, 38 84084 FISCIANO (SA)

DE LUCA SALERNO

Direttore responsabile Massimo Bignardi Direttore editoriale Giuseppe Funicelli

La democrazia è la “compagna” fin troppo evocata dalla politica, con risultati che fanno sperare poco. Cos’è infondo la democrazia? A confronto filosofi, politici, storici, operai giovani pensatori. Metropolis ci porta a Eindhoven: La contro copertina è di Giulio De Mitri

DE LUCA

INDUSTRIA GRAFICA E CARTARIA

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In redazione: Roberta Bignardi (danza) Gemma Criscuoli e Pasquale De Cristofaro (teatro) Giuseppe De Marco (orientalista) Giuseppe Di Muro (architettura) Elio Di Pace (cinema) Ada Patrizia Fiorillo (arte contemporanea) Luca Mansueto (arte moderna) Ciro Manzolillo (musica) Franco Matteo (attualità) Marcella Ferro, Maria Letizia Paiato Pasquale Ruocco (arte&istituzioni) Angelo Maria Vitale (filosofia/estetica e libri)

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In copertina, Omaggio a Caravaggio (ph@ tauros, 2014)

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arte moderna

arte contemporanea

Noi chiamiamo arte il patetico tentativo di dare un senso alle nostre esistenze (Andros)

Cucinare suppone una testa leggera, uno spirito generoso e un cuore largo (Paul Gauguin)

La discutibile mostra di Sgarbi all’EXPO scatena roventi polemiche

L’ ‘infuocata’

L’arte è servita in tavola

stagione dell’arte italiana di

All’Accademia di Brera il progetto didattico “Trattoria da Salvatore” festeggia vent’anni

LUCA MANSUETO

L

uca Zuccala, nella sua recensione su ArtsLife, ha definito la mostra “Il tesoro d’Italia”, al padiglione di Eataly dell’Expo di Milano, un’«orgia espositiva finalizzata all’onanismo dell’organizzatore». Definizione troppo azzardata? Per chi ha a cuore il patrimonio culturale italiano, e il suo valore sancito nella nostra Costituzione, niente appare di più sconsiderato come il “Tesoro d’Italia”, un pot-pourri di opere d’arte prelevate da musei pubblici e chiese (oltre che da collezioni private) e collocate da Vittorio Sgarbi nello spazio concesso a Eataly. Sgarbi spiega così il suo progetto: «La mostra è concepita avendo come punto di riferimento il metodo indicato nel secolo scorso dallo storico dell’arte Roberto Longhi, nato, come Oscar Farinetti, ad Alba. Da quella città partono due rivoluzioni nella considerazione di un grande patrimonio di tradizioni e produzioni variamente rappresentate. Quello che oggi Farinetti chiama la biodiversità dei prodotti italiani, Roberto Longhi lo articolava nello studio della storia dell’arte». Credo che Longhi si stia rivoltando nella tomba sentendo queste parole! Biodiversità? Siamo certi che sia rappresentata dalla ‘donna carota’ all’ingresso della mostra, di Luigi Serafini, all’interno di una cassa colma di terra con dei coniglietti che fanno da guardia? Si legge che l’opera sia un’esortazione alla cultura classica in varie forme, al di là del mito di Persefone, sostenendo addirittura che rimandi alla la crocifissione di Gesù: ella si trova a terra con pseudo stigmate provocate da carote inchiodate nelle mani. A mio avviso appare come l’opera più trash mai vista fino ad ora! Come dimostrano le immagini dell’allestimento, dietro la mostra non c’è alcun intento scientifico e didattico, vi è la totale assenza del valore sotteso a tale operazione, mancano i criteri della scelta delle opere e persino un qualsiasi totem esplicativo, nei cartellini delle opere mancano le datazioni, in alcuni persino l’autore, eppure all’inizio c’è un inno retorico alla bellezza del nostro paese e alla “biodiversità dell’arte”. Qui le opere sono trattate come merce, come salami e ortaggi da mercato, esibiti in successione, anzi in un pastrocchio privo di logica, come fossimo al supermercato, accessori da mostrare, una mercificazione del patrimonio culturale e la distruzione materiale e intellettuale del contesto uccidendo ogni legame delle opere d’arte con il loro territorio. Che importa se una terracotta invetriata di Andrea Della Robbia sia collocata a terra per dare giusta visibilità, sopra di lei, al mega pannello “Il Tesoro d’Italia di Sgarbi”, posta lì come mero feticcio quasi per riempire lo spazio avanzato.

La sensazione provata percorrendo le sale è duplice: o quello di visitare dei magazzini e depositi di un museo, o ancor peggio di essere in un vero mercato, una fiera, in cui gli ambulanti espongono la loro merce al compratore di turno, appese come insaccati e carni macellate in spazi ridottissimi privi di una leggibilità e rispetto per i loro artefici. La grandezza dell’arte italiana è nel tessuto inestricabile, radicato in un territorio unico. Nelle nostre università, i docenti di storia dell’arte cercano di trasmettere ai loro allievi la consapevolezza di questa complessità e l’importanza di capire come le opere siano in relazione al contesto per cui sono nate. Lo sradicamento selvaggio dal contesto delle opere d’arte, valutate alla stregua di meri prodotti da commercializzare – notano Francesco Caglioti e Andrea De Marchi in una lettera pubblica - si è fatto sempre più frenetico e irragionevole, e promette sviluppi anche più sconsiderati, su scala globale Da tali considerazioni è partita una petizione nazionale indirizzata ai Ministri Franceschini e Giannini, sottoscritta dall’intero Comitato italiano del CIHA (Comité International d’Histoire de l’Art) e da docenti e storici dell’arte di tutto il territorio nazionale nella quale si chiede di introdurre nel Codice dei Beni Culturali articoli che disciplinino più severamente la movimentazione delle opere d’arte in Italia, garantiscano la tutela dei manufatti più fragili, restituiscano alle soprintendenze l’ultima parola, escludano le pressioni politiche, impongano tempistiche e progettualità, arginino le improvvisazioni dilaganti per cui non mancheranno mai l’imbonitore di turno e il politico complice. Emblematico è il caso delle otto sculture di Nicola e Giovanni Pisano del Museo dell’Opera del Duomo di Pisa e il San Paolo di Masaccio del Museo Nazionale di San Matteo, quest’ultimo spedito al padiglione di Sgarbi, mentre le prime fino ad ottobre nella chiesa di San Gottardo in Corte in uno spazio condiviso con l’azienda Robot City, specializzata nella riproduzione di opere d’arte 3D. La Soprintendenza di Pisa, in accordo con il Polo Museale Regionale della Toscana, aveva provato a opporsi al prestito richiamando questioni di opportunità in quanto la tavola del Masaccio è una delle principali opere del museo e perciò considerata inamovibile, oltre che avanzare ragioni fondate sulla salvaguardia delle monumentali sculture, mai concesse in prestito in virtù della loro mole. Eppure, nel giro di pochi giorni, si è verificato uno stravolgimento paradossale concedendo il prestito. Sulle nostre pagine (geaArt n.9 ottobre/novembre 2014), Ales-

di

È

sandro Cucè aveva dato ampio spazio e analizzato con fondatezza il processo di accuse e proclami sui prestiti dei Bronzi di Riace ‘pretesi’ da Sgarbi per l’EXPO. Rileggendo quell’articolo, le parole appaiono oggi profetiche, «da un punto di vista culturale, alle spalle di un simile trasloco in stile Gondrand, non c’è alcuna mostra seria, alcun confronto con altre coeve sculture ma esclusivamente la riduzione dei due pezzi al solito feticcio […] Saremmo di fronte alla solita ostensione del capolavoro isolato, con la conseguente rinuncia a ricostruire adeguatamente un contesto figurativo, storico e culturale. Stentiamo a credere, con tutta sincerità, che uno straniero che veda all’Expo di Milano le due sculture si precipiti a comprare un biglietto per andare in Calabria». Appoggiamo con forza la fondatezza delle rimostranze: siamo convinti che non si debbano mettere a rischio opere fragili e difficilissime da spostare, straordinarie nel loro contesto e non in mezzo alla distratta frequentazione di turisti alla ricerca di quelle sensazioni eclatanti che l’EXPO promette. E non ci sentiamo affatto tranquilli non solo riguardo alla movimentazione delle opere ma anche alla loro sicurezza, persino di fronte a possibili eventi eccezionali di cui i giornali hanno tanto parlato nei giorni scorsi. «A chi dovremmo chiedere allora conto di un danno assoluto, ai talebani di casa nostra, cioè tutti quelli che in nome dei grandi eventi permettono tali scempi?». Nelle foto da sinistra: Ingresso mostra “Il Tesoro d'Italia” a cura di Vittorio Sgarbi al Padiglione Eataly dell'Expo; Una delle sale della mostra “Il Tesoro d'Italia”

Una interessante mostra agli Uffizi

L’arte batte la camorra nei suoi territori

Nuove professionalità nel campo dei Beni storico artistici

Piero di Cosimo a cavallo tra Rinascimento e Maniera

La cultura come mezzo di riscatto per Casal di Principe

a Scuola di Specializzazione in Beni storico artistici è attualmente L un valido percorso per i futuri di professionisti nel settore dei beni culturali, la cui principale prospettiva di lavoro si configura nell’ambito

opo la mostra incentrata sul caravaggesco olandese Gherardo delle D Notti, gli Uffizi dedicano una grande esposizione (la prima nel suo genere in Italia) a un genio dimenticato del tardo Rinascimento fioren-

asal di Principe è un luogo tristemente noto per la cronaca itaC liana: omicidi e intrecci tra malavita e politica. Nelle ultime settimane, tuttavia, ne abbiamo sentito parlare per un progetto culturale

Bruno De Marco

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tino: Piero di Cosimo (1462-1522).La mostra è il risultato di una collaborazione tra il museo fiorentino e la National Gallery di Washington. Dall’intesa tra le due istituzioni, sono nati due progetti espositivi pensati per mettere in luce Piero di Cosimo, a lungo rimasto in secondo piano rispetto ai suoi contemporanei. Dal 1 febbraio al 3 maggio scorso, a Washington si è svolta la mostra “Piero di Cosimo: The Poetry of Painting in Renaissance Florence” con l’esposizione di 44 opere mentre il 23 giugno è stata inaugurata la mostra fiorentina, più ampia ed articolata rispetto a quella statunitense. Curata da Serena Padovani, la mostra “Piero di Cosimo: pittore eccentrico tra Rinascimento e Maniera” presenta un taglio essenzialmente cronologico ma non mancano i confronti con altri artisti che Piero ebbe la possibilità di conoscere durante la sua attività: dal suo maestro Cosimo Rosselli a Botticelli, da Filippino Lippi a Fra Bartolomeo. In mostra, oltre alle opere già in pianta stabile presso gli Uffizi, si ha la possibilità di ammirare dipinti provenienti da altri musei come il Ritratto di Giuliano da Sangallo e Francesco Giamberti del Rijksmuseum di Amsterdam. Per anni bollato, sia per la sua pittura sia per il suo stile di vita solitario, come un eccentrico e bizzarro, Piero di Cosimo in realtà deve essere valutato senza alcun pregiudizio. Tuttavia in alcune sue scelte artistiche il pittore fiorentino dimostra una vena quasi “surrealista”, anticipando, tra le altre cose, l’avvento artistico di uno dei protagonisti della stagione manierista fiorentina, Pontormo.

Alessandro Cucè

Nella foto: Piero di Cosimo, Maddalena, 1501, olio su tavola, Roma, Palazzo Barberini (particolare)

in tempi non sospetti, quando ancora la cucina e il food non erano così alla moda e non imperversavano nei mass media, che un intraprendente docente di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano rende possibile qualcosa di difficilmente immaginabile. Corre l’anno 1995 e nasce così un progetto didattico destinato a divenire, suo modo, “storico” tra le mura braidensi: la Trattoria da Salvatore. Nell’aria l’odore pungente della trementina si mischia a quello delle spezie, i colori della tavolozza dialogano con quelli di cibi provenienti da tutto il mondo, i materiali tipici dell’arte incontrano l’arte della cucina, restituendo nutrimenti per il corpo e per lo spirito. Sono questi solo alcuni degli scenari che si possono presentare a chi nell’Accademia di Brera varca la soglia dell’aula 8, sede della Trattoria da Salvatore: un laboratorio di pittura con annessa cucina (donata dall’azienda Boffi che ha creduto come sponsor nel progetto). La Trattoria è molto più che uno spazio laboratoriale: è un luogo “altro”, di pensiero e creazione, dove sensi e intelletto convivono in armonia attraverso il filo che lega l’arte al cibo, legame creativo di inesauribile ricchezza. Si tratta di un progetto didattico ideato e promosso dal docente e artista Nicola Salvatore, dedicato agli studenti del suo corso di Pittura a Brera e teso ad indagare il connubio arte e cibo. Del resto molti possono essere i parallelismi tra l’alchimia della cucina e quella della bottega d’arte: si tratta di luoghi dove apprendere dal contatto con la materia e dalla sua sublimazione. Nella Trattoria contaminazioni mentali, spirituali, ricerca estetica e concettuale passano attraverso l'esperienza del cibo. Si trattano tematiche contemporanee che vedono nella cucina un fatto culturale ed estetico, ricco di assonanze con l’arte e che diviene pretesto per gli studenti per avviare il proprio personale linguaggio artistico. Vari sono i mezzi espressivi di cui si servono gli allievi: segno della poliedricità, della ricerca e della sperimentazione che caratterizzano il corso di Pittura presso la Trattoria. Si va dal disegno al ready-made, dalla pittura all’installazione, dalla scultura alla rielaborazione fotografica, con opere dalle soluzioni insolite, ricche di inventiva e freschezza, dove riflessione estetica e concettuale si concentrano su tematiche oggi più che mai attuali, non solo legate all’idea del nu-

trimento. Inoltre l’aula 8 dell’Accademia di Brera è sede di incontri e discussioni, dove gli studenti si possono confrontare con invitati quali docenti, artisti, collezionisti, curatori, critici e storici dell’arte, ma anche cuochi, avvocati, medici, ecc. Si trasforma così in un luogo metafisico dove il cibo, fattore aggregante, è soggetto di pura forma e segnale di un universo simbolico. Un luogo dove si apprende l’amore per l’operosità e la manualità, per l’onestà intellettuale e l’autenticità del fare e del pensare. Personalmente ho avuto la fortuna e il piacere di svolgere un’importante parte della mia formazione di artista e di docente proprio

D

Siena, Scuola di Specializzazione

museale e della tutela del patrimonio. È un corso di studi biennale post-laurea che mira alla formazione di professionalità qualificate, di quadri dirigenziali capaci di saper congiungere le istanze della conservazione, della tutela e della promozione del patrimonio storico artistico con le pressanti necessità delle esperienze contemporanee. Sul territorio nazionale esistono diverse Scuole, con le loro tipicità, si distingue quella di Siena per la pluralità della didattica e programmazione: lezioni frontali e seminariali di alto profilo riguardanti temi storico-artistici, dal medioevo al contemporaneo, oltre ad essere oggetto di studio le metodiche relative al restauro, alla conservazione, alle tecniche artistiche, nonché quelle necessarie ad acquisire competenze per un approccio economico e giuridico nel campo della gestione delle strutture. I nuovi piani di studio programmati per l’anno accademico 2015-16 si fanno interpreti di una didattica specialistica rivolta maggiormente alle richieste che provengono dal mondo del lavoro: guardano ad interessi culturali che traducono le prospettive aperte da nuove aree ricerca scientifica in tale ambito ma anche alla disponibilità e duttilità ad articolarsi nei livelli operativi dell’economia che vanno dal comparto turistico all’editoria, alla promozione del patrimonio culturale, al mondo delle finanza, alla promozione delle città rivolta alle comunità che in esse vivono. Sarà possibile consultare il bando di ammissione su http://www.unisi.it/didattica/corsi-postlaurea/scuole-di-specializzazione.

