#17 - October/November - 2009

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redazione@passvr.it www.passvr.it

anno 4 numero 17 ottobre/novembre 2009

stampato su carta riciclata

PASS IL MAGAZINE DEGLI STUDENTI DELL’UNIVERSITÀ DI VERONA


PASSATENEO DOMANDE INCAZZOSE DI UNA STUDENTESSA DI LETTERE Cfu e dintorni........................................................................4 STUDENTI AMBASCIATORI ALLE NAZIONI UNITE I leader di domani.................................................................5 RAYMOND CHANDLER + ATENEO NEWS Convegno del 12-13 Ottobre + Notizie varie...........................6 LA DECRESCITA Approccio alternativo a falci, cilindri e monocoli......................7 CRONACHE DELLO SPRITZ Il mondo come volontà di raccomandazione...........................8 BESTIARIO Economia del nuovo ordinamento + Il postino . ......................9 INTERVISTA A CARLOTTA CENA Presidente in carica del Consiglio degli Studenti .............10/11

PASSWORLD SII IL CAMBIAMENTO CHE VUOI VEDERE AVVENIRE NEL MONDO La dieta vegetariana............................................................12 AMERICANA + SENZA TANTI GIRI DI PAROLE Donna Reed + Bla Bla Bla Cha Cha Cha...............................13 WILLKOMMEN IN BERLIN Vent'anni dopo...............................................................14/15 IL DIO DELLA FALCE E MARTELLO Paradosso o coerenza?.................................................... 16/17 SCHIAVI SILENZIOSI NEL PARADISO DI DUBAI La grande globalizzazione..............................................18/19

PASSATEMPO I DOLORI DEL GIOVANE RICHEY Manic Street Preachers.......................................................20 ROCK PASSION Guns N'Roses.....................................................................21 PLAYLIST Playa-Lista.........................................................................21 PAURA E DELIRIO A VENEZIA 66a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica...........22/23 AVVENTUROSE SERATE TRA LA CULTURA Mantova: Festival della Letteratura.......................................24 ARTE Nuova stagione culturale italiana.........................................25 NERO RUBRICA DI PAROLE Due racconti e due poesie..............................................26/27

EDITORIALE

SOMMARIO Autunno: stagione di raccolti e di ritorni. E Pass ritorna per una bella vendemmia un po' tardiva. A questo punto tanto vale iniziare a seminare per bene con qualche dovuto ringraziamento: grazie all'UniVr che ha deciso di sostenerci ancora e grazie a Juliette, la nostra capo redattrice d'oltralpe, che quest'anno passa il testimone alla sottoscritta. E speriamo che l'annata sia buona! Cin cin. Mmm...che si scrive in un editoriale? Il primo tra l'altro. Ma guarda un po': Pass insiste nel volervi dire due cosucce. Quindi vi saluto prematuramente e gli cedo la penna. Professione di fede di Pass: “Bentornati a tutti e benvenute matricole. Io sono il Giornale degli Studenti dell'Università di Verona. Chiunque, nel limite del buon senso e del rispetto, può scrivere sulle mie cartacee carni. Sono un tipo molto aperto e versatile. Non capisco perché circolino in giro strane voci sul mio conto. Amo la diversità di pensiero, amo il simile e l' opposto, amo il confronto, la critica e l' autocritica, amo l'onestà intellettuale. Se sono una voce, sono la vostra. Sta a voi darmela. Spero che il leggermi vi sia gradito. Al prossimo numero! Pass e chiudo.” Marta Poli

PASS

IL MAGAZINE DEGLI STUDENTI DELL’UNIVERSITÀ DI VERONA redazione@passvr.it - www.passvr.it

