Geaart n 12 novembre dicembre 2015

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anno IV numero 12 novembre-dicembre 2015 direttore Massimo Bignardi distribuzione gratuita

Periodico di cultura, arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative

La Capria: letteratura e vita unico intreccio d’amore na finestra e due balconi danno vista ed accesso ad un ampio terrazzo con piante e fiori che contemU plano tetti, cupole, monumenti della Roma eterna. Raffaele La Capria ci accoglie con un affabile sorriso, come se fossimo vecchi amici, segno di innata cordialità e congenito spirito di accoglienza tipici di quella colta borghesia napoletana che ha fatto della sua città, nella storia, il crogiuolo e la capitale intellettuale delle culture mediterranee.

ISSN 2420-7934

a pagina 5 u intervista di Attilio Bonadies

Democrazia! Democrazia? DEMOCRAZIA.

CONTROCOPERTINA

Giulio De Mitri Il mito di Sisofo, 2015 Tecnica mista su carta

CARTE SUL TAVOLO

ARTE CONTEMPORANEA

METROPOLIS

Sulla democrazia in rapporto all’arte

Democrazia e libertà in Giacometti

Dublino la città di Joyce tra modernità e tradizione

Oggi si tende a parlare, in merito a riflessioni sulla politica, di forme spettacolari delle manifestazioni del potere (a qualsiasi livello istituzionale esse si diano), fino a scadere nel cosiddetto “teatrino” della politica.

Il concetto di libertà concesso all’umana esistenza implica il concetto di spazio che nelle opere di Alberto Giacometti si afferma come un luogo del dialogo con l’animo degli uomini.

Dublino conserva ancora il suo carattere di città rurale a misura d’uomo: la si può percorrere in bicicletta e vivere la sua atmosfera amichevole, dove è facile – anche se vivi da poco più di un mese – incontrare per strada qualcuno che si conosce.

a pagina 3 u Mario Persico

a pagina 14 u Virginia Marano

a pagina 17 u Antonio Libonati

La democrazia non è solo il diritto di voto, è il diritto di vivere con dignità (Naomi Klein)


carte sul tavolo

carte sul tavolo

La democrazia non è solo il diritto di voto, è il diritto di vivere con dignità (Naomi Klein)

La democrazia è il governo del popolo, dal popolo, per il popolo (A. Lincoln)

Pensare la democrazia significa probabilmente occuparsi di tutt’altro

Andiamoci piano perché la democrazia è creatura fragile

I destini di tutto ciò che è quotato influenzano direttamente la sorte di aziende multinazionali e persino di Stati sovrani di

FRANCO MATTEO

D

ove alberga il potere, o meglio i poteri, come si possono limitare quelli forti e come si può garantire una società libera e plurale. Senza tanti preamboli, il ruolo della politica e il destino della democrazia è tutto qui. Basta seguire per qualche minuto i mercati finanziari nei contesti in cui si inneschino manovre speculative per capire quali siano i poteri che contano. In tempi brevissimi un indice può precipitare o gonfiarsied è chiaro che questo può succedere perché masse gigantesche di denaro si spostano in quanto qualcuno ha deciso di spostarle, non certo i piccoli risparmiatori. Naturalmente i destini di tutto ciò che è quotato influenzano direttamente la sorte di aziende, multinazionali e persino di Stati sovrani. O, per meglio dire, nominalmente sovrani. Questa è finanza ma è anche politica. Questo è potere, un potere che pesa e che si sostituisce alle tradizionali strutture che avevano, per definizione stessa, il monopolio del potere politico: partiti, leadership, movimenti e tutto ciò che nel secolo passato ha costruito lo “splendore” della democrazia politica. Oggi naturalmente lo scenario è molto diverso. Se, per democrazia vogliamo intendere l’equilibrio di poteri e di interessi più adatto a garantire la pluralità di espressioni, i diritti dei cittadini, la loro libertà e al tempo stesso un sistema di norme che regolino i confini delle libertà dei singoli individui e dei poteri, c’è da capire quali siano i poteri stessi in gioco e soprattutto quali siano quelli più pesanti e come si è in grado di controbilanciarli. La materia della discussione è tutta qui e non nella retorica, in verità un po’ penosa, sul ruolo dei partiti, le riforme ed altri ricorrenti argomenti da tribuna televisiva. Non che siano temi poco importanti, ma inadeguata ed elusiva e la modalità in cui vengono presentati. In genere sono argomenti molto cari ai talk show, non fosse altro che per la facilità con cui si possono imbastire teleconfronti, vale a dire teatrini in cui si ripete noiosamente la messa in scena delle due fazioni che si scontrano con l’inserimento di dosi a piacere di vocianti platee esterne di cittadini indignati. Pensare la democrazia significa probabilmente occuparsi di tutt’altro. Di studiare e promuovere i luoghi e gli strumenti di compensazione dei poteri che oggi dominano il mondo. Rilanciare il tema

delle libertà di cui oggi si parla troppo poco, anche da parte di chi si batte per difendere i diritti. Dimenticando che le libertà sono il motore della democrazia e che la società del controllo rischia di ucciderle in nome della libertà suprema, quella del potere assoluto. Che però si suicida, nel momento stesso in cui mette in atto un piano che è, per sua natura e funzione, negazione di tutto ciò che eccede il perimetro del controllo, vale a dire la libertà vera, quella sospinta dall’eros e dalle passioni umane e puntata a costruire diversità, resistenze, atti di volontà creativa. Tutte cose che, a fronte delle “necessità” dell’economia e dei messaggi della comunicazione/propaganda politica, sembrano persino superflue. Ma non vi è cosa più necessaria del superfluo e non vi è alimento più efficace per la democrazia della libertà. Niente è invece più superfluo di quanto la società del controllo ci indica come necessario, quasi ineluttabile. E qui entriamo in un discorso che è di estrema attualità. La tentazione imperante è infatti incamminarsi verso un modello di democrazia “deliberativa” giustificata dalla ragionevole ideologia di un giusto fine, di uno scopo necessario e dunque razionalmente condivisibile. Nata dalla crisi della democrazia rappresentativa, questa concezione parte da un coinvolgimento diretto dei cittadini nei processi decisionali, fatto che garantirebbe di per sé la “correttezza” del risultato. Pur con le sue motivazioni tutt’altro che banali, è un modello piuttosto rischioso in un’epoca in cui lo squilibrio tra poteri è piuttosto evidente e il fine comune diventa sempre di più una dimensione ideologica, utopica, da qualunque parte lo si consideri: da destra o da sinistra. A questa idea si è contrapposto un recupero del pensiero nietzschiano da parte di politologi soprattutto di scuola inglese, per cui è invece auspicabile un modello “agonico” di democrazia in cui la lotta tra i poteri, la capacità di limitarsi a vicenda ma anche di portare la propria ricchezza in termini di trasformazione dello stato delle cose, siano la base di una democrazia pluralistica, fatta di una molteplicità di voci e di orientamenti che trovino una loro sintesi o, più concretamente, un compromesso nel governo politico delle società. In questa concezione attiva e vitalistica del potere risiede il riferimento all’ “agon” nietzschiano dove i contrasti tra poteri diventano spinta alla trasformazione. Diversamente dall’idea schmittiana di un potere che tende a con-

Interrogarsi sulla democrazia evitando la tentazione di sottoporre la questione a referendum. La parola al popolom è lo slogan “tipico” degli aspiranti dittatori

di

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servarsi difendendosi dalle minacce e dalle “aggressioni”. Cosa che, strano a dirsi, è spesso presente nella impostazione di una certa sinistra oppositiva e resistenzialista. Eppure il difensivismo, la conservazione di uno stato di cose non dovrebbe essere il terreno di azione di forze politiche di cambiamento. La trappola risiede nel giudizio morale: nel liquidare come ingiusto il cambiamento così come ci viene proposto dai cosiddetti poteri forti pensando che questo basti o che almeno serva a salvarsi la coscienza. Una posizione questa destinata alla sicura sconfitta, considerato anche che la morale ha poco a che vedere con la politica. Se infatti prevale il modello di democrazia deliberativa, saranno i poteri in campo a stabilire quale sia il più “ragionevole” bene comune da raggiungere in base a una presunta qualità degli argomenti. Il modello invece di democrazia fondata sull’agonismo meglio funzionerà quante più forze attive, di cambiamento, saranno in campo. Caso mai il punto è fare in modo che siano il più possibile equivalenti. Non tanto nel senso della tutela dei più deboli, che finirebbe per restare una pia intenzione in un mondo di poteri squilibrati, quanto nella capacità di munirsi di strumenti che diano a tutti la possibilità di acquisire potere, comprese le minoranze e i singoli individui. E’ su questo terreno che si misurerà il peso della politica e il futuro della democrazia. Molto del quale dipende ad esempio dalla capacità di costruire poteri orizzontali, condivisivi, cooperativi in tutti gli ambiti della vita sociale, compresa la rete di internet, in conflitto agonistico con i poteri piramidali, le strutture di controllo. E quando si dice condivisione bisogna fare bene attenzione a intendere come tale l’estensione di un valore d’uso e non la semplice messa in comune di uno strumento di identifica-

zione che, viceversa, serve solo a una rete di controllo. E dunque, in una fase di deficit totale di immaginario politico, di sussunzione di ogni proiezione futura in un eterno presente per di più popolato di ossessioni e paranoie che riportano ogni spinta al cambiamento nei binari di lettura di un libro già scritto, di uno spartito costruito intorno ad “armonie” noiose e prevedibili, non c’è altra possibilità che reiventare codici, parametri, schemi di lettura. O semplicemente capire che l’uomo è vicino o è già dentro una mutazione antropologica di enormi proporzioni. Cosa ci blocca di più se non la lettura del mondo secondo categorie uguali a quelle di cento anni fa? Cosa viene oggi definito come lavoro, come consumo, come identità e memoria? Cosa è la nostra mente in una condizione in cui parte di essa è trasferita nei supporti elettronici e circola per il mondo? Cosa possediamo davvero e chi ci possiede? Basta fermarsi a riflettere qualche minuto per capire che il mondo non può più essere guardato con gli occhi dei nostri padri. E non può essere la democrazia tema estraneo a queste trasformazioni. Si può riformattarla riformando il senato o la legge elettorale? Il problema è tutto nella dialettica tra libertà e limitazione dei poteri veri, non dei loro fantasmi televisivi. E dunque come e chi freni la speculazione finanziaria e il potere dei grandi fondi d’investimento; come si possa evitare che il crescente potere dei big data ci trascini verso un futuro di dittatura del controllo; come si ridia forza all’informazione oggi prossima ad essere schiacciata dal peso della comunicazione e dalla follia dell’industria delle bufale e del tarocco, che non avrà una ragione etica ma ne ha una economica; come si dia potere (non tutela) alle minoranze. I temi e i luoghi in cui la democrazia si gioca la sua partita sono questi.

Nel prossimo numero

la carta è...

Periodico di cultura, arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative Gutenberg Edizioni Via Giovanni Paolo II, 38 84084 FISCIANO (SA)

DE LUCA SALERNO

Direttore responsabile Massimo Bignardi Direttore editoriale Giuseppe Funicelli

Il tempo, presente e futuro, riflessioni sulla memoria, sul presente e sul destino verso il quale sembra orientarsi la generazione 4.0. Un dibattito a più voci, senza nascondere le perplessità, le ansie, le paure e le attese. Metropolis ci porterà a Tokyo. La contro copertina è di Marco Pellizzola.

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12 - novembre-dicembre 2015

DANILO MASTOSI

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In redazione: Roberta Bignardi (danza) Gemma Criscuoli e Pasquale De Cristofaro (teatro) Giuseppe De Marco (orientalista) Giuseppe Di Muro (architettura) Elio Di Pace (cinema) Ada Patrizia Fiorillo (arte contemporanea) Luca Mansueto (arte moderna) Ciro Manzolillo (musica) Franco Matteo (attualità) Marcella Ferro, Maria Letizia Paiato Pasquale Ruocco (arte&istituzioni) Angelo Maria Vitale (filosofia/estetica e libri) Progetto grafico e impaginazione Antonio De Marco antonio.demarco1@gmail.com centomanidesign@gmail.com Pubblicità e stampa Stampa Libertyprint S.r.l. Via Giovanni Paolo II, 38 84084 FISCIANO tip.gutenberg@tiscali.it Tiratura 2.000 copie Registrata presso il Tribunale di Salerno n. 6/2012 del 17.05.2012 ISNN 2420-7934

In copertina, Pericolo! (ph@ tauros, 2014)

ndiamoci piano. Interroghiamoci pure sulla democrazia, ma evitiamo la tentazione di sottoporre la questione a referendum. La parola al popolo è uno degli slogan più usati dagli aspiranti dittatori. E il popolo è una strana bestia, una massa d’urto ondivaga e facilmente addomesticabile se non riesce a prendere forma di comunità, a riconoscersi nella faticosa condivisione di pochi essenziali valori invece che nelle scorciatoie dei propri istinti e delle proprie paure. Fu il popolo a negare a Cristo l’ultima chance di salvezza, rimettendo al suo posto in libertà un mariuolo conclamato come Barabba. E fu verdetto di popolo la condanna a morte di Socrate per empietà. Una macchia indelebile per la decantata democrazia ateniese condannare un filosofo così attento al rispetto della legge da preferire la morte alla violazione di una sentenza. Né si può rintracciare la cicatrice più vistosa nella reazione del suo allievo Platone, che nel disegnare in una delle sue opere più note, ”la Repubblica”, la forma di governo ideale disdegnò il primato della folla e scese di affidare il potere a un consesso di sapienti. Giri la carta della democrazia e scivoli subito in uno dei suoi tanti opposti, oligarchia o tirannia. Perché questo è l’eterno paradosso della democrazia, che la maggioranza cui ha affidato le sue sorti può sempre decretarne la fine o il travaso. La tragedia del nazismo e del fascismo deve pure insegnarci qualcosa. Andiamoci piano dunque, perché la democrazia è creatura fragile, sempre incompiuta. Ne parlo e mi torna in mente la scena madre del capolavoro di Eisenstein, La corazzata Potemkin. Sì, la democrazia è come quel bimbo in carrozzina che precipita giù dalle scale. Avanzano e sparano i soldati dello zar per domare la rivolta, sua mamma colpita a morte molla la presa e lui precipita giù su quel veicolo che ondeggia, traballa, uno scalino dopo l’altro, tra la folla che fugge. Verrà sbalzato giù, finirà schiacciato? Su queste domande in sospeso si schianta anche il destino della rivoluzione bolscevica che il film sta annunciando. Andiamoci piano con i giudizi perché la democrazia ha una storia costellata di nascite e di aborti come un crepitio di lampi seguito da tuoni a scop-

pio ritardato, da altri tuoni che si allontanano e si perdono nel nulla. Anche la democrazia greca fu appena un lampo: un orizzonte di luce che si apre e si dissolve. Nella votazioni dell’Atene di Pericle solo un decimo del popolo era rappresentato: mancavano le donne e ci vorranno altri due millenni e mezzo perché conquistino il diritto di partecipare al suffragio; la composizione delle assemblee scontava limiti di censo, di cittadinanza, di ascendenze familiari. E c’era l’enorme platea degli schiavi che assisteva impotente. Leggi, regole e modelli che solo trapiantati in altri tempi più fertili, altra terra avrebbero dato frutti. Come le esperienze dei Comuni italiani. Come le norme della Magna Carta in Inghilterra. Come le eresie di verità della scienza mandate al rogo, condannate al silenzio e all’abiura. Solchi, tracce, trame di racconto che si possono intravedere nel fervore medievale dei costruttori di cattedrali, nell’arte del Rinascimento italiano e dell’Umanesimo, negli interni borghesi della ritrattistica fiamminga, nei capricci sensuali del Barocco. Ma che trovano il loro punto d’approdo soprattutto nello scandalo dei libri dei filosofi, fino a precipitare in quei ventotto volumi dell’Enciclopedia di Diderot che sigillano nel Settecento l’avvento dell’epoca dei lumi. La democrazia moderna nasce lì in quella poderosa sfida di carta e di Ragione che finirà per travolgere, tra rivoluzioni e restaurazioni, passi avanti e cadute, i vecchi regimi. Un palazzo suggestivo ma sgangherato che si regge su quattro pilastri: i principi di libertà, uguaglianza, fraternità e l’insieme di diritti e doveri che danno loro sostegno. La quarta colonna che va piantata ancora più a fondo è la Costituzione, perché è l’unica che possa difendere la democrazia rappresentativa dalle tendenze autodistruttive del potere delle maggioranze. Togli un pilastro e l’intera costruzione vacilla. Diventa una chimera, un fantasma. Democrazie imperfette. Come tutte quelle che conosciamo. Compresa la nostra. O quella americana, che si gratifica a ragione della libertà dei suoi cittadini, ma non esita a calpestare, più o meno sottobanco, quella di altre minoranze, altri paesi, altri popoli. Perché la democrazia, non ci illudiamo, nasce da un impulso d’innocenza, ma sopravvive solo con una forte dose di malizia e d’inganno. E se diviene troppo astuta si trasforma in un simulacro di se stessa. Un regno d’illibertà, come nella ”Fattoria

Le illustrazioni di pagina 2, 3, 4, 5 e 6 sono dell’artista SOHEIL NADERI Soheil Naderi Teheran (Iran) 1981. Diplomato in Pittura presso l'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano ha esposto in diverse occasioni in Italia e all'estero. Si ricordano, tra le diverse presenze a mostre collettive e rassegne, quella del 2010 a Teheran presso il Museo di Kameledin Behzad, del 2011 sempre nella capitale iraniana presso la Soore art. Espone ancora nel 2013 presso il Chiostro di Voltorre a Gavirate e presso il Palazzo Sassi di Sondrio; nel 2014 è invitato al Calendario Gutenberg 2014 ed espone alla Pinacoteca provinciale di Salerno e al Museo MAGI’900 di Pieve di Cento.

degli animali” di Orwell dove tutti i porci sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri. Andiamoci piano, allora. Tra i tanti nuovi nemici che la democrazia si trova oggi a combattere c’è proprio la fretta. Nella società globale dove la libertà si confonde con il liberismo; il potere si è trasferito dai governi nazionali alle multinazionali, dai Parlamenti alla Borsa; la speculazione prospera sui differenziali creati dalla velocità delle decisioni e degli scambi, la lentezza sembra diventata solo misura d’inefficienza. La tecnologia trasferisce sulla Storia, come fosse una sua pertinenza, i propri traguardi d’accelerazione, si impadronisce del tempo, del no-

stro tempo, come sta facendo dello spazio. Ci offre con una mano partecipazione e coinvolgimento, e con l’altra mano ce li sottrae. Ci illude di una libertà sempre meno condivisa, come avviene con la ricchezza, e ci toglie insieme a fraternità e uguaglianza anche la forza ideale dell’innocenza. Andiamoci piano, invece. Prendiamoci, reclamiamo ogni volta il tempo per ragionarci su, quello che la complessità crescente del mondo impone al giudizio e alla conoscenza. E diffidiamo di chi ci impone la fretta per semplificarci la vita. Nella truffa delle tre carte si perde sempre, vince solo chi tiene il banco.

Sulla democrazia in rapporto all’arte di

MARIO PERSICO

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n una società dell’immagine o dello spettacolo, come quella attuale, il problema della democrazia non può essere disgiunto dal problema della rappresentazione. Non a caso, sempre più, oggi, si tende a parlare, in merito a riflessioni sulla politica, di forme spettacolari delle manifestazioni del potere (a qualsiasi livello istituzionale esse si diano), fino a scadere nel cosiddetto “teatrino” della politica – espressione, quest’ultima, che ben sintetizza il livello più basso di una tendenza, la quale già testimonia di una condizione di deriva del potere politico, in generale e cosiddetto democratico. Tutto questo già potrebbe essere visto come una prima modalità di coglimento di una interrelazione tra democrazia o potere politico in generale e universo estetico o artistico. Ma a ben riflettere, una seconda modalità di coglimento di rapporti tra concetto della democrazia e universo artistico potremmo rilevarla nel modo con il quale oggi viene vissuta l’opera d’arte, nel momento della cosiddetta fruizione. Per cogliere questa seconda possibilità di interrelazione tra concetto della democrazia e momento fruitivo dell’opera d’arte, occorrerà che si faccia

qui riferimento a quanto contraddistingue il concetto di democrazia nel suo senso più profondo ovvero nell’idea stessa di individualismo (non a caso la democrazia nasce in Grecia, ad Atene, in un momento storico che vede l’ascesa di quello che con un termine odierno potremmo definire il ceto medio, sullo sfondo della crisi della classe cosiddetta aristocratica) interpretativo o anarchico. A meno di non voler credere ancora alla favoletta, che si racconta pure a scuola, secondo cui democrazia è il potere del popolo (basti, per sfatare questa ideologia, leggere gli ottimi studi recenti di Luciano Canfora, che al concetto di democrazia ha dedicato diversi saggi). È proprio, infatti, dell’universo borghese, che si emanciperà sempre più a partire dalla modernità, in Europa, quello di investire in una spinta anarchico-individualista, nel senso di una affermazione dei diritti del singolo (imprenditore), cosa che si affermerà, in ambito estetico, con la nascita dell’artista imprenditore di se stesso, autonomo rispetto a una committenza più o meno istituzionale e, di conseguenza, con l’affermazione dei cosiddetti diritti del fruitore. Quest’ultimo sentirà sempre più la necessità imprescindibile di difendere la legittimità

di una sua interpretazione, quale che sia, dell’opera che ha di fronte. Nasce e si afferma, così, a mio avviso, la cosiddetta polisemia interpretativa. E ogni opera non avrà più un solo significato ovvero un numero preciso di possibili significati, ma indefiniti significati, quanti potranno essere i fruitori che le si accosteranno. Chiunque potrà comprendere agevolmente che questa che sto illustrando brevemente altro non potrà definirsi in maniera semplificata che come una deriva anarchico-individualista del momento fruitivo dell’opera d’arte. Deriva, beninteso, che in ambito estetico non può che portare frutti sempre più interessanti e stimolanti (un’opera, infatti, in questo modo rinasce, godendo di una nuova vita, a ogni interpretazione che ne rilancia il senso); diversamente da quello che accade in ambito politico, nel momento in cui questo modello estetico finisce per diventare il cardine intorno a cui ruota ogni forma di potere istituzionale. E si sa che in una situazione anarchica, il potere finale quasi sempre finisce per essere quello del più forte – ovvero, in ambito retorico, di chi sa essere più convincente (imbrogliare meglio e di più?).

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carte sul tavolo

carte sul tavolo

Democrazia è anche accettare una dose sopportabile di ingiustizia per evitare ingiustizie maggiori (U.Eco)

Se pensate che lʼistruzione sia costosa, provate lʼignoranza (D. Bok)

La difficile democrazia dell’euro-Islam

Insegnante:

L’Italia “città” europea a metà tra Occidente ed Oriente

nemo propheta in patria

di

I

Sosteneva Don Milani: il maestro deve essere profeta. Oggi diventa economista di

MARCELLA FERRO

P

uò esistere una scuola senza democrazia e viceversa una democrazia senza scuola? Ce lo siamo chiesti un po’ tutti lo scorso 13 luglio quando, innestando un lungo, disinformato e politicizzato processo mediatico, è stato varato il decreto legislativo 107/2015 meglio noto come la Buona Scuola. Una riforma che in realtà pendeva sulla testa del comparto istruzione già da un anno e mezzo con tacito consenso delle sigle sindacali tutte. Se ne parlava fra i corridoi degli istituti, si formulavano ipotesi nelle aule professori e nei collegi docenti ma in realtà nessuno sapeva cosa ci aspettasse. Fumo negli occhi «la campagna d’ascolto - così ne parlava il Ministro Giannini - per definire la scuola che verrà», secondo la quale il MIUR nei mesi dello scorso anno scolastico ha dato la possibilità a chiunque di lasciare suggerimenti e consigli per la commissione preposta alla formulazione del decreto attraverso un bottone ben in vista sul sito istituzionale, insomma una specie di sfogatoio più simile però a un buco nero visto che queste opinioni non sono mai state pubblicate e forse nemmeno lette. Il lunghissimo e corposo Dlsg pare chiaro già dalle prime battute dell’articolo 1: «Per affermare il ruolo centrale della scuola nella società, della conoscenza e innalzare i livelli d’istruzione e le competenze delle studentesse e degli studenti, rispettandone i tempi e gli stili di apprendimento, per contrastare le diseguaglianze socio-culturali e territoriali […] la presente legge dà piena attuazione all'autonomia delle istituzioni scolastiche di cui all'articolo 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni, anche in relazione alla dotazione finanziaria». Analizzandolo criticamente, consapevoli di dover mantenere la convinzione storiografica che solo fra qualche anno se ne potrà valutare oggettivamente le conseguenze positive o negative, non ci si deve lasciar ingannare dalle parole introduttive; le due definizioni chiave sono, infatti, autonomia delle istituzioni scolastiche e dotazione finanziaria eredità entrambe della riforma Berlinguer del 1997. Ovvero decentramento del potere che a oggi è chiaro finirà nelle mani del dirigente scolastico e del suo strettissimo entourage che deciderà del merito riguardo agli scatti di anzianità, dell’assunzione triennale dei docenti per l’organico funzionale su chiamata e finanche per la ricerca di fondi d’investimento per la scuola, poiché scorrendo più avanti il testo della riforma, si accenna anche a questo, in

di

ALESSANDRO CUCÈ

tudiare Giotto è come studiare «S Dante. Per questo la Storia dell’Arte tornerà nella scuola in maniera importante». Molti docenti di storia dell’arte o aspiranti tali, leggendo questa dichiarazione del Ministro dei beni e delle attività culturali, Dario Franceschini, a gennaio del 2015, erano tornati a sperare. Infatti, la Riforma Gelmini del 2011, com’è noto, ha fortemente ridotto le già poche ore di storia dell’arte presenti nei quadri orari dei licei italiani. Ancora, il Ministro Franceschini, il 20 maggio, si lasciava andare, tramite una nota, in entusiastiche dichiarazioni: «Con il decreto Buona Scuola ritorna l’insegnamento della storia dell’arte» (che in realtà non se n’era mai andato; piuttosto, come detto, erano state eliminate delle ore). Passano poche ore e la comprensibile perplessità dei tanti giovani e meno giovani che navigano in questo settore eche di promesse da marinaio ne hanno sentito tante, diventa realtà. Ad esempio, leggendo il Testo approvato, nell’articolo 7 comma g, si parla di un «potenziamento delle competenze nella pratica e nella cultura musicali, nell’arte e nella storia dell’arte, nel cinema, nelle tecniche e nei media di

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MASSIMO PANEBIANCO*

altre parole alla possibilità di avvalersi di soluzioni economiche alternative ai fondi d’istituto normalmente approvvigionati dal Ministero stesso in conformità a criteri come organico di servizio e numero alunni. A questo punto c’è da chiedersi quanto ci sia dell’accezione più moderna del concetto di democrazia in ciò e quanto questa riforma abbia davvero a che fare con la scuola e non con l’appartenere alla comunità europea e con le scelte politiche della stessa. Ultima ruota del carro la scuola si vede calare dall’alto una riforma studiata a tavolino da degli economisti che a loro volta si sono visti calare dall’alto dall’UE tre obiettivi da raggiungere entro il 2020 e cioè incremento della frequentazione della scuola dell’infanzia; abbassamento della soglia di analfabetismo dei quindicenni e conseguente diminuzione del tasso di dispersione scolastica. Lette queste ultime parole, a metà estate si è cominciato a pensare che finalmente si volesse tirar fuori l’istruzione dalla paludosa situazione in cui versava da un ventennio, additando così i docenti come allarmisti, disfattisti e piagnucoloni perdendo di vista che gli obiettivi elencati erano stati pianificati già nei primi anni del 2000 e che ne erano seguite due riforme (Riforma Moratti, 2003 poi rivista da Fioroni nel 2006 e infine nel 2008 quella Gelmini) fondate per lo più su questioni di bilancio economico. Deludente, poi scoprire che anche la Buona Scuola fondava su una questione prettamente economica e quindi che era lontanissima dalla volontà di riformare uno dei comparti più sconquassati e disuniti del settore pubblico italiano. Per capirlo basta fare un passo indietro andando al 26 novembre 2014, quando la Corte di Giustizia del Lussemburgo ha emesso una sentenza a favore di alcuni docenti italiani riconoscendo un risarcimento monetario non di poco con assunzione immediata, per gli anni di precariato che in barba alle normative europee si era protratto per più di trentasei mesi. Ecco quindi lo Job Act padre fra le altre della riforma della scuola che oltre all’assunzione di circa 30.000 docenti nella fase 0, A e B, sui posti del turnover pensionistico ha “garantito” altre 55.000 assunzioni nella fase C di novembre su quello che è stato definito il piano di potenziamento del nuovo organico funzionale della scuola, in altre parole quegli insegnanti che non saranno assunti per materia abilitante ma come figure strumentali all’offerta formativa scolastica triennale (PTOF). Quanta democrazia c’è nel chiedere di accettare o no un lavoro distante da dove si è costruita la propria storia pur di lavorare? Data

la catastrofica situazione economica, molto poca. La frase ricorrente “basta che si lavora”, è quanto di più logorante ci sia per la dignità di un qualunque lavoratore ed è il preludio della cancellazione di ogni diritto. Che sia chiaro da subito questa riforma nella scuola è solo l’apripista delle altre riforme del settore pubblico e amministrativo. Gettate le fondamenta non resterà che costruirvi sopra il pericolante edificio. Un docente costretto a tutto questo cosa trasmetterà ai propri alunni? Perché al termine di quest’analisi resta la parte più delicata della questione riforma e cioè dove sono le soluzioni per tutti quei problemi che i docenti sono chiamati ad affrontare armati solo di buon senso ogni giorno in aula come dispersione scolastica a tredici anni, mancata inclusione degli alunni disabili e di quelli stranieri, mancanza di strumenti per il recupero degli alunni con bisogni educativi speciali, e per i DSA cioè dislessici, discalculici, disgrafici ecc. Aggiornamenti esigui o inadeguati per i docenti che devono affrontare problemi psicologici dei ragazzi, dinamiche del comportamento complesse, famiglie non munite dei mezzi necessari a sostenere gli stessi ragazzi? Ancora c’è da chiedersi dove siano le proposte operative per l’orientamento di questi nostri alunni che ci guardano sempre più spaesati e ci chiedono chiarimenti su dove si stia andando, verso quali economie ci si diriga. Questi alunni che preferiscono chiudersi nella virtualità di uno smartphone per non dover affrontare l’incertezza di un futuro precario. Dove sono le proposte operative concrete per collegare il mondo del lavoro a quello della formazione e quindi come può un giovane capire e sviluppare al meglio le sue capacità, come può cancellare dal suo sguardo il timore che in qualunque direzione volga le proprie scelte, non troverà mai una realizzazione professionale e quindi una materializzazione della propria dignità? Utopisticamente il MIUR dovrebbe lavorare con quello dell’Economia non per capire dove tagliare fondi o come recuperare crediti ma per valutare il prossimo futuro e attuare strategie per il suo progresso. Si è lasciato credere che tutta la questione della riforma ruotasse attorno alle assunzioni e l’opinione pubblica ha voluto crederci, ha preferito farlo. Ma non credo che il posto a tempo indeterminato per un docente diventi la soluzione a tutto questo. Lo stipendio rischia quindi di diventare un contentino affinché per l’ennesima volta si nasconda la polvere sotto il tappeto. Intanto la democrazia? Speriamo che se la cavi.