MELISSA PROVEZZA*

e civile di altissimo valore. La mostra “La luce vince l’ombra. Gli Uffizi a Casal di Principe” mira al riscatto di questa terra - sfregiata dalla camorra - tramite l’arte. Allestita presso casa “Don Peppe Diana” (uno dei tanti martiri di questo piccolo paese in provincia di Caserta), la mostra espone pezzi provenienti non solo dagli Uffizi ma anche da Capodimonte e dalla Reggia di Caserta. In particolare, come si evince già dal titolo, sono esposte opere di artisti che privilegiavano tele con fondo scuro secondo gli insegnamenti di Caravaggio. Ribera, Mattia Preti, Massimo Stanzione, Luca Giordano sono alcuni dei principali attori della mostra. Artisti, questi, tra protagonisti del Seicento campano che, sull’onda lunga lasciata dal breve soggiorno di Caravaggio a Napoli, emulavano, secondo un’interpretazione personale, l’arte del maestro. La scommessa dei curatori – il direttore degli Uffizi, Antonio Natali, e il Direttore del Polo Museale della Puglia, Fabrizio Vona – sembra già aver raccolto consensi almeno tra i turisti. Arrivano prenotazioni durante queste prime settimane dalla Germania, dal Regno Unito, dalla Francia e dagli Stati Uniti; si sono già interessati alla mostra quotidiani internazionali come “Le Monde” e il “New York Times”. A prescindere comunque da questi apprezzabilissimi interessi, si spera che la mostra sia davvero un riscatto sociale per questa terra e che i riflettori, terminata l’esposizione (chiude il 21 ottobre), non si spengano ma anzi rimangano accesi con altri simili progetti.

a.c.

Nella foto: Massimo Stanzione, Strage degli innocenti, 1630 ca., olio su tela, Napoli, Museo di Capodimonte

L’immagine del pane nell’arte contemporanea Il valore simbolico del cibo e il suo legame con l’arte è al centro dell’attualità. Da Milano nuovi segnali di

GIACOMO CRISTIAN LOMBARDI

i grande attualità si rivela essere il legame tra le arti visive e l’argomento del nutrirsi, soprattutto in vista dell’Esposizione Universale di Milano di quest’anno, Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita. Il cibo è un tema che intriga l’artista ed è da sempre oggetto di rappresentazione nell’arte comunemente intesa. In origine viene raffigurato con tratti essenziali, quasi astratti, prevalentemente nei dipinti di carattere sacro, ad esempio nell’ambito delle Ultime Cene. Nel primo Rinascimento, con la grande rivoluzione alimentare, il cibo non è più solo per i ricchi ma per tutti; diventa motivo di esaltazione della ricchezza agricola, elemento di propaganda. Si inizia così a conferire dignità di soggetto autonomo al cibo anche nelle opere d’arte. Il rapporto nutrimento, cultura e arte è un dato determinante, che arriva fino ai più recenti movimenti d’avanguardia. In particolar modo si può considerare il pane un soggetto di per sé interessante dal punto di vista pittorico, sia perché molto eterogeneo, con la possibilità di raffigurare numerose varietà di pane, in relazione alla molteplicità dei contesti geografici e culturali, sia perché non c’è nulla che abbia altrettanto valore simbolico. Il pane rappresenta infatti la vita stessa, l’abilità dell’uomo nel saper soddisfare le proprie esigenze. Nell’ambito dell’arte contemporanea, il pane esprime tutta la povertà dei vecchi e dei mendicanti nei ritratti di Picasso, ma è stato un tema importante anche nelle nature morte dell’artista spagnolo, che in opere come Pane e fruttiera su un tavolo mostra tutto il suo debito nei confronti di Cézanne, secondo il quale bisognava “trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono”, senza tentare di imitarla, ma analizzandola e scomponendola nelle sue forme elementari e geometriche. Il pane è stato poi trattato in tutti i suoi aspetti allegorici dalla pittura surrealista. Ad esempio Salvador Dalí nel Busto di donna del 1933 rappresenta una figura femminile con un filone di pane sul capo e due pannocchie attorno al collo: il bene primario del pane esprime qui la seduzione della donna, la sua bellezza commestibile. In altre opere di Dalí, come L’uomo invisibile del 1932, il pane

presso la Trattoria e mi è inevitabile la malinconia se penso che tra poco probabilmente Nicola Salvatore chiuderà per sempre la porta dell’aula 8, essendo arrivata quasi al termine la sua lunga carriera di docenza. Infatti dopo vent’anni di effervescente attività, attualmente la Trattoria da Salvatore è in vendita, anche se ancora i suoi allievi, quasi fossero convitati e chef al tempo stesso, continuano a nutrirsi di sapere e a servire arte sulla tavola imbandita della cultura. Gli ospiti che in questi anni hanno alimentato il pensiero degli studenti portando il loro sapere all’interno della Trattoria, presso l’aula 8 di Brera, sono stati molti: Carla Accardi, Aimo (Il luogo di Aimo e Nadia), Batman, Rolando Bellini, Paola Bernardi, Massimo Bignardi, Ettore Bocchia, Renata Boero, Roberto Borghi, Giannetto Bravi, Vito Bucciarelli, Rossana Caleca, Carmine Caputo, Luciano Caramel, Decio Carugati, Rossana Casale, Claudio Cerritelli, Sandro Chia, G. Chiari, Marco Cingolani, Francesco Correggia, Enzo Cucchi, Antonio d’Avossa, Fernando De Filippi, Leonida De Filippi, Arturo Della Torre, Michele De Luca, Rosario Di Battista, Gillo Dorfles, Radu Dragomirescu, Enzo Elefante, Andrea Fabi, Maurizio Fiorini, Omar Galliani, Marco Gatti, Generoso (pizzeria Pescevela), Nicol Gravier, Gaetano Grillo, Robin Hood, Michael Hostery, Corrado Levi, Nicola Limido, Gualtiero Marchesi, Giuseppe Menta, Giorgio Mercandelli, Giorgio Montanaro, Lorenzo Morandotti, Giancarlo Morelli, Andrea Murnik, Pino Musi, Antonio Nucera, Nunzio, Angela Occhipinti, Lucia Parma, Loredana Parmesani, Peppo Peduzzi, Marco Pellizzola, Giuseppe Perrone, Antonella Pierno, Stefano Pizzi, Francesco Poli, Carlo Presicci, Cristina Show, Alessandro Spadari, Aldo Spoldi, Fausta Squattriti, Carmelo Strano, Superman, Emilio Tadini, Valeria Tassinari, Attilio Terragni, Tex, Laura Tonani, Gilberto Zorio, Zorro. Trattoria da Salvatore ha prodotto cataloghi, libri, calendari, gadgets. È stata ripresa numerose volte da media televisivi come: Rai Gambero Rosso, Rete 4. È comparsa su quotidiani e riviste quali: Il Corriere della Sera, la Repubblica, il Giornale, il Giorno, Capital, Panorama, Hestetika, ecc. *Artista e docente di Tecniche Extramediali presso l’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano

diventa antropomorfo e rimanda chiaramente a simboli fallici e al tema della fecondità.Anche René Magritte, nel dipinto L’Avenir del 1936, si serve del pane per richiamare alla mente immagini diverse, in questo caso raffigurando un grande pane, quasi personificato, accanto ad una finestra, che sembra in atteggiamento di attesa e di contemplazione del paesaggio esterno. Ne La Leggenda dorata del 1958 riproduce invece pani che volano in cielo, illustrando un tipo di pane immangiabile, quello legato al mondo onirico, che vuole far riaffiorare dal subconscio dell’osservatore. Un’altra tipologia di pane immangiabile, che perde la sua specifica funzione quotidiana, è quella proposta dal fotografo e pittore americano Man Ray in due opere diverse, Pain peint o Blue bred del 1958 e Pandora o Pain doré del 1970. Sono entrambi dei calchi di gesso, l’uno con la forma del tipico pane parigino colorata di blu cobalto, l’altro più simile al filone italiano, in bronzo dorato. In ambedue i casi l’artista crea un gioco di parole nei titoli dati agli oggetti, esercizio particolarmente evidente in Blue bred che, con la doppia accezione di pane blu e sangue blu, suggerisce così la natura astratta e allo stesso tempo sofisticata del pane. Emblematico è poi l’approccio di Piero Manzoni, che tra fine anni Cinquanta e primi anni Sessanta con gli Achromes vuole attuare una nuova tipologia di indagine, basata sull’azzeramento del gesto creativo dell’artista. Lascia infatti la superficie bianca, ricoperta di caolino, materiale che si trasforma, si increspa, si raggruma, fino a rompersi. In questo modo la superficie della tela diventa essa stessa opera d’arte, senza altri riferimenti se non ciò che mostra. Giunge agli stessi esiti con diversi tipi di materiali, specie con le sue forme di pane imbevute nel caolino, forme che attingono agli archetipi dell’esistenza organica, verso cui tendeva la sua ricerca. Una molteplicità di esperienze diverse quelle che si sottopongono alla nostra attenzione, le quali mostrano il valore fortemente simbolico attribuito all’immagine del pane da questi e altri artisti dell’età contemporanea. Nella foto: P. Manzoni, Achrome, 1962, caolino su tela

geaArt

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arte contemporanea Napoli lo ha un po' emarginato e chiuso in una città dove il ritorno all' ordine è stato assai forte e dove forse il dominio dell' ordine lo è sempre stato (E. Sanguineti) Al New Whitney Museum

Verso l’oltre per credere nella propria libertà Arte/Expo per un nuovo percorso nella storia del cibo

Dalla tela alla tavola di

CRISTINA CECI

a splendida location del palazzo Martinengo di Brescia ha ospitato la moL stra “Il cibo nell’arte. Capolavori dei

grandi maestri dal Seicento a Warhol”, allestita in linea con la filosofia di expo Milano 2015. È la più importante esposizione dedicata al cibo nell’arte mai organizzata finora in Italia; una prestigiosa selezione di oltre 100 dipinti di altissima qualità, di cui 26 inedite donate da collezioni private, che coprono un arco temporale di oltre quattro secoli, per offrire al pubblico l’occasione unica ed irripetibile di compiere un emozionante viaggio alla scoperta della rappresentazione del cibo e degli alimenti nelle varie epoche storiche. Sala dopo sala si consoliderà sempre più la tesi secondo cui vi è un secolare e forte legame fra il cibo e le arti figurative, fra la straordinaria tradizione eno-gastronomica e la cultura artistica italiana, caratteri distintivi della nostra identità nazionale. «Esponendo cento opere focalizzate sul tema cibo, perlopiù appartenenti alla storia dell’arte italiana, dalla fine del Cinquecento a oggi, stringiamo un forte legame con il Tema di Expo Milano 2015 – sottolinea il curatore della mostra Davide Dotti. – Si compie un viaggio nell’arte, nel cibo e nei luoghi: gli artisti erano molto sensibili alla tradizioni delle loro terre d’origine, così ad esempio, nei quadri dei napoletani ricorrono il casatiello e le sfogliatelle, nei quadri dei toscani e degli emiliani i salumi, nei quadri dei lombardi la cacciagione». Il visitatore scopre così che i pittori attivi tra XVII e XIX secolo amavano dipingere i cibi e i piatti tipici delle loro terre d’origine, ed incontrerà nelle opere pietanze ed alimenti oggi completamente scomparsi di cui è difficile immaginare il sapore. Inoltre, grazie alla collaborazione con il dipartimento di Scienze dell’Alimentazione dell’Università di Parma, che ha analizzato in maniera scientifica le tavole imbandite e le dispense immortalate nelle tele seicentesche e settecentesche, con preziose informazioni sull’alimentazione e i gusti dell’epoca. L’esposizione era suddivisa in dieci sezioni tematiche rispettivamente dedicate a: l’allegoria dei cinque sensi, Mercati dispense e cucine, La frutta, La verdura, Pesci e crostacei, Selvaggina da pelo e da penna, Carne salumi e formaggi, Dolci vino e liquori, Tavole imbandite, Il cibo nell’arte del XX secolo. Capolavori dell’arte antica di Campi, Recco, Baschenis, Brueghel, Guercino, Salini, Todeschinied altri ancora, dialogheranno in maniera avvincente con quelli dell’arte moderna e contemporanea di Magritte e De Chirico, Manzoni e Fontana, Lichtenstein e LaChapelle fino a Andy Warhol, solo per citare i nomi dei più famosi. A conclusione del percorso espositivo, il visitatore meravigliato dalla visione della “piramide alimentare”, una stupefacente istallazione che è stata commissionata per l’occasione dal curatore all’artista Paola Nizzoli.

New York ospita l’arte a stelle e strisce “America is hard to see” è la mostra inaugurale del Whitney Museum di New York, visitabile fino al 27 settembre, che vede esposte ventunomila opere di oltre tremila artisti, e racconta l’arte americana del XX secolo. La mostra costituisce una sorta di memoria collettiva del popolo americano, in un racconto che si suddivide in ventitré “capitoli” tematici, in cui, in ordine cronologico, sono affrontate le diverse espressioni e le mutevoli prospettive degli artisti e la loro capacità di produrre segni visivi che rispondono alla cultura degli Stati Uniti. La nuova sede del museo, progettata da Renzo Piano, incarna lo spirito dell’arte americana.

In mostra ad ARCOS, museo d’arte contemporanea del Sannio* le opere recenti di Mario Persico, tra i grandi protagonisti delle neoavanguardie di

MASSIMO BIGNARDI

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ella chiusa del secondo manifesto surrealista, Breton suggerisce una strada, paradossalmente ancora attuale, all’uomo che si apprestava ad inaugurare il quarto decennio del XX secolo. Lo rassicura riconoscendogli la libertà di «credere alla propria libertà» e, soprattutto, lo sprona a non fermarsi, anzi a «tendere disperatamente verso quel limite», vale a dire quella regione della mente ove le cose che “sono” e quelle che “non sono” si possono confondere o “singolarmente intercettarsi”. Quel limite presuppone o lascia sperare un possibile ‘oltre’ che, con una certa ansia, prefiguro al mio quotidiano, richiamando, sull’esempio di Mario Persico, le tracce del proprio vissuto, spingendole, però, nel cono di una prospettiva inversa che vedo, con l’incalzare dei giorni e degli anni, sbiadirsi alle mie spalle. Perché l’ ‘oltre’ non è una soglia, bensì un punto mobile che sfugge ad ogni regola di fissità, mostrando le difficoltà di intercettare pienamente la vita nel presente. Dopo anni, dall’antologica del 2007, torno a dialogare con la lucida inventiva di un eccezionale artista, Mario Persico, che ha creduto nella propria libertà: lo ha fatto costruendo intorno a sé quella condizione di “asepsi morale”, della quale, avvertiva Breton, «pochissimi uomini vogliono sentir parlare». L’occasione è anche di ripensare senza nostalgia e senza giudizi, ad una parte del mio trascorso, ben oltre un trentennio di militanza critica che vedeva l’avvio proprio negli anni del mio primo incontro con Mario. Catapultarsi indietro, dunque, è cercare di scorgere nell’accumulo della memoria, quell’ ‘oltre’ che si mostrava ai miei occhi nei primi anni Ottanta, quando avviai, non da solo, il lavoro di rilettura del ciclo dei “d’après” che Mario aveva dedicato a Courbet e al suo ‘ideologico’ realismo e che nell’estate del 1983 proposi nella mostra allestita nel chiostro della SS. Pietà a Teggiano. Al di là della provvisoria soglia della mia cultura figurativa di quegli anni, ondivaga tra il realismo espressionista guttusiano e l’eclettismo di Cagli, si profilavano sollecitazioni che, sintetiche come messaggi in codice, allertavano non solo la curiosità che pretendeva le sue risposte sugli aspetti formali, quanto una riflessione sull’automatismo e quindi sulle pratiche creative d’impronta surrealista che insistevano sulla manipolazione oggettuale. Pratiche che ritrovavo nell’ostinazione di Persico di mettere mano, già a metà degli anni Settanta, al suo repertorio di figure, tirate fuori dai magazzini della memoria, servendosi di foglie, di fiori secchi, di carte mettendo in scena, sulla piana dimensione del fo-

glio com’è per esempio nei collages floreali del 1976, il teatro dell’analogismo. Mario, dopo il copioso ciclo delle “sedie dell’isteria”, prove di un particolare dialogo con la scultura e con l’oggetto, tornava alla pittura ponendosi frontalmente a quando il postmodernismo andava affermando sul senso della storia, della memoria e sulla necessità di una loro ‘vivisezione’ in virtù dell’apparire. I bottoni, i legnetti, le chincaglierie, insomma l’universo di elementi recuperati dallo scarto, affermavano forme e profili che l’artista nominava, seguendo gli scoscesi sentieri che, secondo Daumal, portano a quei “meccanismi pensanti”. Si trattava nuovamente di oggetti di minimo decoro, laterali ma necessari a chiudere per esempio l’ordine mnemonico di un abito, come i bottoni, i merletti, i pizzi, con a fianco puzzle di stoffe colorate, oppure brani di pagine di giornali, quelle che svettano dalle edicole, consumate dalla quotidianità e rese altro secondo un copione con il quale Mario piegava l’oggetto, assunto per le sue indecifrabili sollecitazioni immaginative. Con essi inscenava un ‘oltre’ che era, lo è ancora per le opere di questi ultimi anni, ben al di là di ciò che la pura memoria della percezione pretende che siano: l’immaginazione, rilevava l’artista nel 1981, «è sempre più in là della rappresentazione; spesso è altro». Percezione dalla quale l’artista aveva preso le distanze, lasciando la ‘leggenda’ del reale già con i pastelli combinati ad inchiostri acquerellati, eseguiti nei primissimi anni Cinquanta, nei quali, giovanissimo, appuntava scene di vita quotidiana, animate da bave acquose di colore, pronte subito dopo ad insorgere, caricando di fantastico il soggetto, nei filamentosi gangli delle sue composizioni nucleariste. L’ ‘oltre’ era indagato nei ritmi e negli orditi nascosti di immagini che presentavano «evidenti analogie con la struttura dell’uomo», ricordava Persico in uno scritto del 1959 apparso sul numero uno della rivista “Documento Sud”: analogie che confermano la presenza della vita, senza sottometterla al riscontro del referente. Quando il mio sguardo pose attenzione alle demoiselles sdraiate al bordo della Senna, oppure all’umanità che assedia l’atelier courbettiano, ero già oltre la mia iniziale idea di figurazione. Avevo spinto in avanti la mia fantasia, verso l’oltre che si palesa nelle analogie suggerite dall’ombra, negli universi di muschi, di muffe, o di accumuli di cianfrusaglie che spalancano nuovi mondi e la pittura acquisiva, per me, «un ‘significato’ intimo e oggettivabile», così come suggeriva l’artista. Le opere che Mario ha realizzato nel corso di questi primi anni del Duemila, conservano la dimensione dell’ ‘essente’, immersa, però, in una diversa impaginazione immaginativa dello spazio, dettata da un rinnovato registro cromatico.