PRODOTTO CON IL CONTRIBUTO DELL’UNIVERSITÀ DI VERONA

Registrazione Tribunale di Verona N° 1825 R.S. del 27/02/2009 Direttore responsabile: Claudio Gallo Proprietario: Juliette Ferdinand Redazione chiusa il: 20 Ottobre 2009 HANNO SCRITTO: Giuliano Fasoli, Federico Longoni, Francesco Greco, Clara Ramazzotti, Davide Spillari, Enrica Innocente, Andrea De Marchi, Marta Poli, Carolina Pernigo, Gaia Raisoni, Federica Rosa, Elisa Zanola, Matteo Trabeschi, Fabrizio Capo, Iuri Moscardi, Barbara Scafuro. FOTOGRAFIE E ILLUSTRAZIONI (OVE NON INDICATO): Google, Flickr, Gettyimages, iStockphoto, Wikimedia PROGETTO GRAFICO: Eugenio Belgieri (www.whatgrafica.com) e Giuliano Fasoli FOTO DI COPERTINA: "Ritratto di Donna Libro" di Alex Zampini Stampa: Tipografia CIERRE - Sommacampagna (VR)

Copyright: Le condizioni di utilizzo di testi e immagini, laddove è stato possibile, sono state concordate con gli autori. Tutti i diritti sono riservati, testi, grafiche e fotografie sono coperte da copyright. Ogni copia degli stessi è illecita. Si ricorda che il contenuto del singolo articolo non definisce il pensiero della redazione e dell’editore. Grazie a tutti coloro che hanno collaborato, ma che sono stati dimenticati nei ringraziamenti.

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PRIMO PIANO GIORNALISMO KAMIKAZE MARTA POLI

Un attimo. Prima di qualsiasi cosa, riflettete su questo punto: le pagine che state sfogliando, la carta di cui sniffate l' odore (sì: esiste ancora la carta), le parole pesanti o vuote, rapide, succose, fastidiose o antipatiche che avete sotto gli occhi... ecco, tutto questo è libero. Frutto di menti libere, di mani libere, di penne, tastiere, pensieri liberi. Potrete anche non essere d'accordo con quanto leggete, ma il fatto che tutto ciò sia totalmente svincolato da censure, filtri o imposizioni di sorta è un qualcosa di prezioso e potente. Considerazione banale, direte voi. Pare invece che la realtà giornalistica attuale sia ben lungi dalla nostra isola felice, piccola e umile, ma felice. Stiamo vivendo una fase paradossale in cui il mondo dell'informazione sembrerebbe farsi ancor più libero e rapido, in evoluzione continua, per certi versi democratico oserei dire; basti pensare al ruolo chiave che sta giocando Internet in tutto ciò. Ormai la maggior parte delle testate giornalistiche possiede la propria versione in rete costantemente aggiornata. Il futuro della stampa per molti è proprio questo. La solita storia del “basta un click”. Ma il fatto che le nostre esistenze siano bombardate senza sosta da informazioni di ogni genere, alla lunga non potrebbe far altro che creare in noi una percezione distorta della realtà. Il concetto di libera informazione non equivale all'anarchia di finte verità, finalizzate a confondere e rendere impermeabili le menti degli utenti, annichilendone lo spirito critico. Ciò che succede in rete è paragonabile ad un passaparola tra persone, ad un vociferare che prima o poi devierà l'attendibilità della notizia. Una verità accessibile a tutti o a molti, e pertanto modificabile, cessa di essere tale; ne è solo la parvenza. Se poi vogliamo zoomare l'obbiettivo sulla nostra bella Italia, ovviamente il quadro si complica. Infatti, accanto a questo tipo di sovrastruttura della comunicazione, noi abbiamo la straordinaria capacità, unica nel suo genere, di coniugare l'antico al moderno. Tutta colpa dell'ere-