Storia dell’arte nelle scuole: quali prospettive? Da un quadro sconfortante emerge la sensazione che la storia dell’arte nelle scuole sia una sorta di Cenerentola delle materie scolastiche produzione e di diffusione delle immagini e dei suoni, anche mediante il coinvolgimento dei musei e degli altri istituti pubblici e privati operanti in tali settori»; nessun minimo accenno ad un effettivo incremento delle ore di storia dell’arte.Tutto rimane evanescente ed aleatorio ed un eventuale aumento viene lasciato a discrezione del Dirigente Scolastico. Giustamente l’Associazione Nazionale Insegnanti di Storia dell’Arte (Anisa) per voce del suo presidente, Irene Baldriga, denunciava immediatamente con un duro comunicato: «Le dichiarazioni del Mibact sul ritorno a scuola della materia non trova riscontro nel testo del Disegno di Legge “Buona Scuola”: di fatto non sono neppure in discussione misure di reintegro delle ore di storia dell’arte eliminate dalla Gelmini». Questa breve ma necessaria cronistoria lascia intendere perfettamente come nemmeno il Governo Renzi, nonostante i soliti roboanti annunci, riuscirà a cambiare rotta nel settore dell’insegna-

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mento della storia dell’arte nelle scuole. E sembra chiaro dunque che un numero davvero alto di giovani liceali crescerà in una sorta di “analfabetismo culturale” che rischia di fare danni sconsiderati al nostro patrimonio artistico. A questo scenario macabro fa da contraltare un numero elevato di insegnanti – laureati e abilitati tramite Tirocinio Formativo Attivo (Tfa) e Percorsi Abilitanti Speciali (Pas) – che non si sa davvero che fine faranno. L’unica chance concreta che gli si prospetta, oltre qualche mese di precariato a chi ovviamente è stato convocato a inizio anno o verrà chiamato in corso d’opera, è il concorso a cattedra pubblicato alla fine del 2015. Un concorso che per la classe A061 (quella relativa alla storia dell’arte) metterà a disposizione verosimilmente un numero di posti assai scarso, a fronte di un numero alquanto elevato di concorrenti. E ancora, chi sarà tra gli sfortunati (non si dica meno bravi, perché chi si è abilitato ad esempio tramite Tfa ed ha su-

perato tre dure prove, non crediamo sia scarso) che questo concorso non lo vincerà, quali scenari futuri si apriranno? Non molti, a dire il vero. Prendiamo l’ultimo ciclo di Tfa, quello indetto per l’anno accademico 2014-15: per la classe di concorso A061 il numero di posti disponibile, come anche per le altre, era su base regionale. Regioni come la Sicilia o la Toscana, ad esempio, mettevano a disposizione 16 posti, si presume perché sia quello il numero necessario a coprire il fabbisogno di quei territori. Non si capisce dunque il perché sottoporre gli abilitati a un vero e proprio supplizio di Tantalo facendoli transitare per un altro concorso; fermo restando che tra i vincitori vi sono docenti non solo abilitati, ma persino specializzati e già addottorati! Si intende bene che questo non è solo un problema della classe di concorso A061 ma anche di tante altre. Da questo quadro sconfortante emerge la sensazione che la storia dell’arte nelle scuole sia una sorta di Cenerentola delle materie sco-

lastiche, trattata alla stregua dell’ora di religione. Cosa fare allora per uscire da questa spirale senza fine? Ci sembra che il documento prodotto qualche settimana fa da un gruppo di neo abilitati in storia dell’arte nato spontaneamente su Facebook, possa essere tra le strade giuste da imboccare. Il Comitato chiede, tra le altre cose, “che il Governo e, in primis, il MIUR adottino tutti i provvedimenti necessari per ripristinare le ore tagliate di Storia dell’Arte”, e ancora “L’estensione della disciplina Storia dell’Arte (cdc A061) a tutti gli indirizzi della Scuola Secondaria di secondo grado come materia basilare del curriculum di ogni indirizzo scolastico”. Un MIUR attento e ricettivo a qualsiasi suggerimento dovrebbe quantomeno tenere in considerazione tali costruttive proposte (il documento si trova sul sito www.insegnarestoriadellarte.com). D’altronde, se davvero in Italia ci troviamo in una sorta di “bilinguismo culturale”, come ha scritto Tomaso Montanari, ricordando che Dante nella Commedia paragona i padri della lingua italiana Guinizzelli, Cavalcanti e lui stesso, a Giotto e Cimabue, si dovrebbe tornare a investire nell’insegnamento della storia dell’arte. In maniera seria.

l giurista del XXI secolo può applicarsi ad un tema geo-politico come quello della frontiera orientale, con ricorso a quattro grandi autori del passato, restaurati per la loro particolare competenza in tema di grandi spazi europei, di assemblee internazionali ecclesiastiche e non, di archivi di documenti diplomatici rari e di occasione, nonché di veri e propri manuali accademici di diritto delle genti rimasti sconosciuti o oscurati fino ad ora. Invero, ad un secolo dal 1915 è iniziata una inattesa e sorprendente operazione di restauro delle scuole italiane di diritto internazionale, formatesi come risposta alla storica questione d’oriente, lungo un arco lunghissimo di tempo, addirittura precedenti lo Stato unitario. Con tale “revival” si vuole far fronte ad una emergenza forte del momento attuale, in cui la classica frontiera d’oriente acquista tanti aspetti nuovi ma ancora di incerta e indeterminata definizione. Il rigurgito di nazionalismo in Europa centro-orientale, oltreché in Medio Oriente, ha imposto un richiamo alla storia profonda della nuova frontiera orientale, complicata dal moltiplicarsi delle nazionalità sostitutive e surrogate ai tre Imperi centrali di cui al crollo del 1915-1918 (germanico, austro-ungarico e turco-ottomano). La rivisitazione delle scuole italiane pre-unitarie per il numero e l’autorità dei soggetti coinvolti nella riscoperta di opere storiche, diplomatiche e di geo-politica specializzate nel settore, genericamente definibile degli studi orientalistici e più precisamente di quelli di riflessione sull’era moderna delle relazioni euro-islamiche (1452-1922). Contro tale rivisitazione c’era stata in passato una conventio ad exludendum, ben motivata da due ragioni, ammissibili per il passato ma oggi non più giustificabili. Invero, le scuole italiane pre-moderne hanno avuto tutte origini e sviluppi come scuole regionali, unificate da una certa unità di metodo e di oggetto del loro studio, ma senza dubbio divise e separate dalla diversità degli ambiti politici e dei gruppi intellettuali degli Stati italiani pre-unitari. Come seconda ragione dell’esclusione deve indicarsi il pregiudizio laico contro la qualità degli scrittori ecclesiastici di quei periodi, espressione della curia apostolica romana, o della diplomazia pontificia, professionalmente dediti alla raccolta archivistica ed allo studio delle relazioni euro-internazionali fra gli Stati e con gli Stati dell’epoca. Per ovvie ragioni di semplificazione la relectio di tali scuole può essere imputata a tre fasi storiche di “start up” dell’idea di frontiera orientale e del suo successivo declino. Invero, in una prima fase l’idea stessa di Europa, come sistema unitario di Stati compresi nel continente, incontra il suo fattore limitante e determinante rispetto alla diversità dei popoli dell’Islam sulla frontiera orientale. Nel biennio cruciale 1452-1453 a tale idea euro-imperiale, che ad orientemvergit, corrisponde la riscoperta delle opere della scuola romana cd. Cardinali tedeschi della metà del Quattrocento, che prepara la fase successiva dell’Europa che guarda ad occidente secondo le formule democratico-assembleari del Concilio di Trento di metà ‘500 e poi della pace di Westphalia di metà Seicento (pax situniversalis, aeterna, christianissima, tranquillissima…). Altre recentissime riedizioni hanno consentito di acclarare che a partire dall’Europa di Westphalia prevalgano gli autori della scuola veneta, cui si deve il doppio sorpasso intellettuale delle correlate ed interconnesse frontiere di oriente-occidente nell’ordinamento di un mondo nuovo o globalizzato, avanzante da occidente verso oriente (cd. Diritto novi orbis, 1625 – 1791). A titolo preliminare ci si può chiedere se e come opere siffatte appartenenti alle vecchie scuole italiane tra il Quattrocento e il Sette-

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cento possano parlare al giurista del XXI secolo e se esse possano essere trasferite dall’epoca della prima Europa e della prima globalizzazione nel contesto di un mondo diverso. L’attualità del tema sta evidentemente nella dinamica di formazione e di espansione della comunità internazionale, come comunità geo-politica della res publicachristianadivenuta ora civitas mundi. Accanto all’Europa anche l’Islam è entrato a far parte di questo nuovo mondo, che apporta il contributo delle sue diversità. Esistono tante anime dell’Islam: europeo, arabo, turco, iraniano... Mettendo a confronto il linguaggio, forse ingiustamente generico, si vede come anche lo spazio giuridico europeo fosse individuato mediante varie denominazioni, nel quadro di una strategia o regia complessiva di confronto tra le due parti dell’Europa e del Mediterraneo (Regiones, Nationes,Familiaepolitiche). Europa nostra patria, nostra sedes, nostra domus pro qua prosecuti et cesi sumus, così inizia l’edizione del De Europa, 1458, di E. S. Piccolomini. Nel De Europa viene per la prima volta descritto, in oltre duecento pagine e più di altrettanti dettagliati paragrafi, un intero sistema di Stati, come unità geo-politica da oriente ad occidente, da nord a sud, ciascuno con la storia della propria nazione, del proprio territorio, nonché, della propria “leadership” di governo. In tale grande affresco di circa settanta tra Stati e Città-Stato allora esistenti, si parte dall’Austria – Ungheria, si scende giù fino alla Turchia (ed ai bella turcilorum), si risale per i Balcani fino alla Germania (Gallia, Spagna, Italia ecc.). C’è più di una buona ragione per chiedersi per quale disegno il De Europa abbia subito l’oscuramento che è lungo e prolungato. Forse le ragioni sono molteplici e correlate al giudizio su Piccolomini come Papa Pio II (1458), nonché sulla sua possibile lettura come Papa del Concilio e del dialogo ecumenico con i turchi, anche per effetto dell’Epistola a Maometto II (il Gran Turco,1462), correlata alla precedente Lettura ad Corani del suo vicario Cardinale Nicolò Cusano (Nikolaus Krebs von Kues, 1461). Dopo tale periodo, la reconquista cristiana della frontiera occidentale nel annusmirabilis (1492) fu accompagnata dalla scoperta del Nuovo mondo come nuova frontiera dell’Occidente cristiano, nei grandi spazi del cd. Oceanusoccidentalis (poi Oceano atlantico), nonché della coeva e simultanea cacciata degli Arabi dalla Spagna meridionale, dal vecchio confine occidentale dell’Europa. Da allora i due cardinali passarono alla storia letteraria per altre ragioni, come espressione dei rapporti italo-te-

deschi, il Piccolomini per la sua ventennale attività professionale nella Corte imperiale germanica ed il Niccolò Cusano come Cardinale originario della città renana di Kues e della sua conseguente formazione accademica e teologica nelle grandi università germaniche della stessa area (Heidelberg, Colonia e poi Padova-Bressanone e Roma). Per la riscoperta recente di Piccolomini come storico della prima Europa, ora ci sono appunto le riedizioni del De Europa del XXI secolo, e c’è un grande evento librario del 29 aprile 2011, allorché un esemplare fu donato all’allora Pontefice Benedetto XVI da parte di un trio di eccezionali curatori, che erano Giorgio Napolitano, all’epoca Presidente della Repubblica, insieme al Cardinale Gianfranco Ravasi e all’ambasciatore presso la Santa Sede Antonio Zanardi Landi. Quel volume, pubblicato in cinquecento copie, numerate e riservate, parlava di una grande Chiesa di Costantinopoli, il Duomo di Santa Sofia poi divenuto Moschea Turca. Il dono del 29 aprile 2011 concerneva la prima traduzione italiana di una famosa opera di Papa Pio II, ritiratosi alla fine del suo Pontificato nel convento di San Ciriaco di Ancona, nella speranza di creare un ponte tra il mondo cristiano ed il mondo islamico. La Chiesa della sofferenza era quella nella quale nell’antica Basilica costantinopolitana, al Duomo romano si era contrapposta la Moschea a cielo aperto. Il libro come è noto è quello di Enea Silvio Piccolomini, accompagnato ad Ancona dal suo vicario pontificio, il Cardinale germanico Nicolò Cusano, da 10 anni Vescovo di Bressanone. Da allora tutte le Basiliche romane hanno giustapposto, il Duomo alla piazza, in San Pietro di fronte al colonnato del Bernini, in San Giovanni di fronte alla facciata lateranense, in San Paolo fuori le Mura dinanzi al chiostro dei Frati. Chi è abituato alla grandiosità delle piazze e dei chiostri antistanti le grandi Basiliche, forse non può comprendere appieno il pre-esistente modello del Duomo romanico di Salerno e del suo atrio antistante a cielo aperto. Guardiamo, infine, tutt’insieme per evitare il rinnovarsi di episodi irripetibili. L’Italia merita di essere divenuta una città europea a metà tra Occidente ed Oriente. È quello che esattamente sta scritto nel librodono del 29 aprile 2011, intitolato non a caso De Europa, con spirito lungimirante e profetico, offerto dai tre curatori alle riflessioni degli italiani europei di ieri e di oggi. *Professore ordinario, Università degli Studi di Salerno

Baronissi nel cuore della Valle dell’Irno, è un territorio unico e speciale non ancora scoperto dal turista alla ricerca di qualcosa che lo emozioni in questo Natale 2015. Con le Luci dell’Irno Rosso di sera la città dispiega tutti i linguaggi dell’ospitalità e accoglie l’ospite con un’offerta di ampio respiro dall’accessibilità alla ricettività, dai servizi agli eventi e alle occasioni di loisir. Variegata l’offerta ricettiva sia alberghiera che extralberghiera, ampia l’offerta gastronomica che esalta la Dieta Mediterranea con prodotti locali e a marchio, i servizi sono all’altezza dell’ospite più esigente, ricchi i siti da visitare dal Frac (Fondo Regionale d’Arte Contemporanea) alla Villa Romana (I secolo a.C.) dal trecentesco convento francescano della SS. Trinità alla prestigiosa dimora storica Villa Farina agli storici Casali. Numerosi gli eventi che con l’allestimento dell’artista Pietro Lista fanno di Baronissi l’Evento di questo Natale 2015 e Capodanno 2016 dove trascorrere un week end di arte, cultura, enogastronomia e relax. L’albero di 21 metri e la pista di ghiaccio rapiranno bambini e famiglie e per chi non vuol perdere nulla delle tante proposte in programma, basta recarsi all’Ufficio IAT in Parco della Rinascita per le info e per le visite guidate con i narratori del territorio. Per info: iat@comune.baronissi.sa.it www.comune.baronissi.sa.it/Vivi-Baronissi 327.034.9591 348.316.7969

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carte sul tavolo

carte sul tavolo Bevo quaranta caffè al giorno per essere ben sveglio e pensare, pensare a come poter combattere i tiranni e gli imbecilli (Voltaire)

A rigor di termini una vera democrazia non è mai esistita e non esisterà mai (J.J. Rousseau)

I caffè della storia

luoghi

del progettare il tempo Dal Secolo dei Lumi alle storie delle Giubbe Rosse e del Caffè Greco al Gambrinus dove Benedetto Croce incontrava i dissidenti del Regime di

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Il valore della democrazia

Potere, lavoro, cultura in un’intervista a Domenico De Masi di PASQUALE

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RUOCCO

e sfide che quotidianamente ci vengono lanciate dalla contemporaneità - penso soprattutto alla rivoluzione rappresentata da internet, ai grandi flussi migratori che in maniera sempre più drammatica cercano di attraversare l’Europa, alla grande crisi finanziaria che progressivamente mette in luce le storture del sistema capitalista, all’Isis – pongono la nostra società dinanzi alla necessità di discutere approfonditamente dei sistemi di autogoverno che nel corso della storia ha sviluppato, e in particolare di riflettere su un concetto quale la democrazia, forse dato per scontato. Ne discuteremo con il prof. Domenico De Masi, sociologo, scrittore e professore emerito dell’università “La Sapienza” di Roma, da poco rinominato presidente della Fondazione Ravello, autore di testi come Mappa Mundi e Tags con il quali affronta un'attenta analisi del disorientante panorama in cui viviamo. Profesor De Masi rispetto a tale orizzonte come crede dobbiamo affrontare oggi il concetto di democrazia? Come lo definirebbe? «Per quel che mi riguarda è ancora oggi valido il celebre discorso pronunziato da Pericle ad Atene nel 430 a.C. Io penso, infatti, che la democrazia sia un luogo destinato alla felicità dei cittadini. Ovviamente non si può parlare di felicità in termini assoluti, ma perlomeno di una felicità, uso un ossimoro, relativamente ottima, il cui raggiungimento sia intrapreso utilizzando sistemi organizzativi capaci di assicurare tale felicità alla maggioranza dei cittadini con metodi che contrastino il meno possibile con tale scopo». Pericle in quel discorso affermava: «Le leggi qui [ad Atene] assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento». Crede che termini come meritocrazia ed eguaglianza sociale siano pilastri fondamentali su cui fondare una sana e forte democrazia? «Il concetto di meritocrazia, come viene inteso oggi, è un mito neoliberale secondo il quale si da per scontato che se io non ho grandi meriti o grandi qualità debba essere considerato marginale alla società. Io preferisco un sistema basato sulle pari opportunità, adeguate alle condizioni di partenza di ogni cittadino; occorrono cioè pari livelli di tutela. In estrema sintesi, la democrazia corrisponde sistema capace di consentire la distribuzione più equa possibile della ricchezza, del potere, del lavoro, del sapere, delle opportunità e delle tutele». In questo senso pensa che l'Italia sia un paese democratico? In Come salvare il capitalismo Robert B. Reich riconosce proprio nella mancanza di una equa e più larga distribuzione della ricchezza e del potere la principale minaccia al funzionamento del sistema capitalistico, auspicando, per cambiare rotta, un più

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forte intervento degli Stati, cioè della politica, nell’indirizzare le prospettive dell’economia e del mercato. Rispetto alla sua conoscenza del mondo, come immagina il futuro legame tra democrazia e mercato? «Tra le fortune avute nel corso della mia vita c’è stato l’incontro con Vàclav Havel, presidente di quella che alla caduta del Muro di Berlino si chiamava ancora Cecoslovacchia. Nel corso di un dibattito trasmesso da Rai 3 attorno al tema della crisi del comunismo, Havel mi diceva che questo aveva perso ma, al contempo, il capitalismo non aveva vinto. Con ciò Havel intendeva una questione semplicissima, ossia che il comunismo pur sapendo distribuire la ricchezza, non aveva saputo produrla, mentre il capitalismo, al contrario, pur sapendola produrre non era, e non è, in grado di ridistribuirla. Il capitalismo, secondo le teorie di Smith, ha affidato i processi ridistributivi al mercato con la sua «mano invisibile» che, dando a tutti la massima possibilità di iniziativa, avrebbe dovuto condurre a una efficace ripartizione delle risorse prodotte. In realtà, vista l’attuale concentrazione di risorse economiche nelle mani di una sparuta minoranza rispetto agli abitanti del pianeta, questa teoria non ha funzionato e continua a non funzionare. Oggi i primi 85 miliardari della classifica Forbes posseggono una ricchezza pari a quella di 3 miliardi e mezzo di abitanti della terra. Constatando già ai suoi tempi l’incapacità del capitalismo di ridistribuire la ricchezza, Marx aveva elaborato la sua teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto: crollo dei consumi, quindi crollo della produzione, quindi crollo del capitalismo. Su questo rischio, più di recente, si è interrogata l'équipe guidata da Thomas Piketty, autore del Capitalismo nel XXI secolo, riaffermando l’importanza fondamentale dell'intervento politico nell'orientamento del mercato e, di conseguenza, a difesa dei valori democratici. Appare evidente come, se da un lato questa situazione nasconde un rischio per la democrazia, dall’altro lancia un’importante sfida: immaginare diversi e nuovi modelli di governo e socialità. Tutte le società precedenti sono sorte in base a un modello teorico elaborato da intellettuali. Così è successo per il Sacro Romano Impero, ispirato al Vangelo e ai padri della Chiesa; così è successo con gli Stati liberali dell’Ottocento, ispirati alle idee degli illuministi, di Smith, di Montesquieu, di Tocqueville. Solo la nostra società postindustriale è nata a casaccio, per germinazione spontanea, senza un modello teorico cui ispirarsi. Dunque, il senso di depressione, disorientamento e crisi che ci assale non dipende dalla mediocrità dei politici ma dall’assenza di un modello cui i politici dovrebbero ispirarsi. Dunque, siamo in presenza di una grande défaillance degli intellettuali, che avrebbero dovuto elaborare un nuovo modello di società e non ne sono stati capaci». Come spiega questa défaillance? «Sinceramente non lo so. Sarà che la creatività è capricciosa. Non sappiamo perché ci fu tanto addensamento di geni nell’Atene di Pericle, che contava solo 40.000 cittadini liberi, e perché ci sono così pochi intellettuali geniali nell’Atene attuale, che conta 660.000 abitanti. Oggi sembra che gli intellettuali sappiano solo offrire aspirazioni e ram-

marichi. Personalmente, grazie a internet, sto cercando di riunire un gruppo di personalità di livello internazionale per approfondire la discussione sui modelli, partendo dal mio penultimo libro – Mappa Mundi – un impegno purtroppo sospeso per affrontare questa nuova esperienza come presidente della Fondazione Ravello». Visto che ha introdotto l’argomento, non posso esimermi dal chiederle come mai, vista la sua estromissione di cinque anni fa dalla guida dell'ente ravellese, ha accettato questa nuova presidenza. «I motivi sono principalmente due. Il primo consiste nella volontà di portare avanti un progetto socio-economico legato a quel concetto di “ozio creativo” che vado elaborando da anni. Oggi, nei paesi postindustriali come il nostro, almeno un terzo della popolazione svolge un’attività in cui confluisce il lavoro con cui creiamo ricchezza, lo studio con cui creiamo conoscenza e il gioco con cui creiamo benessere. La Fondazione Ravello e il luogo straordinario in cui essa opera, la Costiera amalfitana, possono offrire le condizioni ottimali di ozio creativo. Il turista che viene a Ravello, insieme alla popolazione locale, possono riflettere su come evolvono il lavoro e la vita, immersi in un sistema socio-economico ispirato alla serenità, alla musica, all’arte, alla bellezza, alla crescita intellettuale e spirituale. L’altro motivo per cui ho accettato di presiedere nuovamente la Fondazione Ravello è il debito intellettuale che ho nei confronti di Oscar Niemeyer e del dono sublime che, attraverso di me, ha fatto a Ravello. Oggi, accanto ai suoi panorami e ai suoi antichi monumenti, Ravello può vantare un capolavoro dell’architettura contemporanea, dimostrando che le nuove generazioni ravellesi non solo sanno apprezzare le bellezze ereditate dal passato ma sanno aggiungervi nuovi tesori. Purtroppo quel capolavoro di Niemeyer versa in uno stato penoso, per l’incuria di chi lo gestisce, provocando una ferita vergognosa all’estetica ravellese e privando i giovani delle ottime occasioni di lavoro che potrebbero nascere da una gestione imprenditoriale dell’Auditorium. Perciò, attraverso la Fondazione, intendo restaurare e rilanciare l’Auditorium, facendone un luogo polifunzionale di concerti, seminari, convention, scuola di musica, di danza, di scherma, di ginnastica artistica». Come ben sappiamo queste querelle hanno sempre influenzato, soprattutto negativamente, la vita dell’ente organizzatore del Festival Ravello. Pensa che questa volta potrà essere diverso? «Questo non so prevederlo. In quanto presidente, debbo preoccuparmi di attuare lo statuto, realizzare il festival estivo, cercare di aggiungervi altri tre festival, uno per ogni stagione, e rilanciare l’Auditorium Niemeyer. Se si dovessero ripresentare situazioni ostili come quelle del passato, non mi resterebbe che gettare la spugna». Troppo spesso in Italia gli enti culturali subiscono l’influenza di partiti, di politici, di funzionari politicizzati, soprattutto per quanto riguarda le nomine e la distribuzione delle risorse, negando quel principio di pari opportunità di cui si parlava all’inizio. Quale crede

ERMINIA PELLECCHIA

debba essere un coretto rapporto tra potere e cultura in un sistema cosiddetto democratico? «La commistione tra politica e cultura fa male ad entrambe. Io sono stato nominato dalla Regione, dalla Provincia e dal Comune: tre organi politici. Ma non sono stato scelto per le mie idee politiche. Sono stato scelto – voglio sperare – perché per otto anni ho garantito lo sviluppo della Fondazione, dimostrando di saperlo fare con creatività e onestà. Ho presieduto la Fondazione dal 2002 al 2010. Le mie idee sono note e mai un politico si sarebbe azzardato a impormi una sua scelta o un suo raccomandato. Quelle mie idee circa la netta separazione tra cultura e politica sono tuttora vive e note. Se durante la mia nuova presidenza si dovessero presentare occasioni di invadenza della politica, resisterei con tutte le mie forze. Una volta nominati, il presidente e i consiglieri della Fondazione sono svincolati da ogni subalternità nei confronti di chi li ha nominati. Il loro dovere è quello di far crescere la Fondazione in termini di efficienza culturale. Se i risultati non piacciono a chi li ha nominati, allo scadere del loro mandato il presidente e i consiglieri potranno essere sostituiti. Così funziona una fondazione democratica in un paese democratico. Ci mancherebbe altro che un artista, un manager, un collaboratore della Fondazione fosse scelto in base all’appartenenza politica o al familismo e non alla professionalità e al talento: la Fondazione si discrediterebbe in pochissimo tempo». A Ravello sono presenti numerose associazioni culturali ispirate soprattutto alla tutela e alla promozione del patrimonio storico-artistico. Che tipo di rapporto pensa di instaurare con esse? E che tipo di dialogo pensa di instaurare con il territorio? «Una delle prime cose che ho fatto subito dopo il mio insediamento, è stato un incontro con le associazioni ravellesi. Ne sono venute dodici. Ed è straordinario l’effetto che fa la descrizione degli obiettivi e la dimostrazione dell’impegno con cui ciascuna di esse opera sul territorio. E’ mia intenzione creare quante più occasioni possibile di collaborazione con queste associazioni. La Fondazione non può vivere separata da Ravello e dai ravellesi. Stessa cosa vale per l’intera Costiera e per i suoi abitanti. Si tratta, in tutto, di 45.000 persone ripartite in tredici comuni, accomunati dalla bellezza del panorama, dalla ricchezza della storia, dall’attività preminente costituita dal turismo di qualità».

iberté Egalitè Fraternitè», la rima è caffè. Già. Quel «soave liquor», «gran sollievo dei mortali» come si legge in due canzoni di Michele Tarsia e Nicola Valletta in voga nel Settecento, ha nutrito «la forte generazione dell’Enciclopedia, ha aggiunto il suo calore a spiriti già caldi, alla vista acuta dei profeti riuniti nell’antro di Procopio che videro, nel fondo della sua bevanda, il futuro rifulgente dell’’89». Lo sottolinea lo storico della rivoluzione francese Jules Michelet: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino viene concepita proprio davanti ad una tazza di caffè nero bollente servita nel locale fondato nel 1672 dall’italiano Procopio de’ Coltelli, sulla scia della moda importata dall’Oriente nella seconda metà del Cinquecento e diffusasi a macchia d’olio in Europa. La democrazia ha come bandiera i succosi chicchi dell’Arabia felice, benedetti perfino da papa Clemente VIII, perché «sarebbe stato un peccato lasciare una bevanda così deliziosa ai nemici della Chiesa.» Il Seicento conia la leggenda. Giovan Francesco Gemelli Careri nei suoi diari parla dei “luoghi del caffè” dall’Egitto all’Armenia. Pietro Della Valle descrive il “cahve” assaggiato a Costantinopoli, “rinfrescativo” d’estate, caldo fino “a cuocere labbra e lingua” d’inverno, grato al gusto e salutare. Antoine de Galland studia le origini di quell’elisir che avrebbe salvato Maometto nel deserto. Le “semenze” per alcuni si sarebbero trovate a Mocca, per altri nello Yemen, nei pressi di un monastero il cui priore, incuriosito dalle capre nevrotiche di un pastore, avrebbe fatto bollire le erbe di cui si cibavano ottenendo un’eccitante tisana per le veglie di preghiera. L’esotico moka valica le frontiere.