Renzo Piano, New-Whitney-Museum

Una rassegna della sua scultura al Rijksmuseum

Miró ad Amsterdam

Per la prima volta in Olanda una mostra dedicata interamente alle sculture dell’artista spagnolo Joan Miró. Ventuno sculture realizzate dall’artista nel periodo compreso tra gli anni 1966-1982 adornano il giardino del Rijksmuseum di Amsterdam, scelte per l’occasione dal curatore Alfred Pacquement, ex-direttore del Centre Pompidou di Parigi. Nel giardino convivono i suoi assemblaggi di oggetti naturali e quotidiani e le sue figure dalle forme morbide e sensuali. Oltre le ventuno sculture in giardino, due prototipi del 1966 di OiseauLunaire si trovano all’interno del museo. Chiude l’11 ottobre. Joan Miró, Oiseau Lunaire, 1966

Al Palazzo Ducale di Venezia

In laguna Rousseau il Doganiere

È quest’ultimo la cifra che maggiormente mi è balzata agli occhi quando ho visto, allineate sulle pareti della sua casa al Vomero, alcune delle opere raccolte in questo catalogo. Colori saturi che organizzano i fondi, con predominanti di tinte chiare dalle quali scattano in avanti accesi gialli, verdi, il rosso vermiglione che attenua l’assolutezza del giallo o il blu intenso ed opaco, fino a rendersi impenetrabile. A volte sembra che il colore, e non la forma, nomini le figure svelandone, avrebbe detto Jarry, lo «spasimo doloroso o amoroso». Un colore che, con qualche variante, aveva fatto la sua comparsa nelle tele raccolte nella personale allestita alla Galleria Franco Riccardo a Napoli nel 2000: piatte campiture dei fondi sulle quali muovono i passi le figure che interpretano le “Dieci storie del rifiuto” (così come recitava il titolo della mostra), costruite con il repertorio di materiali propri del suo dizionario immaginativo e che esprimono «i perturbamenti, le ansietà, le depravazioni, la morte, … lo spirito di negazione, gli abbrutimenti, le allucinazioni servite dalla volontà, i tormenti …» e così via, seguendo l’ordine di comparsa suggerito da Lautréamont. Diversamente da questi impaginati la cui memoria teatrale si spingeva fin al limite disegnato dal boccascena dell’immagine, le opere recenti si spingono verso nuovi traguardi e, come per un video che accoglie le ulteriori possibilità offerte dalla manipolazione digitale, esse accolgono la qualità di un colore che l’artista scopre, di volta in volta, dalla cartella colori delle stampe di-

gitali. Persico ha spostato ulteriormente in avanti la linea dell’ ‘oltre’, orientando il verso della sua analisi sullo spazio, là dove fa vivere una delle sue temporanee mise en scène. Più che ad uno spazio, nella accezione newtoniana, l’artista è interessato al suo valore di luogo: innanzitutto svuota la composizione facendo assumere, allo spazio-colore emotivamente espressivo, anche se distante dall’aggressività fauve, una dimensione morale. Ciò avviene segnatamente nelle opere recentissime, penso in tal senso a Due figure cadute nella dinamica dell’oltre e Spazio per soluzioni utopiche, entrambe del 2014, oppure a Dal disco dell’oltre guardare l’orrore e Qualcuno insegue un sogno, realizzate quest’anno. In questi esempi l’intensa luminosità si fa interprete di uno stato d’animo che, in fondo, è l’effettivo luogo nel quale si realizza l’istante imponderabile dell’idea. Cerca, cioè, di tendere maggiormente verso un limite, sbilanciandosi verso il colore per cadere, deliberatamente, oltre lo stato della memoria, là dove l’imperscrutabile si fa stato d’animo. È il colore, dicevo, saturo come quello che esce dalle stampanti laser dei nostri domestici PC, dimensionando sagome di colore privo di cedimenti tonali che, attraverso l’omologante pratica della comunicazione, nutre quotidianamente il nostro sguardo. Un processo di acquisizione, ma anche di messa in pratica che certamente gli proviene dall’ideazione, composizione, gestione e regia del “Patapart”, la rivista da lui fondata, espressione più viva

dell’Istituto Patafisico Partonopeo. In questo registro, abitato da figure che continuano ad incarnare le fattezze di personaggi propri dei racconti che articolano L'autre Alceste di Alfred Jarry, fanno nuovamente la loro comparsa gli artificiosi congegni che, nel corso degli anni Sessanta, entrarono nel testo pittorico, offrendo una loro effettiva e non metaforica “praticabilità”. Persico ripropone, come lui stesso aveva ricordato in un testo del 1981, «il passato rivivificandolo in un presente creativo»: lo fa sia attenuando l’incidenza del simbolico che cifra le citate “opere praticabili” degli anni Sessanta, sia sollecitando maggiormente l’ironia che serpeggia in queste opere. Non è l’ironia che disegna sulle labbra il sorriso, bensì il suo è “riso patafisico” causticamente pronto ad interrogare la mente, proponendosi ad essa, argomentava Daumal, quale unica “espressione umana dell’identità dei contrari”. Della stessa natura della sua pittura o meglio in perfetta sincronia è la sua scrittura, oggi resasi pienamente ‘visiva’ nel grande praticabile che è il foglio del “Patapart”: con fronte e retro che si scambiano continuamente, ove la scrittura e l’immagine trovano una loro reciproca continuità. L’ ‘oltre’, è lo sguardo di chi sosta o sosterà davanti a queste opere, un “luogo” che si spinge sino ai confini dell’anima.

È stata prorogata fino al prossimo 6 settembre la splendida mostra “Henri Rousseau. Il candore arcaico” dedicata al famoso Doganiere dalla Fondazione Musei Civici di Venezia, con la collaborazione scientifica e i prestiti eccezionali del Museo d’Orsay e di quello dell’Orangerie di Parigi, ospitata nell’Appartamento del Doge a Palazzo Ducale. Tra le personalità più eccentriche della cultura figurativa europea, la mostra ne traccia un’ampia e accurata ricostruzione, nonostante la complessità di un’artista che nel corso del rivoluzionario periodo delle avanguardie, sfuggì ad ogni forma di catalogazione. Henri Rousseau, Il sogno, 1910

Orto botanico di Padova

Dubuffet e il teatro del Suolo Fino al 31 ottobre gli spazi espositivi del nuovo Giardino della biodiversità dell’Orto botanico di Padova, Patrimonio Unesco, accolgono la grande mostra Jean Dubuffet. Il Teatro del Suolo. L’esposizione, promossa dall’Università degli Studi di Padova con il contributo di UniCredit, riunisce i 324 lavori litografici di Dubuffet e ripropone, a 51 anni dalla sua prima esposizione italiana, l’eccezionale ciclo dei Phénomènes, realizzato tra il 1958 e il 1962. I 22 portfolio che custodiscono l’intero ciclo provengono da alcuni dei più importanti musei del mondo, quali il Centre Georges Pompidou di Parigi, il MoMA e il Solomon R. Guggenheim di New York .

*La mostra resterà aperta fino al 7 settembre 2015

Jean Dubuffet, Paesaggio con personaggi, 1955 In alto: Mario Persico, Due figure cadute nella dinamica dell’oltre, 2014; A sinistra: Mario Persico con Enrico Baj, 1983; Mario Persico nel suo studio di Stuttgart, 1966; A destra: Patapart, n.1 ottobre 2002; Patapart, n. 3, settembre 2005; Patapart, n.8, dicembre 2008

Galleria del Premio Suzzara

Fossa, la figura e i suoi luoghi Apre 19 settembre (fino al 31 gennaio 2016) la retrospettiva dedicata alla scultura di Franco Fossa, tra i principali interpreti del “realismo esistenziale”. La mostra propone un’ampia selezione delle opere realizzate dall’artista nella seconda metà del Novecento. «La scena artistica milanese – scrive Bignardi nel saggio che introduce il volume monografico pubblicato dalle Edizioni Nomos – contribuirà inequivocabilmente sia alla formazione del suo solido mestiere di scultore, consentendogli di spaziare in diversi ambiti della ricerca scultorea, sia all’articolazione di un linguaggio che ha le sue radici nel profondo della coscienza civica. Franco Fossa, Deflagrazione, 1978 bronzo

Nella foto in alto: A. Warhol, Campbell Soup

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in vetrina

A CURA DI: Marcella Ferro, Alice Ioffrida, Pasquale Ruocco, Martina Soricaro

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architettura/ambiente

arte contemporanea

Non si può pensare unʼarchitettura senza pensare alla gente (R. Rogers)

Una scultura deve reggere allʼaria aperta, nella natura libera (Joan Mirò)

Disegni di Pino Pascali in mostra a Bagno Vignoni

Stilizzazioni? Non solo

La scultura è un’idea e non si tocca!

ll l’Art House di Bagno Vignoni, in mostra alcuni lavori di Pino Pascali realizzati per la pubblicità, un A aspetto ancora poco noto della produzione dell’artista.

Augusto Perez sulla terrazza di Ravello di

PASQUALE RUOCCO

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uale spazio occupa l’arte contemporanea nella programmazione del Ravello Festival? Quale peso viene dato ad artisti, opere e professionisti del settore? Non molto sembrerebbe a guardar bene le ultime edizioni: comunicazione carente, vernissage per pochi intimi, scarso materiale informativo. Nomi importanti questo sì, primo fra tutti Mimmo Palladino, opere eccezionali, come quelle di Tony Cragg e, adesso, di Augusto Perez, eppure sul piano della trasmissione, della diffusione sul territorio, della promozione, cioè, di una vera e propria cultura contemporanea tutto langue. L’impressione è quella di una visione limitata e limitante del ruolo delle arti visive, che riduce le mostre ad evento di contorno, arredamento di lusso per impressionare gli ospiti e arricchire stucchevoli fotografie di gruppo così come conferma anche la mostra di quest’anno dedicata ad Augusto Perez. A cura di Flavio Arensi la mostra (aperta fino al 5 settembre) realizzata con il contributo della Fondazione Tramontano e della Fondazione Materima di Casalbeltrame. presenta, dislocate tra i giardini di Villa Rufolo e la terrazza antistante l’Auditorium Oscar Niemeyer, ben ventisette opere, realizzate tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta, da Augusto Perez (Messina 1929 – Napoli 2000) uno dei più grandi interpreti del Novecento. Una corposa e attenta selezione, proveniente da importanti collezioni private - di cui si citano Luigi XIV, Crocifissione di Apollo, Emafrodito, Monumento a Luigi XIV, Can can, Terreae Motus, Notte, Grande Sirena, Centauro, la serie dedicata al Circo, Crocefissione/Deposizione - che cifra l’immagine di un’artista capace di interpretare pienamente la tragicità del suo tempo l’Europa uscita dalla seconda guerra mondiale – traducendola in un linguaggio plastico, da un lato, legato ad un’idea altissima di scultura e, dall’altro, alla consapevolezza amara della impossibilità della sua tradizionale continuità. Tuttavia al buon lavoro di selezione si oppone un tragico senso di abbandono, quasi di incomprensione da parte di una organizzazione che vanta la produzione di uno dei migliori festival d’Europa, di essere un eccellente promotore di cultura. Se per un verso, il visitatore avrà, infatti, la possibilità di confrontarsi con la solennità drammatica delle opere di Perez, di perdersi tra le pieghe del modellato caotico e fremente dell’argilla tradotta in bronzo, per l’altro, probabilmente vivrà, un senso di disagio, quasi

che quei drammatici corpi fossero fuori luogo, confusi tra banner pubblicitari, impalcature e video. In sostanza quello che sembra sconvolto è il profondo senso che Perez aveva dello spazio: funzione propria della rappresentazione, palcoscenico sul quale prende forma l’evento miracoloso dell’arte. In questo senso le opere di Perez si distinguono nettamente da quelle precedentemente esposte: non condividono l’esasperazione dimensionale delle divinità di Mitoraj, non sono in grado di centrifugare l’ambiente così come le energiche forme sviluppate da Cragg; tanto meno condividere esaltandola, come nel caso di Palladino, autore di una mirabile messa in scena, la magica atmosfera dei giardini di Klingsor. Esse piuttosto richiedono una loro autonomia, uno stacco, una quinta dinanzi la quale esibire non solo le proprie qualità formali ma, soprattutto, il loro senso di immagine, di spettro, di allucinazione. Non a caso lo stesso Perez in le Riflessioni di uno scultore sullo spazio pubblicate in «Op.Cit.» nel 1968, spiegando come la sua scultura apparisse quale monstrum, evento prodigioso, contro natura, apparizione luminosa, affiorante dalla penombra della coscienza e della storia, affermava che la sua esistenza non si doveva assolutamente identificare con la tridimensionalità fisica dell’oggetto. Un concetto espresso con sempre maggiore lucidità a partire dalla serie degli Specchi a cui l’artista iniziò a lavorare negli anni Sessanta ponendo la scultura dinanzi a se stessa, innescando una gioco di sdoppiamenti, riflessioni, ambiguità, a cui appartiene il su citato Monumento a Luigi XIV. Un’opera riguardo la quale Perez, illustrando il senso di quel cordone (misteriosamente mancante per l‘occasione) scriveva: “non è vero che la scultura si tocca, si apre, si gira o ci si cammina dentro, la scultura è un’idea e l’idea non si può toccare”.