dità classica. Succedono cose strane ultimamente: giornalisti che non possono più fare domande perché l'alternativa sarebbe affittarsi direttamente un loft in tribunale, tanto per evitare il traffico quotidiano della città; testate straniere che, ringraziando Polluce, le cause per diffamazione contro loro rivolte le vincono; programmi televisivi la cui esistenza e sopravvivenza è una specie di concessione divina, ai quali si tenta istituzionalmente di tarpare le ali, o altri, che davanti alla Porta lo zerbino l'hanno messo rinforzato e doppio; intimidazioni di ogni sorta perché in Italia non circolino inchieste di giornali esteri e chi più ne ha più ne metta. Venghino signori! Non è questa la sede per puntare il dito contro qualcuno, quello è già puntato da tempo immemore. Ma il pensiero che si viva in un paese dove si ricorre ancora a bavagli dovrebbe, se non indignare, quantomeno far riflettere un po'.La situazione è chiara, ma sta bene così. Forse ce lo meritiamo. Siamo troppo pigri e indolenti per metterci la faccia, per voler cambiare le cose. Insomma, uno accende la TV, legge il quotidiano e viene a sapere di quello o di quell'altro festino. Si riempie il cervello di tutta questa roba, che francamente non lo turba nemmeno più di tanto. É più o meno passata l'idea che l'uomo politico e pubblico non trovi riscontro in quello privato. Ma, allo stesso tempo, questo potere voyeuristico concesso al cittadino crea in lui la pericolosa illusione di essere a conoscenza dei fatti, di tutti i fatti. E gli si assopisce il cervello. Quindi l'attenzione viene distolta dal vero marciume che si sta accumulando sopra la sua testa, ma che prima o poi gli verrà scaraventato addosso. E forse, di tutto ciò il mondo giornalistico ne è pure corresponsabile, scavandosi però allo stesso tempo una bella fossa. Strano giornalismo kamikaze. Bene, nonostante il quadro non proprio rassicurante, a chi non se la sente di sguazzare nello sterco, a chi pensa che il giornalismo o l'attuale fantagiornalismo possano salvarsi dalle dinamiche di un potere che si crede assoluto e inattacabile, non resta altro che alzare le antenne. La verità, del resto, non è che una supposizione.

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Domande incazzose di una studentessa di Lettere FEDERICA ROSA

Per quale ragione l’Università non dà informazioni fondamentali come quanti e quali siano i crediti necessari per poter accedere alle classi di insegnamento? Come mai queste informazioni noi studenti le apprendiamo solo fortuitamente da voci di corridoio imprecise e contraddittorie? Perché quando ci rivolgiamo a segreterie e tutorati non troviamo risposte chiare ed esaustive? Per quale motivo quando, dopo indicibili odissee, otteniamo le tanto agognate informazioni (sempre troppo tardi!) scopriamo che, assurdamente, il nostro piano di studi non ci permette di ottenere quei sacrosanti crediti? E che laddove ci permettesse di conseguirli, gli insegnamenti a noi necessari non sono ancora stati assegnati ad alcun docente e vige così uno spassosissimo mistero? Per quale arcana motivazione i nostri curricola seguono un percorso a sé stante rispetto alle direttive ministeriali? L’Università non si rende conto che gran parte di noi studenti di Lettere vorrebbe insegnare le materie che ora studia, una volta terminato il proprio percorso formativo? Già, notoriamente, la situazione della scuola italiana è ottimale, in questo momento: precarietà e confusione regnano sovrane. Se poi addirittura non siamo nemmeno messi nelle condizioni di poter ottenere il titolo che ci consentirebbe (sempre teoricamente) di realizzare i nostri progetti, sogni, aspirazioni, allora la frustrazione aumenta e con essa la sensazione di essere presi in giro. Così, inevitabilmente, anche noi giovani pieni di voglia di fare invecchieremo presto, colmi di risentimento e rassegnazione. Ultime dal fronte: le domande che Federica si pone (e di certo si trova in questo in buona compagnia!) probabilmente stanno levando un po' di polvere tra questi silenti corridoi. Tant'è che sul sito dell'Università sono di recente comparse tabelle esplicative al riguardo. Il quadro generale della situazione resta però ancora molto fumoso. Certo, la colpa non è tutta da una parte: gli studenti dovrebbero, in generale, aprire gli occhi e mobilitarsi più di quanto non abbiano fatto sinora. Stiamo parlando del nostro futuro, del resto. Pass promette di approfondire ulteriormente questa faccenda a dir poco bislacca e complicata. Riusciranno i nostri eroi? Lo scopriremo solo vivendo.