Nel 1627 Bacone ne tesse le lodi, nel 1645 appaiono le prime botteghe del caffè a Venezia e Livorno, nel 1650 in Inghilterra si contano oltre ottanta Coffehouse, a Berlino il circoletto rosso va messo sul 1670 mentre Vienna diventerà capitale europea dei caffè nel 1684, pioniere un sol-

dato polacco. Il “symposium” moderno ha il volto dei caffè, le “comuni” dove il ceto sociale non conta e dove l’unico pomo della discordia è la miscela, se sia migliore quella aromatica del Levante o quella robusta proveniente dalle Indie Orientali e dalle Americhe. Nasce una vera e propria industria, dal commercio alla distribuzione, fino all’indotto di accessori sempre più ricercati, tra tutti le tazzine, caffettiere e zuccheriere della Real Fabbrica di Napoli.

Ma è il Secolo dei Lumi, a segnare l’ingresso trionfale dei caffè nella letteratura. E se per Carlo Goldoni, autore de La Bottega del Caffè dà forza ai lavoratori, per Pietro Verri è appannaggio dei filosofi: rende vivace e brillante il pensiero teorizzerà nella rivista che titolerà metaforicamente “Il Caffè”. È una catena di inaugurazioni: il Florian di Venezia prediletto dai rivali Gozzi e Goldoni e da Casanova che qui si ritempra dopo la fuga dai Piombi, il Greco di Roma, il Pedrocchi di Padova, vera e propria opera d’arte, il Caffè dell’Ussero di Pisa, il Florio di Torino. Quel liquido da consumare in compagnia e che ti fa sentire in compagnia anche quando si è soli significa felicità, convivialità, ospitalità. L’immagine è Eleonora Fonseca Pimentel sul patibolo, un sorso di caffè per ricordare i bei tempi. Batte un cuore ribelle nella pianta dalle bacche rosso ciliegia, “la rivoluzione beveva caffè”, dirà Pietro Bargellini. L’Unità d’Italia ai tavolini di un bar. Al Vagone del Florio “congiurano” Cavour, Balbo e D’Azeglio, che in un altro locale torinese, il Nazionale, leggerà in anteprima il proclama di Carlo Alberto che concede la Costituzione; la Peppina di Milano è il rifugio dei mazziniani, la Cecchina dei sostenitori di Cavour, il Cova dei carbonari; al dell’Unione di Genova risuona per la prima volta, il 16 dicembre del 1847, l’Inno di Mameli. Nei caffè si fa politica, si conversa e si flirta, la cultura viene pensata, prodotta e divulgata. Basti pensare a Bologna con il Caffè dei Cacciatori, “pensatoio” di Giosuè Carducci, e il Nazionale da cui partono, insieme studenti ed operai, i grandi scioperi dell’Emilia. È sempre Bargellini a suggerire che «non si potrebbe scrivere una pagina di storia senza citare il nome di un caffè», una storia di

Sopra: Renato Guttuso, Caffè Greco particolare; Nelle foto sotto: Il “Gran Caffè Gambrinus” di Napoli; Il Bar Ritorante “Martini” di Torino”; Il Bar “Giubbe Rosse” di Firenze

creatività che corre lungo lo Stivale fino agli anni Cinquanta del Novecento. Muri e banconi hanno ascoltato milioni di storie, accompagnato milioni di vite. Ascoltare il respiro delle personalità che li hanno abitati dà i brividi. Il viaggio dell’anima inizia a Trieste, dal Tergesteo celebrato in una lirica di Umberto Saba al San Marco frequentato da Italo Svevo e Joyce che lo alternava alla Pasticceria Pirona dove (c’è un suo autografo) concepì l’Ulisse. Su tutti il Tommaseo definito da Stendhal «le meilleur d’Italie». Venezia, le sale sfarzose del Florian con i fantasmi di Lord Byron, Goethe, Foscolo, Dickens, Proust. Milano, il Savini, dal 1910 quartier generale di Marinetti, approdo di Verdi, Puccini, De Chirico, D’Annunzio, Montale ed Hemingway che lo citerà in Addio alle armi. Al Bar Jamaica gli amarcord di Tassinari, Treccani, Fontana, Quasimodo, Ungaretti; la nostalgia accarezza il liberty Camparino, l’ex Bottiglieria del Leone, ora Gin Rosa, covo degli Scapigliati, il Magenta, immutato nell’arredamento decò. All’elenco della “caffettiera” Torino va aggiunto il Bicerin col suo cocktail esplosivo di caffè, cioccolata e latte, per Dumas padre «una delle cose assolutamente da non perdere». Tra gli appassionati ci saranno Nietzsche, Picasso, Gozzano, Calvino, Mario Soldati ed Hemingway. Firenze, le Giubbe Rosse, primi avventori André Gide e Medardo Rosso. Caffè, sigarette e libri, discussioni che sfociano in risse come quella tra Boccioni e Soffici.

È la sede degli intellettuali legati alle riviste “Il Leonardo” e “La Voce”, Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Giovanni Amendola e Giuseppe Prezzolini, ma dal 1912 è anche punto di riferimento dei Futuristi con Aldo Palazzeschi, Carlo Carrà, Umberto Boccioni e Luigi Russolo, capitanati da Marinetti. Dopo la prima guerra mondiale cambia lo scenario: si ideano e si leggono riviste come Solaria, Frontespizio, Letteratura e Campo di Marte, le presenze sono quelle di Montale, Saba, Gadda, Vittorini, Quasimodo, Campana, Bo, Gatto, Pratolini, Landolfi, Luzi e Macrì. Il fascismo rimuove l’insegna e sostituisce le casacche dei camerieri in bianche (lo testimonia uno scatto di Henri Cartier-Bresson), il dopoguerra sposterà l’asse della cultura a Milano e Roma.

Non sarà la fine. La suggestione delle Giubbe Rosse cattura Malaparte, Thomas, Ezra Pound, tra Sessanta e Settanta si forma qui il Gruppo Settanta che avvia la poesia visiva con Miccini, Pignotti, Ori e la Marcucci.

Roma, la stella è il Greco, tappa obbligata del Viaggio in Italia. La terza saletta ospita Goethe, Wagner e Schopenauer, Byron, Shelley, Keats, Stendhal, Andersen, James, Gogol, Twain, Leopardi e D’Annunzio, Bizet, Berlioz, Liszt, Rossini e Toscanini, Antonio Canova, Delaroche, Feuerbach, Corot, Ingres, De Chirico e Maccari. Attrae la convivenza democratica, il famoso e il signor nessuno seduti gomito a gomito: un’ambientazione di varia umanità che raffigurerà con intenso realismo Guttuso in un dipinto del 1976. Da via Condotti a piazza del Popolo con il Rosati dove Pasolini ragiona con gli sceneggiatori di Cinecittà, poi alla via Veneto delle dive e dei paparazzi della Dolce Vita di Fellini, infine al Caffè della Pace dove Bonito Oliva avrebbe inventato la Transavanguardia. Siamo finalmente a Napoli, la “civiltà del caffè” all’ombra del Vesuvio che detta regole, che inventa la famosa “macchinetta napoletana”. Eduardo riassume il rito del caffè in Questi Fantasmi e ne fa mito, quell’ “Ahhh” è appagamento, sensualità, rapimento. “‘Addore‘ e cafè” nei bassi e nei palazzi, nei vicoli e nelle strade del passeggio. Aurelio Lepre ci conduce per mano nei templi del caffè, dall’Italia promosso da Emanuele Bidera al Gigante dove Francesco De Sanctis trascorre ore intere, dal Caffè del Molo degli artisti ai gaudenti Caffè d’Europa e Gran Caffè gemellati, ai primi del Novecento, in quel “balcone sulla città” che sarà il Gambrinus. Nel salotto di piazza Trieste e Trento Gabriele D’Annunzio compone A Vucchella musicata da Tosti, Matilde Serao ascolta gli “inciuci” della politica e del bel mondo, Benedetto Croce si incontra con i dissidenti del Regime, Oscar Wilde può vivere sotto il sole il suo amore per Alfred Douglas. Caffè storici, orologi di una società che non c’è più, gli ideali sostituiti dal consumismo, i valori dall’apparire, il ritmo lento del pensiero dalla velocità della pubblicità. La tazzulella e’ cafè, come canta Pino Daniele, «acconcia a vocca pe nun verè».

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interviews

teatro conpemporaneo

I romanzi sono organismi troppo grossi, gonfi di cose troppo pesanti e troppo inutili (R. La Capria)

Il teatro non è indispensabile. Serve ad attraversare le frontiere fra te e me. (J. Grotowski)

Vecchie e nuove Democrazie il senso politico del teatro

I Greci nostri contemporanei e la pericolosa deriva dei populismi di

Per l’ultranovantenne scrittore letteratura e vita unico intreccio d’amore

PASQUALE DE CRISTOFARO

I

n principio fu la voce solitaria dell’aedo. Una voce capace di sedurre, col tono e il ritmo del suo sapiente narrare, il pubblico delle corti delle tante piccole città greche. Le sue erano narrazioni che spaziavano liberamente tra il cielo e la terra: Dei ed eroi dai nomi favolosi che disputavano tra loro come comuni mortali. Amori, inganni, battaglie, fughe, peripezie, un mondo favoloso e labirintico, questi i contenuti; dove passioni primordiali e primi tentativi di dare un ordine al Caos si alternavano con straordinaria efficacia. Un tentativo eroico ed epico insieme per arginare l’ansia di un Cosmo misterioso e pieno di insidie. Successivamente, il teatro impose che quella stessa voce diventasse franta, come se un unico specchio cadendo si spezzasse in mille frammenti ognuno capace di riflettere a suo modo un pezzo di Mondo. Quella voce, allora, si moltiplicava in più voci, il narratore onnisciente precipitava in tanti piccoli ruoli che meglio rappresentavano la fragilità e la caducità della natura umana. Il palcoscenico diventava un pulpito allargato, un agone, un’arena dove i personaggi disputavano, si confrontavano, si azzuffavano, cercando una sintesi forse inarrivabile, aiutati dalla forza moderatrice del Coro, residuo dentro il testo di una antica sapienza mirante ad un sano buon senso, lontano da ogni eccesso e tracotanza. Era quello il tempo in cui il teatro e la città respiravano insieme. Il passaggio dalla voce sola dell’aedo alla pluralità delle voci del teatro rappresentò anche il sintomo più evidente di come le condizioni socio-politiche della antica Grecia fossero ormai mature per un passaggio naturale dagli antichi regimi aristocratici e oligarchici alle prime forme di democrazia. Da tale prospettiva, e almeno per Atene, il V secolo avanti Cristo fu senza dubbio un “secolo d’oro”. L’età di Pericle, seppure problematicamente, visse l’affermazione della democrazia. Una collegialità dal variabile perimetro, spesso soggetta a demagoghi e retori dalla parola seducente ed abile che, pur tuttavia, andava a sostituire il potere assoluto dei tiranni. Un mondo nuovo, da quel momento, si apriva davanti alle coscienze. Pensiamo, per fare solo un esempio, quanto dovette essere forte l’emozione, per il numeroso pubblico che assisteva in teatro alla saga degli Atridi, quando nell’ultima parte dell’Orestea di Eschilo, e precisamente nell’Eumenidi, la Dea Atena sull’Areopago istituisce un tribunale per sedare la scia di sangue familiare che altrimenti mai avrebbe trovato fine. Sostituire quel “sangue chiama sangue” con un pacato e razionale giudizio dopo che

Teatro della Democrazia o la Democrazia del Teatro? Fino al 2003 nessuno dava “credito” ad un progetto simile di

TIZIANA DI MURO

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ognuna delle parti aveva rappresentato le proprie ragioni, dovette essere per l’intera comunità la consapevolezza che il mondo antico delle Erinni era definitivamente tramontato. Eschilo con quella tragedia entrò a gamba tesa nel dibattito politico suo contemporaneo dimostrando quanto il teatro fosse determinante per la cultura e la formazione della nuova città. Per convalidare ciò, pensiamo ancora alla appassionata disputa nell’Antigone di Sofocle tra il tiranno Creonte e la disgraziata figlia di Edipo che avrebbe voluto seppellire sia Polinice sia Eteocle, entrambi morti nel duello fratricida. Antigone pensa che la morte cancella le colpe e, quindi, anche il fratello Polinice, ritenuto nemico della città, merita una degna sepoltura come Eteocle. Anche lui, non può e non deve ricevere l’affronto più grave per un cadavere, essere, cioè, preda di animali e avvoltoi. Creonte, invece, sostiene che anche dopo la morte un nemico resta un nemico e che nessun onore gli possa essere tributato. Una vicenda tragica che non può trovare soluzione. Troppo diversi e asimmetrici i punti di partenza tra i due contendenti, troppo lontane le ragioni del “cuore” da quelle di “Stato”. Aporie che troveranno, successivamente, solo nella filosofia il loro necessario sviluppo. Dopo di allora, infatti, il pensiero speculativo riprenderà fiato e vigore mettendo definitivamente nell’angolo il teatro. Nonostante ciò, quel grande patrimonio resta tutt’ora di una paradossale modernità. Quelle storie, quei personaggi, oggi continuano ad interrogarci rappresentando ancora una ingombrante quanto fruttuosa eredità. E si sa quanto le eredità siano difficili da gestire. Detto questo, e ritornando alla questione della democrazia, sarebbe fuorviante pensare di accostare quel sistema a tutti quelli che dal secondo dopo guerra in poi si sono affermati gradualmente nei Paesi europei. Tante le differenze, impossibile ogni comparazione. Nonostante ciò, alcuni vizi e pericoli sembrano essere gli stessi. Il primo rischio è la preoccupazione costante nei confronti dei populismi e della demagogia che, oggi, trovano bacini di coltura nei

potentissimi e persuasivi mezzi di informazione di massa. I populismi, allora come adesso, riescono con grande efficacia a parlare alla “pancia” più che alla testa dell’elettorato. Parole seducenti ed abili che facilmente suggestionano le masse sempre meno critiche e capaci di elaborare efficaci strategie difensive. Virus letali che pian piano si insinuano sotto pelle cambiando lentamente ma progressivamente il nostro modo di guardare e capire il Mondo. Un pericolo questo che si accoppia al sempre più persistente fastidio per la necessaria e naturale alternanza al governo delle nostre amministrazioni d’ogni ordine e grado. Gruppi di potere che per troppo tempo occupano gli stessi posti sono una minaccia seria e non da poco allo spirito della democrazia. In questa prospettiva, anche le libere elezioni, sempre più spesso oggi, si tende a considerarle una perdita di tempo. Il mondo corre velocemente e c’è bisogno di una classe politica decisionista che non ama avere bastoni tra le ruote. Chi rema contro viene immediatamente biasimato e stigmatizzato come “gufo” o sabotatore. Sintetizzare, semplificare, le nuove parole d’ordine. In realtà, si tratta di tornare a stanze chiuse dove poche persone decidono il destino dei più. È facile capire, se così stanno le cose, come così perseverando, si finirà per desiderare anziché una rumorosa, confusa ed inconcludente assemblea, “un uomo solo al comando”, l’uomo del destino. Questa cosa non può che rappresen- tare il fallimento della stessa democrazia. Ma, a ben vedere, rappresenta anche l’incapacità delle classi dirigenti di trovare dentro di sé la forza per rimuovere quella incancrenita pigrizia che preferisce delegare tutto ad un padre-padrone anziché prendere responsabilmente in mano il destino dei territori e delle proprie comunità. Vale la pena, allora, impegnarsi e tenere alta la guardia senza cedere a queste scorciatoie che se nell’immediato possono sembrare un vero toccasana sulla distanza risulteranno decisive per la fine delle nostre libertà.

C’

sforzi, quindi è il caso del Teatro delle Arti, fa comunque crescere la società in senso civile sfornando generazioni migliori: è l’unico vero luogo di aggregazione e confronto, sul palco e in platea, possibile con onestà morale, fratellanza, solidarietà e rispetto, valori legati all’istinto ma soprattutto alla cultura. Infatti, si legge, «si pensa e si dice che il teatro ha una funzione culturale. Si dice che ha una funzione sociale. E anche economica. Tutto vero. Ma per capirci bene dobbiamo sfumare meno i termini e dire semplicemente che chi pensa questo, e promuove e finanzia il teatro che oggi passa sulle nostre scene, pensa che il teatro serva. Voce del verbo servire. Gli uomini delle istituzioni pensano che il teatro serva alla cultura, serva alla società, serva all'economia. E questo è falso. È falso perché il teatro non è al servizio della cultura, non è al servizio della società e neppure al servizio dell'economia. Il teatro è al servizio delle persone che fanno teatro» (da Cenacolo Teatro: Arte e Democrazia Intervento di Remo Rostagno). Ma il teatro, al di là del rapporto con le istituzioni, in merito al quale dipende la sua libertà di espressione, è un luogo della democrazia (come si evince dalla “conversazione con Peter Sellers di Alessandro Pomarico”). «Il teatro è lo spazio per costruire un nuovo mondo, una diversa maniera di comunicare, un modo per attivare una sorta di memoria pubblica. […] Il teatro è dialogo: con il testo e fra gli attori, con il pubblico, con le istituzioni. È vivere con altre persone, parlare e ascoltare veramente, affrontare l’imbarazzo le resistenze». Per Sellers, «l’importante è il processo, non il risultato. (…) Non si può immaginare che uno spettacolo cambi il mondo. Ma quello che fai devi continuare a farlo comunque». La morale è che il teatro, quando è libero di esprimersi, è al servizio di tutti: “non si può pretendere di risolvere i problemi del mondo con uno spettacolo”, ma con quello che ci lascia uno spettacolo, sì. Il teatro dura solo una serata.

era una volta nell’Alta Salerno un “contenitore” in stato di abbandono, affidato un giorno alla cura «di artisti salernitani che per anni cercavano una fissa dimora dove far alloggiare le speranze, i progetti, le ambizioni, le capacità, le proprie valenze artistiche ed organizzative». Fino al 2003 nessuno dava “credito ad un progetto simile, difficile per la realizzazione, oneroso per l'impegno economico, faticoso per la continua e dura quotidianità da affrontare”. Dopo mesi di collaborazioni e impegno per dare un «volto nuovo, da teatro con le relative necessità e garanzie di sicurezza per ospitare l'attività» viene inaugurato il Teatro delle Arti (era febbraio 2004). Un teatro dove si incontrano tutte le discipline artistiche: cinema, teatro, danza. Nella stagione 2015-2016, nello specifico, troviamo: programmazione cinematografica, scuola di danza, corsi di ballo, stage di danza e teatro, corsi di danza aerea, stagione di balletto, rassegna di fiabe dedicate ai bambini C’era una volta, rassegna di teatro napoletano “Napule è mille culure”, stagione di cabaret, stagione di teatro scuola. «Crediamo sia una realtà quella del Teatro delle Arti forse singolare, dove si incontrano tutte le discipline artistiche convergendo in un'unica direzione, che è certamente la qualità e soprattutto la sinergia che possa creare opportunità di lavoro. Costruiamo giorno per giorno il divertimento del pubblico che ci segue con grande attenzione da bravi operai che lavorano alla clemente e con grande partecipazione per far crescere quella che ormai dai più viene definita la FABBRICA DELLO SPETTACOLO, così come avevamo annunciato, facendo seguire alle parole i fatti» (da www.teatrodellearti.it). Fatti realizzati con le proprie forze, senza “vincoli istituzionali”. Ed è da qui che si è dato vita ad un luogo in cui le arti si esprimono liberamente. Un luogo da definire «quindi spazio di discussione, di partecipazione e decisione: un modello democratico del mondo dello spettacolo da esportare alla società civile» (Valle occupato – il teatro della democrazia di C.Marrucci). Il teatro, con le proprie forze e i propri

Nella foto: Teatro delle Arti di Salerno

Il salto mortale in avanti di La Capria Intervista di ATTILIO

L

BONADIES

a cameriera di colore ci introduce cordialmente (con me Lucia Giordano per le fotografie) nello splendido attico, a due passi dal Pantheon, indicandoci lo studio attiguo. Ai lati, fanno bella mostra di sé volumi di prestigiose collane bellamente ordinati in librerie-pareti-porte che condividono lo spazio del bibliosalone con ritratti, dipinti, busti, foto di famiglia, oggetti d’arte. Una finestra e due balconi danno vista ed accesso ad un ampio terrazzo con piante e fiori che contemplano tetti, cupole, monumenti della Roma eterna. Raffaele La Capria ci accoglie con un affabile sorriso, come se fossimo vecchi amici, segno di innata cordialità e congenito spirito di accoglienza tipici di quella colta borghesia napoletana che ha fatto della sua città, nella storia, il crogiuolo e la capitale intellettuale delle culture mediterranee. Mi indica amabilmente una poltrona, invitandomi ad accomodarmi al suo fianco. Maestro, partiamo da Ferito a morte (1961) col quale ha vinto il Premio Strega, scatenando molte ostilità e gelosie negli ambienti letterari. Un grande capolavoro da me proposto, come insegnante di liceo, per la coralità di racconto multiforme di una città speciale, Napoli, metafora del mondo. «Certo, è quella che io chiamo la polifonia, cioè diverse voci che si incrociano e da questa vociferazione nasce un silenzio (che potremmo chiamare assordante), quello della borghesia napoletana che si esprime con quella specie di vaniloquio che fa parte della società borghese meridionale e che ho voluto rappresentare come cosa implicita, senza stare a spiegare perché. Chi legge l’avverte e la cosa curiosa di questo romanzo è che ho sempre pensato che Ferito a morte fosse un libro difficile e quindi non avrebbe trovato molti lettori. Invece è diventato un romanzo popolare ed io non ho ancora capito il motivo per cui si sia così affermato ed abbia trovato tanti estimatori, forse perché le voci dei protagonisti sono universali ed ognuno vi si è riconosciuto». È servito da modello anche nel cinema, come a Bellocchio nella prima lunga sequenza de La Cina è vicina (1967). «Non ho visto il film, posso solo aggiungere che bisogna leggere due volte Ferito a morte per comprenderne le connessioni, giacché la prima volta ci si imbatte in una realtà nuova e solo la sua rilettura consente di riannodare i fili del racconto. Nel romanzo ho introdotto tecniche e procedimenti estranei alla tradizione meridionale (sincronia, punto di vista multiplo ecc.) per provocare un effetto dirompente, nel tentativo di spezzare quella specie di omertà, di connivenza che, attraverso il naturalismo, si era stabilita tra lo scrittore e il suo argomento». Nei suoi saggi sulla letteratura che, dopo i tre romanzi, caratterizzano gran parte della sua attività, il lettore scopre un’autobiografia letteraria assolutamente singolare ed avvincente. «Certo, è come un romanzo raccontato, un’au-

tobiografia letteraria attraverso i pensieri, giacché tutto il Novecento, tutti i grandi romanzi del secolo passato sono autobiografici: la Recherche di Proust, l’uomo senza qualità di Musil, l’Ulisse di Joyce. Tutti i pochi grandi narratori del Novecento (i tanti altri sono scrittori) hanno fatto autobiografia “alta” nel senso che il personaggio principale non parla semplicemente di se stesso ma, contemporaneamente, parla di altre cose. Allora io ho sintetizzato tutto questo dicendo: parlo di me stesso parlando d’altro e parlo d’altro parlando di me stesso». Rimaniamo sulla sua esperienza esistenziale: la magica estate del 1942 nel mare di Posillipo. «È questo il mare mitico della mia infanzia e della prima giovinezza trascorsa a Palazzo Donn’Anna, quel felice Eldorado popoloso di pesci quando scoprii il fondo del mare per la prima volta, mentre imperversava la guerra. Lo stupore, la magia, l’estatica bellezza di quel mondo sconosciuto in cui si entrava all’improvviso attraverso il vetro di un paio di occhiali, fu per me uno degli avvenimenti più importanti del ‘42». Poi la rottura terribile del 1943, con la chiamata alle armi e le esercitazioni nella Zona d’Operazioni della Puglia, i suoi scontri dialettici con Tullio, come lei riporta in Una lettera del 1943. Ma Tullio è personaggio reale o inventato? «È Antonio Girelli, arruolato come me nel 52° Battaglione d’Istruzione, da noi chiamato “Distruzione” e dividevamo la stessa tenda. Antonio era il moralista della situazione, mentre io ero quello che sopportava male la vita di soldato. Il rapporto tra me e lui era tra un moralista, amico naturalmente, che diceva che un uomo doveva sopportare tutte le vicissitudini, come la vita militare, che andavano debitamente affrontate ed io invece che, per mantenere l’identità con me stesso, dovevo rifiutare quello che mi sembrava un’idiozia, come appunto la vita sotto le armi». Quindi lei leggeva Cechov durante le marce della compagnia. «Certo, perché ci obbligavano a delle cose astruse e questa mia intolleranza per la vita militare creava in me uno sdoppiamento della personalità: da una parte l’uomo, dall’altro il personaggio, come in Una lettera del ’43 da lei citata e che è stato il mio primo racconto. Nulla a che vedere con l’uomo ed il personaggio pirandelliano, si trattava di misurarmi virilmente con la vita, nella fattispecie con le difficoltà della vita militare. Per Antonio Girelli io non ero in grado di affrontarla come fanno gli uomini veri, mentre io gli opponevo il personaggio che, per rimanere se stesso fino in fondo, non poteva essere all’altezza della situazione, perché nessuna ideologia occupasse gli spazi aperti davanti a lui». Poi l’incontro fondamentale con William Weaver, futuro traduttore per gli Stati Uniti di tanti scrittori italiani e che le farà conoscere Joyce. «Ho conosciuto William Weaver nel 1944 quando, da pacifista, era portantino disarmato che raccoglieva i feriti sotto il fuoco nemico, sul fronte

del Volturno. Veniva tutte le domeniche ed i giorni liberi, come nostro ospite, a Palazzo Donn’Anna a Posillipo e mi ha fatto conoscere scrittori e poeti anglamericani, sconosciuti in Italia: Auden, Eliot, Isherwood, Hemingway, Fitzgerald, Faulkner e, soprattutto, Joyce di cui conservo ancora, in volume rilegato, l’Ulisse che mi ha regalato, allora non ancora tradotto in italiano. Queste nuove sollecitazioni culturali mi hanno spinto a diventare traduttore di poeti inglesi: Eliot, Auden ed altri. Ma le vorrei narrare un fatto curioso: quando Weaver era ospite a casa nostra, era stato preso “sotto protezione” dalla nostra cameriera Rosaria che parlava dalla mattina alla sera con lui, naturalmente in napoletano. Allorché, dopo più di vent’anni, è stato impegnato con Il Pasticciaccio di Gadda, per tradurre il napoletano di Ingravallo si è riscoperto molto preparato, in virtù delle vecchie “lezioni” di Rosaria». In letteratura e salti mortali lei ha stabilito un rapporto stretto tra il tuffo, sport da lei brillantemente praticato in gioventù e la letteratura. «È un modo di accostarsi alla letteratura non coi soliti sistemi di professore, ma con delle immagini poetiche, come a dire: guardate io non sono un letterato ma un dilettante che usa questo sistema per parlare di letteratura in modo immaginifico, paragonando un buon romanzo ad un bel tuffo,(come il salto mortale e mezzo in avanti carpiato con avvitamento, il mio preferito) sintesi di perfezione, grazia, leggerezza. La stessa cosa avviene nello zen ed il tiro con l’arco in cui, ad occhi chiusi, si fa volare la freccia al centro del bersaglio, come accade magicamente nei Sillabari di Goffredo Parise». Appunto, il suo amico Parise al quale lei dedica molte pagine nei suoi libri. «Parise è il mio maestro, per la leggerezza di stile che io chiamo“lo stile dell’anatra” che, sulla superficie dell’acqua sembra non faccia alcuno sforzo, mentre sotto pedala di corsa con le zampette. Per arrivare a quel tipo di leggerezza, lo scrittore deve lavorare molto con le zampette ma lo sforzo non deve apparire, come fa Parise e come accade con i tuffi in cui l’atleta non deve mostrare, come un gabbiano, lo sforzo del suo volo nell’aria». Lei esprime un giudizio poco lusinghiero sulla scuola e sui libri di testo richiamando la frase di Longanesi: “tutto quello che non so, l’ho imparato a scuola”. Le confermo che nessuna antologia scolastica riporta un suo testo e ho dovuto fotocopiare Ferito a morte per le mie lezioni. «È una vecchia storia questa, della mia irreperibilità, non solo nelle librerie dove si trova solamente Ferito a morte e nient’altro, mentre invece molti dei miei testi andrebbero utilizzati a scuola. Ad esempio, per la scuola elementare il modello educativo è La neve del Vesuvio dove, attraverso racconti e personaggi che appartengono alla mia infanzia, avviene la formazione di un bambino fino ai dieci anni, ma nessuno conosce questo mio libro, il più apertamente autobiografico». Con questo richiamo all’infanzia, “il bambino” La Capria ci congeda cordialmente.