Venticinque disegni di animali e personaggi – eseguiti con tecnica mista e realizzati su vari supporti (carta, cartoncino, sughero, acetato) – popolano le pareti asettiche della galleria, come se fossero animati da un’energia vitale. Nel 1958, Pino Pascali conosce Sandro Lodolo con cui collaborerà, sino al 1968, come creativo nella produzione pubblicitaria Lodolo film; in questo decennio l’artista realizza molti disegni, nei quali, la capacità di sintesi formale si unisce all’incisività del segno per rispondere adeguatamente all’immediatezza comunicativa richiesta dal medium televisivo. Colpisce l’accuratezza dei dettagli e dei caratteri fisiognomici nei disegni preparatori dei personaggi Killers e Moschettieri. In alcune occasioni Pascali continua lo studio a lavoro concluso, nella ricerca di nuove forme e stili, come nel caso del disegno Mignotta; questo a dimostrazione del fatto che l’impegno nel campo pubblicitario non rappresentava una produzione secondaria, bensì un’attività creatrice in grado di sollecitare l’immaginazione e la libertà espressiva dell’artista. Nei suoi disegni sono infatti presenti delle idee che verranno sviluppate in opere realizzate qualche anno dopo. Ci imbattiamo in immagini – come Pesce e Bassotto e balene – in cui è evidente l’interesse dell’artista nei confronti del mondo animale, quegli stessi animali che, dal supporto bidimensionale, di lì a poco, diventeranno corpi tridimensionali con le “finte sculture” realizzate tra il 1966 e il 1968. Pascali ci ricorda come gli animali rappresentassero per lui delle “cose stranissime”, appartenti ad un mondo altro, quello delle favole e del mito di cui si nutriva l’immaginazione dell’artista. In alcuni cartoncini possiamo osservare come l’attività grafica gli permetta di far emergere i segni di una memoria collettiva; in Arciere – che fa parte dei lavori realizzati per lo spot della campagna di abbonamenti Rai “Radiotelefortuna” – la sagoma del personaggio affiora da una macchia più scura rivendicando ed affermando con forza la propria presenza. Questi disegni, seppur rispondano ad una committenza pubblicitaria, nascono dal bisogno di Pascali di mettere su carta idee che attraversano la sua fantasia creatrice, dando sfogo ad un’immaginazione ricchissima da cui emergono non solo personaggi ironici e giocosi, ma anche immagini dal valore archetipico.

Martina Franchi

Nella foto: Pino Pascali, I killers, disegno a matita su carta

Arezzo un percorso lirico nel cuore del Centro storico

Due Mostre di Giorgio Cattani Il vento dei luoghi e Trasloco

Kapoor, Kounellis, Pistoletto e Serse Mostre in linea di continuità

ino al 27 settembre 2015 si tiene ad Arezzo la terza edizione F della kermesse internazionale “Icastica 2015”. Quest’anno, in linea con Expo 2015, il tema attorno a cui lavorano gli oltre cento

ono gli oggetti, i dipinti, gli acquerelli, le lettere, i documenti e gli S scritti raccolti e appartenuti a Hermann Hesse, l’ispirazione che muove l’ultimo lavoro di Giorgio Cattani, un ciclo inedito di opere,

resso la Galleria Continua di San Gimignano sono state inaugurate le mostre personali di quattro grandi interpreti dell’arte P contemporanea. Descension di Anish Kapoor, allestita negli spazi

artisti contemporanei invitati è ‘Coltivare Cultura’, che si traduce nel trattare i temi del cibo, del nutrimento e della sostenibilità declinati nella dimensione culturale: la cultura, cibo per la mente, per il cuore, per l’anima, è alla base del vivere primario. Tra passato e presente, Arezzo, la città di Piero della Francesca e di Vasari, apre le proprie porte al contemporaneo in oltre 40 sedi indoor e outdoor dove sarà possibile vivere le opere d’arte, un modo di rappresentare il territorio attraverso le espressioni dell’arte. La manifestazione è suddivisa in tre sezioni: Iconic, Project, Event, 3 categorie entro le quali si inscrivono le pratiche artistiche più disparate, arricchite quest’anno da una sezione sulla Street Art. Tra i prestigiosi artisti presenti, figura Giulio De Mitri, con una grande installazione ambientale site specific dal titolo Transitorie architetture. L’installazione si dispiega e cinge le antiche Logge del Vasari, poste a coronamento della Piazza Grande; su una lunghezza di 125 metri ad un’altezza di oltre 8 metri, De Mitri realizza un’ascesa di bianche farfalle. Queste forme stilizzate, di diversa grandezza, realizzate in polipropilene, materiale che trasmette e riflette della luce, popolano le Logge, creando una sovrastruttura lirica a quella storica già esistente, scortando lo spettatore in un percorso immaginativo che è, contestualmente, individuale e collettivo.

presentato (fino a settembre) alla Five Gallery di Lugano. Il vento dei luoghi, questo il titolo dell’esposizione, condensa in una frase il senso del “viaggio” intrapreso dall’artista, teso soprattutto alla comprensione dell’uomo prima che del letterato. In queste opere Cattani da vita a un incorporeo ma intenso quanto realistico incontro con Hesse, dove le tracce dei suoi ricordi sono percepite e rielaborate come nuove intenzioni al futuro, come una possibilità per rileggere il suo lavoro e il suo vissuto con gli occhi del nostro tempo. Spiega il curatore Andrea B. Del Guercio: Cattani crea «un percorso linguistico combinato tra parola e immagine, tra giudizio e percezione sfuggendo all’immediatezza del tempo effimero per imporsi sulla percezione contemporanea attraverso la forza robusta del tempo antico, in cui la storia diventa uno spazio abitato e vissuto dalla ricchezza fresca e intensa delle sfumature di colore e la delicatezza di un appunto preso». La storia rivive anche nella mostra Trasloco all’ottocentesca Villa Filiani di Pineto (TE), dove l’artista ha messo in scena un particolarissimo allestimento composto da dipinti e oggetti fissati nella condizione di essere appena giunti nel luogo o in procinto di essere nuovamente spostati altrove. Al cuore di questa ispirazione ci sono i tracciati della transumanza, segni fisici e culturali che connotano questa terra come luogo di passaggio emozionale e di lavoro.

Nella foto: L’installazione di Giulio De Mitri

photo di Andrea Sartori

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La qualità e la quantità di cibo disponibile hanno ricadute sull’economia e sull’ambiente. La risoluzione dei problemi è connessa ad una revisione del rapporto tra cibo e pianificazione del territorio di

GIANPAOLO LAMBIASE

I

l connubio tra cibo ed architettura ha origini lontane … preistoriche. La grotta, la capanna, la tenda avevano al centro il focolare. Il focolare, al centro dello spazio abitabile, al centro della vita familiare, non solo riscaldava ed illuminava il buio della notte, ma soprattutto cuoceva il cibo. Oggi la scarsità di cibo e la produzione di alimenti (a fronte della previsione di crescita della popolazione mondiale di dieci miliardi di persone nei prossimi quarant’anni) sono diventati un grande tema sociale e politico (forse il tema più rilevante assieme ai “cambiamenti climatici”). Le problematiche legate all’alimentazione ed alla produzione del cibo sono centrali. La qualità e la quantità di cibo disponibile hanno ricadute sull’economia e sull’ambiente. La risoluzione dei problemi ad essi connessi mette in luce quanto potrebbe ancora essere forte il rapporto tra cibo e architettura (tra cibo e pianificazione del territorio). Sono numerosi gli esempi di progetti moderni (che utilizzano tecnologie innovative) finalizzati alla produzione di alimenti genuini con il minimo consumo di acqua ed energia. La fattoria galleggiante: un progetto visionario in grado di consentire la coltivazione di ortaggi al largo delle coste della Groenlandia, catturando acqua dolce dagli iceberg. La serra idroponica che permette di coltivare ortaggi e vegetali fuori terra (senza sprecare suolo, acqua ed energia) con continuo riciclo dell’acqua, ed un risparmio idrico fino al 70% rispetto alle colture tradizionali. Il Rooftop farming si sta diffondendo e trova riscontri positivi anche nelle città metropolitane. In tanti “curiosi” cominciano a coltivare frutta ed ortaggi sui balconi e sui tetti dei palazzi. I vantaggi dei “tetti verdi” sono molteplici: dalla riduzione dell’inquinamento sonoro alle mitigazioni del microclima. Ma avere frutta e verdura fresca di stagione a km 0, supera ogni aspettativa. Architettura, scienza e biologia unite per trovare soluzioni a questioni sulla sicurezza alimentare, sui cambiamenti climatici e sulla disponibilità delle risorse idriche. Il cibo e l’architettura si intrecciano, si congiungono però anche in “forme creative” o in “pubblici eventi”, non sempre “utili”, perché sono evidente espressione di una società consumistica che spreca e distrugge “risorse primarie”. Il Food Design è un nuovo impegno dei “progettisti del settore alimentare”. «Food Design è la progettazione degli atti

alimentari (Food Facts), ovvero l’attività di elaborazione dei processi più efficaci per rendere corretta e gradevole l'azione di esperire una sostanza commestibile in un dato contesto, ambiente o circostanze di consumo.» (dal MANIFESTO a cura della Commissione Food dell’Adi dicembre 2014). Gli “edifici-dolce” creati da chef stellati ed appassionati di cucina. Gli “architetti del pan di zenzero” creano residenze moderne, monumenti in scala, castelli fantastici. Golose sculture in glassa, cioccolato fondente, cioccolato bianco, liquerizia e fogli di pan di zenzero. Si tratta di opere per allestimenti di mostre, eventi o anche ambientazioni di set cinematografici. Opere che al termine del loro ciclo di vita possono essere mangiate e digerite. L’EXPO di Milano aperta a maggio all’insegna di “Nutrire il Pianeta”, aveva, nelle sue aspirazioni, l’obiettivo di contaminare e rendere l’un l’altro “funzionali”, cibo ed architettura. I giudizi sull’evento sono discordi. Le Istituzioni… chi l’ha proposto e realizzato, chiaramente lo magnifica, vantandone il numero considerevole di presenze ed il ritorno economico. I più radicali contestatori affermano che le cifre dei visitatori diffuse dal commissario Sala siano gonfiate, polemizzano sul “ritorno economico” dell’operazione che ancora non è stato quantizzato in rapporto all’enorme capitale investito. Evidenziano i ritardi, le opere incompiute, l’occupazione di suoli agricoli liberi e produttivi. Definiscono l’EXPO una sagra dove presidenti e politici fanno “passerella” ad ogni pubblica occasione. Sono preoccupati dell’uso prossimo dell’area, terminata l’EXPO, per la quale pare non ci siano idee chiare sulla futura gestione. Forse sarebbe più utile e produttivo promuovere, attivare piccoli diffusi investimenti, invece di spendere e concentrare ingenti capitali sui “grandi eventi”. Abbiamo assistito negli anni passati all’abbandono delle aree rurali, con conseguenze particolarmente negative sul paesaggio e sulla vita sociale. La valorizzazione degli spazi agricoli, come luogo esclusivo per la soddisfazione del fabbisogno alimentare di qualità, avrebbe come effetto il recupero delle campagne. I progetti legati alla salvaguardia delle tipicità, delle peculiarità alimentari dei territori possono portare ad un’inversione di rotta. Terreni di piccole e grandi dimensioni, oggi di scarso interesse ambientale, potranno diventare luoghi di produzione alimentare di livello e dal “forte” valore paesaggistico, spesso con un impatto positivo anche sul turismo. In Italia gli esempi positivi non mancano.

a scelta di collocare al centro di una piazza storica una nuova statua riporta alla ribalta il tema dibattuto da Arturo Martini nella sua pubblicazione La scultura lingua morta, edita nel 1945. In quell’ormai famoso testo, il celebre artista affrontava un argomento sorprendentemente attuale. Egli poneva al centro della discussione la necessità di ripensare il ruolo della scultura, perché avvertiva, con lucidità non comune, che la società dell’epoca era profondamente mutata rispetto al passato e, con essa, le sue modalità di autorappresentazione. In particolare, Martini considerava morta una determinata tipologia di scultura, ovvero la statuaria legata a vecchi e potenti committenti: ricca di retorica, celebrativa e spesso autoreferenziale. Sono passati settant’anni da quelle considerazioni che hanno ispirato molti dei migliori scultori delle generazioni successive stimolandoli a reinventare un linguaggio più aderente ai propri tempi. Tuttavia ancor’oggi permane nei confronti della scultura un approccio quantomeno anacronistico. Molte delle nostre piazze risultano oltraggiate da interventi scultorei che non tengono conto del contesto storico - ambientale nel quale si inseriscono, non considerano il rapporto spaziale con le preesistenze architettoniche e appaiono slegati dal territorio circostante finanche nella scelta dei materiali. In tal modo, la scultura torna ad essere un oggetto che si impone sulla piazza e alieno da ogni contesto d’origine. È il rischio che corre anche la piazza di Vallo della Lucania. Infatti l’opera Leud della scultrice Rabarama non rispecchia le riflessioni suddette. La coppia abbracciata si limita a riproporre il repertorio uniforme dell’artista e appare completamente slegata dal contesto architettonico. Il tema della fratellanza non emerge dalle due figure, che sembrano inespressive e anaffettive. Esse sono piuttosto assimilabili ad automi replicati, con lo sguardo fisso nel vuoto, e la loro diversa identità si coglie dal solo simbolo sessuale inciso sul capo. Nessuna relazione con il Cilento mostra il materiale prescelto: il marmo, bianco e freddo, è lontano dalla tradizione del territorio. In sostanza, nel contesto in cui viene inserita, Leud risulta un mero oggetto decorativo che aggredisce lo spazio storicizzato piuttosto che entrare in relazione con esso. In definitiva, il criterio con cui si è proceduto alla scelta dell’opera non risponde alle esigenze che si è qui tentato di illustrare. Sembra invece si sia ignorato il pericolo, evidenziato da Martini, di realizzare opere scultoree che figurassero ancora con vecchi principi statuari, utilizzando la scultura come linguaggio morto, incapace di comunicare con le esigenze di una società contemporanea in rapido mutamento, la quale, in un mondo sempre più omologato, appare quanto mai bisognosa di puniti di riferimento, anche simbolici, che attestino una relazione identitaria e uno stretto legame di appartenenza con il territorio che abita.

Silvia De Luca Lorenzo Fiorucci

Nella foto: disegno di G. Lambiase

ra le colline del comune di Gaiole in Chianti, a circa 500 metri sul del mare, sorge un piccolo borgo medievale dove il terTreno,livello i suoi prodotti e l’arte contemporanea si sposano in maniera

Alla Continua di San Gimignano

Martina Soricaro

L

Nella foto: A. Perez, Monumento a Luigi XIV, 1967, bronzo

Un ponte fra Svizzera e Abruzzo

Terza edizione “Icastica 2015”

Cibo, architettura e Food Design

A Vallo della Lucania una scultura fuori luogo

Letizia Paiato

del vecchio cinema teatro, presenta una serie di nuove sculture in alabastro con le quali l’artista invita a riflettere sui misteri del tempo. L’installazione Discent to limbo, in platea, presentata nel 1992 in occasione di Documenta IX a Kassel, è un “buco nero” aperto nel pavimento, con suggestivi vortici d’acqua, una forza perpetua che ci spinge verso il basso, verso l’ignoto. Jannis Kounellis espone per la prima volta alla Continua, nello spazio dell’Arco dei Becci con “strutture di resistenza” che possiedono un loro peso: qui il lessico del suo linguaggio tocca il vissuto dell’uomo e i segni atavici dei luoghi. Per questa installazione un’imponente trave sostiene un sacco trafitto da un coltello. Fanno parte degli storici lavori di Michelangelo Pistoletto, i ritratti esposti in Prima dello Specchio: una serie di lavoro che, della seconda metà degli anni Cinquanta in cui la figura si presenta materica o astratta, vanno a quelli successivi nei quali la figura è posta su fondi monocromi, acquistando una spazialità reale. Assieme ai ritratti di Pistoletto in Via del Castello, un ciclo di disegni di Serse per la sua mostra L’esperienza del Paesaggio. L’artista si serve del disegno a grafite, sviluppando una nuova interpretazione del paesaggio nell’arte contemporanea, nel quale gli elementi naturali sono protagonisti e non sfondo. Sarà possibile visitare le mostre fino al 5 settembre 2015.