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STUDENTI AMBASCIATORI ALLE NAZIONI UNITE enrica innocente

Sono aperte le iscrizioni al progetto che porterà, per il secondo anno consecutivo, gli studenti dell’Università di Verona a New York per partecipare, in qualità di diplomatici, al National Model United Nations (NMUN), ovvero la più grande simulazione delle Nazioni Unite, ospitata all’interno del Palazzo di Vetro. Riparte a Verona il progetto “Studenti Ambasciatori alle Nazioni Unite”, giunto alla seconda edizione e arricchito dall’esperienza dell’anno precedente. Si tratta di un’iniziativa a cura dell’Italian Diplomatic Academy (IDA), un’associazione noprofit che si occupa della formazione e partecipazione ai Model United Nations (MUN), cioè meeting internazionali di studenti provenienti dalle più prestigiose università del mondo, che hanno ad oggetto la simulazione dei meccanismi di funzionamento dei principali organi delle Nazioni Unite. Gli studenti di Giurisprudenza, Economia, Scienze della formazione, Lingue e Letterature straniere, Lettere e filosofia dell’Università degli Studi di Verona, avranno l’esclusiva opportunità di agire come veri delegati, di sedersi dove ogni giorno lavorano i diplomatici delle Nazioni Unite e di identificarsi con loro. Potranno vivere un’esperienza di grande crescita culturale e personale, ricca di momenti indimenticabili, di divertimento, di forti emozioni e di soddisfazioni. Durante la simulazione gli studenti sono chiamati ad assumere il ruolo di diplomatici di altri paesi, studiano il contesto politico, economico e sociale dello stato loro assegnato, discutono di questioni internazionali in specifiche commissioni e propongono soluzioni a problemi attuali. Per rappresentare la politica del loro paese e ottenere l’approvazione di una risoluzione, devono quindi mettersi in gioco e utilizzare tutte le loro abilità oratorie, di negoziazione e persuasione.

La simulazione di New York si distingue per alcuni momenti di alto valore formativo e culturale: l’"Opening Ceremony", ovvero la cerimonia di apertura dei lavori, ospitata all’interno del Palazzo di Vetro; il "Guest Speaker Programme", cioè l’incontro formale con esponenti del mondo della diplomazia mondiale per discutere temi d’attualità; il "Mission Briefing", ovvero l’appuntamento con gli ambasciatori del proprio Paese presso la sede di rappresentanza diplomatica all’ONU; la "Saturday Plenary Sessions", momento di presentazione e votazione formale delle risoluzioni e dei reports presso l’aula dell'Assemblea Generale, e la "Closing Ceremony", cioè la cerimonia di chiusura dei lavori, con la premiazione delle migliori delegazioni partecipanti. Nel corso di formazione, che anticiperà il viaggio presso le Nazioni Unite e che sarà svolto in aule universitarie da docenti di ateneo ed esperti in relazioni internazionali, gli studenti potranno acquisire e maturare particolari competenze per prendere parte, in modo attivo, all’evento. La simulazione, che avrà luogo dal 29 Marzo al 4 Aprile 2010, sarà ospitata all’interno della prestigiosa sede mondiale delle Nazioni Unite a New York, il Palazzo di Vetro. Le sorti del Mondo dipenderanno, per una settimana, dalle capacità decisionali degli studenti: i Leader di domani. I giovani che desiderano candidarsi per far parte della delegazione di studenti ambasciatori alle Nazioni Unite, che prenderà parte all’edizione NMUN 2010, sono pregati di far pervenire la propria richiesta (entro il 21 novembre2009) alla segreteria organizzativa dell’IDA all’indirizzo di posta elettronica info@italiandiplomaticacademy.org oppure di visitare il sito dell’associazione www.italiandiplomaticacademy.org.