In alto da sinistra: Raffaele La Capria; lo scrittore con Attilio Bonadies nel corso della nostra intervista; la copertina del libro Letteratura e salti mortali (Oscar Mondadori)

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arte moderna

proscenio

Rimutò lʼarte del dipingere di greco in latino, e ridusse al moderno; et ebbe lʼarte più compiuta chʼavessi mai più nessuno (Cennini)

La gente è il più grande spettacolo del mondo. E non si paga il biglietto (C. Bukowski)

La viva

forza

democratica del monologo L’artista in questo approccio si libera del tutto da schemi a senso unico

di

GEMMA CRISCUOLI

Invito a teatro/1

Venaria apre le porte a Raffaello

Milano, Credoinunsolodio in scena al Piccolo re donne, tre percorsi, tre partite da T giocare con la storia tra violenza, ansia di libertà e un rimosso che si ostina

a risorgere. Scritto da Stefano Massini nel 2010 e diretto e interpretato da Manuela Mandracchia, Sandra Toffolatti, Mariangeles Torres Credoinunsolodio è una coinvolgente sovrapposizione di tre punti di vista, in scena dall’1 al 20 dicembre al piccolo di Milano, in uno dei contesti più complessi al mondo: il conflitto israeliano-palestinese, dove colpa e innocenza tendono a sfumare di continuo i propri contorni e inravedere una luce nel buio diventa un’impresa quasi insormontabile. Una studentessa, una docente e una militante fanno i conti con lo stesso inferno, con le stesse contraddizioni, con le stesse ferite. I tre binari narrativi non si incontrano, eppure nessuno è mai stato così vicino come loro. I capovolgimenti dell’ottica e le immedesimazioni risultano ineludibili. Il desiderio di autoaffermazione al di fuori di un mondo ingiusto è declinato con un’attenzione stupefacente alla personalità delle protagoniste, che coinvolgono immediatamente il pubblico in una vicenda che risulta terribilmente vicina. Esistono tuttavia catene che non si spezzano. Il titolo, non a caso, gioca sulla doppia interpretazione di credere in un solo dio o in un solo odio: la religione è madre di molti orrori nella storia. La pièce si snoda in un crescendo di tensione che culmina in un sacrificio che non può non apparire ingiusto. Le scene sono di Mauro De Santis, le musiche di Francesco Santalucia e i movimenti di Marco Angelilli.

g.c.

Nella foto Manuela Mandracchia

P

otrebbe sembrare un paradosso, eppure uno degli atti che possano considerarsi pienamente democratici è il monologo teatrale. Se infatti l’interprete si mette totalmente in gioco sfidando se stesso e attingendo alla propria unicità, non può che contrapporsi a una realtà concepita a senso unico, sia che si faccia portavoce di una visione che considera prioritaria, sia che accolga in sé il sentimento di un’intera generazione. Su questo duplice binario si muovono due spettacoli apprezzati da pubblico e critica e proposti con successo alla rassegna salernitana di Vincenzo Albano Per voce sola: Ecce Robot. Cronaca di un’invasione di e con Daniele Timpano e Antropolaroid di e con Tindaro Granata. La prima opera è un omaggio ai cartoni animati giapponesi di quarant’anni fa: brutti, violenti, pornografici e dunque irresistibili. Era il 4 aprile del 1978. Chi diavolo poteva immaginare che l’alabarda spaziale di Goldrake si sarebbe conficcata nella mente e nel cuore dei giovanissimi di allora? Ricostruendo con divertente scrupolo filologico il primo e l’ultimo episodio di Mazinga Z di Go Nagai, il protagonista ispira a quegli eroi il suo stesso approccio al palco. Lo sguardo spiritato, i movimenti a tratti convulsi, le espressioni spesso fissate in una maschera buffa non lo farebbero affatto sfigurare in un plot del Sol Levante. Presentandosi come una mutazione antropologica dovuta ai robot d’acciaio contro cui tuonavano senza sosta i moralisti dell’epoca, Timpano denuncia come dietro l’onnipresenza del televisore vi fosse l’assenza degli adulti o le loro tensioni malate: il ricordo di una gamba tagliata al padre in una lite è la grottesca dimostrazione di come l’orrore ami nascondersi nella quotidianità. Nulla spaventa un bambino più di una famiglia in pezzi. E il missile fallico di Mazinga Z farà sempre minor danno di un genitore anaffettivo, che re-

Teatro di San Carlo di Napoli

lega davanti al piccolo schermo chi ha solo voglia di sognare un pò di più. Su un altro registro emotivo si gioca Antropolaroid. I familiari in cui Granata si trasforma con un semplice movimento, con una rapida inflessione, cercano di sottrarsi a ciò che li imprigiona: zia Peppina, che ignora dolcemente la gamba offesa per insegnare il valzer a nonna Maria Rosa, la quale fugge per un amore che le farà del male, Nià Mena che la aiuta e vede nella giovane la possibilità di vivere che a lei, ex prostituta, è stata preclusa, papà Teodoro alla ricerca di un’autoaffermazione. Perfino zio Gasparino, che vuole ballare a dispetto della meningite (ma nella Sicilia cocciutamente chiusa nel suo non tempo, dove la donna che conosce l’italiano è “buttana”, è la fantasia a esorcizzare il male e la paura, per cui è stato un angelo nero a rubare a Gasparino il pensiero quando era in fasce). Nel declinare tutte le sfumature del tormento e della tenerezza, all’artista bastano una sedia e un lenzuolo che diventano tomba, letto, vestito della festa, dato che sono appunto le emozioni a dominare la scena. Dal passato rivissuto anche con ironia (indimenticabile la bisnonna Concetta che sputa sulla lapide del marito, reo di averla resa vedova) emerge l’ansia dello stesso Tindaro di essere libero. Nella danza antica che sfida Badalamenti, inizia a infrangere le catene con l’isola che pure vive in lui. Sulla nave che lo porta verso il futuro di attore ritrova il nipote del mafioso: presenza evocata da una lampadina accesa sul proscenio, dato che i legami con ciò che è stato sono l’unica certezza in un’esistenza tutta da definire. Ma non si torna indietro. E mentre il domani si avvicina, resta in Tindaro la benedizione della “stidda” assicurata dalla bisnonna: tanta bellezza, tanta fortuna, tanta sofferenza. Perché è il dolore il prezzo per alzare al cielo occhi nuovi.

Vicenza. Danza XX edizione

Fournial è il nuovo direttore della Scuola di Ballo

La nuova Stagione di Danza del Teatro Comunale

rancese di origine, Fournial si forma tecnicamente con Solange Golovine, F prima ballerina e maître de ballet della

na programmazione prestigiosa e di sicuro richiamo, per celebrare i venU t’anni di Vicenza Danza, la stagione di

storica compagnia francese “Ballet du Marquis de Cuevas”. Prosegue studiando con Rosella Hightower alla Scuola Superiore di Danza di Cannes, e con altri importanti insegnanti dell’Opéra di Parigi, come Raymond Franchetti e Noëlla Pontois. Inizia la carriera artistica con il Ballet de Marseille di Roland Petit nel 1979, per poi passare, due anni dopo, all’Opéra du Nord a Lille. Allo stesso tempo, nel 1982, ottiene un contratto come guest al Tokyo Ballet, e dal 1984 al 1990 danza con la Compagnia del Badisches Staatstheater di Karlsruhe in Germania. Dal 1990 è guest artist presso importanti teatri internazionali, tra cui lo Stuttgart Ballet, il Marijnsky di San Pietroburgo, il Teatro Nacional di Sao Carlos di Lisbona, lo Scottish Ballet, il Teatro alla Scala di Milano, il Teatro San Carlo di Napoli, l’Arena di Verona, per citarne alcuni. Vincitore di numerosi premi come il Premio Positano “Léonid Massine” nel 1995, Fournial ha danzato con alcune delle più importanti étoiles internazionali: Claude de Vulpian, Carole Arbo, Irena Pasaric, Margaret Illmann, Carla Fracci, Sofiane Sylve e ha lavorato con grandi coreografi, tra cui Roland Petit, Wayne Eagling, Pierre Lacotte, Robert North, Maurice Béjart, Frederic Ashton, Hans Van Manen. Lasciate le scene, ha proseguito il suo percorso diventando coordinatore artistico per il Mönchengladbach e successivamente Tour Manager per l’Het National Ballet di Amsterdam. Dai suoi insegnanti ha appreso che il rigore accademico non nuoce alla sensibilità, anzi permette di esprimersi liberamente secondo la personalità di ognuno, affrontando questo rigore con amore, passione e dedizione. Le stesse parole d’ordine con cui fino ad oggi si è impegnato come maestro e manager di “6-Prime”, il cui fine ultimo è quello di far conoscere la danza di qualità.

Roberta Bignardi

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Invito a teatro/2

Simone Cristicchi a Trento con Magazzino 18 i è scrollato da tempo di dosso la Sconducendo fama del cantante di evasione e sta un personalissimo discorso

su tematiche sociali di forte impatto, anche a costo di suscitare roventi polemiche. Simone Cristicchi, diretto da Antonio Calenda, propone al Teatro Sociale di Trento, dal 3 al 6 dicembre, Magazzino 18, lo spettacolo in coproduzione con Promo Music e Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia che affronta l'esodo degli italiani in fuga dalla Jugoslavia nel 1947 e la vicenda, pressoché sconosciuta, dei cosiddetti “rimasti”, che fecero la scelta opposta anche a costo di sacrifici. Autore insieme al giornalista Jan Bernas, attento alle fonti, Cristicchi decide di moltiplicare le energie della performance interpretando molti personaggi, ricostruendo attraverso il loro vissuto, senza retorica né accondiscendenza, il momento cruciale in cui si è costretti a lasciare tutto ciò che ha avuto un senso nella propria esistenza. Quando ci si trova dinanzi alla decisione se andare in esilio o no, anche chi resta percepisce sulla propria pelle il senso di un ferita difficile da rimarginare: si sente scisso, monco, costretto a ridefinire i parametri del proprio mondo e a difendere in una lotta impari quelle memorie che dovrebbero essere la radice del futuro, non i resti di una felicità solo intravista. I brani creati apposta per l’occasione scandiscono i momenti di un percorso in cui speranza e disperazione giocano a rimpiattino, sottolineando come la storia sappia essere crudele nel calpestare, in nome dell’egoismo di turno, persone e cose.

Ciro Manzolillo

Nella foto Simone Cristicchi

r.b.

Milano, «Giotto, l’Italia»

La mostra più ambiziosa a lui fino ad oggi dedicata è stata organizzata quale evento conclusivo della grande kermesse di EXPO2015 di

ALESSANDRO DARRA

«E

bbe uno ingegno di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la Natura [...] che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto d’essa paresse». Le parole di Giovanni Boccaccio (Decameron, Giornata VI, novella V), uomo che cresce nell’ambiente fiorentino dominato dalla pittura di Giotto, esprimono ancora oggi il senso di meraviglia che si prova davanti ad un opera di questo maestro. E Boccaccio conosce, con ogni probabilità, Giotto a Napoli, dove l’artista soggiorna alla corte di re Roberto d’Angiò in un periodo circoscritto tra il 1328 e il 1332. Ma è a Milano che, dal 2 settembre 2015 al 10 gennaio 2016, si possono ammirare quattordici opere di Giotto di Bondone. Nelle sale di Palazzo Reale è allestita la mostra “Giotto, l’Italia”, evento che si collega alla fase conclusiva di Expo2015. Tale operazione è stata curata da Serena Romano e Pietro Pietraroia in collaborazione con istituzioni di carattere nazionale, tra le quali spiccano: la Pinacoteca Nazionale di Bologna, le Gallerie dell’Accademia e le Gallerie degli Uffizi di Firenze. Significativa è la collaborazione con il San Diego Museum of Art; l’apertura di tale canale ha permesso l’approdo a Milano della nota cimasa raffigurante il Padre Eterno e angeli, oggi ridotta a piccola tavola, ma che in origine completava il Polittico Baroncelli. Questo è usualmente custodito nella omonima cappella in Santa Croce a Firenze. La mostra si è fatta occasione per riunire le due opere, separate da un intervento, come suggerisce in catalogo Julian Gardner, di Sebastiano Mainardi nel Quattrocento. Tra i prestiti più in vista vi è quello del Polittico Stefaneschi, opera romana del maestro che non aveva mai lasciato i Musei Vaticani. Altrettanto interessante è la presenza di due mezzi busti di Santi, di collezione privata, provenienti dalla primitiva Basilica di San Pietro in

Invito a teatro/3

Biblioteca Apostolica Vaticana

rofetico, scomodo, sensibile a tutto quello che l’italiano medio non saP prebbe neppure immaginare. Pieno di

Roma, Fabrizio Gifuni legge Ragazzi di vita

danza del Teatro Comunale che nel 2015 raggiunge con orgoglio questo prestigioso traguardo. La programmazione realizzata in collaborazione con Arteven - prevede sette spettacoli in abbonamento, di cui due in doppia data e una tripla data per lo spettacolo dei Momix, che ritornano a Vicenza con il loro ultimo spettacolo. Grandi nomi, per le celebrazioni del ventennale, come quello della Paul Taylor Dance Company che inaugura la stagione, grandi titoli come “Giselle” (in versione classica), “Lo Schiaccianoci” riletto in chiave contemporanea ma in ambientazione barocca dal Ballet du Grand Théâtre de Genève, gruppi di sicuro richiamo, come la Compagnia Käfig, portabandiera dell’hip-hop e delle nuove tendenze artistiche, sempre in formazione diversa e un gruppo ricercato come l’americano Tulsa Ballet; e ancora, un’incursione nel classico nei brani che il direttore artistico del Wiener Staatsballet, Manuel Legris, dedicherà ai 20 anni della rassegna. Per i Momix, non necessitano presentazioni, lo spettacolo è quello che festeggia il 35° anniversario di attività dell’eclettico gruppo con i loro spettacoli di danza sempre in bilico tra l’acrobatico e l’illusionista: “W MOMIX Forever - 35th Anniversary”, naturalmente firmato dal fondatore e direttore artistico Moses Pendleton, in programma dal 4 al 6 dicembre. Eccellenza artistica, unicità nelle proposte di spettacolo, nomi celebri, uno sguardo attento alla tradizione americana, rappresentano all’unisono la cifra artistica della nuova stagione di danza. Innovazione, territorio di esplorazione e di dibattito, contatto diretto dell’autore (spesso anche interprete) con il pubblico, sono invece le linee ispiratrici della rassegna Luoghi del Contemporaneo-Danza, in scena al Ridotto, quattro spettacoli per un abbonamento dedicato, per presentare le nuove tendenze.

Il Sanzio e il fecondo rapporto con i maestri e le arti minori del Cinquecento ino al prossimo 24 gennaio 2016 sarà possibile visiFtitolata tare, presso la Reggia di Venaria Reale, la mostra in“Raffaello. Il sole delle arti”. La scelta dei due

amore per la vita e di odio per una morale asfittica, pronta solo a colpire ma non a capire. Pier Paolo Pasolini ha lasciato una traccia indelebile nella storia della penisola e Fabrizio Gifuni, a suo agio nella fiction come in pellicole non allineate, decide di rendere omaggio all’intellettuale ostile a tutte le comode categorie attraverso un’appassionata rilettura di Ragazzi di vita. Lo spettacolo, presso il Teatro Franco Parenti di Roma dal 15 all’11 novembre, si propone come riscoperta libera e capillare di un’opera che all’epoca scandalizò e affascinò e che non cessa di stupire a distanza di anni. Il Begalone, il Riccetto, il Caciotta sono restituiti alla loro umanità, alla loro ingenuità e freschezza in un mondo che non fa sconti a nessuno. I giovani sottoproletari che si muovono, come in un percorso iniziatico, tra le periferie e il centro sono specchio nudo e straniante di un contesto sociale su cui si preferirebbe chiudere gli occhi. Tutti i toni grotteschi e violenti della Roma degli anni Cinquanta, un periodo solo all’apparenza lontano, assumono concretezza attraverso la versatilità di Gifuni, in cui amore e rispetto per il testo si mescolano in modo inscindibile. Il linguaggio icastico annulla ogni diaframma tra questi emarginati, che in fondo desiderano solo che i loro sogni si avverino, e il pubblico che avverte in essi un’energia che conquista. Lo scenario postbellico mostra personaggi che ignorano ogni ipocrisia.

Bruno De Marco

Nella foto Fabrizio Gifuni

Vaticano. La loro presenza ha consentito di approfondire il rapporto di Giotto con Roma e, soprattutto, col la basilica di San Pietro. In una serie di saggi in catalogo di Serena Romano, Pietro Zander, Marta Bezzini e Andrea De Marchi emergono nuove proposte per questo importante cantiere in cui Giotto opera nel secondo decennio del Trecento. L’allestimento della mostra si articola in tre grandi aree tematiche e cronologiche: la gioventù, il periodo dell’affermazione e l’età della fama con i grandi o, per dirlo con le parole di Dante, l’età del grido. Le opere vivono nell’allestimento curato dall’architetto Mario Bellini che si deve confrontare con due polittici dipinti su entrambi i lati: il Polittico di Santa Reparata e il Polittico Stefaneschi, oltre alla decontestualizzazione di quelle che ancora possono vantare la collocazione in una chiesa, come il Polittico Baroncelli. Ma il cammino di Giotto è lungo e si snoda in molte tappe che non si possono esaurire solo nella mostra milanese. Consci di questo fatto, il team di organizzatori ha voluto virtualmente completare il percorso espositivo proponendo ai visitatori sei itinerari esterni alla mostra: Napoli e Teano, Assisi e Perugia, Firenze con Settignano, Rimini e Bologna, Padova e, l’ultimo, all’interno di Milano. Sono tutti luoghi direttamente toccati da Giotto nel corso della sua carriera. Si tratta di itinerari meditati ed esposti sul sito www.luoghigiottoitalia.it. Certamente non tutti si possono permettere di seguire per intero la via di questo grande artista. È bene ricordare, però, che la forza delle sue innovazioni è stata capace di riecheggiare su tutto il suolo italiano. Tracce di tali eco si trovano, quindi, anche in città lontane da quelle proposte dagli itinerari ancillari alla mostra. Alcuni di questi, poi, sono proposte che permettono di avvicinare Giotto al di là dell’esposizione meneghina.

curatori, Giovanni Barucca e Sylvia Ferino, è stata quella di presentare questo grande interprete della ‘maniera moderna’ italiana sotto una veste inedita, dedicando particolare attenzione al rapporto tra il Sanzio e quelle che Vasari definirà ‘arti congeneri’. All’interno dell’esposizione resta comunque possibile ricostruire per sommi capi la carriera pittorica dell’Urbinate: viene esemplificato il momento della sua formazione, tra il ricordo del padre Giovanni Santi e le opere di Perugino e Signorelli, si prosegue con le opere eseguite in Umbria e nel successivo soggiorno fiorentino, per approdare infine alla fase matura con la Visione di Ezechiele della Galleria Palatina e la Santa Cecilia della Pinacoteca di Bologna. L’intento primario della mostra torinese è però quello di valutare l’importanza della figura di Raffaello su un più ampio raggio, che travalichi i limiti della sola pittura. Si sottolinea il legame con Marcantonio Raimondi, l’incisore bolognese a cui il Sanzio fece riprodurre numerosi suoi disegni, oppure la commissione per gli arazzi della Cappella Sistina, per i quali Raffaello accettò di realizzare i cartoni da inviare alla bottega di Pieter Coecke van Aelst. Ma anche al di là di questi casi emblematici, Raffaello si dimostrò sempre attento a tecniche artistiche diverse, lui che del resto aveva saputo affinare capacità imprenditoriali per la gestione dei complessi cantieri romani. Derivazioni da disegni e modelli raffaelleschi si riscontrano nelle ornamentazioni della produzione glittica di Valerio Belli, nel poliedro intarsiato da Giovanni da Verona per una delle porte delle Stanze Vaticane e ancora in una serie di armature, vetri e monete, mentre la raccolta di ceramiche istoriate di Urbino, Gubbio, Deruta e Faenza testimonia la straordinaria e duratura fortuna che la lezione del grande maestro riscosse in questo tipo di produzione. Tra le sale della Venaria si coglie così l’importanza del linguaggio raffaellesco per la produzione artigianale del tempo e al contempo si mette in rialto il ruolo che le ‘arti congeneri’ svolsero nell’accrescere la fama dell’Urbinate, veicolando, proprio grazie alla loro facilità di diffusione, i modi del Sanzio per tutta Europa.

Marco Fagiani

Nella foto: Raffaello, Visione di Ezechiele, olio su tavola, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti

Nella foto: Giotto, Polittico Baroncelli, 1330 ca., tempera su tavola, Firenze, Basilica di Santa Croce, Cappella Baroncelli

El Greco in Italia

Palermo, Palazzo Sant’Elia

I disegni di Bernini, «Michelangelo del suo tempo», e della sua scuola

Metamorfosi di un genio da iconografo del mondo ortodosso a genio visionario

Maestri della pittura toscana e veneta nella collezione Banca Popolare di Vicenza

l volume I disegni di Bernini e della sua scuola nella Biblioteca ApoVaticana, a cura di Manuela Gobbi e Barbara Jatta, costituiIscestolica il compendio di una ricerca iniziata anni fa con il proposito di

a mostra dedicata a Domenico Theotokopulos detto El Greco (1541-1614), aperta a Treviso presso Casa dei Carraresi dal 24 otL tobre 2015 al 10 aprile 2016, nasce da un progetto scientifico del cu-

ino al 6 gennaio 2016, la prestigiosa sede di Palazzo Sant’Elia a F Palermo offre un’occasione unica per vedere riunite le più importanti opere d’arte provenienti dalla collezione della Banca Po-

Luca Mansueto

Nella foto: El Greco, Altarolo portatile, Verso: al centro Veduta del Monte Sinai; sui due lati Adamo ed Eva davanti al Padre Eterno e Annunciazione, 1567-1568 ca., tempera su tavola, Modena, Galleria Estense

raccogliere tutti i disegni del maestro del Barocco in possesso della Biblioteca Apostolica Vaticana per la prima volta in un unico volume. Il catalogo dei disegni si compone di quattro nuclei principali, Disegni di architettura; Disegni di figura; Disegni di composizioni e devozionali; Studi vari, sviluppati in ventisei sezioni per un totale di trecentonovantotto disegni. I fogli sono elencati singolarmente o per cantiere e presentati sotto tutti gli aspetti, sia artistici che documentari. Si è scelto di inserire tutti gli autografi o attribuiti, di bottega, di scuola e ambito oltre a quelli di artisti coevi o di mano di Alessandro VII, che, pontefice amante delle arti e competente disegnatore en amateur, tanta parte nella ideazione e nelle successive elaborazioni di molti progetti berniniani. Si possono ben apprezzare le note qualità grafiche di Bernini, dagli schizzi a penna e matita, in cui rappresenta un concetto, un’idea con poche ma essenziali e vibranti linee, agli energetici disegni ad acquarello di vario soggetto. Un saggio di Paolo Portoghesi introduce il volume, seguito dalla biografia del Bernini quale risulta dalle ricerche di Manuela Gobbi. Seguono due saggi di Barbara Jatta che illustrano le vicende di Bernini disegnatore e la storia delle collezioni vaticane. Chiude il volume il saggio di Angela Núñex Gaitán sui recenti interventi di restauro di alcuni disegni. Nella foto: Gianlorenzo Bernini, Testa d’uomo di profilo, 1640, carboncino, matita rossa e biacca su carta, Roma, Biblioteca Vaticana, Arch. Chigi

ratore Lionello Puppi, uno maggiori esperti al mondo del pittore greco, insieme ad un comitato scientifico d’eccellenza composto da Serena Baccaglini, Robin Cormack e Maria Paphiti. La mostra ripercorre il soggiorno dell’artista nel nostro paese con la presenza di capolavori dei grandi maestri che hanno influenzato il suo lavoro tra cui Tiziano, Tintoretto, Correggio, Jacopo Bassano. Tra le opere principali: il San Demetrio (ante 1567) recentemente scoperto ed esposto per la prima volta al grande pubblico, testimonianza della prima attività del pittore; la Guarigione del Cieco (1573 ca.), l’Adorazione dei Pastori (1568-1569 ca.) testimoniano invece il soggiorno a Roma dell’artista. Vertice della mostra è il Trittico di Modena (1567-1568 ca.), squisito altarolo devozionale, firmato dall’artista (CHEIR DOMENIKOU, “mano di Domenico”), una delle creazioni più conosciute e significative della produzione giovanile di El Greco. L’opera arrivò alla Galleria Estense nel 1805 dalla raccolta d’arte del marchese Tommaso degli Obizzi, custodita nel Castello del Catajo presso Padova. Ignote sono fino ad ora le sue vicende precedenti. Il trittico rimase sconosciuto fino al 1937, quando fu letteralmente riscoperto da Rodolfo Pallucchini nei depositi della Galleria Estense.

l.m.

polare di Vicenza. “Capolavori che si incontrano” consente, per la prima volta in Sicilia, di godere di ben novanta opere appartenenti alla pittura veneta e toscana tra ‘400 e ‘700. La prima sezione della mostra, intitolata “Imago Magistra“, ruota intorno ai soggetti pittorici a tematica religiosa. Qui capolavori assoluti della storia dell’arte come la Crocifissione di Giovanni Bellini o la Coronazione di Spine del Caravaggio, come la Madonna col Bambino e San Giovannino di Jacopo Bassano o la Madonna col Bambino di Filippo Lippi. Il rapporto tra la Madre e il Figlio, insieme alla metafora del Fiore e del Frutto, reggono il passaggio alla raffigurazione delle virtù, in particolare Carità e della Concordia, rappresentate in mostra da due opere fondamentali di Carlo Dolci e Pietro Dandini. Nella seconda sezione, “Immagine Ideale”, dipinti di estrema raffinatezza formale come l’Apollo di Cesare Dandini o l’Entrata di Alessandro Magno in Babilonia di Gaspare Diziani. Passando in rassegna la ritrattistica toscana e veneta del Rinascimento, la terza sezione, “Il volto dell’Idea: il ritratto”, ha come apici il Doge Nicolò da Ponte di Tintoretto e Ferdinando de’ Medici di Santi di Tito. Conclude la mostra la quarta sezione, “La Bella Natura“, con paesaggi e nature morte di Zuccarelli, Zais, Chimenti, Scacciati, consentendo una riflessione sul “falso e il vero” della natura trasposta in pittura.

l.m.

Nella foto: Gian Domenico Tiepolo, Ritratto di vecchio con turbante, olio su tela, Banca Popolare di Vicenza

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arte contemporanea L'artista per lavorare e produrre ha principalmente bisogno di libertà (M. Rapisardi)

Una riflessione sul dibattito in corso, reso maggiormente attuale dall’esuberanza dell’immateriale nelle sale e nei padiglioni dell’ultima Biennale di Venezia Da sinistra: Melvin Edwards, Lynch Fragments, allestimento delle sculture negli Arsenali; Monica Bonvicini, Latent Combustion, 2015 courtesy Peter Kichmann, Zurich, König Galerie, Berlin. In basso da sinistra: Christian Boltanski, Animitas, 2014; Eduardo Basualdo, Alba, 2014 courtesy Galerie Ruth-Benzacar, Buenos Aires; Kutluğ Ataman, The Portrait of sakip sabanci, 2014; Robert Smithson, Dead Tree, 1969 courtesy The Holt-Smithson Foundation and J. Cohan Gallery, New York; Sammy Baloji, The other Memorial, 2015 courtesy Gallerie I. Farés, Paris – Axis Gallery New York

Una mostra al MADRE

Mark Leckey: macchine desideranti di

A Roma all’Ara Pacis

Toulouse-Lautrec, materiali inediti Apre il 4 Dicembre 2015 la mostra dedicata a Henri de Toulouse-Lautrec al Museo dell’Ara Pacis di Roma. Il percorso espositivo propone 170 opere provenienti dal Museo di Belle Arti di Budaperst che ripercorrono gli ultimi anni di attività dell’artista bohémien di fine Ottocento. In occasione dell’evento romano saranno visibili al pubblico manifesti, illustrazioni, copertine di spartiti e locandine, alcune delle quali sono stampate in tirature limitate, numerate e corredate dalla dedica dell’artista; il materiale, organizzato in 5 sezioni, ha per oggetto il proletariato e la vita notturna di Montmartre, evocando la Parigi della Belle Époque. H. de Toulouse-Lautrec, Divan Japonais

A Napoli la street art

Roxy in the Box e la sua VascioArt Da ottobre scorso e per circa un anno si protrarrà il progetto di street art dal titolo Chatting anzi, come la stessa artista Roxy in the Box afferma, di VascioArt, ovvero un’arte messa in pratica direttamente fra i vicoli dei Quartieri Spagnoli a Napoli. Si tratta di stencil che raffigurano personaggi molto popolari come Obama, Marina Abramovic, Basquiat, Amy Winehouse ritratti in posizione seduta e rielaborati dall’artista secondo il proprio alfabeto pittorico. Gli stessi sono applicati al muro durante il giorno trattandosi, tra l’altro di un tentativo di mettersi in relazione diretta con chi poi vivrà l’immagine quotidianamente e di osservarne le reazioni.