Alice Ioffrida

Nella foto: Anish Kapoor, Buco nero

Ama, un castello al centro della contemporaneità Arte e Vino in un connubio unico, sulla scena dell’arte internazionale di

MARTINA SORICARO

unica. La parola chiave è Ama, un verbo che esprime a pieno la filosofia e la vita di questa azienda. Il territorio ha radici profonde che affondano nella terra, dando vita a uno dei Chianti Classico più famosi al mondo, e radici d’arte contemporanea che hanno dato forma ad una raccolta unica di opere site specific. In questo luogo Arte e Vino si esaltano a vicenda, contaminandosi e creando una perfetta armonia. Tutto è cominciato nel 2000, quando, in collaborazione con la Galleria Continua, Michelangelo Pistoletto è stato chiamato a realizzare un’opera nelle vecchie cantine: un altissimo tronco d’albero è tagliato da una fenditura con all’interno uno specchio angolato che amplifica e rifrange lo spazio della cantina in una dialettica tra spazio reale e spazio riflesso. Nel 2001 è stata la volta di Daniel Buren, artista che ha lavorato spesso in Toscana e che, ad Ama, ha realizzato un muro di specchi e finestre, in cui lo spettatore si riflette ed allo stesso tempo osserva la vallata ricca di vigneti e uliveti, appagando contestualmente il proprio desiderio di contemplare il sé riflesso e il paesaggio tutt’intorno. Il terzo artista chiamato ad esprimersi sul territorio è l’italiano Giulio Paolini che, nella sua opera, mette in scena la dicotomia esplosioneimplosione, con un parallelepipedo in ferro e pietra serena dove la parte inferiore rappresenta l’implosione con la sua struttura che si ritrae, mentre la parte superiore esplode nella stanza disseminandola di frammenti e scheggie. Il concetto di rivoluzione, che è alla base della filosofia dell’azienda, è l’oggetto dell’opera di Kendell Geers: una scritta rossa al neon ripropone la scritta “revolution” a rovescio, dove solo le lettere che compongono la parola “love” sono scritte a dritto, legando indissolubilmente l’amore per il vino e per la terra e la trasformazione che, prima Castello di Ama nel Chianti, poi ognuno di noi nel proprio piccolo, attua ogni giorno. Una delle opere più enigmatiche e intriganti della collezione è senza dubbio quella di Anish Kapoor, una forma luminosa, una voragine rosso acceso situata al centro del pavimento della cappellina di Ama, un’ostia color rosso sangue che genera curiosità e dubbi nel

visitatore. Di forme organiche, ma ugualmente intrise di una forte carica spirituale, si è servito Chen Zhen: sopra la testa dei visitatori fluttuano trecento ex voto in cristallo che ripropongono le forme degli organi del corpo umano, forme tenuemente illuminate che indagano le profondità della vita. Artisti di diversa provenienza, sia artistica che geografica, hanno lasciato il segno ad Ama; ad esempio Carlos Garaicoa, di origine cubana, che ha deciso di rappresentare la privazione della libertà, costruendo un labirinto di muri, in diversi materiali e dimensioni, a riprodurre i nove muri che hanno separato e tutt’ora dividono l’umanità. Un altro protagonista è Nedko Solakov con i suoi “Amadoodles”, brevi narrazioni, aforismi, giochi di parole, meccanismi di pensiero che interagiscono con lo spettatore, coinvolgendolo nel processo creativo. Nel 2009 Louise Bourgeois ha lasciato il suo personale “segno d’artista”, un’opera affascinante in grado di sollecitare mente e corpo, una figura di giovane adolescente seduta, ma allo stesso tempo una forma fallica in boccio, dalla cui corolla esce un piccolo zampillo d’acqua, inserita in un luogo nascosto, buio e umido. Passeggiando per le vie del borgo di Ama ci si imbatte nell’opera di Pascal Tayou e nei colori della sua terra: con tinte accese ha colorato alcuni sassi della strada principale; lo ha chiamato il “cammino della felicità”, metafora della vita, con il suo altalenante alternarsi tra momenti bui e momenti felici. L’ultima opera, quella realizzata nel 2014, è di Hiroshi Sugimoto, il quale ha deciso di tentare un’impresa considerata impossibile, ovvero rappresentare in termini concreti lo zero, il numero che denota esistenza e allo stesso tempo assenza. L’installazione, situata nella cappella settecentesca di Ama, si compone di una coppia di modelli matematici, di forma conica, contrapposti: tra le punte di questi modelli, proprio lì, esiste lo zero, immerso nel silenzio della cappella, sintetizzando e contestualmente abbracciando la storia, le nostre vite, il nostro essere. In questo luogo sospeso e incantato la bellezza e l’arte alimentano e nutrono il terreno, dando origine a frutti meravigliosi, gemme uniche che sono incastonate alla perfezione nel gioiello del Castello di Ama. Nella foto: Kendell Geers, Revolution/love, 2003

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filosofia/estetica

scritture

Le eterne leggi del disegno geometrico: base dʼogni grande bellezza e dʼogni profonda malinconia (G. de Chirico)

Lʼuomo non è padrone della propria intelligenza: ne riceve semplicemente le visite (N.Gómez Dávila)

Un libro di Massimo Cacciari

Estetica come

Giardini e filosofia

esperienza

N

turale che non costa nulla (Lettere morali a Lucilio, 21, 10). Per il platonismo medievale, il giardino è hortus conclusus. Un giardino mistico alla cui base è l’idea che il mondo terreno sia l’imperfetto riflesso delle realtà divine. Un tale giardino, scriverà San Bernardo nel Sermone XXXV del suo commento al Cantico dei Cantici, (4, 12), dice le delizie che si avvertono nell’interiorità dell’anima, e «con la sua recinzione bisogna intendere la cura con cui bisogna conservarle». Giardino d’isolamento e di perfezionamento dell’anima, il giardino chiuso attesta il percorso spirituale di anime assetate d’innocenza e di distacco dal mondo. La figura dei giardini filosofici di Platone, di Epicuro e di Seneca, e l’immagine del giardino come enclos attraversano i secoli e ritroveranno la luce in pieno Illuminismo, grazie a Denis Diderot che ne ripropone la metaforica ne La promenade du sceptique (1747). Il filosofo Cléobule (che ha visto il mondo e se n’è disgustato) frequenta un viale dei castagni che «rassomiglia molto all’antica Accademia». Qui incontra i suoi amici che sono «raisonneurs de profession» e amano conversare senza acredine e senza ostinazione. I loro dialoghi si concludono sempre con un «Vedremo» (in italiano nel testo), a dire che la filosofia è avventura del pensiero e che non ha mete definitive ma solo momentanee e provvisorie soste. Il giardino diderotiano come spazio della filosofia è presente anche nell’opera di Rousseau e di Voltaire. Vicini alla naturalità dei giardini descritti da Bacone nel suo Of Gardens (1625), lontani dallo spirito geometrico cartesiano spazializzato da Le Nôtre nel giardino di Versailles, entrambi disegnano (ne La Nouvelle Héloïse e ne l’Émile, il primo, nel Candide, il secondo) l’immagine di un giardino paesaggistico, che è luogo dello spirito, attraversato da viali lungo i quali la domanda filosofica e l’esigenza morale s’inscrivono in una vera e propria philosophie locale: una filosofia di luoghi dove ogni oggetto fornisce pensieri e dove le opere della natura diventano una sorta di libro allegorico in cui si possono leggere le verità che sfuggono agli occhi di quegli uomini che sanno guardare ma non vedere. Il modello ‘edenico’ del giardino – ancora presente nella voce «jardin» dell’Encyclopédie - sembra trovare, tuttavia, una sua definitiva confutazione nell’opera di alcuni poeti-filosofi inattuali. Leopardi e Baudelaire cambiano segno all’immagine del giardino. Ne fanno un luogo in cui gli esseri vivono «in istato di souffrance», e «dove il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere» (Zibaldone di pensieri [41754177]). In uno dei poemetti dello Spleen de Paris (Le veuves), nella scia di Vauvenargues, Baudelaire dirà che «il poeta e il filosofo» amano dirigere «le proprie avide congetture» verso gli ombrosi rifugi dei giardini pubblici, per cogliere la condizione umana e riflettere sulle ambizioni deluse e l’amarezza degli «éclopés de la vie». Simile al giardino pubblico descritto da Baudelaire è il giardino botanico che Valéry raffigura in Monsieur Teste: un luogo di «rovine botaniche», «degno dei morti», trasformato dal poeta-filosofo in simbolo della solitudine umana, della notte della civiltà occidentale, la quale, nata in un giardino, nello stesso recinto sembra affermare il proprio declino. Giardino di solitudini e di vite insulari è anche quello presente nella poesia di Georg Trakl. Un «giardino crepuscolare», si legge nella poesia Verfall, in cui «l’oro dei giorni» impallidisce nei «bruni e azzurri della sera», e le cose toccate dal tempo tremano, insieme all’anima che le contempla, «a un soffio di declini». Come si può notare, nella configurazione ideale dei giardini del tempo che è ancora nostro è racchiusa la consapevolezza di un’insanabile frattura tra uomo e natura. Non più spazio vitale, il giardino pare sbrecciato dal tempo, che penetra nei più riposti recinti e vi fa circolare il soffio della finitezza e della precarietà. È in questo silenzio del ricordo che giungono, come un invito, le parole di Jorn de Précy, che esorta a

di

ANGELO MARIA VITALE

N

elle riflessioni di carattere eminentemente filosofico sulla genesi dell’opera d’arte assai raramente o – per dir meglio – quasi mai entrano in gioco fattori riconducibili all’esperienza diretta del processo artistico, alla fine sapienza del conoscitore, alla sagacia del collezionista. È quanto avviene, invece, nel libro di Liliana Moscato Esposito, Appena nata… Memorie di arte contemporanea, pubblicato a Napoli per i tipi di Arte’m. Per anni docente di Estetica presso la sezione San Luigi della Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Moscato ripercorre il suo rapporto con l’arte contemporanea come studiosa di Estetica, come collezionista d’arte contemporanea, ma soprattutto come amica e frequentatrice, insieme a suo marito Renato Esposito, di alcuni tra i protagonisti dell’arte del secondo Novecento, da Joseph Beuys a Michelangelo Pistoletto, da Andy Warhol a Joseph Kosuth, da Anselm Kiefer a Sol LeWitt. È a partire da questo rapporto con l’arte e con gli artisti, nel quale gioca un ruolo centrale il gallerista e amico Lucio Amelio, che muovono il racconto e la riflessione di Moscato: «appena nata un’opera d’arte ha davanti a sé un lungo cammino che può durare, ma questo lo si scoprirà solo in seguito, secoli e secoli o finanche millenni. Nel suo percorso attirerà sguardi sempre diversi, le si affolleranno intorno storici, critici, esperti di iconografia, di estetica, di restauro e di innumerevoli altre discipline in un dialogo che non sarà mai definitivamente concluso. Io vorrei invece raccontare […] ciò che avviene immediatamente prima, durante e dopo la nascita di quelle opere alcune delle quali saranno forse anch’esse destinate a durare nei secoli. Le bizze degli artisti, l’agitazione e le isterie dei galleristi, la competizione dei collezionisti, i malumori e le risate, le chiacchiere protratte fino a tarda notte non entrano a far parte delle discipline che vanno di volta in volta chinandosi sulle opere: in assenza di un racconto che ne tramandi il ricordo andrebbe dunque perduta quell’atmosfera mista di gioco e serietà, di liti e passioni sfrenate e di stupefatta contemplazione» (p. 7). La vicinanza personale con gli artisti diventa, così, rapporto intimo con l’opera e la sua genesi: «proponemmo [a Lucio Amelio] di ospitare qualche artista nella più grande delle nostre due dependences, quella affacciata sul mare e chiamata ‘il Capanno’; la nostra proposta venne accettata e fu allora che scoprimmo davvero cosa significasse

mantenere, con i giardini, il mistero e la bellezza dell’universo: «Tracciate il vostro disegno sulla faccia della Terra, che si presta sempre volentieri ai sogni dell’uomo, piantate un giardino e prendetevene cura. E proteggete anche quelli che restano e resistono […] Lavorate con i poeti, i maghi, i danzatori e tutti gli altri artigiani dell’invisibile per rimettere al suo posto il mistero del mondo». *Professore di Filosofia della Storia presso l’Università di Salerno. Tra i suoi lavori: Viaggio e metafisica, Milano 1996; Etica ed estetica del giardino, Milano 2003; Il giardino e l’isola, Milano 2015 Nella foto in alto: Giardino alla francese, Castello di Vaux-le-Vicomte; Sopra: Il Ponte palladiano di Henry Hoare si riflette nel lago dei Giardini di Stourhead; Pierre Patel, Vue du chat̂ eau et des jardins de Versailles, en 1668; Vue à vol d¹oiseau des jardins de Versailles XIX siècle

L’ecogastronomia di Francesco Di Vita di

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Giacomo Gambale

Nella foto: san Francesco predica agli uccelli, Assisi, Basilica superiore

vedere un’opera d’arte appena nata, non già nella sua prima presentazione al pubblico come era stato fino a quel momento, ma seguirne da vicino per così dire la gestazione, il progredire e il retrocedere del progetto, i pentimenti, i momenti di crisi ed infine la nascita vera e propria, incerta fino al giorno dell’inaugurazione» (p. 46). È proprio questa prospettiva privilegiata a consentire di cogliere «la energica freschezza del momento nativo», impossibile da afferrare «quando oramai la produzione di un artista è storicizzata, trovando definitiva dimora in un museo» (p. 17). L’itinerario di Moscato, nel quale narrazione e riflessione si intrecciano in modo assai elegante, è scandito da episodi raccontati con una grazia lieve, come il ricordo della vigilia di Natale del 1985 con il quale il libro si conclude: «poco prima della mezzanotte, Beuys chiese di vedere il mare e lo accompagnammo tutti sul prato del Capanno dal quale nella serata limpida si poté godere una splendida vista del mare che Beuys guardò a lungo in un assorto silenzio, fino a che non si udirono le campane annunciare la messa di mezzanotte. Esattamente un mese dopo Joseph Beuys lasciò questo mondo» (p. 62). Nella foto: Liliana Moscato Esposito con Lucio Amelio, Capri 1989

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Le forme del gusto

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n Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto (Adelphi, Milano) Massimo Cacciari propone la lettura di due cicli di ritratti della vita di san Francesco, uno elaborato in versi da Dante nella Divina Commedia, l’altro dipinto da Giotto nella Basilica di Assisi. La figura di Francesco si rivela enigmatica, e non solo per i paradossi racchiusi nel suo pensiero, teso a conciliare virtù tra loro distanti come gioia e sacrificio. Ma perché è figura manipolata da discepoli e seguaci: egli è simbolo, exemplum, mito il cui messaggio è tradito con il trascorrere degli anni. La conseguenza di questa manipolazione è la difficoltà di conoscere la vera personalità di Francesco. Nella Divina Commedia, la figura di Francesco è inquadrata in un progetto di concordia teologica e politica universale, che Dante si prefigge come obiettivo del poema. Le strategie usate dal poeta sono sottili e la figura del poverello si delinea proprio in vista di tali strategie, che in modo accurato selezionano le narrazioni sulle imprese, i miracoli e i detti del santo. Non a caso è il domenicano Tommaso d’Aquino a raccontarci la vita di Francesco. Le strategie di Giotto sono differenti, soprattutto se si fa riferimento all’iconografia della Basilica di Assisi, la cui costruzione si svolge tutta sotto il segno della politica romana dei pontefici. Il ciclo francescano della urbs umbra vuole essere immagine dell’accordo tra escatologia spirituale e la dovuta reverenza all’autorità del papa e della gerarchia. In questo senso le omissioni operate dal pittore di episodi della vita di Francesco sono significative, costruiscono una iconografia ufficiale tesa a smussare gli aspetti aspri dell’epopea del santo con lo scopo di istituzionalizzarne la figura.