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no long goobye FOR MR CHANDLER FRANCESCO GRECO francescogreco22@yahoo.it

Di Raymond Chandler e della sua eredità letteraria si è parlato al convegno promosso dal professor Stefano Tani, nei giorni 12 e 13 Ottobre. Insieme a Dashiell Hammett, Chandler è stato il capostipite della detective novel americana e i suoi romanzi, grazie alla creazione dell’investigatore privato Philip Marlowe, influenzarono e continuano a influenzare molteplici scrittori. Raymond Chandler nasce a Chicago nel 1888 e da lì a poco si trasferisce con la famiglia in Inghilterra. Nel 1912 torna

negli Stati Uniti, dove – allo scoppio della Prima Guerra Mondiale – si arruola nell'esercito canadese e viene spedito a combattere in Francia. Terminato il conflitto, all'età di quarantacinque anni (1933) pubblica il suo primo racconto su “Black Mask”, leggendaria rivista hard-boiled, catalizzatrice della detective novel americana. Del 1939 è il suo primo romanzo, The Big Sleep (trad. Il Grande Sonno). Nel corso degli anni '40 e '50 Chandler si affermerà come autore leggendario. Una leggenda del tutto lontana dallo scrittore “reale” che, sebbene avesse traghettato il romanzo poliziesco dalla sotto-letteratura alla Letteratura (etichetta meritata, quindi, almeno a livello letterario), in realtà era un uomo abitudinario e del tutto noioso per alcuni.

Morirà in California nel 1959 a causa di una polmonite, aggravata da anni di alcolismo. Che cosa rimane dunque di Chandler a cinquant'anni dalla sua morte? A questa domanda hanno cercato di dare una risposta i diversi relatori che si sono alternati al microfono nel corso del convegno. “Ci auguriamo che quello di oggi sia solo un inizio” ha concluso alla fine dei lavori il professor Tani, curatore dell'edizione dei Meridiani dedicata allo scrittore americano. Di certo, per Chandler non è stato e non sarà un lungo addio.

A cura di: CAROLINA PERNIGO

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NUOVO MASTER IN COMPUTER GAME DEVELOPMENT

…per chi sostiene che l’Univr manchi di creatività. La proposta nasce dalla facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali e il progetto è diretto dal professor Andrea Fusiello. Il master, unico nel suo genere in Italia, avrà la durata di un anno e le lezioni cominceranno il 16 Ottobre. A lezioni puramente teoriche si affiancheranno attività pratiche e di laboratorio, finalizzate a formare professionisti in grado di destreggiarsi nel complesso e variegato mondo dei videogames, ancora in gran parte inesplorato a livello accademico. “Il mondo dei videogiochi è in rapida espansione e sta conquistando frontiere fino a pochi anni fa sconosciute – spiega Andrea Fusiello–. In breve tempo è divenuta una realtà ricca di sfaccettature e contaminazioni. Intere squadre di programmatori, grafici, designer, tecnici del suono e produttori si dedicano a questo tipo di progetto. Per questo è indispensabile formare figure professionali preparate, in grado di rispondere alle esigenze di un mercato sempre più in rapida espansione”.

I nuovi orientamenti: iscrizioni e test a numero chiuso per l’A.A. 2009/2010

Anno nuovo, vita nuova. Nuove anche le prospettive per i giovani studenti universitari, noti altrimenti con l’affettuoso appellativo di “matricole”. Le prescrizioni per l’anno accademico 2009-2010 che si appresta a cominciare hanno rivelato dei cambiamenti rispetto all’ a.a. 2008-2009: il 28% in più di iscritti, e uno spiccato orientamento per le professioni sanitarie. Sono in 1077 gli studenti che faranno a botte (o meglio, a librate, probabilmente sfruttando i voluminosi tomi dell’Alpha test) per conquistare uno dei 158 posti disponibili per la facoltà di Medicina e Chirurgia, in 366 quelli per i 15 posti di Odontoiatria (e qui la lotta si farà cruenta e all’ultimo sangue). Aumenti di interesse si sono manifestati anche per gli altri corsi del settore medico, come Infermieristica, Fisioterapia, Ostetricia e affini. Per gli altri, quei poveri ragazzi che non desiderano altro che accedere senza ostacoli ai corsi di laurea che non prevedono un test d’ammissione, si prepara invece la temuta verifica dei “saperi minimi”, prerequisito necessario all’ammissione, mentre per chi ancora non ha le idee chiare è stato istituito un particolare servizio d’orientamento interattivo, il progetto “Cicerone” (info su www. univr.it).