PASQUALE RUOCCO

ino al 18 aprile 2016 presso le sale del Museo MADRE di Napoli F sarà visitabile “Desiderata (in media res)”, la prima personale italiana dell’artista britannico Mark Leckey (Birkenhed, 1964), vincitore nel 2008 del Turner Prize. La mostra curata da Elena Filipovic e Andrea Viliani, in collaborazione con Wiels di Bruxelles e Haus der Kunt di Monaco, si articola tra opere storiche, realizzate nel corso degli Anni Novanta, e nuove produzioni, tra sculture, installazioni e video. Tra queste le GreenScreenRefrigeratorAction (2010-11), un banalissimo frigorifero che recita uno spot pubblicitario sullo sfondo di un green screen cinematografico, Made in Heaven (2004) video installazione di cui diventa protagonista il Rabbit di Jeff Koons e, ancora, Inflatable Felix (2013) grande scultura gonfiabile raffigurante Felix the cat celebre personaggio animato degli anni Venti. Il lavoro di Leckey si muove, in questo senso, costantemente al confine fra arte e quotidianità, riflettendo su come i simboli, i feticci, gli oggetti che ci circondano ridefiniscono la sfera dei nostri desideri e sobillano le fantasie più intime, plasmando così la nostra identità e le nostre memorie. Nelle sue opere l’artista britannico analizza l’inestricabile articolazione fra cultura alta e cultura popolare, tra fisicità e virtualità, copia e originale, riflettendo su come la nostra esperienza del mondo viva una continua mutazione, legata soprattutto al progresso tecnologico, al mondo merceologico, nonché da un sempre più intenso mescolarsi delle culture.

Nella foto in alto: Mark Leckey, Felix Gets Broadcasted, 2007. Courtesy l’artista; Cabinet, London; Gavin Brown’s enterprise, New York; Galerie Buchholz, Berlin/Köln

in vetrina

Roxy in the Box, Amy Winehouse

La materia della scultura oggi, la sua vitalità di

ADA PATRIZIA FIORILLO

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e scelte non sono mai operazioni neutrali. Implicano, al contrario, un coinvolgimento che può caricarsi di svariate ragioni: emotive, estetiche, istintive, razionali o, più propriamente, progettuali. Partivo da questo assunto nella primavera scorsa per motivare scelte ed osservazioni dettate, su tutte, da un progetto, in sostanza l’idea che ha accompagnato il taglio di una mostra (La scultura dopo il Duemila) che dedicavo per l’appunto alla scultura attuale. Nodo di quel percorso era il corpo della scultura, ovvero la sua forma letta nelle diverse polarità che ne hanno modificato il suo originale statuto o, volendo far ricorso al sottotitolo, nella sua “idolatria e iconoclastia”. La 56. Biennale di Venezia con il suo «Parlamento delle forme» non aveva ancora aperto i battenti. Appena pochi giorni dopo però quell’ ‘incommensurabile’ disegno offriva ulteriori punti di osservazione ad un confronto dialettico rispetto al quale richiamare il nodo della scultura. Certo l’idea di una specifica disciplina non è appartenuta, né poteva essere diversamente, al suo curatore, Okwui Enwezor, il cui sguardo ha inteso, con il progetto All the World’s Futures, porre al centro un preciso interrogativo. «In quale modo – queste le sue parole – gli artisti, i pensatori, gli scrittori, i compositori, i coreografi, i cantanti e i musicisti possono mediante immagini, oggetti, parole, movimenti, azioni, testi e suoni riunire più pubblici nell’atto del guardare, ascoltare, reagire, partecipare e parlare al fine di scoprire il senso dello sconvolgimento del nostro tempo?». Il che, traducendo, può significare l’aspettativa di una possibile risposta dell’arte ed in generale della creatività a tutta una serie di problematiche connesse al nostro quotidiano. È opinabile siano quelle che il Presidente della Biennale Paolo Baratta ha chiamato «forze» e «fenomeni esterni», sebbene sia difficile comprendere a cosa tali fenomeni o,

forze che dir si voglia, siano esterni, dal momento che egli stesso identifica il carattere di questa edizione nel «rapporto tra l’arte e lo sviluppo della realtà umana, sociale, politica», con ‘dentro’, viene allora da dire, proprio quelle forze che vi fanno o vi hanno una parte. Riprendendo però il filo con il progetto del curatore in virtù delle riflessioni sollecitate da questo contributo, ciò che emerge in primo luogo è l’evidente affondo dell’esposizione in una realtà globale da lui «intesa come situazione di costante riallineamento, adattamento, ricalibrazione, motilità e spostamento di forma». In sostanza non una forma, ma più forme, non un tempo, ma più tempi, non una linearità ma una storia che si avvita con la sua controstoria. È sembrato confortante tutto ciò, lo è stato, al di là delle singole scelte, per ripensare all’analisi condotta sul concetto di scultura in occasione della mostra citata in apertura. Una posizione teorica che aveva trovato una motivazione anche in virtù degli spunti accolti dal pensiero di Mario Perniola nel saggio Estetica del Novecento, in particolare lì dove si sofferma a considerare il valore della forma. «La parola “forma” – vi si legge – non è meno della parola “vita” estremamente diffusa nella cultura estetica del Novecento. Entrambe queste nozioni […] rappresentano due tendenze opposte, […] che in vario modo cercano di conciliare l’aspirazione ad un’esistenza piena ed intensa con l’esperienza di un’entità che trascenda l’incessante fluire del vivere. È implicito infatti nel concetto di forma il riferimento ad alcunché di oggettivo e di stabile, che sembra convenire molto bene all’essenza dell’opera d’arte: nei confronti del continuo ed inarrestabile scorrere del tempo, l’appello alla forma manifesta la pulsione a superare il carattere effimero, caduco, perituro del vivere». Ci avverte in sostanza il filosofo della necessità, in sede di esperienza estetica, di avere quali punti di riferimento oltre la vita ed il suo fluire nella bellezza della natura sottoposta a periodico rinnovamento anche qualcosa di diversamente stabile che può

corrispondere alla perennità di un monumento, al suo significato materiale oltre che simbolico. Di primo acchito dunque una riflessione che sembra essere in evidente contraddizione con la premessa posta innanzi. Salvo ad ammettere, come fa lo stesso Perniola qualche riga innanzi, che proprio la forma non ha sempre rivestito tale considerazione estetica, così infatti da essere sovente trascesa o tradita, soprattutto per ciò che ha riguardato il suo carattere antropomorfico. «L’estetica della forma novecentesca – egli infatti chiarisce – sembra occupare invece uno spazio intermedio tra la divinizzazione della forma e la sua demonizzazione, tra l’esaltazione della bella apparenza e la sua denigrazione, tra idolatria ed iconoclastia». Un binomio questo che avevo trovato calzante al mio sguardo sulla scultura, nella curiosità, negli interrogativi, come nell’evidenza del suo campo “allargato”. Al centro rimaneva la forma, la sua consistenza o la sua demolizione, ma soprattutto, oltre la speculazione filosofica nella quale giustamente si addentra Perniola spostandosi sul significato di «forma intellegibile (eÎdos)» e di «forma sensibile (morphé)», vi rimaneva l’immagine che, a mio avviso, trascende, la stessa forma dando adito a quella gamma di possibilità espressive dettate fondamentalmente dall’immaginazione, viatico, quest’ultima, per «tradurre – sostiene Arnheim - le cose in immagini.» L’osservazione scivola in tal senso sul valore dell’immagine (inevitabilmente anche della forma). Qual è il nostro atteggiamento verso le immagini? Da dove provengono? Perché, e non da oggi, esse sono sopravvalutate o screditate? Sono tutti interrogativi legittimi soprattutto se messi in relazione al binomio innanzi richiamato rispetto al quale un utile suggerimento ci è proposto da J.T. Mitchell nel saggio Il plusvalore delle immagini ove considera queste ultime «giocatori attivi nell’istituzione e nel rinnovamento dei valori». Alla luce di ciò non viene da pensare a quel grande palcoscenico

immaginato da Enwezor, dove più voci, comprese quelle del pubblico, compongono l’orchestra? «Che sia un bene o un male, gli esseri umani – riprende non a caso Mitchell – stabiliscono la propria identità collettiva e storica costruendo intorno a loro una seconda natura composta di immagini che non riflettono semplicemente i valori consciamente designati dai loro creatori, ma ne irradiano forme nuove generate dall’inconscio collettivo e politico degli osservatori». È in questa relazione dialettica che possiamo provare dunque a riattivare il nostro sguardo, a farci spettatori attivi di alcune di quelle immagini che, nel vasto palcoscenico della Biennale, hanno attirato la nostra attenzione quali espressioni delle odierne dinamiche della scultura. Prove che non si sono sottratte alle più ampie sperimentazioni, di materia, di forma, di spazio, mettendo in gioco appunto quelle componenti che hanno in tale esercizio una parte essenziale sia per ciò che attiene la proiezione tridimensionale sia la sua dematerializzazione. È quest’ultimo il caso dell’aerea installazione dell’artista turco Kutluğ Ataman, The portrait of Sakip Sabanci (2014), composta all’incirca da diecimila micropannelli a cristallo liquido sui quali si ripete, ossessivamente, il volto di persone legate al protagonista dell’opera. Sospesa al soffitto delle Artiglierie dell’Arsenale come una sorta di tappeto volante, l’opera modella lo spazio, lo altera puntando sulla forza della presenzaassenza di un volto, assunto nella dimensione di archetipo collettivo. A tale scelta di una materia digitale che rilancia la forma come sostanza immaginativa offerta alla nostra percezione, si può affiancare senza difficoltà, come nella logica di questa Biennale, una creazione di Marcel Broodthaers datata ben quarant’anni prima. Jardin d’Hiver (1974) nel Padiglione Centrale dei Giardini è una di quelle opere che si può inscrivere nella cornice tra il “culturale” ed il “naturale”. C’è una narrazione allusiva che investe l’am-

biente trattandolo come una scenografia dove oggetti quali piante, sedie, fotografie, un tappeto, un filmato, rimescolano passato e presente non come icone, ma come elementi di un puzzle visivo che, con leggerezza ed ironia, alludono all’instabilità della storia. Servirsi del resto dell’artificio dell’immagine non solo come tramite per la definizione di una forma, ma quale veicolo di messaggi ‘altri’ è quanto, con diversa grammatica, può esemplificarsi nell’opera ai Giardini della tedesca Isa Genken presente con due orchidee monumentali, omaggio alla bellezza della natura come alla sua caducità. Opera di evidente valore architettonico Two Orchids (2015), è riplasmata alla luce di un realismo quasi fotografico nell’esaltazione di una forma resa volutamente tangibile rispetto a scelte concettuali che l’avevano impegnata nel corso degli anni Settanta. È tema questo della caducità o, meglio della transitorietà della vita che, con una sottile implicazione autobiografica, non priva di una dose di lirismo, si ritrova nella videoinstallazione di Christian Boltanski dal titolo Animatis (2014) ove l’idea di natura e bellezza, di memoria e di oblio si offre seducente nella fluidità del digitale. È un’immagine che rimanda, in grande scala, a quella modellata dall’artista con circa 850 campanelle nel deserto di Atacama. Come alternativa a questa sfera dell’immateriale ecco farsi avanti un’altra idea di scultura basata sulla concretezza della materia, solida e fredda, propria alle interessanti composizioni dello statunitense Melvin Edwards. Considerato uno degli scultori di punta del panorama internazionale, l’artista lavora da anni sondando le potenzialità del materiale, la sua versatilità, la possibilità di dar vita ad immagini semplici e complesse al tempo stesso. Si tratta di frammenti, di piccoli oggetti del quotidiano che, assemblati e scomposti, non negano all’occhio l’uso della saldatura: una giunzione di elementi disparati che restituisce forme pesanti, cariche di inquietudine e, al pari, di vitalità.

Londra, Tate Modern

Alexander Calder: performing sculpture Alla Tate Modern inaugurerà l’11 novembre «Alexander Calder: performing sculpture», la più grande retrospettiva mai organizzata nel Regno Unito. La mostra, riunendo importanti opere provenienti da tutto il mondo, intende documentare l’evoluzione nel tempo di un artista che, grazie alla sua manualità e immaginazione, ha sperimentato nuove soluzioni artistiche tra forma, spazio e movimento. Tra le oltre 100 opere esposte, un’attenzione particolare è riservata ai “Mobile”, oggetti motorizzati e dotati di elementi sonori e coreografici che hanno profondamente modificato la tradizionale concezione di scultura. La mostra sarà visitabile sino al 3 aprile 2016. A. Calder, Triple Gong, 1951

Baronissi, incisori al Museo-FRAC

Peter Willburger & i suoi amici Dal 12 dicembre al 7 febbraio il Museo Frac ospita la mostra “Peter Willburger & i suoi amici. Incisori italiani degli anni Novanta”. Essa si propone sia come retrospettiva dedicata all’artista austriaco Peter Willburger (scomparso nel 1998), sia come sguardo lungo sull’incisione in Italia tra gli anni Settanta e Novanta, segnata da un clima di rinnovamento. Insieme ad una selezione delle opere di Willburger, tra queste disegni e dipinti giovanili degli anni Sessanta fino ad oggi inediti, in mostra opere dei suoi amici incisori italiani: Guido Strazza Lorenzo Bruno, Vittorio Manno, Giulia Napoleone, Angelo Rizzelli e Vittorio Avella. P. Willburger, Maschera, 1977

Siena, Santa Maria della Scala

Brandi e Burri, “un’amicizia informale” In mostra fino al 31 gennaio nelle sale del Santa Maria della Scala a Siena, le opere della collezione di Cesare Brandi, per suo volere di proprietà dello Stato insieme alla dimora, la villa di Vignano (che per l’occasione aperta al pubblico). L’esposizione promossa dal Comune, dalla Soprintendenza B.A. P. per le Provincie di Siena, Grosseto e Arezzo, dal Polo Museale della Toscana e dall’Università degli Studi di Siena, vuol essere un omaggio all’amicizia del critico con Alberto Burri: unitamente a quattro opere del grande interprete dell’informale quelle gli altri, di Morandi, Manzù, de Pisis, Guttuso, Afro, Mastroianni, Sadun, Donghi, Scialoja, Romiti, Tapies. A. Burri, Cretto Bianco,1977

HANNO COLLABORATO: Martina Soricaro, Marcella Ferro, Martina Franchi, Pasquale Ruocco, Alice Ioffrida

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arte contemporanea

arte contemporanea

La potenza intellettuale di un uomo si misura dalla dose di umorismo che è capace di utilizzare (G. De Chirico)

Ogni figura ha lʼaria di andare per conto suo, tutta sola, in una direzione che le altre ignorano (A. Giacometti)

Identità di democrazia e libertà nello spazio di Alberto Giacometti

Intervista a Marco Giacometti presidente della Fondazione di Stampa di

VIRGINIA MARANO

I ALBERTO GIACOMETTI nasce il 10 ottobre 1901 a Borgonovo, piccolo villaggio nella Svizzera italiana. Nel 1904 la famiglia si trasferisce nel paese di Stampa. Nell’autunno del 1919 inizia gli studi d’arte a Ginevra, prima all’École des Beaux-Arts e poi all’École des Arts et Métiers. Nel settembre del 1921, durante una sosta a Madonna di Campiglio, vive con quest’uomo l’esperienza cardine della sua vita, narrata nello scritto Le rêve, le Sphinx et la mort de T., pubblicato nel 1946. Il viaggio del 1921 apre uno squarcio drammatico sulla sua vita. Giunge a Parigi nel gennaio del 1922 e lì frequenta l’Académie de la GrandeChaumierè, nella classe di Antoine Bourdelle. Dal 1927 Alberto Giacometti comincia ad esporre al Salon des Tuilieries le sue sculture, ormai orientate verso il Surrealismo. Nel 1932 vi è la prima esposizione personale a Parigi, alla Galerie Pierre Colle. Nel 1937 frequenta Samuel Beckett e Picasso. Nel 1939 conosce e frequenta Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir. Nel 1943 incontra Annette Arm, che diverrà sua moglie nel 1949. Nel 1948 la galleria Pierre Matisse di New York allestisce la prima mostra di Giacometti del dopoguerra. Nel 1958 l’architetto Gordon Bunshaft gli commissiona un monumento per la piazza sulla quale si affaccia il grattacielo della Chase Manhattan Bank a New York. Il progetto non potrà essere realizzato. Nel 1961 ottiene il Carnegie Sculture Prize a Pittsburgh e, nel 1962, vince il Gran Premio di scultura della Biennale di Venezia. Nel 1964 muore la madre, tronca ogni rapporto con Jean-Paul Sartre e si allontana anche da Picasso. In quest’anno riceve il Guggenheim International Prize di pittura. Nel 1965 Giacometti riceve il Grand Prix National des Arts. Muore l’11 gennaio del 1966.

l senso di democrazia pervade da sempre la storia e le aspirazioni degli uomini. E, da un punto di vista della democrazia, l’arte è il mezzo indispensabile per esprimere le proprie idee. Attraverso l’arte, infatti, l’uomo può raggiungere il perfetto binomio tra la libertà esteriore e quella interiore. In fondo, ogni espressione artistica è una liberazione dell’animo che porta con sé quello che accade nel mondo circostante. Il concetto di democrazia, dunque, si fonda sul concetto di libertà. E il concetto di libertà connesso all’umana esistenza implica il concetto di spazio: mentre uno spazio chiuso potrebbe far pensare a una condizione esistenziale non libera, uno spazio aperto esprime l’idea di un orizzonte libero. In questa cornice concettuale emerge la figura di Alberto Giacometti, un artista che lavora con lo spazio e con gli animi degli uomini. È un artista del Novecento le cui opere danno vita a sculture collocate all’interno di precisi spazi. Le figure sembrano imprigionate su piattaforme imponenti o in vere e proprie gabbie ma, in realtà, sprigionano grazie al loro aspetto estremamente esile e fragile una grande libertà interiore. Così, all’interno degli spazi interstiziali che si creano tra i diversi personaggi si scatena una moltitudine di emozioni e si delineano percorsi infiniti. Il tema dello spazio, idea centrale della poetica giacomettiana, è stato al centro di un recente incontro con Marco Giacometti, presidente dell’omonima Fondazione con sede a Stampa, centro del Canton Grigioni che ha dato i natali all’artista. L’idea di libertà che pervade lo spazio giacomettiano è simboleggiata dall’aspirazione zenitale delle esili figure, ma profondamente radicate nel territorio basamento. Nell’elaborazione di questo concetto spaziale, che ruolo ha avuto secondo lei il paesaggio in cui è nato e cresciuto Alberto Giacometti? «Secondo me un ruolo essenziale. In Bregaglia è nato l’immaginario di tutta l’opera di Giacometti. I giochi da bambino e l’esperienza diretta in un territorio sia arcaico, sia variato, la vicinanza con gli elementi del paesaggio, in particolare le grandi pietre che a volte celano sotto di esse delle caverne. Una valle alpina con pendii impervi coperti di abeti e larici, chiusa sui tre lati, con l’orizzonte che si estende verso ovest. Da giovane uomo, la passione per le escursioni sul Piz Grand, nella valle del Forno e nella Bondasca, ai piedi della parete nord del Pizzo Badile. Un mondo selvaggio, imponente, gra-

nitico di un grigio freddo, sulla cresta a meridione del villaggio di Stampa le sottili torri granitiche che si innalzano su basamenti esageratamente grandi. Queste impressioni sono rimaste in lui come radici che affondano nella sua terra, per ricordare una frase detta dall’amico e scultore Mario Negri». Rispetto al desiderio di libertà rivelato dai personaggi scultorei dell’artista, che sembrano vivere quasi al limite di un’imminente sparizione, come crede che queste sculture vengano percepite dall’osservatore, da un punto di vista fisico-materico ed estetico-comunicativo? «C’è stata un’evidente evoluzione nella percezione delle opere di Giacometti da parte del grande pubblico. Ancora negli anni Cinquanta e ’Sessanta, solo un numero relativamente limitato di appassionati e collezionisti avevano riconosciuto nelle sculture di Giacometti un nuovo stile e un nuovo approccio per rappresentare la figura umana nel suo insieme e nella sua complessità. È stato un intenso lavoro di comunicazione, un approfondimento sull’approccio artistico e filosofico di Giacometti da parte di musei e collezioni che ha portato, negli ultimissimi decenni, all’apprezzamento estetico delle sculture di Giacometti. Questo vale, a livello mondiale, soprattutto per quelle ad alto effetto di riconoscimento, le figure sottili, fragili, allungate. Le opere particolarmente care a Giacometti, come le teste dei suoi ultimi anni, anche i suoi ritratti, paesaggi e le nature morte su tela, invece, ancora non hanno trovato, secondo me, la giusta considerazione». Nella scultura di Giacometti sembra esserci un forte senso dell’espressione, capace di interpretare il timore dell’uomo moderno e la sua instancabile ricerca di libertà. Per lei che sin da ragazzo ha frequentato lo studio di uno dei principali protagonisti dell’arte del XX secolo, quali crede che siano le sculture o i dipinti che maggiormente si fanno interpreti di questi significati? «La gente di Stampa ha uno spiccato senso di libertà ottenuta progressivamente sin dal Duecento. Forti di sé grazie alla facoltà di saper assicurare l’accessibilità di quella che era l’asse di transito principale attraverso le Alpi centrali lungo i passi del Settimo e del Maloja, in Bregaglia si era costituita una comunità indipendente che nominava il proprio podestà già a partire dalla metà del XIV secolo. Ma la libertà non è ovvia e richiede una continua difesa. In questo senso, forse, sono proprio i ritratti, che a partire dalla fine degli anni quaranta Giacometti aveva realizzato con molta fatica, i volti di Diego, di Annette, di Caroline, di Yanaihara e di

È

veramente possibile un dialogo tra storia e contemporaneità? Un simile interrogativo non può non condurci agli ultimi eventi che hanno interessato la città di Arezzo, dove lo scorso 27 settembre si è conclusa la terza edizione di Icastica. Le opere degli oltre 100 artisti hanno interagito con gli edifici storici, le piazze e le strade del centro cittadino, confrontandosi col tema “coltivare cultura”; una cultura che deve essere assiduamente coltivata affinchè il processo sociale non si arresti. Icastica 2015 ha portato avanti, la difficile sfida di far convivere l’arte contemporanea con una città ricca di testimonianze storicoartistiche. Il valore di una simile manifestazione si coglie nella capacità dell’opera d’arte di instaurare una relazione dialogica con il luogo con cui si sta confrontando. A sugellare il rapporto tra arte contemporanea e ambiente cittadino è stato il progetto I-Street Art (esordito proprio in questa ultima edizione di Icastica), che ha reso possibile la riqualificazione di alcune zone del centro, grazie all’intervento di urban artists di fama internazionale. Tuttavia questo dialogo tra tradizione e attualità sembra avere vita breve. Come sappiamo, Arezzo è la città – oltre che di Masaccio e Giorgio

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Vasari – di Piero della Francesca, il cui esempio più illustre è rappresentato dal ciclo della “Leggenda della Vera Croce” nella Basilica di San Francesco. Difatti il 2016 sarà il secentenario della nascita dell’artista che verrà festeggiato con un evento di grande risonanza. Il problema è che l’omaggio al maestro rinascimentale, come possiamo apprendere dalle parole pronunciate del neosindaco Ghinelli, non lascia spazio ad Icastica. C’è da chiedersi se questo non sia solamente un pretesto che cela la volontà di emarginare una manifestazione, considerata dallo stesso Ghinelli “un appuntamento che coinvolge una cerchia ristretta di appassionati di arte concettuale”. Risulta evidente come l’apertura al contemporaneo debba soccombere a causa di un pregiudizio – non poco diffuso nel nostro Paese – che sancisce l’assoluta inconciliabilità tra espressioni artistiche antiche e contemporanee. Eppure Icastica, anche in questa ultima edizione, ha dimostrato di saper affrontare il confronto con i grandi esempi della storia passata; basti pensare all’installazione di Moataz Nasr nella Basilica di San Francesco, o all’intervento site specific di Giulio De Mitri nel Loggiato Giorgio Vasari, o ancora all’opera di Alfredo Pirri di fronte al Crocifisso di Cimabue in San Domenico. Forse ciò che non si riesce ancora a compren-

dere è che la contemporaneità, rappresentando la storia in atto, opera una riflessione su ciò che ci ha consegnato la storia passata. Uno dei maggiori critici italiani, Lionello Venturi, lo aveva intuito già nel lontano 1936 affermando che “è l’esperienza dell’arte attuale che insegna a vedere l’arte del passato, e non viceversa, che riassume in sé e giustifica l’esperienza dell’arte passata”. Risulta, tuttavia, utile conoscere come hanno accolto la notizia del possibile congedo di Icastica coloro che, a rigor di logica, dovrebbero essere rappresentati dal primo cittadino; ovviamente non sono mancati atteggiamenti di totale indifferenza alla questione, ma l’opinione maggiormente condivisa da cittadini e proprietari di esercizi commerciali è che la manifestazione deve proseguire poiché, richiamando attenzione sulla città, offre la possibilità di un incremento turistico e, di conseguenza, economico. Un segnale importante è stato inoltre lanciato da “Arezzo per Icastica”, comitato impegnato nella raccolta firme per salvaguardare e difendere il proseguimento del festival. La speranza è che tali iniziative e considerazioni non passino inosservate e che risveglino la coscienza di chi detiene il potere di decidere le sorti di un evento che ha proposto l’arte contemporanea come esempio di rivitalizzazione culturale.

Chagall la spiritualità e il sacro l Castello Ursino di Catania ospita fino al 14 febbraio 2016 la mostra “Chagall ILove and Life”, curata da Ronit Sorek.

FEDERICA ZABARRI

A

In alto: Alberto Giacometti, La Place (1948-1949), Emanuel Laurenz Foundation-collezione Öffentiliche Kunstsammlung Basel; Sopra: Alberto Giacometti: L’homme qui chavire, 1950, Kunsthaus Zürich, Vereinigung Zürcher Kunstfreunde In alto a sinistra: Alberto Giacometti travaillant dans son atelier au buste de Yanaihara, Paris, 1960 Photo: Annette Giacometti © Succession Giacometti;

altri, che più si fanno interpreti del valore della libertà. Ma anche le sculture degli anni 1948-50, che raccolgono singole figure, formando dei gruppi d’individui in dinamica relazione tra di loro e con lo spazio che li circonda e che essi creano, mi sembra esprimano una voglia di autodeterminazione e di emancipazione dell’uomo, di per sé timoroso e fragile».