Liliana Moscato Esposito: memorie di arte contemporanea

ENZO COCCO*

ella prefazione al suo volume The lost garden (1912), Jorn de Précy (un giardiniere-filosofo islandese, di origine bretone) parla di una sua esperienza adolescenziale che gli offrì l’occasione di cogliere, come in un lampo d’emozioni, l’idea del giardino: «Un giorno […] mentre camminavo senza meta sulle colline nude, perduto in chissà quali pensieri […] m’imbattei in un boschetto di betulle. Erano disposte in cerchio […] e m’invitavano a entrare in quel cerchio. Non appena lo feci, mi sentii invadere da una gioia indescrivibile […] e chiusi gli occhi. Quando li riaprii mi parve che, inspiegabilmente, l’universo intero mi si offrisse alla vista. […] La terra nella sua vastità là fuori e quel cerchio felice, come un ventre materno, un luogo protetto… ‘È dunque, questo, un giardino…’ dissi a me stesso, la gola serrata». Nella descrizione di Précy è l’essenza del giardino. Il suo essere cioè uno spazio ma anche un’idea. Un’idea che è fondativa dello spazio nel momento in cui lo determina come alterità. Ogni giardino è, infatti, l’altro di qualcosa, e ad altro sempre si oppone. La linea di circoscrizione (che nella sua dimensione liminare istituisce spazi diversi) crea una coppia di contrari (il dentro e il fuori, l’interno e l’esterno). Questa de-limitazione di spazi diversi è anche una gerarchizzazione e qualificazione. Nella storia dell’Occidente, lo spazio del giardino è stato associato, quasi sempre, a idee positive (fertilità, innocenza, amenità, serenità, gioia) contrapposte alla negatività dell’esterno (aridità, malizia, sgradevolezza, inquietudine, dolore). L’uomo ha pensato dunque il giardino come luogo eutopico, spazio di proiezione dei bisogni e delle speranze umane. Il versante desiderante del giardino è stato richiamato da Alda Merini, quando, ne L’anima innamorata, ha scritto che «il Paradiso è ciò che piace all’uomo, è quello che l’uomo vorrebbe che fosse». La dimensione eutopica del giardino fa di questo spazio non un semplice spazio, ma un meta-spazio, capace di assumere in sé e di produrre valenze metaforiche, di trasformarsi in figura del pensiero. Sin dall’inizio della sua storia, per esempio, la filosofia ha guardato al giardino come al luogo della riflessione. Nel Fedro (276b-277a), parlando della scrittura che genera oblio e non crea vera sapienza, Platone paragona l’autore di discorsi scritti a un contadino poco giudizioso che pianta semi nei «giardini di Adone», recipienti in terracotta cui si facevano crescere le piante troppo rapidamente (M. Detienne, Les jardins d’Adonis. La mythologie des aromates en Grèce, Gallimard, Paris 1972, p. 249). Il vero filosofo, invece, sa piantare e seminare parole fruttifere nell’anima-giardino degli allievi. Le sue parole non sono sterili, perché racchiudono in sé un germe da cui nuove parole germoglieranno, assicurando quell’inconclusività che è propria della filosofia nella cui etimologia è il concetto della medietà e della soglia. Il vero filosofo, scrive infatti Platone, è colui che non ha mete definitive, e che, «scalzo e peregrino», dorme «sulle soglie delle case e per le strade» (Simposio, 202a e 203d). In un giardino inscrive la propria attività speculativa anche Epicuro. E non a caso, visto che la sede d’esercizio del pensiero è scelta come simbolo di una filosofia lontana «dal tumulto della vita politica», vicina «al silenzio della natura». Ciò spiega perché, con le sue norme testamentarie, egli doni tutti i suoi beni ai discepoli, a patto che, memori della sua dottrina, conservino il giardino come «dimora per lo studio della filosofia» e lo mantengano «il più sicuro e intatto che sia possibile» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, 17). Frequentando il giardino di Epicuro e facendo proprie alcune sue massime, Seneca riflette sulle possibili vie della felicità. La quale non si trova aggiungendo un piacere all’altro, ma riducendo i desideri. Secondo Seneca, chi giunge davanti ai modesti giardini di Epicuro e alla sua iscrizione, saprà che in essi è il vero piacere, perché questi «piccoli giardini» non acuiscono la fame né aumentano la sete a furia di bere, ma la calmano con un rimedio na-

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e trama della vita

Pensieri nello spazio: le metamorfosi del rapporto tra uomo e natura di

L’enigma san Francesco in Dante e Giotto

LORENZO DE DONATO

a natura e l’evoluzione hanno dotato gli esseri umani di organi di senso attraverso i quali percepire la realtà e le sue sfumature, con i quali fare esperienza del mondo circostante. È tuttavia possibile, pensando ad un contesto creativo, dedicarsi alla produzione di qualcosa senza poter utilizzare il relativo organo di senso? E quindi dar vita ad un oggetto, un prodotto, senza poterlo percepire in corso d’opera, affidandosi unicamente ai ricordi e all’immaginazione? Il grande genio musicale di Beethoven riuscì nell’impresa: nonostante la sordità, continuò eroicamente a comporre musica, anzi producendo alcuni tra i suoi più importanti capolavori. Impossibilitato a percepire ed ascoltare i suoni, egli riuscì comunque a ideare straordinari brani musicali, forse facendo ricorso sia alla memoria di essi che alla fantasia, per riassemblarli in forme nuove ed originali. È stata questa, in forme ovviamente diverse, la sfida alle origini dei due testi gastronomici di Francesco Di Vita Sinfonie di cipolle. Pranzi e Sinfonie di cipolle. Cene di mare, entrambi editi dalla casa editrice milanese Lampi di stampa. A causa di una patologia l’autore non può più assaporare i normali cibi che quotidianamente riempiono le nostre cucine e le nostre tavole. Non per questo tuttavia egli si è arreso alla sfida di portare avanti la sua passione culinaria e di inventare nuovi piatti. L’arduo sforzo intellettivo è stato dunque quello di lavorare con l’immaginazione e il ricordo dei sapori e con la rielaborazione mentale degli ingredienti e degli accostamenti. Le sue particolari abitudini alimentari non gli hanno impedito di rivolgere le energie proprio verso la creazione gastronomica. Nonostante la disabilità, egli si è così dedicato per diversi anni con grande impegno e passione ad un lavoro desiderato e sentito profondamente, prodotto di un percorso intimo, umano

ed esistenziale, ma anche culturale e gastronomico. Un percorso ed una visione in cui il cibo non è solo semplice nutrimento e neppure arte del gusto fine a se stessa, ma elemento di contatto e punto di incontro tra essere umano e ambiente naturale. Il fondamentale connubio cibo-ambiente si esplica con il concetto di ‘ecogastronomia’, la filosofia alimentare di chi sostiene e favorisce metodi ecosostenibili e antindustriali anche in cucina e nella produzione culinaria. Non un semplice ricettario, dunque, ma un corposo lavoro in due volumi in cui la cucina e la tavola rispettano l’ambiente: «il rispetto dell’ambiente in ambito gastronomico si esprime fondamentalmente come rispetto del tempo e rispetto dello spazio. Il rispetto del tempo consiste nel seguire la stagionalità, ossia l’utilizzo di prodotti che appartengono secondo natura solo alla stagione in corso, dunque per contrastare l’industrializzazione sfrenata. Il rispetto dello spazio si esprime invece nella cosiddetta ‘cucina a chilometro zero’, ovvero l’uso dei prodotti locali e degli alimenti offerti dal territorio». L’unione della gastronomia a chilometro zero con la stagionalità dà vita ad una vera e propria ‘cucina del qui ed ora’, una cucina pienamente ecosostenibile che però non si fossilizza sulla banalità e sulla ripetizione: intento ulteriore dell’opera di Di Vita è infatti proporre un itinerario eccentrico da scoprire e riscoprire attraverso i cinque caratteri del gusto (dolce, salato, amaro, acido, piccante), poiché lo scopo di ogni singola creazione culinaria è trovare il giusto e moderato equilibrio tra questi cinque elementi. Nella fotosopra al titolo: Giuseppe Arcimboldo, Testa reversibile con canestro di frutta, 1591 c.a.; Sopra: La copertina del libro di Francesco Di Vita

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dalle terre d’oltremare

cinema

Lʼarte di un popolo è specchio fedele della sua mente (Javaharlal Nehru)

La fotografia è verità, e il cinema è verità ventiquattro volte al secondo (J. L. Godard)

Il beneficio del dubbio: il cinema di Claudio Romano

L’arte del Nepal tra passato e presente

Danni e distruzioni irreparabili al patrimonio artistico e culturale sul tetto del mondo di

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Presentato a Pesaro nella sezione Esordi Italiani il suo nuovo Ananke

di

ELIO DI PACE

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i arriva a strane considerazioni, parlando di cinema con Claudio Romano, abruzzese, regista di Ananke, il suo primo lungometraggio, scritto con la compagna Elisabetta L’Innocente, prodotto da Gianluca Arcopinto e mostrato in anteprima a Pesaro nella sezione “Esordi italiani”. Si misura – lo vuole lui stesso – la riuscita del film nel grado di malessere suscitato dalla visione, da un’inquadratura, da una luce, da un suono. Ed è splendido che il film diventi un oggetto di speculazione. Le interviste normalmente sono fatte di domande e risposte, ma spesso – come si potrà leggere – ci siamo ritrovati in una condizione di domande e domande. Un’incompiutezza che espande il pensiero, non lo limita a quanto è fissato sulla pagina scritta. Fa vivere la conversazione grazie alla propulsione del dubbio. Conosco bene Claudio, cono orgoglio affermo che siamo molto amici. Comincio chiedendogli delle sue influenze. Hai negato quella di Béla Tarr. C’è Dreyer, c’è Lav Diaz negli esterni. Perché non c’è Tarr? «Secondo me Ananke non è tarriano, per niente. Tarr ha una visione estremamente diversa dalla mia, come è giusto che sia, d’altronde, perché abbiamo un’età diversa. Lui è a un livello di nichilismo e sfiducia nei confronti del prossimo che alla sua età si può permettere, perché ha vissuto. Io non posso farlo. È mio dovere non farlo. Non posso essere pessimista come lui. Ho un’età in cui sono fra quelli che dovrebbero cambiare le cose, non posso essere negativo. Non è come The Turin Horse, che è rassegnato. Ananke non è rassegnato.» No, non lo è. «Probabilmente dovrebbe esserlo. Infatti, forse parla anche di questo.» Di cosa parla, Ananke? Di un uomo e una donna, che fuggono da una civiltà falcidiata da un male fantascientifico ma anche terribilmente ancestrale: un morbo che porta a uno stato depressivo tale da indurre al suicidio. Trovano sostentamento in una capra, Ananke, parola greca che dice la necessità, il bisogno. Ma anche Ananke, per il cui latte addirittura l’uomo e la donna collidono, tanto ne sono affamati (scena raccontata in un momento magistrale del film), li abbandona. C’è un dialogo dell’uomo e della donna al tavolo in cui la donna dice che tutto si risolverà, che troveranno la loro pace, la loro casa. La mia domanda è provocatoria: siamo sicuri che si vuole veramente tornare alla normalità? Siamo sicuri che la loro condizione di isolamento non sia invidiabile? (Sorride) «Beh, tu che dici? Comunque, innanzi tutto dovremmo chiederci cosa sia la normalità: da dove sei scappato? Per arrivare dove? Come mai vogliamo per forza tornare a quella che chiamiamo normalità? Forse perché abbiamo identificato la nostra vita con quella cosa. Io sono sicuro invece che la salvezza sia nell’isolamento. Ne sono assolutamente convinto, è un dilemma che pongo con questo film. C’è anche da chiedersi cosa sia la depressione, se sia una cosa che è nella società oppure nella società la portiamo noi, essendo noi i fondatori, i costitutori della società. Il problema è del singolo o è di tutti? E come se ne esce?» Mi è piaciuta la struttura modulare del film: ci sono delle inquadrature che svolgono la funzione della punteggiatura, mi riferisco in particolar modo al campo lunghissimo della casa in mezzo agli alberi, ma soprattutto all’inquadratura della finestra. Avevi già in mente queste soluzioni o le hai decise al montaggio? «La questione delle inquadrature che ritornano non era stata pensata come punteggiatura. Certamente lo è, ma il motivo principale era un altro: volevo che fosse un modo per dare la sensazione di spazio chiuso e di tempo fermo. Il senso del film per me doveva essere il ritorno di uno sguardo. Di chi è quello sguardo dall’alto? Sguardo con il quale lei poi si ricongiunge alla fine del film.»

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GIUSEPPE DE MARCO

Il finale fa pensare a un eterno ritorno, in effetti. Una circolarità. «Quel campo lunghissimo può essere una soggettiva. Che alla fine è di lei, ma prima di chi è? Quello sguardo è il motivo per cui ho fatto il film, sono andato tutta la vita a caccia di quello sguardo, ma non so di chi sia. Può essere lo sguardo di Dio, del cosmo, del destino. In ogni caso, è con lui che ci dobbiamo ricongiungere. Ma questo non è un aspetto teorico. È stata proprio una ricerca pratica, un tentativo di crescita personale. Mi sono fatto un sacco di domande su questo sguardo.» A questo punto, porto la mente al processo di preparazione, alle profonde meditazioni di Claudio sull’urgenza del film (e del cinema stesso), ricordo le discussioni, i dubbi, lo studio disperato di tutto quello che potesse concorrere al raggiungimento dello scopo, dallo studio dei maestri (in particolar modo Bresson), fino all’approfondimento della prospettiva in pittura. Claudio mi ha raccontato addirittura di aver redatto un documento di una cinquantina di pagine che ha poi distribuito alla troupe, nel quale suggeriva poesie, film, dipinti, sinfonie, a seconda del reparto. Hai mai avuto l’impressione, girando, di star facendo un film-saggio? Un film, appunto, teorico? «Sì. Questo è un rischio che c’è sempre. C’è un modo per uscirne, però: fidarsi fortemente del cinema. Fidarsi fortemente dell’immagine. In modo tale che non venga sovrastata dalla teoria. Non è facile, ma comunque fidarsi del cinema è importantissimo. Ti difende, in un certo senso, da queste cose.» Le inquadrature chiave di Ananke ci mostrano una finestra, che, tra l’altro, è anche un topos di Lav Diaz. Che cos’è la finestra? Cos’è questo quadro nel quadro? È il futuro? È il cinema stesso? «La finestra è uno schermo. È una cornice nella quale c’è una porzione di spazio, esterna rispetto a quella che abitiamo noi. È uno schermo su un altro mondo, o sullo stesso, ma da una posizione privilegiata. Io amo le finestre, come amo le cornici, forse semplicemente perché amo il cinema. Mi viene anche molto di pancia cercarle molto sul set le cornici, le finestre. Possono essere vie di fuga, dal cinema, o dal set stesso, perché magari ho allestito un set ma inquadrando una finestra volgo lo sguardo a un altro set che non posso controllare. Sono cose che mi stimolano.» Ci vuole una certa dialettica con la finestra per decidere di mettersi un numero indefinito di volte a inquadrarla, a diverse ore del giorno, della notte, con diverse luci e diverse condizioni atmosferiche. «All’origine, in sceneggiatura era scritto che fuori dalla finestra si vedeva un orto. Quando poi ho trovato la location, ho visto che era impossibile modificare l’esterno: la casa finiva su un burrone, e poi c’era quest’albero prepotentissimo fuori che invadeva il campo. All’inizio ho pensato che fosse un problema, ma poi sono giunto alla conclusione che quell’albero dovesse essere, insieme alla capra, il protagonista del film. Perché è lì chissà da quanti anni, e quindi lo devo rispettare. Per quell’albero ho cambiato la sceneggiatura. Ho cercato di rappresentare l’onnipresenza della natura. Quest’uomo si affaccia alla finestra e non può guardare altro che quell’albero, che è diventato un nuovo personaggio.» D’altronde è l’unica entità che non si muove, non scappa, e poi è immune dall’epidemia. «“L’albero è imperturbabile. Rappresenta la natura in generale.» Abbiamo finito. Gli chiedo, salutandoci, del futuro di Ananke; mi dice che non ne ha la più pallida idea. Forse qualche altro festival, poi si passerà a “mordere gli stinchi agli esercenti”. A Pedro Armocida, su un bel libro intitolato Esordi italiani edito da Marsilio, Claudio ha confessato di star già pensando a due nuovi lavori, che si intitoleranno Gli alberi non mi fanno passare e Liebe. Li aspettiamo. E aspettiamo – ancora – Ananke

ell’introdurre questo breve saggio, ci è sembrato utile riportare quì di seguito quanto Giuseppe Tucci (18941984), uno dei massimi orientalisti europei, in maniera sintetica ma altrettanto estremamente chiara ed esaustiva, affermava nel suo Nepal: rati-l la: saggio d’interpretazione delle raffigurazioni tantriche dei templi del Nepal. Roma [etc.!]: Nagel, 1978. “Il Nepal cade sotto l’influenza dell’India e della sua cultura, sociale e religiosa, sebbene in esso sopravviva l’eredità della sua complessità etnica, che cominciò a convergere, con un processo lento e continuo, verso una maggiore unità ai tempi di Prithivi Narayan, con il quale si principia la supremazia del potere Gurkh (dopo il 1768). Alla varietà delle credenze popolari non ordinate in sistema, proprie delle sue diverse componenti etniche, Newari, Magar, Gurung, Limbu, Bhotia etc. ciascuna delle quali abitava nell’interno del paese, si sovrappongono due delle maggiori correnti religiose dell’India: Buddhismo ed induismo, entrambe queste rappresentate da più indirizzi e scuole. Nel Nepal il Buddhismo ebbe sommi maestri, esperti nelle sottigliezze della dommatica e della logica, molti dei quali andarono a trovar discepoli nel Tibet; ma, alla fine, le sette tantriche si imposero e prevalsero. Anche i celebri monumenti (stupa) di Svayambunath e di Bodhnath ed altri minori, che sarebbero, secondo la tradizione, la te’ stimonianza di un Buddhismo risalente al tempo di Asoka (III sec. a.C.), sono ormai avvolti in un’atmosfera prevalentemente tantrica; soprattutto nel primo la pietà di pellegrinaggi secolari ha lasciato tracce del Buddhismo del Grande Veicolo e del Veicolo di Diamante, nella gigantesca proliferazione dei tempietti che lo circondano dopo che, in India, il Buddhismo cominciò a declinare, nel Nepal, restato lontano dalle vicende che hanno turbato il subcontinente, quella religione sopravvisse, anzi si rinvigorì per i continui contatti, sia con i maestri che le invasioni musulmane inducevano a cercarvi sicuro rifugio, sia con il Tibet dove il Buddhismo s’era frattanto diffuso, continuando, in certo modo, le tradizioni dell’India” (ibid. : p. 7). Era il 1985 quando, nell’avvicinarci all’aeroporto di Kathmandu il personale di bordo ci indicava poco lontano alla nostra destra, all’interno della catena himalayana, il maestoso Everest, una vista che resterà indelebile nei miei ricordi. Mi accingevo allora a prendere parte alla campagna archeologica congiunta Italo-nepalese condotta - da parte italiana dall’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente