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LA DECRESCITA Approccio alternativo a falci, cilindri, martelli e monocoli. GIULIANO FASOLI giuliano.fasoli@yahoo.it

“Oggi, più che mai in qualsiasi altra epoca storica, l’umanità si trova a un bivio. Una strada conduce alla disperazione più assoluta; l’altra, alla totale estinzione. Preghiamo il cielo che ci dia la saggezza di fare la scelta esatta” - Woody Allen Il professor Serge Latouche sceglie una frase di Woody Allen per cominciare la sua conferenza “La crisi economico-finanziaria globale e l’utopia concreta della decrescita” tenutasi nell’aula magna del Polo Zanotto. Utopia e decrescita nella stessa frase? Già qui il monocolo di molti capitalisti (affezionati lettori di Pass) si sarà sonoramente infranto sulla pagina del nostro magazine prediletto, ma sicuramente anche il lettore medio percepirà una certa dissonanza ed egual discorso per i lettori portatori di monocolo ma non capitalisti. Tale reazione di straniamento è imputabile alla spontanea assegnazione di un significato positivo alla parola “crescita” che si contrappone al negativo della parola “decrescita”. Crescita significa sviluppo, significa progresso, significa un’aggiunta al precedente stato sistematico, come può non suonare positivo un termine del genere? Di contro, decrescita sa molto di ritorno al passato, di regressione. Latouche, il quale, benché si presenti come pensionato sia dall’attività di economista che da quella di professore, è uno dei più attivi sostenitori della decrescita, sposta la concezione dei termini. La crescita porta al benessere? Decisamente no secondo lo studioso francese, che illustra come attualmente ci si trovi in una situazione critica, non solo sotto il profilo economico, ma anche sotto il profilo ambientale e sociale. Crisi economica, riscaldamento del pianeta e marcate disparità tra Paesi sono solo alcune delle pennellate che vanno a comporre un quadro dalle tinte preoccupanti. sono le navi cariche di vecchi PC che Il professor Latouche spiega partono ogni giorno dagli USA dirette in come la causa di questa cupa Paesi africani per lo smaltimento tela sia uno smodato consumismo, un’obsolescenza programmata atta a produrre di più, una crescita che ha come unico fine la crescita stessa. Questo processo ha come conseguenza una crescita infinita la quale è palesemente incompatibile con un pianeta finito. Per le sue idee, Latouche viene spesso tacciato come retrogrado: a queste critiche risponde precisando che anche la decrescita per la decrescita è assurda come lo è la crescita per la crescita. Egli non è dunque il sostenitore di una progressiva regressione che punta a farci tornare a vivere nelle caverne o cacciare coturnici servendoci delle letali proprietà della selce, ma piuttosto un portabandiera della moderna concezione di emancipazione dell’uomo, emancipazione tra-