Icastica ad Arezzo ha tentato, anche quest’anno, di aprire il dibattito sul tempo e i suoi luoghi MARTINA FRANCHI

Catania a Castello Ursino

A Palazzo dei Diamanti Ferrara festeggia il grande pittore padre della Metafisica

di

Il presente e la storia: dialoghi, a volte monologhi, poi silenzi di

Cent’anni fa: De Chirico il Castello e la Villa cent’anni dal suo arrivo in città, Ferrara festeggia il grande pittore padre della Metafisica con una mostra-evento a Palazzo dei Diamanti. De Chirico a Ferrara. Metafisica e avanguardie sarà in- fatti il titolo dell’esposizione temporanea che resterà aperto al pubblico dal 14 Novembre 2015 fino al 28 Febbraio 2016. La presenza di Giorgio de Chirico a Ferrara è legata agli eventi della Grande Guerra, quanto l’artista, già discretamente inserito nel contesto artistico parigino, torna in Italia per arruolarsi assieme al fratello Alberto Savinio. Di istanza a Ferrara dal 1915, egli fatica non poco ad adattarsi al ritmo lento e ovattato di una piccola città di provincia spesso immersa nella nebbia. Ma forse sarà proprio il contrasto con la ‘luccicante’ Parigi a portare il pittore verso la strutturazione di una poetica che da tempo insegue, dando vita alla pittura Metafisica. Le tele di questo primo periodo estense, piccole e intime, probabilmente lavorate nei ritagli di tempo dalla vita militare, hanno una consistenza pittorica densa e pastosa. I riferimenti alla città sono molteplici: a volte si tratta di tracce architettoniche evidenti e inconfondibili come nel caso del Castello Estense, mentre altre sono lievi tasselli che paiono ricomporre un puzzle molto più ampio. Del 1915 è la tela Progetti della ragazza (New York, MoMA) dove una delle torri del Castello Estense fa da sfondo a una misteriosa natura morta: fogli di carta percorsi da geometrie incomprensibili, un guanto, dei rocchetti di filo, fanno da cornice ad una piccola scatola color smeraldo della manifattura “Ferrara A.S.S.”. Ma i ripetuti riferimenti che de Chirico appone nei suoi lavori si dimostrano ben presto molto più che semplici parentesi, che omaggi isolati fatti ad una terra di passaggio. Anzi. Egli codifica in immagini, sapori ed atmosfere di un luogo vissuto, sentito, famigliare. Il 1916 è l’anno di Il linguaggio del bambino (New York, Pierre and Tana Matisse Foundation) in cui, tra un angolo di carte e fogli arrotolati, fa bella mostra di sé una ‘coppia’ di pane ferrarese, ritta e fiera, quasi come un soldatino di piombo. Dello stesso anno La Révélation du solitaire (Collezione privata) mostrano una sequenza di piani geometrici che come un improbabile vassoio sostiene alcuni dolcetti tipici delle pasticcerie del ghetto ebraico, mentre sullo sfondo spuntano i particolarissimi contorni di un’architettura estense. Ma la mostra, che vanta “dopo cento anni, il massimo numero di dipinti mai visti insieme, realizzati da de Chirico tra il 1915 e il 1918, nel corso della sua permanenza a Ferrara”, offre anche la possibilità di vedere dal vivo alcuni dei grandi capola-

A sinistra: Giorgio de Chirico, Ettore e Andromaca (particolare, 1917, collezione privata); Sopra: Giorgio De Chirico, Trovatore (1917, collezioione privata)

vori che influenzarono profondamente molti altri autori del Novecento. Si tratta di tele più ampie sia di struttura che di respiro pittorico, a cui de Chirico poté dedicarsi a seguito del suo ricovero nel 1917 presso Villa del Seminario, l’ospedale psichiatrico militare per malati di nevrosi di guerra. Centro all’avanguardia per la neuropsichiatria applicata, sarà qui che si creerà quello specialissimo intreccio con artisti locali e non, che diede vita alla Metafisica. De Chirico durante la sua permanenza frequentò personalità di spicco dell’ambiente culturale ferrarese, come il poeta Corrado Govoni o il giovanissimo Filippo de Pisis; «fu qui che intrecciò assieme al fratello una politica di alleanze artistiche e culturali che da Ardengo Soffici e Giovanni Papini si estese a Carlo Carrà e al gruppo bolognese di Giuseppe Raimondi e Giorgio Morandi». Nascono così le grandi tele in cui torna il tema del manichino, questa volta immerso in una surreale e velatamente rinascimentale Ferrara. I suoi manichini si ripetono quali ibridi tra armature di legno, spigolose geometrie e morbidi intarsi di stoffa e sartoria. Nel Trovatore (1917, Collezione privata) il personaggio che allude ai poeti cantori della “Gaia Scienza” provenzale, si staglia contro un cielo dai vividi contrasti e un’architettura piena di aperture buie e inquietanti, quasi bocche spalancate sull’oblio: la vita qui è assente, o meglio la sua possibilità è dichiaratamente confinata al di fuori della tela, da cui proviene l’ombra di una figura. In Ettore e Andromaca (1917, Collezione privata), rievocando i personaggi omerici, i manichini, che si accostano e intrecciano delicatamente in un ultimo addio, occupano lo stesso precedente contesto. Un mondo irreali, privo

Chiara Poma

Nella foto: Marc Chagall, Mosè, 1956, disegno, dono di Ida Chagall, Parigi

See Emily paly... in provincia di Grosseto

Tutto è felice nella vita dell’arte

L’animismo di Paul Klee

La scultrice apre le porte del suo atelier maremmano

Spoleto 1962 in mostra a Milano documenti, fotografia e filmati

Al MAN di Nuoro fino a febbraio disegni, dipinti ed acquerelli

a provincia è un buen retiro ideale per artisti affermati che cerL cano, lontano dalla metropoli, il contesto per una nuova fase di ricerca: la Maremma non fa eccezione e, a pochi chilometri da

a Fondazione Arnaldo Pomodoro, nata per volere dell’artista L stesso nel 1995, ospita, fino all’11 Dicembre, una mostra che celebra la figura di Giovanni Carandente e la manifestazione “Scul-

ture nella città” svoltasi a Spoleto nel 1962. Fin dall’inizio l’intenzione della Fondazione è stata quella di farsi palcoscenico culturale e di confronto intorno ai grandi temi e personaggi dell’avanguardia contemporanea. In questa occasione, più che mai, la mostra “Tutto è felice nella vita dell’arte”, curata da Luciano Caprile, rende omaggio ad un evento unico nel panorama artistico italiano, fornendo testimonianze, bozzetti e disegni progettuali, scatti fotografici, opere realizzate. A Spoleto nel 1962 infatti, in occasione del Festival dei due mondi, Carandente fece collocare all’interno della città 106 opere di artisti nazionali e internazionali (da Smith a Calder, da Consagra a Colla, da Pomodoro a Pepper, ecc), creando un cortocircuito tra arte contemporanea e luoghi della storia. L’eccezionalità dell’operazione spoletina e del suo creatore sta proprio nell’aver creato un rapporto diretto tra l’arte e la vita, persino nei suoi aspetti più pratici ed economici: 10 artisti furono invitati a realizzare le proprie opere negli stabilimenti dell’Italsider, fornendo un terreno fertile di scambio tra arte e industria. Le fotografie artistiche di Ugo Mulas riescono a cogliere perfettamente il clima di sperimentazione che ha caratterizzato la manifestazione e riportano l’entusiasmo di aver assistito ad un evento unico e senza precedenti.

inquanta opere, tra dipinti, acquerelli e disegni provenienti da collezioni pubbliche e private svizzere e italiane dell’artista Paul Klee C saranno esposte fino al 16 febbraio 2016 presso il Museo Man di

Nuoro. La mostra progettata con il coordinamento scientifico di Raffaella Resch, intende esplorare un elemento fondamentale nell’opera dell’artista, in altre parole la percezione della presenza di un principio vitale, generativo, insito nella materia delle cose. Oltre che della Resch gli interventi critici e storiografici di Pietro Bellasi, Guido Magnaguagno redatti per il catalogo edito dalla Magonza Editore, mostrano come, nonostante Klee non abbia mai parlato palesemente di “animismo”, leggendo le sue opere pare che un unico principio vitale governi l’intero ordine naturale, dalle cose grandi a quelle infinitesimamente piccole. Tutto ciò pare evidente in particolare in alcune opere, datate fra gli anni Venti e Trenta, ospitate nelle sale del museo come Feigenbaum (Fico), del 1929, o Im Park (Nel parco), del 1940, presenti in questa mostra, o ancora l’importante dipinto Wohin? (Dove?) del 1920, proveniente dalle collezioni della Città di Locarno, esposto nel 1937 all’interno della mostra Arte degenerata, organizzata dal regime nazionalsocialista tedesco. Artista immerso nello spirito del suo tempo, Klee recepisce gli sconvolgimenti provocati dalle teorie della relatività e della quantistica, così come l’evoluzione degli studi psicoanalitici, rielaborandoli in maniera indipendente all’interno di una visione magico - fenomenica dell’universo.

Claudia Gennari

Nella foto: Alexandre Calder, Teodelapio, 1962, Spoleto, piazzale Giovanni Polvani

Nella foto: Paul Klee, WohinJunger Garten, 1920, olio su carta su cartone, Museo comunale città di Locarno

Grosseto, vive da tempo Emily Young, la più nota scultrice inglese contemporanea. Il Convento di Santa Croce a Batignano era stato acquistato e restaurato alla fine degli anni Sessanta dal designer Adam Pollock che ne aveva fatto in breve tempo la sua dimora e uno stimolante polo culturale. Pollock ha poi messo in vendita il monastero e adesso la ragazza dai capelli neri e gli occhi intensi che aveva ispirato la canzone dei Pink Floyd ha scelto quelle antiche e solide mura come laboratorio creativo. Young, nata a Londa nel 1951, ha maturato la sua personale concezione estetica durante numerosi viaggi. Nel suo lavoro privilegia l'intaglio diretto della pietra e materiali dai grandi effetti poetici come la quarzite, l'onice e l'alabastro. In Maremma ha collaborato al progetto La casa dei pesci e a settembre 2015 ha esposto alla Chiesa dei Bigi di Grosseto. Secondo la scultrice, la pietra ha una vita silenziosa ed eterna e sulla superficie si può leggere la storia dell'universo. Per scoprire questa cosmogonia, domenica 22 novembre l'artista apre gratuitamente le porte del Convento di Santa Croce per una visita promossa dal CEDAV della Fondazione Grosseto Cultura. Il 19 novembre, alle 17.30, è in programma al Museo di Storia Naturale della Maremma di Grosseto un incontro introduttivo sulla carriera di Emily Young. Info: www.fondazionegrossetocultura.it Intervento di Giulio De Mitri ad Icastica 2015

di solide basi prospettiche che non potrà che raggiungere il suo apice nell’opera, forse tra le più note, Le Muse inquietanti (1918, Collezione privata). Tela complessa e dalle molteplici sfaccettature, racchiude in sé forse gli aspetti più significativi dell’intera vicenda ferrarese di de Chirico. Ovviamente non solo per la fedele riproduzione da cartolina del Castello Estense, che al termine di una piazza inverosimilmente inclinata si mostra finalmente nella sua interezza, ma anche nei piccoli dettagli. In quegli oggetti inanimati che si dispongono solo apparentemente con casualità; nel gusto quasi transgenico per la statuaria, che pur ibridando forme e materie non riesce mai a prendere vita. Per la materia pittorica densa, luminosa e ricca di chiaroscuri che sembra tenere conto della scuola ferrarese quattrocentesca. A dimostrazione dell’influenza che il lavoro pittorico e intellettuale di de Chirico ebbe sulla coeva generazione di artisti italiani ed europei, la mostra allestita a Palazzo dei Diamanti, ne permette un sapiente raffronto grazie alla presenza di opere di spessore di artisti come Carlo Carrà (tra le opere in mostra, anch’esse del periodo ferrarese, si citano: L’idolo ermafrodito, 1917 Collezione privata; L’ovale delle apparizioni, 1918 Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea; Solitudine, 1917-26 Collezione privata), Giorgio Morandi, Filippo de Pisis, Man Ray, Raoul Hausmann, René Magritte, Salvador Dalí e Max Ernst, nel tentativo così come dichiarato dai curatori di “allestite in un percorso che conduce il visitatore in un affascinante viaggio tra Pittura Metafisica, Surrealismo, Dadaismo e Nuova Oggettività”.

Sono esposte ben 140 opere, provenienti dall’Israel Museum di Gerusalemme, allestite in otto sezioni tematiche le quali ripercorrono il suo mondo poetico che si richiama all’ingenuità infantile e alla fiaba; le sue figurette si lasciano portare dal vento e occupano uno spazio privo di orientamento. Le prime opere, risalenti al periodo di San Pietroburgo, sono dominate dalle tonalità scure e da un’atmosfera cupa, ma dopo il trasferimento a Parigi (1910) la sua tecnica mutò. Nel 1923 stava per irrompere sulla scena il movimento surrealista, il cui teorico, André Breton, definì Chagall un precursore del Surrealismo. Come dimostrano le opere esposte, il sogno legato alla storia di Israele e i soggetti biblici, vedono l’artista impegnato nella raffigurazione di temi desunti dai testi sacri, come le illustrazioni per la Bibbia, realizzate tra il 1931 e il 1956 in due momenti differenti: dal 1931 al 1939 e dal 1952 al 1956. La cartella venne commissionata all’artista dal gallerista parigino Ambroise Vollard nel 1930, per il quale aveva già realizzato Le anime morte di Gogol (in mostra il frontespizio e 15 tavole) e Le Favole di La Fontaine (esposte 18 tavole tra acquarelli, acqueforti e gouache). La morte di Vollard (1939) e la fuga negli Stati Uniti per scampare all’orrore bellico, ritardano la conclusione del lavoro, che riprende solo nel 1952 per essere completato nel 1956 e quindi pubblicato (in 295 esemplari autografati) per la Verve di Parigi.

Nella foto: Una scultura di Emily Young

Martina Soricaro

Marcella Ferro

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arte&istituzioni

architettura La democrazia è il potere di un popolo informato (A. de Tocqueville)

Un popolo educato, illuminato e informato è una delle vie migliori per la promozione della democrazia (N. Mandela)

Beni Culturali senza territorio: la democrazia mancata

Il patrimonio diffuso è la storia scritta nelle cose, nelle architetture nelle opere d’arte e non solo, di intere comunità. La sua conservazione, gelosa ed ostinata ha rappresentato e rappresenta il DNA di una collettività di

ANTONIO BRACA

N

elle settimane della calda estate 2015 il dibattito culturale in Italia si è concentrato sulla nomina dei direttori di venti dei principali musei statali, ma soprattutto sul fatto che sette di essi fossero stranieri e la quasi totalità non provenissero dall’apparato del Mibact. In realtà questo è stato solo un approdo, quello più clamoroso, di una vera e propria inversione di tendenza della gestione dei Beni Culturali, anche in termini di assetto organizzativo. Dotare i principali musei statali di direzione autonoma è un fatto molto positivo in quanto mette fine allo strazio del funzionario-direttore e contemporaneamente adegua i nostri musei alle dimensioni europee. Si tratta di una soluzione che prende le mosse dalle famose Linee Guida del 2001 con cui furono fissati i punti esenziali degli Standard qualitativi, ossia i diversi aspetti che consentono di definire un museo fra cui la dotazione di una propria direzione e di uno statuto. Da un altro lato, con l’ultima riforma, viene operato un arretramento complessivo rispetto al legame con il territorio. Già la stagione del berlusconismo evidenziava un profilo strisciante di abbandono del territorio puntando tutto sulla Valorizzazione, intesa nei termini non tanto e non solo della promozione quanto della ricerca di una finalità economicistica e della privatizzazione dei servizi. Oggi quella visione non viene superata in quanto la vera finalità consiste in un assestamento delle proprie risorse, nel senso che il Mibact mantiene intatte le proprie forze solo per quel che riguarda l’Archeologia, la cui proprietà è in gran parte statale. Quella che viene pesantemente ridotta è l’azione del Mibact sul territorio nel campo specifico dell’arte e dell’architettura, ossia quello straordinario patrimonio diffuso che rende l’Italia il più grande paese in termini di possesso di beni culturali. L’istituzione dei Poli museali regionali, comprensivi di tutti i musei statali minori ricadenti in una regione, avviene a discapito delle Soprintendenze che operano sul versante artistico, in quanto il personale scientifico e tecnico è per la gran parte fornito dagli Storici dell’arte e dai Restauratori, già operanti nelle Soprintendenze di settore. Del resto già il nuovo termine delle Soprintendenze “Belle Arti e Paesaggio” indica un ritorno al passato, di inizi Novecento. Nella dizione c’è uno spostamento concettuale di fondamentale importanza. Da quando è nato il Ministero per i Beni culturali le Soprintendenze erano preposte ai “beni”, ossia alle cose aventi valore di cultura. Dal 1975 lo Stato ha indirizzato le sue risorse principali, umane e professionali, verso il territorio. È stato un passaggio epocale e di fondamentale importanza. Lo Stato riconosceva al Territorio il valore di “radice” della Cultura nazionale e, di conseguenza dava applicazione all’art. 9 della Costituzione «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Come si può notare i padri costituenti hanno usato il termine di patrimonio della Nazione e non dello Stato. Ma il patrimonio della nazione è diffuso e si identifica con quello del territorio. Molti sono stati gli studiosi che per anni si sono battuti per un pieno riconoscimento del territorio come principale contenitore dei beni culturali. Non c’è paese, non c’è contrada, che non rivendichi una propria condizione di contenitore di “beni culturali”, nel cui termine negli ultimi anni sono andati ad inserirsi anche quelli “demoetnoantropologici”. Sempre più si è assistito e si assiste alla nascita di “musei della cultura contadina” o di altri valori legati al territorio. Le chiese, le congreghe, i conventi, le istituzioni religiose sono straordinari contenitori di opere d’arte, non solo dipinti o sculture ma anche argenteria, miniatura e cosiddette “arti minori”. In questa diffusione territoriale non c’è solo il valore del possesso e della proprietà, ossia ecclesiastico, ma anche della stratificazione storica sedimentata in un determinato territorio. Non è certo un caso che durante gli eventi calamitosi, subito dopo il soccorso alle persone, nell'arco di 48 ore, la priorità viene assunta dalla salvaguardia dei beni culturali e dalla loro messa in sicurezza. A conti fatti il patrimonio diffuso è la storia scritta nelle cose, nelle architetture, nelle opere d’arte e non solo, di intere comunità. La sua conservazione, gelosa ed ostinata, ha rap-

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presentato e rappresenta il DNA di una collettività. E la popolazione, con piena consapevolezza, ne ha sempre apprezzato il valore in quanto parte costituente di se stessa. È in questo nucleo concettuale che risiede l’alto valore della Democrazia, intesa non come partecipazione popolare ma come possesso popolare della propria identità. In una visione marxiana della questione si potrebbe concludere che i beni culturali siano stati l'espressione delle «classi dominanti all'interno di un periodo storicamente determinato». Ma ciò non eliminerebbe il valore di prodotto della storia della civiltà, di documento materiale di questa storia. Attraverso quali strumenti e con quali professionalità viene garantita la Tutela di questa parte di Democrazia? Lo strumento legale più recente è il D.Lgvo 42/2004, conosciuto come Codice dei Beni Culturali, un apparato di articoli, spesso modificati negli ultimi anni, che corrisponde ad una visione molto organica della materia, solo parzialmente in linea con la legge 1089 del 1939. Rispetto a quest'ultima il Codice dei Beni Culturali va oltre la dimensione estetica di matrice idealistica per approdare ad una molto più ampia e certamente più articolata, maggiormente aderente ai prodotti dell'ingegno e della civiltà umana. Lo strumento operativo della Tutela è il Mibact, la cui ossatura principale è data dalle Soprintendenze che coprono l'intero territorio nazionale, avendo come apparati logistici istituti di alta professionalità, e strutture di conoscenza con banche dati etc. La risposta di un Ministero specifico restituisce ai Beni culturali il valore di una materia di esclusiva pertinenza statale. Lo Stato assume come impegno proprio la Tutela, al pari della Difesa e della politica estera. Esso opera per conto degli Enti locali, in alcune materie specifiche quali il diritto di prelazione in caso di alienazione, ma nessuna delega viene fatta ad essi. In questo modo il Ministero assume il ruolo di controllore. Paradossalmente le strutture territoriali del Ministero, con la nuova Riforma della Pubblica Amministrazione, vengono sottoposte, insieme agli altri organi statali operanti sul territorio, alle prefetture. Una scelta simile denota una accentuazione del carattere statalista della gestione dei beni culturali. Come è ben evidente ancora una volta il territorio con le sue espressioni istituzionali viene privato della partecipazione, principale strumento della democrazia. Nella realtà questo è vero solo in parte perché i livelli di collaborazione e di intese sul territorio sono molto più avanzate di quanto si possa immaginare. Nel corso di questi decenni il paziente lavorio sul territorio ha determinato una nuova consapevolezza proprio nella popolazione. La saldatura fra popolazioni ed enti locali con l’istituzione delle soprintendenze ha generato una nuova, ed inedita, dimensione della legalità e dell’appropriazione della cultura propria del territorio. In questa ottica hanno trovato equilibrio gli studi locali, spesso ricchi ma inadeguati, con quelli specialistici delle relazioni ampie. Hanno trovato posto il controllo delle operazioni di restauro di beni artistici, non più sottoposte ad arbitrarie scelte di improvvisati operatori ma rigorosamente verificate nei requisiti e nella progettazione. È andata a pieno regime la sinergia fra istituzioni ecclesiastiche ed istituzione statale, con l’affidamento a quest’ultima del controllo e della sorveglianza capillare chiesa per chiesa, museo per museo. Ma si tratta pur sempre di intese non previste da nessuna legge, dove il ruolo dei territori, come attori attivi, non viene minimamente riconosciuto. E ciò è in controtendenza rispetto alla gestione dei suoli e dell’ambiente dove gli enti locali svolgono un ruolo da protagonisti. Alla luce di queste considerazioni sembra evidente che le scelte politiche ed organizzative operate con l’ultima riforma non vanno nel senso della Democrazia ma esattamente nel suo contrario. Anzi paradossalmente si va incontro ad una deregulation dove lo spazio che, inevitabilmente verrà lasciato libero dall’arretramento delle risorse impegnate dalle Soprintendenze, verrà riempito da improvvisazioni ed incompetenze. Forse il vuoto potrebbe essere colmato proprio da una nuova dimensione democratica ossia dalla definizione, per legge, di un ruolo partecipativo delle istituzioni locali alla gestione dei Beni Culturali. Nelle foto dall’alto: Interno Museo Diocesano di Torino; Interno Museo Civico Archeologico di Noto; Interno Museo d’Arte Medievale e Moderna di Padova

Dal costruire al costruito: luoghi persone, cose nelle prospettive dei piani paesaggistici

Architettura partecipata ed architettura democratica di

Architettura democraticamente diffusa

MANUELA PALMISANO

uando Pericle sosteneva: «Si chiama democrazia, poiché nell’amministrare si qualifica non rispetto Q ai pochi, ma alla maggioranza» (in Tucidide, II, 37, 1),

con il senno di poi si sarebbe certamente ricreduto. Avrebbe constatato che spesso, oggi, nelle scelte urbanistiche o paesaggistiche, quella maggioranza, sovente, non viene coinvolta nelle scelte che la politica opera sul territorio, perché sempre più frequentemente viene a mancare quel processo partecipativo che dovrebbe essere alla base del concetto di πόλις (polis, città plurale).Una possibile “architettura partecipata” si pone in questo panorama socio-politico in maniera quasi utopistica. Eppure notevoli passi avanti, che lasciano le loro orme in un passato recente, si profilano all’orizzonte. Le basi per un propositivo coinvolgimento delle comunità, per esempio, nel processo partecipativo territoriale, sono state poste da quelle Regioni (come la Puglia con il PPTR e la Toscana con il PIT) che hanno scelto di adottare un Piano Paesaggistico, attenendosi il più possibile ai principi previsti DLgs. N.42/2004. Paesaggio, architettura, arte e ambiente alimentano, da sempre, un confronto costante e continuo che basa le proprie considerazione sull’identità dei luoghi, sulla loro mutevolezza e sul processo antropologico che li trasforma gradatamente e li caratterizza, producendo, in un pubblico confronto, riflessioni utili e strumentali alla pianificazione territoriale. Le fasi preliminari alla redazione del Piano paesaggistico, dalla discussione alla stesura, fino alla elaborazione cartografica, hanno prodotto un confronto continuo con gli attori locali. Le considerazioni avanzate, le osservazioni proposte, le richieste di integrazioni o di modifiche, tutte bilanciate in base alle peculiarità geo-morfologiche dei luoghi, sono state riportate in assise regionale ed approvate lì dove condivise. In questo scenario partecipativo, nella discussione preliminare di un documento di fondamentale importanza per la pianificazione futura regionale, un ruolo determinante è stato riconosciuto agli ecomusei. Nella gestione del Piano paesaggistico gli ecomusei si pongono come strumento strategico di valutazione e di monitoraggio sul territorio, assumendo, nell’ambito dello stesso piano diverse peculiarità: contribuiscono alla crescita della coscienza di un luogo, del paesaggio, dei beni culturali, dei saperi esperienziali locali, delle tradizioni e delle culture tradizionali legate all’agricoltura, all’artigianato artistico locale; essendo “occhi” vigili territoriali dell’Osservatorio regionale per la qualità del paesaggio, si pongono l’obiettivo di svolgere attività di promozione culturale, informativa e progettuale; favoriscono un’evoluzione di turismo culturale e sostenibile, attraverso una ospitalità consapevole e di scambio fra culture; monitorano i beni culturali e le corrette pratiche di recupero e restauro architettonico. Un esempio di pianificazione partecipata che vede coinvolta l’architettura dunque e che permette, nelle fasi di concertazione, l’interazione con un’intera comunità, con l’uomo. Dal concetto di “architettura partecipata” al concetto di “architettura democratica” il passo è breve, anche se quest’ultima, a differenza della prima, denota spazi finiti, implicando un coinvolgimento indiretto dell’uomo che quegli spazi li “subisce” fruendoli e vivendoli, senza partecipare al processo di concertazione finalizzato alla progettazione che c’e’ a monte. Dal costruire al costruito, dunque. Quando Frank Lloyd Wright, in occasione della seconda sessione del forum del “New York Herald Tribune”, dedicato al tema della ricostruzione post-bellica, pronuncia alla radio il suo eloquente discorso, esplica quello che secondo lui è il concetto di democrazia legata all’architettura; definisce la democrazia non tanto una forma o un metodo politico «quanto una profonda fede nell'indistruttibile diritto dell'uomo ad essere se stesso. Questa fede è l'essenza naturale dell'umanità e costituisce perciò il solo fondamento si curo ad una costruzione creativa». Edifici che si rincorrono, spazi sovrastanti, freddi come il marmo di cui si forgiano, da Londra a Mosca, tutto è grandiosamente impalpabile per l’uomo. Nella logica infatti di un’architettura democratica, secondo Wright: «Un edificio democratico sta a riposo, è calmamente disteso. Un edificio democratico, ripeto, è per gli uomini, appartiene a loro. È di scala umana, affinché gli uomini e le donne ci vivano e ci si sentano a casa loro». Qualche passo più avanti nel suo proclama, quella concezione di coscienza dei luoghi, ancor più d’identità dei luoghi, della loro anima, come riscoperta di se stessi e del proprio “io”, tanto cara agli ecomusei quanto allo stesso Hillmann, torna dirompente nelle parole dell’architetto statunitense. E allora conclude Wright: «non c'è da meravigliarsi se noi siamo legati dalle cose come erano, e dobbiamo combattere per slegarci dalle cose come sono».

La necessità dell’housing sociale un tempo appannaggio di sistemi marginali attualmente argomento di ampiamente dibattuto di

STELLA CUOMO

E

ra il 1945 quando venne pubblicato, in Italia, il libro Architettura e Democrazia di Frank Lloyd Wright e questo è ciò che disse il famoso architetto americano: «La democrazia e l’architettura, se sono organiche, non possono essere due cose separate». Sono passati anni da queste parole e sebbene, attualmente, architetti del calibro di Libeskind parlino di “ruolo attivo” dell’architettura rispetto ai problemi del nostro secolo, dall’ondata migratoria che ha colpito l’Europa al degrado delle periferie, poche sono state le volte in cui l’attività pratica abbia concretizzato un’idea di società aperta e democratica. In quasi tutti i progetti si percepisce sempre un pensiero “dall’alto”, tra schemi decisi a tavolino, influenze politiche ed il dominio dell’economia di mercato. Rem Koolhaas, intervistato lo scorso anno in qualità di curatore della “Biennale di Architettura” di Venezia, ha affermato che il mercato ed il turismo sono la base su cui far vivere una città, ma egli ha anche ammesso che l’architettura è troppo spesso influenzata dalla sfera economica e dalle continue attese di “spettacolarizzazione” che si hanno nei suoi confronti «…e l’architetto è limitato a svolgere spesso il ruolo di clown.» E, ad ogni modo, chi sono i clienti delle archistar? L’architettura di qualità, firmata da bravi architetti, è alla portata di chi? Da qui la mia riflessione: l’architettura è materia troppo complessa, ha troppe esigenze da dover soddisfare per poter essere, forse, definita “democratica”. Ma la richiesta sempre crescente di abitazioni ha posto la figura dell’ archistar di fronte alla necessità di garantire l’auspicata “qualità architettonica” anche ai cittadini meno abbienti. La necessità dell’housing sociale, un tempo appannaggio di sistemi marginali, attualmente argomento di non pochi dibattiti, è stata sentita già da tempo in paesi come la Germania, la Francia, l’Austria e l’Olanda. Olandese è, infatti, lo studio Atelier Kempe Thill che con il progetto “HipHouse” ha vinto il “Premio Ugo Rivolta 2014”, concorso che da quindici anni premia la migliore architettura europea in tema di abitazioni sociali. Gli architetti vincitori hanno incentrato il progetto unicamente sugli abitanti e sul loro benessere ed il risultato sono state 64 unità abitative, tutte grandi, con un maggior grado d’importanza dato alla zona giorno, luminose e con vista panoramica per tutti gli appartamenti, il tutto sostenibile anche dal punto di vista economico ed ambientale. E non è questo il primo caso in Olanda. Nel 2009, 170 alloggi furono costruiti nel quartiere Delflandplein ad Amsterdam. Per questo progetto lo studio Dick van Gamerem architecten decise di andare oltre la tipologia standard dell’edilizia sociale e realizzò un’ampia varietà di alloggi per tipologia e dimensioni. Tanti sono gli esempi olandesi ancora da citare, come il progetto “Whale” di De Architekten Cie e “Harter Housing” di 24H architecture, solo per citarne un paio. La caratteristica comune è la stessa: qualità accessibile a tutti. In Olanda sono anni che vige un programma funzionale che presuppone forti sperimentazioni sul tema del social housing. Le prime strategie di riqualificazione e recupero iniziarono negli anni Ottanta, ma è verso la fine degli anni Novanta che si ebbero le prime richieste di abitazioni grandi e confortevoli per tutti. Negli ultimi anni anche l’Italia sta tentando di tenere il passo in questa direzione e l’architetto sta ritornando ad essere una figura socialmente impegnata. L’esempio più emblematico è quello dell’architetto, e senatore a vita, Renzo Piano che, con il suo gruppo G124,

è stato occupato lo scorso anno nei progetti di recupero, il “rammendo delle periferie”, di Catania, Roma e Torino. Si è trattato di interventi dal “basso”, di delicato ripristino, basati sull’ascolto e la partecipazione degli abitanti, soprattutto dei giovani che rappresentano l’identità delle periferie. Senza l’aiuto degli abitanti, senza la giusta attenzione ed il rispetto per i bisogni di ciascuna persona, senza la fiducia data affinché ciò che è stato realizzato possa continuare a svilupparsi in futuro, non sarebbe potuto esistere un approccio “democratico” alla periferia. Renzo Piano, a tal proposito, afferma: «…anche i sobborghi hanno la loro bellezza… la bellezza dei desideri di milioni di esseri umani che li abitano, e dobbiamo aiutarli a realizzare». Con la qualità democraticamente diffusa, l’ascolto ai reali bisogni di un quartiere, il progetto che scaturisce dalla natura che, citando le parole del poeta veneto Andrea Zanzotto, «è quel “fuori di noi” che è “in noi”», muoviamo così i primi passi. Nella foto in alto a sinistra: HipHouse, dello studio olandese Atelier Kempe Thill; Sopra a destra interni

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dalle terre d’oltremare

filosofia/estetica Il democratico rispetta solo le opinioni che il coro applaude (N. Gómez Dávila)

Lʼunica vera prigione è la paura, e lʼunica vera libertà è la libertà dalla paura (Aung San Suu Kyi)

Elezioni in Myanmar del 2015: un primo passo verso la democrazia di

Un libro su Raul Seixas

La nuova

Con Aung San Suu Kyi lʼantica Birmania prova a cambiare pagina

La musica come strumento rivoluzionario

alleanza tra fede e scienza

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ulgido esempio di quei rari casi in cui arte ed esistenza combaciano perfettamente, Raul Seixas (19451989) è al centro del volume Novo Aeon: Raul Seixas no torvelinho de seu tempo del giovane scrittore brasiliano Vitor Cei Santos (Editora Multifoco, Rio de Janeiro). Egli non fu soltanto un celebre musicista brasiliano, ma anche l’uomo che seppe unire la sua arte musicale e poetica alla vita attiva e all’impegno civile; colui che, ispirato dalle teorie del poeta inglese Aleister Crowley, fondò insieme allo scrittore Paulo Coelho la “Società Alternativa” per contrastare il regime dittatoriale brasiliano (vicenda che finì con l’esilio negli Usa per entrambi); colui che si definiva “filosofo” e che nelle sue musiche riusciva a miscelare ritmi e stili diversissimi, contenuti e significati esplosivi, violento autoritarismo e censura, filosofia e religione, utopia e distopia, occultismo e astrologia, magia e spirito critico, malinconia e nichilismo, soprattutto controcultura e rivoluzione; colui che affermava di tradurre direttamente in musica i libri e i trattati che avrebbe voluto scrivere. Cei si impegna a sottolineare in questo libro l’agilità, la versatilità e la plurisemanticità della produzione musicale di Seixas, concentrandosi sul concetto, derivato da Crowley, di “New Aeon”: nella religione “Thelema” fondata dall’occultista inglese si tratta dell’inizio di una nuova era storica, ma per Seixas il nuovo “aeon” è l’inno alla (ri)nascita di una nuova, possibile epoca di armonia politica e civile e di serenità e benessere per gli esseri umani.