(Roma) in cooperazione con l’Istituto Universitario Orientale (Napoli) e da parte nepalese dal Ministero dell’Istruzione e della Cultura del Governo Reale del Nepal - sul sito di Harigaon, un sobborgo di Kathmandu a nord della città vecchia e a ridosso del tempio di Satya Narayana. Come premesso dalle parole di Tucci, le arti e le architetture tradizionali nepalesi sono totalmente dominate dalla filosofia e dalla religione indù e buddhista o, in altri termini, possono essere osservate come una fusione di entrambe le correnti religiose che si riflettono nei vari tipi di immagini pittoriche, nella statuaria delle divinità, nei templi, nei monasteri, nelle antiche piazze e in tanti altri monumenti. Ne sono testimonianza soprattutto le piazze della Valle di Kathmandu, le vicine antiche città di Patan e Bhaktapur, note per le loro meravigliose testimonianze di arti e architetture tradizionali, luoghi di pellegrinaggio tra i quali la residenza a Kathmandu di Kumari Devi (“dea bambina”) (fig. 1) e di Lumbini, nel territorio del Terai nepalese dove, secondo la tradizione vide i natali, intorno al VI sec. a.C., Siddhartha Gautama, il futuro Buddha. Quanto al loro punto di vista artistico le architetture tradizionali nepalesi le possiamo riassumere nei tre seguenti modelli: 1) Pagoda; 2) Stupa; 3) Shikara. Il modello a pagoda (fig. 2) è costituito da diversi strati di piani sovrapposti, ognuno culminante su ciascun lato in una guglia triangolare con puntoni in legno intagliato e finestre. Di questo modello, i più popolari si possono osservare un po’ ovunque come nella zona Basantapur Durbar Square di Kathmandu, a Kashtamandap, a Changu Narayana, ecc. Il modello architettonico a Shikhara, che è comune nell’India del Nord, è costituito da una struttura turrita curvilinea posta al di sopra del tempio/santuario e formata da spirali decrescenti verso l’alto. In Nepal questo tipo di costruzione fantasia può essere visto in zona nel famoso tempio di Krishna a Patan Durbar Square, e in alcuni tem’ pli nell’area del complesso di Pasupatinath nella valle di Kathmandu. Del modello a forma di stupa, anche noto in Nepal sotto il nome di chorten “cupola” il più tipico tra i monumenti buddhisti, di forma semisferica su base circolare e decorato in cima con immagini di diverse sette del buddismo, si segnalano tra i siti più popolari del Nepal gli stupa di Bodhinath e di Svayambhunath (fig. 3). Ma, dal lontano 1985, veniamo ora ai tempi più vicini a noi. 25 aprile 2015, sono ancora davanti agli occhi di tutti noi le terribili immagini del forte terremoto di magnitudo 7.9 che ha colpito il Nepal con forza devastante a circa 80 km da Kathmandu provocando

la morte di circa 9.000 persone e causando danni e distruzioni irreparabili a numerosissime opere del suo patrimonio culturale, sbriciolando soprattutto le Durbar Squares (“corti nobili”) di Bhaktapur, Kathmandu e Lalitpur di cui abbiamo accennato in precedenza. Solo di recente (15 giugno 2015), stanti alle notizie provenienti da autorevoli fonti di stampa, il Nepal ha riaperto tutti i 7 siti dichiarati Patrimonio dell’Umanità, nonostante il parere contrario delle Nazioni Unite e dello stesso UNESCO sulla sicurezza dei visitatori. Ciò, naturalmente, da parte del governo, in considerazione soprattutto del fatto che nel 2014 il budget del turismo è cresciuto dell’8,6 per un totale di ca. 150 bilioni di rupie nepalesi. Tra i siti riaperti e sui quali l’UNESCO, oltre alle predette aree di Bhaktapur, Kathmandu e Lalitpur Durbar Squares, ha espresso le sue forti perplessità figurano anche le aree di Svayambhunath e di Changu Narayana non solo per le precarie condizioni del loro stato ma anche per il rischio di sottrazione dolosa dei loro oggetti artistici e culturali. Una delle poche note positive è che la “dea bambina” e la sua dimora sono sopravvissute a questo cataclisma. Nelle foto da sinistra: Veduta parziale della residenza della Kumari (“dea bambina”) di Kathmandu (foto G. De Marco); Veduta di un tempio in Kathmandu Durbar Square (foto G. De Marco); Stūpa di Svayambhūnāth (foto da “Wikimedia, 2014” di Baldersod)

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libri & notes

metropolis Nel tango, ci si conosce attraverso lʼabbraccio (M. A.Zotto)

La tradizione pesa sullo spirito come l'aria sulle ali dell'aereo (N. Gómez Dávila).

Sguardo inedito sull’Algeria

Mi Buenos Aires Querido

er conoscere un Paese, non si può ignorare la voce delle sue donne. Una regola che trova P ulteriore conferma in un libro di grande attualità

e interesse, L’Algeria delle donne, di Gloria Marina Bellelli, con prefazione di Anna Maria Cossiga, edito da Eurilink. L’Autrice, diplomatica di carriera, già capo ufficio commerciale dell’Ambasciata d’Italia ad Algeri, console presso l’Ambasciata d’Italia in Israele ed oggi Capo Ufficio della DG per la Promozione del Sistema Paese del Ministero degli Affari Esteri, ha inteso dare un proprio contributo di approfondimento per scoprire il volto dell’Algeria raccontato dalle ‘sue’ donne. Ventisette donne, ognuna con un proprio cono di osserva-

Racconto di un viaggio sospeso tra l’attesa e la memoria di una lettura di Borges

zione professionale (ci sono la giornalista, il medico, l’atleta, la pilota di elicotteri, la politica, la testimone dell’apporto delle algerine nella guerra d’indipendenza dalla Francia coloniale, l’avvocatessa, la docente universitaria) hanno testimoniato la loro vita di cittadine impegnate nella vita quotidiana e nella continua riaffermazione dei propri diritti. Emblematico il fil rouge scelto da Gloria Marina Bellelli per dare un ritratto attuale dell’emancipazione femminile vissuta individualmente dalle sue testimoni: la domanda se avessero mai pensato di adottare l’hijeb, il velo, usanza che sta progredendo dai Paesi medio-orientali fino all’Africa e, simbolicamente, evoca una riduzione

Storia. La finestra della libertà l volume di Giuseppina Di Stasi e Renato Mazzei, La finestra della Ilibertà: frontiera per un’altra Europa.

di

ROBERTA BIGNARDI

L’

atterraggio è previsto per le 8,30 del mattino. Guardo di nuovo sul monitor della Lufthansa per capire dove esattamente ci troviamo (un gesto, quasi ansiogeno, che mi ha accompagnato durante l’intero viaggio di 13 ore), mentre l’aereo si risveglia dalla “rapida” nottata e i miei compagni di viaggio ritornano a sorridermi. Siamo al sud del Brasile. Ormai ci siamo! Fra pochissimo metteremo piede in territorio argentino, nella Capital Federal, in quella città che mi affascina terribilmente e che non vedo l’ora di incontrare di persona. Un’emozione quasi infantile è stampata sul mio viso mentre inizio a intravederla dall’alto e poi, mano a mano, sempre più da vicino. Eccola, sono arrivata: “buenos dias Buenos Aires!”. L’aria corposa e calda mi avvolge appena metto piede fuori e subito mi sorprende una strana sensazione di responsabilità unita a quelle aspettative costruite negli anni attraverso lo studio del tango, le parole di Borges, il mito di Maradona. Adesso sarebbe diventata la mia Buenos Aires e non sapevo se avrebbe rispecchiato il modello nutrito fino a quell’istante. Il cielo azzurro autunnale e l’odore di carne alla brace (l’odore del Sud America) mi danno il benvenuto insieme agli abbracci dei familiari italo-argentini che mi ospitano in questo viaggio. A Buenos Aires (in maniera maggiore rispetto alle altre città dell’America Latina) il 90 % della gente che incontri ha un parente, quasi sempre un nonno o bisnonno, italiano. Lo sapevo già prima di arrivare perché fa parte della storia, ma sentirlo attraverso il racconto dei ricordi e vederlo negli occhi delle persone con cui capitava di parlare, era tutta un’altra storia ed io rimanevo ipnotizzata da quei racconti lontani. Gli argentini, come gli italiani, sono espansivi, affabili, amano raccontarsi, pieni di una invadenza benigna ed io mi sentivo responsabile della mia italianità che riaccendeva le luci su episodi del passato. L’emigrazione italiana, quella iniziata subito dopo l’Unità d’Italia e poi quelle successive dopo la prima e la seconda Guerra Mondiale, rappresenta un tassello fondamentale per comprendere Buenos Aires. Gli italiani, soprattutto quelli partiti da un Sud Italia defraudato, impoverito e ingannato da finte promesse, hanno ritrovato nella terra argentina un vero e proprio motivo di rinascita. Uomini e donne che hanno lavorato sodo per riappropriarsi della dignità perduta in Patria, per costruirsi una seconda vita, restituendo alla città - attraverso la loro attività edile e commerciale - il debito di quella felicità che avevano contratto. La generosa Buenos Aires accoglieva tutti e dava spazio ad ogni idea imprenditoriale: in quel profondo Sud, dove al posto dell’estate c’è l’inverno e viceversa, migliaia di italiani hanno lottato per costruire la propria felicità non senza sacrifici e rimpianti, lontani da un altro Sud, quello della loro amata patria. Nei racconti di chi da bambino ha solcato in nave l’oceano, non c’è solo la voglia di renderti partecipe della sua storia: l’immagine di quel viaggio della speranza gli consente di andare indietro nel tempo, sentire il profumo dei limoni e il rumore delle onde del Mediterraneo, sorridere e sospirare. Buenos Aires è tanto immensa quanto affascinante. Solo la Capital Federal conta 3 milioni di persone. Grande in quanto eclettica nelle sue zone. Si passa da barrios aristocratici come Palermo Soho o la Recoleta ad altri, lontani dal micro centro (la zona per intenderci intorno a Plaza de Mayo), dove i negozi hanno le inferriate alle porte e si respira l’aria sudamericana. La stazione degli autobus del Retiro, la più grande di Buenos Aires, confina con la Villa 31, la più grande baraccopoli della città, dove vivono decine di migliaia di persone. Non si sa neppure quante siano: i dati sulla popolazione oscillano fra 27.000 e 40.000. Le case malandate con-

trastano in modo stridente con i grattacieli di Puerto Madero che scintillano a poca distanza. È una situazione comune nelle città argentine: accanto alle zone residenziali più eleganti sorgono isolati poverissimi. Succede a San Isidro, a Florida, a Villa Lugano. Si cammina davanti a case con piscina sorvegliate da guardie armate. Poi si attraversa una avenida e si entra nel terzo mondo. Il barrio Palermo è bellissimo, soprattutto di sera, quando si accendono i suoi localini, bar aperti fino a tardi, dove sorseggiare una fresca Quilmes (la birra argentina) e mangiare una empanada, Ancora più nel microcentro, nel barrio Recoleta così come Avenida 9 de Julio, la città inizia ad assumere sembianze in parte catalane, in parte francesi e italiane. Ma non ha l’entusiasmo di Barcellona, l’eleganza sofisticata di Parigi, la classicità di Roma. Buenos Aires è come una bella donna che non vuole apparire, sa di poter piacere ma lascia che gli altri scoprano i lati affascinanti del suo carattere e della sua bellezza. Rimane ferma nella sua semplicità, poetica come la immaginavo, e al tempo stesso fiera e ostinata con i suoi aristocratici palazzi che si affacciano sull’immensa avenida centrale, il maestoso obelisco, l’immagine di Evita Peron e quel respiro verso il cielo azzurro. E poi Plaza de Mayo con la sua Casa Rosada: impossibile non rimanere colpiti dagli striscioni che riempiono la piazza al grido di giustizia. Sono le donne delle Associazioni Madres de Plaza de Mayo e Las Abuelas che ancora oggi, ogni giovedì, si incontrano in quel luogo per far sentire la propria voce, per avere indietro la verità sulla fine dei loro figli e nipoti desaparesidos. La “Guerra Sucia” (guerra sporca) fu un programma di repressione violenta attuato in Argentina, sotto la dittatura Videla, con lo scopo di distruggere la cosiddetta "sovversione", rappresentata dai gruppo guerriglieri marxisti o peronisti attivi in Argentina dal 1970, ed eliminare in generale qualunque forma di protesta e di dissidenza nel paese presente nell'ambiente culturale, politico, sociale, sindacale e universitario. Una guerra silenziosa, che ha distrutto la città dal suo interno; quando la dittatura è finita gli argentini non sapevano nemmeno bene cosa fosse finito: tutto era avvolto nel silenzio. Un capitolo della storia dell’Argentina terribile dove tantissimi sono stati quei genitori che hanno visto rapire i propri figli nel cuore della notte solo perché colpevoli di essere andati contro il potere o, più semplicemente, per essere stati trovati in qualche semplice registro. In quella piazza ho immaginato i migliaia di ragazzi, detenuti nei carceri dell’Esma, torturati e uccisi. Donne che hanno dovuto partorire i loro figli al buio delle celle, bendate e maltrattate mentre gli venivano strappati i loro bambini, affidati poi alle famiglie dei generali. Ho immaginato il loro volo nell’oceano nel quale i desaparecidos, così come ha documentato, nel libro “Il Volo”, il giornalista Horacio Verbitsky nel 1995 a colloquio con Adolfo Scilingo, capitano di corvetta (ex membro dell'apparato repressivo che ha detenuto il potere in Argentina dal 1976 al 1983), narcotizzati venivano lanciati e fatti sparire. Più di 30.000 sono stati i ragazzi uccisi ingiustamente da questa guerra sporca, una ferita che rimane aperta, come lo dimostrano gli appelli televisivi che invitano ad indagare la propria identità in caso di dubbio: oggi sono circa 50 i nietos recuperati dalle associazioni. Altrettanto affascinante è la zona di Puerto Madero con il suo lungomare sul Rio de la Plata, i suoi edifici rossi rinnovati (li dove si macellava e distribuiva la carne e dove gli italiani lavoravano durante la prima emigrazione), il ponte di Calatrava (simile al Samuel Beckett Bridge dublinese), i localini all’aria aperta, e i ragazzi che tomano il mate (tipica bevanda argentina). Ma ciò che ho amato di più di Buenos Aires è stato il tango: ballarlo in quello spazio magico, lì dove è nato, dove

Storia degli internati ebrei di Campagna, edito da EdUP, tratta degli avvenimenti del settembre 1943 a Campagna, piccolo paese della provincia di Salerno, quando le truppe tedesche cercano di rastrellare e deportare gli ebrei che in gran numero affollano il campo di internamento locale non trovandovi però nessuno. Il libro è incentrato sul percorso umano dei protagonisti di una vicenda unica che diventa il canovaccio, il simbolo, per raccontare la storia di un’Europa allora ancora lontana, tuttavia già presente nei desideri e nell’operato di persone umili ma grandi, vissute ponendo al centro della propria esistenza non già il rispetto di leggi crudeli, ma l’attenzione alla dignità degli esseri umani. Nel primo capitolo, nel quale viene introdotto il contesto storico italiano, caratterizzato dall’emanazione delle leggi razziali e dai conseguenti provvedimenti antiebraici, ci si sofferma in modo particolarmente documentato sull’istituzione dei campi di internamento. Nel secondo capitolo, più marcatamente documentario, vengono riportate le intense pagine del diario di Eugenio Lipschitz che racconta, in modo particolareggiato, la vita e le abitudini nel campo di Campagna. Oggetto del terzo ed ultimo capitolo sono invece le vicende eroiche di due scrupolosi e valenti medici ebrei: Chaim Pajes e Maks Tanzer i quali, con il proprio operato ed organizzando in tutta fretta una improvvisata sala operatoria, curano e salvano molti abitanti del piccolo paesino rimasti feriti dopo i drammatici bombardamenti.