Il testamento spirituale di un grande fisico

GIUSEPPE DE MARCO

È

dalla frase di Aung San Suu Kyi, tema principale di questa pagina e quì riportata in alto, che mi è sembrato in una qualche misura appropriato - e più ancora doveroso - partire per ricordare quei momenti di terrore e immagini di orrore, che sono certo resteranno sempre vivi dentro di noi, la serie di violenti attacchi terroristici compiuti dall’ISIS la sera di venerdì 13 novembre u.s. che ha attraversato Parigi, dallo Stade de France, alla sala da spettacolo Bataclan, a piccoli locali/ristoranti Petit Cambodge, Casa Nostra, etc. Ma, entriamo ora nel vivo del nostro argomento. Stando alle notizie diffuse da autorevoli fonti di informazione, alle elezioni legislative dello scorso 8 novembre il premio Nobel per la pace 1991 Aung San Suu Kyi e la National League for Democracy (NLD), da lei guidata, avrebbe al momento superato - per uno strana coincidenza del destino a distanza di 5 anni dal suo rilascio agli arresti domiciliari dei 15 a lei inflitti (13 novembre 2010) - la soglia del 90% dei seggi dichiarati finora alla Camera bassa (Pyithu Hluttaw) e l’85% nelle assemblee regionali e nella Camera alta (Amyotha Hluttaw) del Myanmar (Birmania). Un risultato che, stando alla costituzione in vigore in quel Paese, dovrebbe consentire alla “Signora” (“The Lady”) - termine con cui è nota (e che il presidente della commissione che nel 1991 le insignì il Premio Nobel per la Pace definì «uno straordinario esempio del potere dei poveri») - di governare senza dover formare una coalizione con altri partiti. Figlia di un eroe dell’indipendenza del Myanmar, il generale Aung San (capo della fazione nazionalista del Partito Comunista della Birmania, di fatto il Primo Ministro) assassinato nel periodo di transizione nel luglio del 1947, appena sei mesi prima dell’indipendenza, quando la piccola Aung San Suu Kyi aveva appena due anni. Nel 1960 si recò in India con la madre Daw Khin Kyi, che era stata nominata ambasciatrice a Delhi. Quattro anni dopo andò nel Regno Unito, a Oxford, laureandosi presso il St Hugh’s College in Filosofia, Scienze politiche ed Economia, e dove conobbe il suo futuro marito, l’accademico Michael Aris. Dopo alcuni periodi di lavoro in Giappone e nel Bhutan ritornò e si stabilì nel Regno Unito per dedicarsi ai suoi due figli Alexander e Kim anche se il Myanmar non era mai lontano dai suoi pensieri. Quando, nel 1988, tornò a Rangoon (Yangon) per prendersi cura della madre gravemente ammalata, Myanmar si trovava nel bel mezzo di grandi sconvolgimenti politici con migliaia di studenti, impiegati e monaci scesi in piazza chiedendo riforme democratiche. «Non potevo come figlia di mio padre restare indifferente di fronte a tutto ciò che stava succedendo», disse in un discorso a Rangoon il 26 agosto 1988 «e fui spinta a guidare la rivolta contro l’allora dittatore, il generale Ne Win». Ispirata dalle campagne non violente e dei diritti civili guidate da leaders come Martin Luther King negli Stati Unti, dal Mahatma Gandhi in India, da Nelson Mandela in Sudafrica, Aung San Suu Kyi ha organizzato manifestazioni e ha viaggiato in tutto il Paese chiedendo pacifiche riforme democratiche e libere elezioni: manifestazioni puntualmente e brutalmente represse dall’esercito e culminate nella presa del potere con il colpo di stato del 18 settembre 1988 e la “Signora” sottoposta gli arresti domiciliari l’anno successivo. A distanza di due anni, nel maggio 1990, il governo militare ha indetto le elezioni nazionali che l’NLD di Aung San Suu Kyi ha vinto in maniera convincente ma per i cui risultati lo stesso governo militare ha rifiutato di consegnarne il controllo. Ma, tornando ai tempi recenti da noi richiamati all’inizio di questo breve contributo sulle vicende personali di Aung San Suu Kyi e le politiche birmane, ciò che ne dovrebbe conseguire, in virtù delle ultime elezioni, come ben ci suggerisce la rivista Internazionale può essere riassunto nei seguenti punti: a) nel prossimo gennaio dovrebbe insediarsi il nuovo parlamento che dovrà eleggere un comitato incaricato di nominare tre candidati (di cui un militare e due scelti fra le fila dell’NLD) tra i quali il Parlamento dovrà scegliere il nuovo Presidente della Birmania e due vicepresidenti e per la cui elezione (che dovrebbe aversi a febbraio o a marzo) è sufficiente la maggioranza dei voti in parlamento. Quanto a quest’ultimo punto è da richiamare comunque l’attenzione sul Capitolo III (relativo alla figura del Capo dello Stato), articolo 59(f) della costituzione birmana che vieta ad Aung San Suu Kyi di ricoprire la carica di presidente a causa della sua parentela con cittadini stranieri essendo la vedova dell’accademico britannico Michael Aris, da cui ha avuto due figli. La leader dell’NLD ha comunque più volte detto che anche se non potrà essere presidente, guiderà comunque il paese, conservando un ruolo decisionale all’interno del partito di governo; b) tre dei più importanti dicasteri (ministero dell’interno, quello della difesa e quello del controllo delle frontiere rimarranno sotto il controllo dei militari); c) i militari, inoltre, secondo la costituzione, possono assumere il controllo del governo e dell’economia e porre il veto sulle proposte di modifica del testo costituzio-

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Lorenzo De Donato

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Nella foto in alto: Aung San Suu Kyi; A lato: Raduno di decine di migliaia di sostenitori dell'NLD per ascoltare Aung San Suu Kyi a Yangon; Mappa del Myanmar; Sotto: Lo Stūpa Shwedagon di Yangon

nale, il che, in altri termini, vuol dire che il Consiglio nazionale per la sicurezza e la difesa, controllato dai militari, continua ad avere poteri maggiori di quelli del parlamento. La popolazione birmana è molto composita sia da un punto di vista etnico sia da un punto di vista religioso, cosa che rende difficile se non problematico l’integrazione dei vari gruppi etnici. I birmani costituiscono il 69% della popolazione mentre piuttosto consistente è l’immigrazione di commercianti cinesi, di pakistani e thailandesi e di indiani. Relativamente al punto chiave quì trattato, si aggiunga che due terzi dei 93 partiti che hanno concorso alle elezioni legislative rappresentano le numerose minoranze del paese. Ci sono più di venti gruppi etnici armati, distribuiti in diversi stati o regioni della Birmania (Baman, Shan, Rakhine, Kachin, Kayah, Kayin, Mon, etc.), che chiedono l’autonomia

e la divisione dei proventi delle risorse naturali dei loro territori. Il 5% della popolazione della Birmania è di fede islamica e spesso è discriminata dalla maggioranza buddhista di scuola therāvada, in particolare da gruppi ultranazionalisti come il Committee for the Protection of Nationality and Religion localmente noto come Ma Ba Tha, formato da monaci schierati al fianco dell’Union Solidarity and Development Party (USPD) creato dal potente esercito e presieduto dal Presidente della Birmania Thein Sein. In un’intervista Wirathu, uno dei più importanti esponenti del Ma Ba Tha chiaramente dichiarava «... l’amministrazione di Thein Sein ... ha lavorato passo-passo per la pace e lo sviluppo» nonché, contestualmente, sdegno e dileggio per Aung San Suu Kyi e il suo partito, affermando: «... l’NLD è costituita da persone così piene di se stesse che non ha probabilità di vittoria alle elezioni».

ALFONSO SALVATORE

I

l volume di Hans-Peter Dürr dal titolo Anche la scienza parla soltanto per metafore. La nuova relazione fra religione e scienza (Gabrielli Editori, Verona) raccoglie il pensiero maturo del fisico tedesco, allievo di Weiner Heisenberg. È una sorta di testamento spirituale, essendo l’ultima fatica dell’autore, morto nel 2014. Lo stile di pensiero è originale, frutto di una sensibilità attenta al confronto con la filosofia e la religione. Il nodo cruciale affrontato da Dürr riguarda la concezione materialistico-meccanicistica e deterministica lungamente propugnata dalla scienza. Essa non è più adeguata alla spiegazione della realtà così come emerge dalla ricerca scientifica. Il mondo fisico si presenta, infatti, più simile ad un organismo, in cui ogni singola parte può coesistere solamente in relazione alle altre. Il superamento del paradigma meccanicistico impone però un ripensamento delle metafore usate per interpretare il mondo. Ad esempio la metafora della «lotta per la sopravvivenza», assunta dalla teoria dell’evoluzione come base della spiegazione del processo evolutivo del vivente, porta a considerare le forme viventi perennemente in competizione tra loro. Un procedimento espressivo come questo, peraltro, assume implicitamente una sorta di «darwinismo sociale» in virtù del quale le moderne società basate sul consumismo giustificano comportamenti economici che sono contrari alla sopravvivenza della specie umana e legittimano uno sfruttamento insensato delle risorse. Per avere un’alternativa occorre adottare la nuova prospettiva offerta dalla fisica quantistica, la quale concepisce la realtà come una struttura di relazioni piuttosto che come una struttura materiale composta da particelle in movimento. In sostanza, la realtà non è com-

posta da strutture materiali immutabili che interagiscono tra loro seguendo schemi prestabiliti e quindi prevedibili, come le particelle, ma da un processo in continua trasformazione. Ciò che poi qualifica la natura vivente, così come l’essenza dell’umano, è l’apertura al futuro, ovvero la libertà. La concezione materialistica è chiusa, non aperta al futuro; per essa qualsiasi processo dovrebbe procedere su una linea temporale le cui cause, in linea di principio, siano determinabili rispetto agli effetti punto per punto, ovvero prevedibili. La meccanica quantistica ha mostrato l’esistenza di un limite inerente a questa visione deterministica. Esso non è relativo alla nostra capacità di percepire o alla limitazione degli strumenti che utilizziamo, ma è connesso alla struttura stessa del reale, che esibisce una realtà dinamica, che sfugge a qualsiasi «materializzazione». La realtà manifesta così più una essenza «spirituale» che «materiale», denominata dal fisico tedesco l’«Inafferabile». Se la scienza, dunque, ci conduce a considerare l’esistenza dell’«Inafferabile», la religione nasce proprio sul terreno di una relazione con esso. L’esperienza religiosa si costituisce come relazione con l’«Inafferrabile» e l’essenza dell’esperienza religiosa è un rapporto immediato con esso attraverso immagini e metafore. «Anche la scienza – scrive Dürr – deve prendere cognizione del fatto che essa, come le religioni, non può descrivere sufficientemente e adeguatamente la realtà “vera”, ma solo tentare di spiegarla con l’aiuto di metafore» (p. 127). Scienza e religione sono complementari, perché nella prima si predilige l’esattezza, la quale perde il contesto; nella religione invece si predilige la rilevanza, «così scienza e religione sono chiamati non solo a una riconciliazione, ma ancora più a restare coscientemente nei loro ruoli complementari, che necessariamente hanno bisogno l’uno dell’altro» (p. 128). Nella foto: Hans-Peter Dürr

Nella foto: la copertina del libro

Tesori dell’architettura birmana

Rinascimento/1

Rinascimento/2

Il presepe dell’arte

La “Pagoda d’oro” monumento simbolo di Yangon

Marsilio Ficino: l’influenza nella cultura europea

Ficino e l’ermetismo rinascimentale. Nuova edizione critica

A Minori sulla Costa amalfitana, le figure del secolare racconto della fede

dispetto di talune rappresentazioni A tradizionali, il costante progresso degli ultimi decenni nel campo delle ricerche

a conclusione della versione latina del Pimander, avvenuta nel 1463, L segna l’inizio dell’intenso programma di

ipercorre le “strade” del presepe, i luoR ghi dell’immaginazione che raccontano l’arrivo del figlio di Dio, attraversando le pa-

tando alle linee principali che hanno sempre accompagnato la nostra pagina “dalle terre d’oltremare” ci piace concludere riserS vando un piccolo spazio a quello che si annovera tra le meraviglie

architettoniche dell’Asia nel senso più ampio, la Pagoda Shwedagon chiamata anche “la Pagoda d’oro” di Yangon (anche nota come Rangoon e capitale del Myanmar fino al 2005). Il territorio e il considerevole patrimonio artistico di Yangon come pure quello di Bagan (già nota come Pagan) vecchia capitale di diversi regni birmani non sono stati ancora inseriti tra i siti dichiarati dall’Unesco Patrimoni dell’Umanità del Paese e tra i più notevoli siti storici del sud-est asiatico, sebbene il loro splendore archeologico sia alla pari di Angkor Wat in Cambogia e di Borobudur in Indonesia. Situata appena ad ovest del lago di Kandawgyi sulla collina di Singuttara la pagoda Shwedagon rappresenta lo stūpa più venerato non solo di questa città come «monumento funebre del Buddha» ma dell’intera Birmania. Alto 98 m. e costruito in mattoni, secondo la leggenda più di 2.500 anni fa ai tempi del Buddha, lo stūpa è stato ingrandito, specialmente nel XV secolo e poi tra il 1758 e il 1763. Tipologicamente trattasi, per dirla brevemente ma in maniera altrettanto chiara ed esauriente con le parole di Georges Cœdes, di uno “... stūpa conico a profilo concavo in quanto risultato dell’allargamento della base del tipo precedente (“a campana”) e della riduzione del volume della cupola; esso diventa tanto svasato da assumere un profilo generale delimitato da due curve ad arco di cerchio che si toccano alla cima e sono tangenti al suolo, mentre l’insieme assume la sagoma di un padiglione a tromba poggiato al suolo. I gradini della base moltiplicano le loro riseghe, e le terrazze inferiori si coprono di un’infinità di pic-

coli stūpa riproducenti più o meno esattamente il grande stūpa centrale” (G. Cœdes, Birmani Centri e Tradizioni, in “Enciclopedia Universale dell’Arte”; Vol. II, p. 610). Dai forti contrasti di colore delle sue numerose cappelle e santuari posti ai suoi piedi, la superficie fu intonacata con una malta di calce lucidabile e piuttosto dura, rivestita da lamine d’oro che vengono di volta in volta restaurate. g.d.m.

storico-filosofiche relative alla modernità ha fatto emergere, in modo sempre più nitido, l’influente presenza nella cultura europea dell’eredità di Marsilio Ficino. Una eredità che pervade campi diversi del sapere: dall’ambito filosofico a quello letterario e artistico, da quello teologico a quello relativo ai saperi scientifici. A questa complessa eredità, nonché all’approfondimento di aspetti significativi della stessa riflessione ficiniana e all’individuazione di alcune delle sue molte fonti antiche e medioevali, è dedicato il volume curato da Stephen Clucas, Peter J. Forshaw e Valery Rees Laus Platonici Philosophi. Marsilio Ficino and his Influence (Brill, LeidenBoston). Sembra opportuno sottolineare come uno dei risultati più pregevoli raggiunti da questo volume collettivo consista proprio nell’accento posto sulla relazione tra quegli aspetti della riflessione di Ficino radicati in un rapporto consapevole e fecondo con le sue fonti, e la loro ricezione da parte dei contemporanei e delle generazioni successive. Il filosofo fiorentino, in modo assai sorprendente, risulta essere in Europa il punto di riferimento principale delle discussioni rinascimentali e seicentesche sulla concezione platonica dell’amore, sulla poesia, sull’astrologia, sulla magia, sull’alchimia e su gran parte delle questioni filosofiche, estetiche e scientifiche più ampiamente dibattute.

Angelo Maria Vitale

Nella foto: Domenico Ghirlandaio, Marsilio Ficino, Firenze, Santa Maria Novella

traduzione e di riflessione sulle fonti della prisca theologia intrapreso da Marsilio Ficino. Una versione che precede quella del corpus platonico e che rappresenta, di fatto, l’atto di nascita dell’ermetismo del Rinascimento. L’edizione critica del testo del Pimander ficiniano curata da Maurizio Campanelli e pubblicata dall’editore Aragno di Torino (Pimander sive de potestate et sapientia dei, interprete Marsilio Ficino), ha il merito di rendere disponibile, in una forma attendibile e sicura, una delle opere fondamentali per una piena comprensione di un aspetto essenziale della filosofia rinascimentale. È la figura stessa del mitico Ermete ad essere forgiata da Ficino con questa traduzione. Della costruzione del Trismegisto umanistico, realizzata mediante un sapiente e scaltro utilizzo delle fonti rende pienamente conto la prima parte dell’Introduzione. In essa viene chiarito, in primo luogo, il rapporto tra il nuovo Ermete, di matrice classica e cristiana e quello trasmesso dalle fonti con il quale pure il filosofo fiorentino si confronta, in secondo luogo il successo particolarmente duraturo di questo ritratto, frutto di una accurata opera di selezione e interpretazione delle testimonianze antiche. Restituita alla sua forma originaria, la versione ficiniana consente un confronto più consapevole con questo testo e l’apertura di promettenti prospettive di indagine.

a.s.

Nella foto: Ermete Trismegisto, sec. XVI, Siena, Duomo

gine dell’arte che dal Quattrocento giungo alla pittura italiana del Seicento, è quanto ci propone il presepe che l’artista Giacomo Palladino ricostruisce nello scenario immaginifico di Minori, tra i centri più belli della Costa d’Amalfi. Un presepe che accoglie il fil rouge che si snoda da secoli nella tradizione presepiale campana. Nelle Antiche Scuderie di Palazzo Cantilena, fino al 31 gennaio, le figure di quel racconto che l’arte da secoli costruisce rinnovandolo, offrendo alla nostra fantasia gli angoli di un narrare semplice, fatto di gesti che accolgono il significato che l’iconografia affida loro. Un presepe al quale partecipa l’intera comunità; un laboratorio ove Palladino riveste gli abiti del capo bottega, tra collaboratori, colori, pennelli, grande sagome che si confondono tra gli attrezzi, gli strumenti di lavoro, i materiali. La traccia è quella della storia dell’arte e delle figura che ci richiamano ad uno stile ad un’epoca.L’iniziativa promossa dalla Pro loco di Minori che da anni ha affiancato il lavoro dell’artista, sostenuta dal Comune, dall’Ente provinciale per il turismo e dall’Arciconfraternita, si iscrive nelle iniziative promosse dal centro costiero, che annualmente animano l’offerta di un turismo culturale: un’offerta che va ben oltre l’immagine della festa. È un momento per cogliere la vitalità di una qualità di vita, il senso di identità che attraversa la comunità: valori che sono la chiave di un proposta per concepire il Natale diverso.

l.m.

Nella foto: Giacomo Palladino, particolare dell’allestimento del Presepe dipinto, 2014, Minori

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metropolis

taccuino a quadretti

Se ho scelto Dublino per scena è perché quella città mi appariva come il centro della paralisi (J. Joyce)

Libero fischio in libero Stato (S. Pertini) A lato: Hana Silberstein, Non voglio più giocare con voi, 2006 tempera su carta; In basso: Leila Mirzakhani, Senza titolo, 2012, disegno ad inchiostro e acquerello su carta. Soheil Naderi, Pesci, 2013, matita su carta

Dublino tra modernità e tradizione

Fantasmatiche

avventure di colori

L’ alfabeto cromatico della creazione artistica attraverso il racconto di

PAOLA BONADIES

ARANCIONE Non so perché, ma questo racconto inizierà così. È una storia confusa di una coppa complessa: una coppa solare, armoniosa e con bellissime sfumature arancione. Era incisa in agata sardonice, con modellati di definita plasticità. Il lato esterno presentava un Gorgonèion, cioè una testa di Medusa, la Gorgone anguicrinita decapitata e uccisa da Perseo, la faccia interna era illustrata con una scena mitologica. Nella composizione di otto figure l’uomo barbuto sulla sinistra, con una cornucopia in mano, simbolo di abbondanza, era la personificazione del Nilo. La Sfinge ai suoi piedi era simbolo dell’Egitto. Su di essa era sdraiata Euthèneia, la personificazione della piena del Nilo che dà fertilità alla terra. In secondo piano, seminudo, con un sacco di grano e il giogo di un aratro, vi era Trittolemo che, ammaestrato da Demetra, coltivò per primo il grano ed era assimilato al dio Horus, figlio di Osiride e di Iside. I due giovani che volavano in alto, rappresentavano i venti Etesii che soffiavano favorendo l’inondazione. In basso, a destra, sedevano due divinità seminude, due Horai, personificazioni di Stagioni: quella con la coppa era la stagione delle piene, mentre quella con la cornucopia dei raccolti. Era una coppa profonda, nonostante fosse di pochi centimetri. Era stata creata da Kallimegas, uno dei più importanti coroplasti di tutta Alessandria. Inconsapevole della sua bellezza, la coppa si crogiolava tutto il giorno facendo risuonare il suo corpo dal vento. Era lì su di un tripode con grandi volute in bronzo, sotto un’edicola sulle cui pareti correvano veloci glicini e gelsomini, in una delle vie più affollate del reame. Non aveva bisogno di nulla, lei. Le piaceva stare lì, l’aria fresca la levigava e il sole rendeva lucido il suo smalto come se fosse acqua. Un bel giorno una fanciulla le si avvicinò, affascinata dal suo caldo colore. «Che fai lì su quel tripode?» Sorpresa dal fatto che quella domanda fosse rivolta proprio a lei la coppa rispose: «Osservo gli altri» «E da quanto tempo sei lì immobile?» La coppa ci rifletté un po’ e poi rispose: «Da quando sono nata.» «Oooooh...» La ragazza la guardò con compassione. La coppa, un po’ stordita, tentò di mascherare il suo sconvolgimento e si gonfiò: «e cosa ci sarebbe di così strano?!» «Nulla... solo che ti perdi la vita» Sorpresa e confusa, la coppa provò a replicare ma il vento le si fermò in gola e tacque. La ragazza se ne andò lasciando in lei una strana sensazione, dritta al centro del suo diametro, e, quasi ad ascoltare la sua nuova emozione, il cielo si oscurò ed il vento soffiò forte sul suo orlo. Passarono giorni e la tazza continuò ad osservare il mondo dal suo tripode ed un velo bagnato di tristezza si era posato su di lei, offuscandola. Sentiva che forse quello non era il posto a cui apparteneva, forse la vita era altra cosa... All’improvviso, come un’illuminazione, capì: era vuota! Era una coppa! Allora, un, due, tre: fece roteare il suo corpo con quel suono di forgiatura, come se stesse nascendo di nuovo, e tutta entusiasta si lanciò, giù dal tripode, verso il mondo. La coppa volteggiò su se stessa come una trottola e, accompagnata da un tonfo, si rovesciò sulla terra. L’impatto non fu dei migliori. Una nuvola di polvere la avvolse facendola tossire. Stordita e spaesata, si guardò intorno, come a cercare un punto di riferimento. Da terra tutto sembrava più grande e le ombre delle persone la agguantavano, come teli intricati dal vento. Si accovacciò stretta stretta in se stessa e cominciò a rotolare. Vagò per mari e per monti, per luoghi molto angusti e dimenticati. E come cambiava il luogo così cambiavano le persone. Nessuno più si accorse di lei, fino a quando non giunse a Bisanzio. La città era maestosa e splendente e le ricordò tanto Alessandria, nonostante i secoli passati. Immersa nei suoi pensieri si abbandonò su una cassa di tappeti e ripensò a quella fanciulla che per la prima volta le aveva rivolto la parola. Un sorriso si affacciò sul suo volto, facendola per un istante brillare di nuovo. Così un marinaio, che trasportava merci per Roma, si accorse di lei. Pulì tutti gli strati di terra e polvere che avevano coperto la sua superficie, la sollevò e disse: «Controluce sei tutte le sfumature dell’arancio». «Ti chiamerò

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Ashvin.. Come gli dei dell’alba e del tramonto». Così attraversarono tutto il Mediterraneo e giunsero a Roma dove si lasciarono tra lacrime e dolci parole. Visitò botteghe e corti reali senza perdere mai più il suo splendore. A Firenze Lorenzo de’ Medici la ribattezzò “Coppa Farnese”, come una di famiglia e la coppa fu felice come mai nella sua lunga vita. Un giorno, infine, il Fato la portò a Napoli dove uno studioso asetticamente la prese e la portò al Museo Archeologico Nazionale, esposta su di un tripode di bronzo con volute. «Ci risiamo» disse fra sé.