Bruno De Marco

Annamaria Barbato Ricci

La lunga storia dell’‘Orientale’

S

i deve a Francesco De Sio Lazzari una preziosa e godibile ricostruzione della storia di uno dei più prestigiosi atenei italiani, l’‘Orientale’ di Napoli. Oriental Tales. Introduzione alla storia dell’Orientale, edito quest’anno da Orientexpress, ripercorre le complesse fasi della storia di questa istituzione fondata da Matteo Ripa nel 1732 come ‘Collegio dei Cinesi e degli Indiani’ con la finalità di «far conoscere il Vangelo ai cinesi tramite… la mediazione dei cinesi stessi» (p. 16). Oggi in questa università si formano laureati aperti al contatto con diversi universi culturali e linguistici. Come scrive De Sio Lazzari, che all’‘Orientale’ ha insegnato per anni Storia delle religioni, «educare al confronto interculturale significa innanzitutto far crescere la capacità di decentrarsi dal proprio punto di vista, imparando a non considerare il proprio modo di pensare l’unico possibile o l’unico legittimo ma uno fra molti» (p. 12).

Romanzo. Storia di un declino

Poesia. Un nuovo Caproni?

’ S A avverte l’incapacità di recitare. È uno dei più apS prezzati attori teatrali della sua generazione.

F G L D’E (Einaudi, Torino) si propone come una novità feconda di tradizione. Nella ca-

b.d.m.

Angelo Maria Vitale

UPERATI I SESSANT ANNI

IMON

XLER

Tuttavia ora ha perso il suo talento, il suo fascino, la sua sicurezza. La sua vita privata è distrutta. La moglie, come il suo pubblico, lo ha abbandonato. Nell’atroce resoconto di questo rapido e inarrestabile correre verso la sconfitta emerge un insolito desiderio erotico che, offrendo apparente conforto e gratificazione, sembra al contempo preparare un finale ancora più cupo e rovinoso. Philip Roth ne L’umiliazione (Einaudi, Torino) è ineguagliabile nel tratteggiare la nuda realtà di un declino. Un declino forse non soltanto individuale, ma rappresentativo dell’anima malata di un Occidente al crepuscolo.

A RACCOLTA DI VERSI IORI DEL MARE DI LIA

Documenti per la storia della danza

La pittura di Francis Bacon e l’insieme delle sue fonti ispiratrici

Léonide Massine:danzando sul filo teso tra ‘classico’e modernità

na scrittura piacevole, un’attenta ricostruzione che attraversa gli interessi letterari delU l’artista inglese ma, soprattutto la capacità di far

resco di stampa il nuovo libro di Roberta Bignardi dal titolo Il funambolo in scena. Léonide F Massine tra avanguardie e periodo “sinfonico” (Li-

Alice Ioffrida

IANNI

denza umile, nel ritmo intimo e meditativo, in quell’entrare, lieve e grave ad un tempo, nel nucleo pulsante della vita, i versi di D’Elia sembrano infatti riproporre il ‘controcanto’ di Giorgio Caproni: «E sull’asfalto hai il sole, / ed una miccia d’erba / gialla nelle fessure / sulla banchina, e il via vai…». In questo modo egli si inserisce con originalità nella tradizione della poesia italiana del secondo Novecento, disegnando paesaggi che hanno la tonalità sbiadita e malinconica della pittura dell’ultimo Carrà: «E sulle teste scoperte / un po’ di noia, il calore / che sfinisce settembre, / e le farfalle meste…».

Marco Tonelli, arte e letteratura

emergere la forza emotiva di uno dei grandi interpreti della pittura del XX secolo. È quanto si può sull’immediato riassumere dell’ultimo libro di Marco Tonelli, Fracis Bacon. Le “Atmosfere” letterarie (De Luca Editori d’Arte, Roma 2014, pp. 184 con ill. b/n nel testo): un volume che ci introduce nel complesso mondo di Bacon attraverso il filo delle sue “fonti” d’ispirazione. L’autore, tra i più attenti giovani storici e critici d’arte, si addentra in un “luogo” immaginifico ove Bacon sovrapponeva più livelli d’immagine e di contenuti, sui quali poi operare uno scavo, toccando, avverte Tonelli «i nervi più intimi di questa storia, finalmente deflagrata sul nostro presente». Il libro, dunque, vuole proporsi, è ancora l’autore ad indirizzarci, quali analisi e riscontro di quel repertorio «ideale di fonti baconiane, pur sapendo che può trattarsi di un repertorio nel senso tradizionale del termine, cioè di una ricerca sulle opere intese come illustrazioni di testi che ne sono il programma». Ad agevolare l’incontro con questo lato in ombra dell’artista inglese, c’è la capacità della scrittura di Tonelli di disporsi al lettore, rinunziando all’ermeticità propria della critica dei nostri giorni, attualizzando un dettato narrativo capace di guidarci negli spazi odoranti di “pittura” dell’atelier di Bacon. Dagli scaffali della biblioteca dell’artista, Tonelli a tirato fuori l’amore per Beckett, per Eliot, per Sartre, ma anche Shakespere, Baudelaire ma anche classici come Eschilo.

a cantarlo c’è stato Gardel e a suonarlo il grande Pugliese, provoca una diversa emozione. Le sue milonghe (luoghi in cui si balla il tango) sono uniche e l’atmosfera che le avvolge ricca di brio. Credo che nel tango la cosa più interessante sia quella comunicazione che si crea tra due sconosciuti e che dura il tempo di una tanda (ovvero tre /quattro canzoni per un totale di 10 min). Alla prima canzone si è sempre più rigidi: è un momento in cui si sta studiando l’altro per vedere cosa sa o può fare, ma soprattutto “chi è”; poi vi è il discorso dell’abbraccio e di entrare in comunicazione con il partner. Nell’ultima canzone, ormai, si è quasi amici dello “sconosciuto/a” perché si è dialogato abbastanza per permettere una sicurezza nei movimenti, un’interpretazione musicale e, quando si è fortunati, un armonia dei corpi. Visitare Buenos Aires è come ballare un tango: mano a mano che la si vive e la si scopre subito si crea un collegamento intimo e sembra di conoscerla da sempre. La città come l’Argentina è da vivere per nell’istante della tanda, tra le note melanconiche del bandoneòn, i fumi dell’asado per strada, le vibrazioni nella musica della chacarera nella feria de mataderos, gli sguardi misteriosi nelle sue milonghe; assaporare il suo carattere di città del Sud, e poi saperla lasciare lì mentre addosso rimane il suo profumo.

delle libertà femminili. Le risposte sono state unanimemente tutte contrarie al velo, considerato dalle donne intervistate come una sconfitta ed una negazione di sé. L’abilità dell’intervistatrice sta nell’unire capacità di introspezione psicologica, conoscenza della società algerina e una certa maieutica, per dare un ritratto a tutto campo delle componente femminile della società algerina. Un libro-testimonianza utile – ancor più ora che le primavere arabe stanno subendo la gelata dell’integralismo avanzante – a capire se le donne sapranno costituire il fattore di libertà e di indipendenza per contrastare l’attacco al futuro dei paesi presi di mira.

guori Editore, Napoli 2015, pp. 142 con ill. b/n nel testo e prefazione di Lorca Massine). C’era da aspettarselo che dopo l’attenzione rivolta al coreografo russo nel suo precedente lavoro dedicato al celebre film di Giannini, Carosello napoletano (Liguori Editore, Napoli 2008), la giovane storica e critica di danza orientasse i suoi studi sulla complessa personalità di uno dei grandi interpreti della danza moderna. Il volume si offre come un’attenta analisi del lavoro di Massine, collocandolo nel contesto storico-culturale del secolo “breve”. Per l’artista, osserva l’autore, la danza non può essere chiusa in una codificazione specifica, perché essa è interprete di un’unità di stile: il movimento è in continuo fieri, specchio dello stato d’animo ed espressione dell’uomo moderno. «Il libro di Roberta Bignardi, scrive Lorca Massine nella prefazione, mi fa ritornare alla mia gioventù e suscita in me quella sensazione, più volte provata, di essere figlio di un gigante». Léonide Massine, infatti, assorbe dalle avanguardie le novità dell’arte traducendole, come corpo immaginifico non privo di una grande espressione, nel “balletto-danza”. Una riflessione che attraversa l’intero lungo saggio e che trae il suo avvio da testi quali My Life in Ballet che il coreografo russo dà alle stampe nel 1968 e Massine on Choreography: Theory and Exercises in Composition del 1977, per poi riprendere le considerazioni avanzate da Vincente Garcia Marquez nel suo ben noto Massine a biography, del 1995.

Maria Bruno

Periodico di cultura arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative

Il numero 11 lo trovi: AMALFI (SA) C&G. corso delle Repubbliche Marinare, 13 BARI Librerie Feltrinelli, via Melo, 49 BARONISSI (SA) Museo-Frac Fondo Regionale d’Arte Contemporanea BENEVENTO Libreria Masone Alisei, viale dei Rettori 73F BOLOGNA Bookshop MAMBo, via Don Giovanni Minzoni, 14 BRINDISI Museo Map, via Tarantini, 37 CALTAGIRONE (CT) Libreria Dovilio, piazza Bellini, 12 CAMPOBASSO La Nuova Libreria, via Vittorio Veneto, 7 Palladino Company, via Colle delle Api, 170 CATANIA Cavallotto Librerie, viale Ionio, 32 CATANZARO Bookshop Museo MARCA, via Alessandro Turco, 63 CAVA DE’ TIRRENI (SA) MARTE Mediateca Arte Eventi, corso Umberto I, 137 Biblioteca Comunale, viale Marconi CITTÀ DI CASTELLO Novamusica, viale Abetone, 22 COMO Libreria Ubik, piazza San Fedele, 32 CORTINA D’AMPEZZO (BL) Museo Rimoldi, Ciasa De Ra Regoles, corso Italia, 69 COSENZA Caffe Letterario Città di Cosenza, piazza Matteotti ELLEBI Galleria d’arte, via Riccardo Misasi, 99 FERRARA Università degli Studi Ferrara Dipartimento di Studi Umanistici, via Paradiso Ibs.it Bookshop, piazza Trieste e Trento, 41 Librerie Feltrinelli, Corso Garibaldi, 30 FIRENZE Kunsthisrorisches Institut in Florenz, via Giuseppe Giusti, 44 FISCIANO (SA) Presso la sede di Unis@und Webradio Università degli Studi di Salerno FOGGIA Libreria Dell’Atenea, via Giuseppe Rosati, 1 GENOVA Libreria Feltrinelli, via C. Roccatagliata Ceccardi, 16 GROSSETO Centro documentazione arti visive, via Mazzini, 99 LAMEZIA TERME (CZ) Associazione culturale “Sukiya”, via Ticino,11 LECCE Libreria Adriatica, piazza V. Aymone, 7 Libreria Mondadori, piazza Sant’Oronzo LUCCA Fondazione Centro Studi Ragghianti, via San Micheletto, 3 MATERA Galleria Opera Arti e Arte, piazza Duomo, 16 MILANO Università degli Studi- Bibli. Storia dell’arte, via Noto, 6 Biblioteca Accademia di Belle Arti di Brera, Palazzo di Brera Libreria Hoepli, via Ulrico Hoepli, 5 MINORI Hotel Villa Romana, Corso V. Emanuele, 90 Fes Ceramiche, via Roma, 32 MODENA Bookshop Galleria Civica Palazzo Santa Margherita, corso Canalgrande, 103 Biblioteca Civica “L. Poletti”, viale Vittorio Veneto, 5 NAPOLI Accademia di Belle Arti, Via Costantinopoli, 107/a Bookshop Museo Archeologico Nazionale, piazza Museo, 9 Libreria Feltrinelli, piazza dei Martiri Bar Novecento, piazza Bellini PALERMO Libreria del Kursaal Kalhesa, Foro Umberto I, 21 PARMA Librerie la Feltrinelli, via della Repubblica, 2 PERUGIA Libreria Betti, via Sette, 1 PESARO Fondazione Pescheria Centro Arti Visive, via Cavour, 5 PESCARA Libreria Primo Moroni, via Quarto dei Mille, 29 PISTOIA Lo Spazio di via dell’Ospizio, via dell’Ospizio, 26-28 POTENZA Cocco libreria, Palazzo Rizzo, 33 Ermes libreria, via Firenze ROMA Libreria Altroquando, via del Governo vecchio Biblioteca Rispoli, piazza Grazioli, 4 Bookshop Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale Aromaticus, via Urbana, 134 SALERNO Libreria Brunolibri, via Torrione, 125 Librerie Feltrinelli, corso Vittorio Emanuele I, 230 Libreria Internazionale, piazza XXIV Maggio, 12 Libreria Mondadori, corso Vittorio Emanuele, 56 Galleria Il Catalogo, via A. M. De Luca Galleria Paola Verrengia, via Fieravecchia, 34 Galleria Tiziana Di Caro, via Botteghelle, 55 Pierino, Edicola al Corso, corso Vittorio Emanuele SAN SEVERO (FG) Libreria Orsa Minore, via Soccorso, 123 SARONNO (VA) Galleria Il Chiostro, viale Santuario, 11 SASSARI Libreria Internazionale Koinè, via Roma, 137 SIENA Università degli Studi Siena Dipartimento Scienze Storiche e Beni Culturali, Palazzo di San Galgano Punto Einaudi, via Pantaneto, 66 Mondadori, via Montanini,112 TORINO Librerie Feltrinelli, piazza Castello, 19 TRENTO Libreria Il Papiro, via Galileo Galilei, 5 TRIESTE Biblioteca Comunale, piazza Hortis Libreria Einaudi, via del Coroneo, 1 ULASSAI-OGLIASTRA Fondazione Stazione dell’Arte Museo Arte Contemporanea, Ex Stazione Ferroviaria URBINO Biblioteca Accademia di Belle Arti, via dei Maceri, 2 VENEZIA Bookshop, Museo Peggy Guggenheim, Palazzo Venier dei Leoni Dorsoduro, 701 VICENZA Valmore studio d’arte Contrà, Porta S. Croce, 14

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EINDHOVEN Fictional Collective, Gallery Kazerne, Paradijslaan 2-8 HEIDELBERG Universität Heidelberg, Institut für Europäische Kunstgeschichte, Ruprecht-Karls (Bibliothek) PARIS Galerie Pièce Unique, Saint-Germain-Des-Prés, 6ème 4 rue Jacques Callot

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11 - luglio-settembre 2015

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