Dirty Old Town

AZZURRO Questa è la storia di una pittrice. Una pittrice che visse durante il XVI sec a.C, in un’isola che all’epoca era la più fiorente di tutto il Mediterraneo: Creta. All’epoca l’arte della pittura non era compresa tra quelle arti definite successivamente “liberali”. Maya era un’artigiana, al confine tra la libertà e la schiavitù e dipingeva tutto il giorno su anfore motivi floreali. “La figura umana non è degna di essere riprodotta” ripeteva fra sé. Creta era splendida: i suoi monti bianchi si arrampicavano delicati sulla finestra della sua camera per poi scendere portentosi sul mare, come a sfidarlo. Maya scrutava il mare nervosamente mentre giocava a far roteare una pietra di ossidiana tra le dita. La sua superficie liscia, tagliente e nera rappresentava al meglio l’umore di quel giorno. L’aria era tesa come una lancia pronta a scagliarsi contro la sua vittima e il suo cuore sembrava battere al ritmo delle enormi onde che si infrangevano contro le montagne. Cnosso era in guerra. Una guerra dimessa, taciuta, parlata solo dagli occhi della gente che non ricordava più quando era iniziata. C’erano momenti in cui il velo della dimenticanza posava leggero sugli stanchi animi delle persone e li riportava ai tempi dolci in cui tutto splendeva e parlava di amore, anche l’altare sacrificale. Ma ogni settimana venivano ricatapultati nella realtà dalle rappresentazioni teatrali. Minosse era un re cafone, prepotente e tracotante, per di più di pessimo umore Così ogni motivo, anche di svago, si trasformava in un forte crampo allo stomaco. Tutti gli abitanti di Cnosso ne soffrivano, Maya compresa. Ogni cosa era protesa verso il mare ad aspettare, solo le grida dei gabbiani squarciavano il silenzio come lama su tela. La flotta dalle vele nere comparve all’orizzonte, accompagnata dal brusio della gente che sembrava tirata da fili di terrore. «Sono arrivati gli ateniesi» sussurravano: «sono arrivati di ateniesi»... Maya si fiondò fuori dalla camera, corse per le scale velocissima, le colonne rosse dipingevano ogni suo passo. Ruppe uno dei tanti pithoi che affollavano i corridoi e tutto l’olio si versò per terra macchiando il bel pavimento dipinto. Giunse al corridoio delle processioni che era freddo e ostile, come il destino di chi lo percorreva. I sette fanciulli e le sette fanciulle iniziarono la loro marcia macabra verso la botola che dava accesso al labirinto. Ad uno di loro, dalla corona di fiori sul capo, cadde un giglio. Aveva capelli lunghi e luminosi come seta, spalle larghe, come il più valoroso tra i guerrieri e mani lunghe e affusolate, come quelle di un suonatore. I loro sguardi si incrociarono. Aveva occhi azzurri come il cielo e nessun’ ombra oscurava il suo bel viso. Nessun segno di terrore o disperazione nel suo sguardo, solo nobile determinazione e una velata tristezza. Le sorrise. Maya sentì gli occhi riempirsi di lacrime che iniziarono a scendere dolcemente, rigandole il viso. Si nascose e scappò via da quell’orrore, lontano da quella danza di morte. Il cuore le dilaniò il petto dal dolore, la stanza si fece bianca e cadde a terra. Si riprese solo ore dopo, quando tutto era finito. La gente ritornava alle sue cose come se nulla fosse successo, ma non lei. Per nove anni osservò la porta, nella speranza che il giovane uscisse da quel labirinto infernale. E per nove anni pianse lacrime che sapevano di sale. Così un giorno, quando le nubi nere avevano abbandonato il suo cuore, dipinse tutta Cnosso con l’azzurro degli occhi del giovane. Quel colore che oggi gli studiosi chiamano “fritta egizia” in realtà altro non era che un richiamo alla vita del Principe dei gigli, a cui Maya dedicò uno dei suoi più bei ritratti, ancora oggi visibile nel Museo Archeologico di Heraklion. Come la morte lo strappò alla vita, l’amore e l’arte lo strapparono alla morte.

di

BIANCO Erano giorni caldi e afosi quelli che si susseguivano in Tunisia. Sidi Bouzid, più che un’oasi nel deserto, sembrava un posto dimenticato da Dio. Piccole case incompiute si arrampicavano l’una sull’altra, come ammassi di argilla piovuti dal cielo. Tra pilastri, mura e piani non ultimati, tra tetti che si aprivano come fiori squarciati dal vento, si ergevano portentose antenne elettriche e parabole, totem del nuovo millennio. Internet aveva falciato con la sua mannaia oramai su tutto il globo, nessun luogo resisteva più al suo fascino, nemmeno il deserto. Ognuna di queste case, tra il terribile ed il sublime per la loro spontanea incompletezza, era specchio di solitudine e globalizzazione. Due miserie in una sola struttura, simulacro della vita. E ai confini di questa realtà c’era Mohamed, il venditore di gelsomini. Solo la sua casa spiccava come una perla tra i sassi, una macchia bianca in un deserto giallo: i gelsomini delicatamente avevano restituito la forma al vuoto, il pieno all’incompiuto. Mohamed era steso sul vecchio divano, con addosso un copriletto beige a losanghe blu e rosse, macinando sigarette mentre osservava al telegiornale quel faccione grosso e largo di Ben Alì vociare sull’apertura di un nuovo hotel a Sousse. Erano trent’anni che in Tunisia vigeva lo stato marziale. Ed erano trent’anni che Ben Alì aveva fatto della Tunisia una sua estensione patrimoniale. La zanzariera della sua vecchia finestra incorniciava il deserto attraversato da un fiume d’asfalto, ardente come il carbone, coi gelsomini che ondeggiavano morbidi, come un mare bianco. Erano tutto ciò che Mohamed aveva: bellezza e delicatezza. L’aria calda si sollevava da terra trasformando le forme sotto il suo gioco fluido e sinuoso. «Piove al contrario» disse tra sé Il venditore di gelsomini. Mohamed era un uomo alto e magro, con occhi scuri come la pece. Non si era mai sposato, non se lo poteva permettere. Tutti i giorni andava in città con l’intento di trovarsi di che vivere e tutti i giorni tornava a mani vuote, con solo qualche manciata di couscous nello stomaco. Passavano i mesi e nubi nere cariche di disgrazie coprirono il cielo sopra il deserto e la sua mente. Erano giorni tumultuosi quelli che si susseguivano nelle strade di Sidi Bouzid, si percepiva nell’aria un fermento fuori dal comune. Ma non si parlava di politica, nessuno osava mai parlare in pubblico. «Ci sono informatori ovunque» gli mormoravano spesso. Tutti erano sospetti: amici, vicini di casa, droghieri... Nessuno escluso. Il terrore aleggiava anche dietro il sorriso più spensierato. La gente era stanca, stanca di essere controllata, stanca di avere paura. Così per lo stesso Mohamed. Perciò il 17 dicembre del 2010, mentre un pallido sole stendeva i suoi ultimi raggi sulle morbide dune del deserto e stava per giungere l’imbrunire, Mohamed in modo del tutto normale si recò, con il suo carrello di gelsomini, davanti al palazzo del governatore. Prese la benzina, che aveva portato con sé, se la sparse sul corpo e si diede fuoco: è l’inizio della rivoluzione dei gelsomini. Il resto è storia.

ANTONIO LIBONATI

E

cosi Dio inventò la pioggia. Dublino senza le nuvole che passano veloci sul suo cielo di luce rarefatta, accecante, colore chiaro e intenso, non sarebbe la stessa: quella dei poeti e scrittori che l’hanno raccontata e resa famosa come una città malinconica, ma tremendamente viva e allo stesso tempo, giovane e piena di energia. Quando arrivi nella città di James Joyce pensi che sia una piccola Londra, strade con nomi simili, lingua inglese, porte vittoriane. Anche lo stile dei palazzi e delle costruzioni è simile. Ma dopo un po’ ti accorgi che i Dubliners sono diversi. A Dublino si respira una atmosfera particolare: è quella di una città dai pub con il legno intriso dell'odore di birra, punto di ritrovo e amato rifugio dai signori irlandesi, dei giovani provenienti da tutto il mondo, dei musicisti che suonano ad ogni angolo delle strade, della danza irish vibrante. I pub sono i veri monumenti della città: luoghi accoglienti, adatti anche per le famiglie, dove si può mangiare e ascoltare musica dal vivo. Capita di incontrare gruppi che suonano le canzoni tipiche della “dirty old town” (la famosa canzone dei The Pogues, diventata simbolo della città) oppure di vedere i tifosi di rugby, lo sport nazionale più importante insieme al calcio gaelico, che si ritrovano a guardare la partita. La birra scorre a fiumi fin dalle prime ore del pomeriggio tra le stradine di Temple Bar e il suono della musica celtica che accompagna lo sguardo sulle case colorate, ai ponti sul Liffey, mischiandosi con l'accento irlandese incomprensibile agli stranieri appena arrivati. Spiritosi gli irlandesi, scherzano su tutto, dicono che è il modo per reagire alla cattiva sorte di un popolo dominato per secoli dagli inglesi; un popolo costretto, in passato, ad emigrare per nuove terre, a lasciare la loro amata Irlanda per non soffrire la fame, coraggiosi tanto da diventare una nazione indipendente e all'avanguardia. Il loro carattere lo ritrovi in tante piccole cose, negli annunci o nelle locandine al di fuori dei locali, per la strada, nei negozi e nelle tante aziende trasferitesi qui. Dublino è, oggi, il quartiere generale europeo di società come Google, Facebook o Linkedin. Qui arrivano giovani da tutta Europa per lavorare, imparare la lingua inglese, studiare nelle migliori Università. Il loro entusiasmo porta quell’aria di multiculturalità che orami è diventata ener-

gia vitale per la città, insieme ai simboli irlandesi che richiamano da sempre centinaia di turisti. Per questi sono tante le particolari attrazioni che rendono la città di Dublino unica: per esempio si può fare una passeggiata nelle Docklands, a Gran Canal, dove c'è il primo studio di registrazione degli U2, oppure andare a vistare la fabbrica della famosa Guinness e scoprire tutte le fasi della sua realizzazione. Un vero e proprio museo, divenuto il monumento alla birra scura simbolo d'Irlanda. O ancora si può camminare per le strade dei suoi quartieri e ritrovarsi all'Ormond Hotel frequentato da James Joyce, vedere la casa di Oscar Wilde a Marrion Square o assistere ad una pièce di Beckett al Gayety Theatre. Dublino è ricca di simboli che ricordano i suoi grandi scrittori, che hanno avuto cura di descriverla nelle loro opere, raccontandola e rendendola famosa. Nonostante il fascino celtico, non è una città facile: il clima estremo non aiuta (lasciatevelo dire da chi questa città l’ha vissuta per otto anni), tempra il carattere ma lo rende, al tempo stesso, anche particolarmente sfuggente. Le poche ore di sole sono vissute come veri e propri eventi. I parchi come St. Stephen green o Phoenix Park si affollano di gente che vuole approfittare del momento raro, Grafton Street con i suoi mattoni rossi e i negozi diventa un tripudio di colori. È stata anche una città ribelle Dublino, da qui è partita la rivoluzione contro gli inglesi che ha portato alla nascita della Repubblica d’Irlanda (EIRE), ha attraversato anni duri con il terrorismo dell'IRA, ma anche una liberazione dal bigottismo cattolico in cui fino a pochi anni fa ancora si trovava. Fondata dai vichinghi, deve il suo nome al colore scuro del suo fiume che in lingua celtica si traduce “dark pool”. Il mare la bagna e la sua baia va dal promontorio di Howth con le sue piccole cliffs sul mare fino a Bray, ex dimora degli inglesi. Belle e grandi le spiagge di Sutton e Sandymonth quando la bassa marea le scopre per centinaia di metri. Il colore del mare è grigio azzurro con la schiuma delle onde mossa dal vento costante e freddo: il paesaggio è nordico, con il verde a picco sul mare e la natura selvaggia. Le storie di vita, che ascolti dalle persone che ti capita di incontrare, sono affascinanti e misteriose, proprie di chi ha vissuto in un ambiente rurale. Lo sviluppo industriale della città, infatti, non è stato mai così fiorente, se escludiamo la produzione di alcolici. A dif-

ferenza degli inglesi, gli irlandesi sono stati un popolo di emigranti: fondamentale è stata la loro presenza per la crescita americana con New York e Boston come principali centri di attrazione. Oggi, infatti, il legame con gli Stati Uniti è ancora molto forte, grazie agli americani con radici irlandesi, che mantengono ancora intatto il ricordo, tornando spesso a visitare i luoghi d’origine. Lo stesso presidente Obama, anche egli di discendenza celtica da parte di madre, ha recentemente visitato le campagne tra Offaly e Tipperary. Le statue di Norma Smurfit , lungo il fiume Liffey, oggi commemorano la “Great Famine”, la grande carestia di metà Ottocento causata da un batterio della patata che ha cambiato la demografia del Paese con oltre un milione di morti, e che segnò l’inizio dell’emigrazione di massa. Negli ultimi anni, prima della recente crisi, da luogo di emigrazione, Dublino è diventata un luogo d’immigrazione. Grazie al boom economico ha attratto migliaia di persone e la sua popolazione è cresciuta fino a raddoppiare. Rappresenta l’irish dream per molti giovani che vedono nell’integrazione europea un’opportunità di viaggio e di incontro di culture diverse, una possibilità di affermazione e realizzazione. Un sogno di indipendenza e liberta da vecchi schemi legati ai confini delle singole nazioni, superate ormai da un mondo sempre più interconnesso e ravvicinato grazie anche alle nuove tecnologie. Questa rinascita ha cambiato anche il cuore di Dublino, che ora è illuminata dai nuovi negozi e palazzi, dai tantissimi ristoranti italiani, thailandesi, indiani, francesi segno tangibile di risposta alla fitta domanda multiculturale. Sono nati i quartieri cinesi, polac-

chi, italiani, modificando la struttura reticolare delle strade della città. Oggi Dublino è una città moderna, una capitale europea, importante centro per le aziende del’IT e del settore terziario. Si è dotata di un aeroporto sviluppato con una compagnia aerea, come la Ryanair, che ha completamente rivoluzionato l’idea di viaggiare, accorciando le distanze e collegando Dublino al resto dell’Europa. Gli scambi commerciali con l’estero sono in continua crescita e rappresentano la vera ricchezza della sua economia, nonostante la dura prova dalla recente crisi finanziaria. Tuttavia Dublino conserva ancora il suo carattere di città rurale a misura d’uomo: la si può percorrere in bicicletta e vivere la sua atmosfera amichevole, dove è facile – anche se vivi da poco più di un mese – incontrare per strada qualcuno che si conosce. È come sentirsi parte di un piccolo paese e i Dubliners ti fanno sentire a casa: ti salutano e iniziano a parlare come se fossi una persona di famiglia. Ed ecco che nelle domeniche invernali ti ritrovi a cantare insieme, al suono di un banjo, sulle note di “The Wild Rover” di Dropkick Muphys nei vecchi e affascinanti locali del “The Celt”. Dublino diventa subito una metropoli negli occhi meravigliati di quegli irlandesi, provenienti dalle campagne del Kerry mentre un vecchio signore ti stringe la mano semplicemente per augurarti un buon giorno di festa. Sigmund Freud scriveva a proposito degli irlandesi: «This is one race of people for whom psychoanalysis is of no use whatsoever: on the Irish (questo è un popolo per cui la psicoanalisi non è di alcuna utilità)». Insomma nessuno ti prende troppo sul serio nella “dirty old town”.

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libri & notes

Periodico di cultura arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative

Se in democrazia ci lasciano parlare, questo non vuole dire che ci ascoltino. (S. Baroni)

Un viaggio nella memoria e nel gusto l viaggio nella memoria, quando è condotto quella partecipazione personale ed emoItivacon che è fondata sull’appartenenza ad una comunità, diviene stimolo al riconoscimento ed alla costruzione di una solida identità individuale e collettiva. È quanto avviene nel libro Altre storie di anni fa. Ricordi di vita salernitana degli anni ‘60-‘70 di Marco Ferraiolo. Esso si compone di due volumi in cofanetto, ed è pubblicato da Area Blu Edizioni. L’opera compie un ampio itinerario nella storia di Salerno scandito per singoli anni. Per ciascuno di essi vengono portati alla luce avvenimenti, aneddoti, personaggi e storie particolarmente significative. A guidare i fili di questa articolata ricostruzione è la partecipazione diretta

Medioevo. Una via platonica alla verità l volume di Concetto Martello dal titolo I principi e le cause. Le Glosae Isuper Platonem di Guglielmo di Conches

(Officina di Studi Medievali, Palermo) è una analisi del pensiero del pensatore francese Guglielmo di Conches condotta in maniera incisiva e chiara, tanto da rappresentare un punto di riferimento imprescindibile per chi si avvicina allo studio del filosofo medioevale. Il testo consiste in una lettura storico-critica delle Glosae e si articola in quattro capitoli, preceduti da una Prefazione dell’autore, che poi nelle Conclusioni tira le somme del proprio lavoro. Martello, seguendo il percorso tracciato dal pensatore di Chartres, analizza il trattato incentrato sulle cause del mondo fisico e ricondotto dal filosofo alla tematica della creatio ex nihilo. Egli delinea un interessante e impegnativo percorso speculativo nel quale ricerca i possibili parallelismi tra la nozione religiosa di creazione e quella filosofica di causalità. Particolarmente interessante è la prospettiva teologica tracciata da Guglielmo, con riferimento al metodo a posteriori per provare l’esistenza di Dio e la concezione della Trinità come “sintesi” delle qualità del creatore. Il testo espone con grande chiarezza e puntualità argomentativa la struttura delle Glosae, le quali esprimono una concezione cosmologicomusicale dell’universo che costituisce il punto di congiunzione tra macrocosmo e microcosmo, elaborando altresì un’intima correlazione tra il diritto naturale e quello positivo. Come sottolinea Martello nelle conclusioni, attraverso questo percorso Guglielmo applica alla conoscenza dell’uomo e del mondo il metodo induttivo.

Giuseppina Di Stasi

e l’esperienza personale dell’autore, che conferisce un inconfondibile sapore di vita vissuta a queste intense pagine. Ad intervallare la storia di ciascun anno sono diciotto interviste con personaggi salernitani più o meno noti, i quali rievocano in modo ora commosso, ora distaccato, eventi, luoghi e figure rappresentative, molte delle quali scomparse o dimenticate. La storia di una città, il complesso cammino compiuto da una comunità, la comprensione della vita concretamente vissuta, tuttavia, richiede l’apporto di competenze e metodi talvolta molto diversi tra loro. Dunque a completare degnamente questa suggestiva immersione nel passato vi sono i “Ricordi gastronomici” di Ferdinando Cappuccio. In

essi vengono rievocate, con altrettanta “golosa” partecipazione, le tradizioni culinarie della città e del suo territorio e, soprattutto, vengono documentate le trasformazioni enogastronomiche intervenute col passare del tempo e con i mutamenti della società e dei costumi. Nel loro complesso i due volumi rappresentano uno dei più godibili tentativi di ricostruzione della vita vissuta negli ultimi decenni in una città di provincia. Essi compongono un affascinante mosaico del tempo trascorso, nel quale trovano posto quei frammenti di memoria altrimenti esposti inevitabilmente alla maledizione dell’oblio e della dimenticanza.

Bruno De Marco

Storia dell’analogia I

l tema dell’analogia, a ben vedere, innerva l’intera storia della riflessione filosofico-teologica dell’Occidente. Essa non figura soltanto come mero procedimento argomentativo, come argumentatio analogica utilizzata nei più diversi àmbiti del sapere, ma compare anche come espressione più adeguata delle relazioni interne all’essere (come nel caso dell’analogia entis che, almeno a partire da Dionigi Areopagita e dal suo recupero della tradizione platonica, informa il pensiero cristiano sino alle soglie della modernità). Vincenzo Cicero si propone in Essere e analogia (Il Prato, Padova) un profondo ripensamento della stessa nozione di analogia in modo da riformulare la stessa questione del senso dell’essere. La singolare capacità di analisi dei testi filosofici (da Platone ad Aristotele, da Hegel ad Heidegger) fa dei diversi pensatori interlocutori essenziali per lo sviluppo di una riflessione particolarmente originale.

Alfonso Salvatore

Romanzo. Disillusione e fragilità

India. Amore e religione

, 1977. A , M S , cerca di emanciparsi dalla famiglia. Giovanni, invece, vuole la rivoluzione. I due si

K S rappresentano nell’universo religioso dell’India antica riL spettivamente l’amore e l’ascesi. È nella dia-

ESSINA ILINI

URORA FIGLIA DEL FASCISTA

incontrano all’università. La vita insieme, però, si rivela molto diversa da come entrambi l’avevano immaginata. Giovanni tenta di entrare nelle Brigate rosse, mentre Aurora si rende conto che gli ideali della rivoluzione stanno spingendo l’uomo in un territorio pericoloso. Giovanni, sopraffatto dalla sensazione frustrante della sconfitta e dell’inettitudine, si rifugia nella droga. Una storia d’amore drammatica quella narrata da Nadia Terranova in Gli anni al contrario (Einaudi, Torino), la vicenda di due anime che non possono separarsi ma neanche stare insieme, in un periodo tormentato della storia italiana.

b.d.m.

E DIVINITÀ DI

AMA E

lettica tra queste divinità che si struttura l’immaginario raccolto nel volume L’universo di Kama. Testi d’amore dall’India antica, curato da Fabrizia Baldissera (Einaudi, Torino). Oltre a inni sacri, tratti dai Veda, e ad un testo filosofico-religioso in onore della dea Tripura, si presentano centurie d’amore in sanscrito e in tamil, un romanzo ricco di elementi soprannaturali, le ricette ayurvediche per una lunga vita amorosa, un compendio di ars amatoria, una commedia, un sutra buddista che alla passione sostituisce la gentilezza amorevole. Un quadro articolato che amplia le conoscenze sulla cultura antico-indiana.

La lingua di Dante

Gli scritti di Crispolti su Alberto Burri

Il linguaggio come chiave della vita spirituale

Sulla materia segni di un pessimismo radicale

a lingua di fuoco è l’immagine scelta L da Giacomo Gambale nel libro La lingua di fuoco. Dante e la filosofia del

«L

linguaggio (Città nuova, Roma) per spiegare gli aspetti polivalenti della riflessione di Dante sul linguaggio. Si tratta di un’immagine potente, radicata nella sapienza del Libro Sacro che, rispetto a una letteratura scientifica spesso unilaterale nelle sue conclusioni, coglie la dimensione poliedrica di una complessa operazione umana. L’uomo è un’anima che si manifesta essenzialmente tramite le parole. Queste ultime sono il segno vivo attraverso il quale egli esprime la sua storia. Il segno linguistico (signum locutionis), ossia quanto è materialmente proferito agli altri, rivela sempre la relazione originaria e ‘sentimentale’ di un’anima senziente con la cosa denotata. Attraverso un’analisi dei testi danteschi e del contesto teologico e letterario che ha ispirato l’opera del poeta fiorentino, l’autore giunge ad individuare in Dante due modi complementari di intendere l’attività linguistica dell’uomo, uno di tipo espressivo-spirituale, l’altro di tipo morale. Il saggio di Gambale è corredato da un ricco materiale di fonti grammaticali, retoriche, teologiche e letterarie che esaltano l’originalità del pensiero medievale su un tema di difficile presa. Offre anche un’ampia selezione di brani poco conosciuti che diventano un supporto indispensabile per il lettore. Maria Borriello

IVA

Maria Bruno

a vita non ha senso a priori. Prima che voi la viviate la vita di per sé non è nulla; sta a voi darle un senso e il valore non è altro che il senso che scegliete.» È quanto afferma Sartre in L’esistenzialismo è un umanesimo, apparso nel 1945; un saggio che ha fatto da guida alla generazione di artisti che, all’indomani della seconda guerra mondiale, si affaccia sulla scena dell’arte. Una generazione che ha saputo trovare la forza di esprimere il proprio disagio esistenziale, tracciando sulla superficie silenziosa della tela, sul corpo urlante della materia, una nuova e possibile strada per aprire il dialogo con il proprio tempo. È quanto affiora dalle pagine del volume di Enrico Crispolti, Burri «esistenziale» (FondazionePassaré e Quodlibet, 2015) una raccolta di scritti che lo storico e critico d’arte ha dedicato ad uno dei grandi interpreti dell’arte del XX secolo, spaziando dal 1957 (con il saggio che introduceva la mostra a tre “Burri, Morlotti, Vedova” tenutasi alla galleria la Salita di Roma) a quelli più recenti, come le note del 2008 dedicate al Grande Cretto realizzato dall’artista a Gibellina tra il 1981 e il 1985 o quelle del 2012, scritte in occasione dell’antologica ospitata nella Estorick Collection of Modern Italian Art di Londra. Curato da Luca Pietro Nicoletti che firma sia l’intervista a Crispolti posta in apertura, sia l’attenta e documentata postfazione dal titolo Esistenzialismo e materia, il volume si offre come rilettura di un’acuta analisi che scava nell’esperienza di un artista, offrendone, sulla lezione di Sartre, «un’interpretazione in chiave esistenzialista».

Alice Ioffrida

Il numero 12 lo trovi: AMALFI (SA) C&G. corso delle Repubbliche Marinare, 13 BARI Librerie Feltrinelli, via Melo, 49 BARONISSI (SA) Museo-Frac Fondo Regionale d’Arte Contemporanea BENEVENTO Libreria Masone Alisei, viale dei Rettori, 73F BITONTO Libreria del Teatro, largo del Teatro, 6 BOLOGNA Bookshop MAMBo, via Don Giovanni Minzoni, 14 BRINDISI Libreria Indipendenza, via Indipendenza, 28 CALTAGIRONE (CT) Libreria Dovilio, piazza Bellini, 12 CAMPOBASSO La Nuova Libreria, via Vittorio Veneto, 7 Palladino Company, via Colle delle Api, 170 CATANIA Cavallotto Librerie, viale Ionio, 32 CATANZARO Bookshop Museo MARCA, via Alessandro Turco, 63 CAVA DE’ TIRRENI (SA) MARTE Mediateca Arte Eventi, corso Umberto I, 137 Biblioteca Comunale, viale Marconi CITTÀ DI CASTELLO Novamusica, viale Abetone, 22 COMO Libreria Ubik, piazza San Fedele, 32 CORTINA D’AMPEZZO (BL) Museo Rimoldi, Ciasa De Ra Regoles, corso Italia, 69 COSENZA ELLEBI Galleria d’arte, via Riccardo Misasi, 99 FERRARA Università degli Studi Ferrara Dipartimento di Studi Umanistici, via Paradiso Ibs.it Bookshop, piazza Trieste e Trento, 41 FIRENZE Kunsthisrorisches Institut in Florenz, via Giuseppe Giusti, 44 FISCIANO (SA) Presso la sede di Unis@und Webradio Università degli Studi di Salerno FOGGIA Libreria Dell’Atenea, via Giuseppe Rosati, 1 GENOVA Libreria Feltrinelli, via C. Roccatagliata Ceccardi, 16 GROSSETO Centro documentazione arti visive, via Mazzini, 99 LAMEZIA TERME (CZ) Associazione culturale “Sukiya”, via Ticino,11 LECCE Libreria Adriatica, piazza V. Aymone, 7 Libreria Mondadori, piazza Sant’Oronzo LUCCA Fondazione Centro Studi Ragghianti, via San Micheletto, 3 MATERA Galleria Opera Arti e Arte, piazza Duomo, 16 MILANO Università degli Studi- Bibli. Storia dell’arte, via Noto, 6 Biblioteca Accademia di Belle Arti di Brera, Palazzo di Brera Libreria Hoepli, via Ulrico Hoepli, 5 MINORI Hotel Villa Romana, Corso V. Emanuele, 90 Fes Ceramiche, via Roma, 32 MODENA Bookshop Galleria Civica Palazzo Santa Margherita, corso Canalgrande, 103 Biblioteca Civica “L. Poletti”, viale Vittorio Veneto, 5 NAPOLI Accademia di Belle Arti, Via Costantinopoli, 107/a Bookshop Museo Archeologico Nazionale, piazza Museo, 9 Libreria Feltrinelli, piazza dei Martiri Bar Novecento, piazza Bellini PALERMO Libreria del Kursaal Kalhesa, Foro Umberto I, 21 PARMA Librerie la Feltrinelli, via della Repubblica, 2 PERUGIA Libreria Betti, via Sette, 1 PESARO Fondazione Pescheria Centro Arti Visive, via Cavour, 5 PESCARA Libreria Primo Moroni, via Quarto dei Mille, 29 PISTOIA Lo Spazio di via dell’Ospizio, via dell’Ospizio, 26-28 POTENZA Cocco libreria, Palazzo Rizzo, 33 Ermes libreria, via Firenze ROMA Libreria Altroquando, via del Governo vecchio Biblioteca Rispoli, piazza Grazioli, 4 Bookshop Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale Aromaticus, via Urbana, 134 SALERNO Libreria Brunolibri, via Torrione, 125 Librerie Feltrinelli, corso Vittorio Emanuele I, 230 Libreria Internazionale, piazza XXIV Maggio, 12 Libreria Mondadori, corso Vittorio Emanuele, 56 Galleria Il Catalogo, via A. M. De Luca Galleria Paola Verrengia, via Fieravecchia, 34 Pierino, Edicola al Corso, corso Vittorio Emanuele SAN SEVERO (FG) Libreria Orsa Minore, via Soccorso, 123 SARONNO (VA) Galleria Il Chiostro, viale Santuario, 11 SASSARI Libreria Internazionale Koinè, via Roma, 137 SIENA Università degli Studi Siena Dipartimento Scienze Storiche e Beni Culturali, Palazzo di San Galgano Punto Einaudi, via Pantaneto, 66 Bookshop Santa Maria della Scala, piazza del Duomo, 1 TORINO Librerie Feltrinelli, piazza Castello, 19 TRENTO Libreria Il Papiro, via Galileo Galilei, 5 TRIESTE Biblioteca Comunale, piazza Hortis Libreria Einaudi, via del Coroneo, 1 ULASSAI-OGLIASTRA Fondazione Stazione dell’Arte Museo Arte Contemporanea, Ex Stazione Ferroviaria URBINO Biblioteca Accademia di Belle Arti, via dei Maceri, 2 VENEZIA Bookshop, Museo Peggy Guggenheim, Palazzo Venier dei Leoni Dorsoduro, 701 VICENZA Valmore studio d’arte Contrà, Porta S. Croce, 14

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EINDHOVEN Studio C. Garofalo Daalakkrsweg 6-55,5641 JA, Eindhoven HEIDELBERG Universität Heidelberg, Institut für Europäische Kunstgeschichte, Ruprecht-Karls (Bibliothek)

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numero

12 - novembre-dicembre 2015

23



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