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dita dall’attuale schiavitù al PIL e ai mercati finanziari. Il PIL non misura la felicità, come afferma Bob Kennedy in un suo celebre discorso e, ricordando Illich, suo maestro, il professor Latouche punta il dito contro la concezione strettamente economica della vita. “Se hai un martello conficcato in testa, tutti i tuoi problemi avranno la forma di chiodi e il nostro martello si chiama economia. È necessario decolonizzare l’immaginario dai miti del progresso” ci dice il professore francese il quale osserva come l’Occidente sia assuefatto al consumo senza considerare se questo consumo sia di fatto sostenibile. Lo studioso comincia a snocciolare dati: “occorrono dai 30 ai 70 anni per dissipare il biossido di carbonio che continuiamo a riversare nell’aria nonostante e, secondo gli studi dell’IPCC, nei prossimi decenni la temperatura della Terra salirà in un range compreso tra un minimo di due gradi fino ad un massimo di sei, mettendo a serio rischio l’esistenza della vita”. É dunque un momento cruciale nel quale servirebbe un deciso cambio di rotta, ma, a tal proposito, Latouche cita la storiella della rana contenuta nel film An Inconvenient Truth di Al Gore: “Se mettiamo una rana in una pentola di acqua bollente questa salterà fuori, ma se l’acqua fredda viene scaldata piano piano, la rana rimarrà dentro la pentola fino a morirne... noi siamo questa rana!”. Ecco che la crisi economica potrebbe essere la repentina escursione termica necessaria per farci balzar fuori dall’infausto tegame, l’occasione per una della popolazione mondiale consuma svolta globale. Latouche redige l’86% di tutti i beni e servizi un “trampolino” che consiste in “dieci R”: una lista di punti, a sua detta, di concezione profondamente riformista e sistematicamente rivoluzionaria. Una delle proposte più importanti sta nella rilocalizzazione delle attività, deglobalizzare per produrre e consumare localmente, abbattendo così l’inquinamento visto che, citando uno degli esempi dello studioso, 1 Kg di bistecca “brucia” 6 Litri di petrolio. Non mancano proposte di un più ampio respiro sociale come quella di rilanciare la produzione dei beni relazionali (ad es. l’amicizia) oppure, e qui il nostro amico Stakhanov storcerà un po’ il naso, la riduzione dei tempi di lavoro, per creare lavoro, ma soprattutto per vivere meglio. Il professor Latouche propone quindi una terza via, alternativa a quelle catastrofiche descritte da Woody Allen, una terza via che però deve essere battuta urgentemente.

25%

Nota: durante la conferenza e soprattutto durante gli interventi del pubblico avrei gradito che la mia vista fosse ostacolata da almeno qualche lucido cilindro o tuba. Probabilmente l’omino del Monopoli era impegnato nell’inaugurazione dell’ennesimo hotel a Parco della Vittoria.

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FRANCESCO GRECO francescogreco22@yahoo.it

Cronache dello Spritz � IL MONDO COME VOLONTÁ DI RACCOMANDAZIONE � di Raoul Duke

“Ci misi un po' prima di riprendermi dalle parole di quell'uomo: sangue di Giuda, parlava proprio di come lui... voglio dire quegli occhi azzurri e sinceri mi stavano sparando quello schifo in faccia, come fosse la cosa più naturale del mondo”. Chi è che parla? Un ex-rappresentante degli studenti, ma torniamo un attimo indietro; riavvolgiamo la bobina del tempo per comprendere al meglio la storia. Alle tre del pomeriggio di un lontano weekend estivo avevo un appuntamento. Niente di inusuale: un milione di persone potevano avere un incontro alla stessa ora e nello stesso giorno, senza che io nemmeno lo potessi sapere; comunque, dipende da chi incontri. Nel mio caso un giovane professore. So solo che faceva un caldo asfissiante e quando il mio dito pigiò il pulsante del citofono, ebbi la sensazione che la mascherina di plastica si potesse sciogliere e colare atterra lentamente come un rivo di bava. “Sali su, secondo piano” rispose una voce metallica. Percorsi una rampa di scale e al mio entrare feci la conoscenza di un ragazzo che se ne stava spaparanzato sul divano mentre reggeva sullo stomaco un bicchiere di birra fresca. Mi venne offerta la stessa bevanda che accettai volentieri. Mi sedetti poi affianco al mio coetaneo; il divano, basso e soffice, pareva risucchiarci. Il professore, invece, restò in piedi la maggior parte del tempo, camminando ogni tanto qua e là per la stanza e fumando nervosamente. “Piacere, Giorgio” si presentò allungando una mano il mio vicino; il palmo è madido di sudore. “Raoul Duke” tagliai corto. “Grazie di essere venuti; tutti e due” esordì infine il nostro anfitrione “Come sapete vi ho voluti qui poiché oggi celebriamo il giorno in cui lascerò l'università e con essa l'Italia: la mia carriera universitaria è andata a gambe all'aria in un solo giorno. Per amor della cronaca ripeterò l'episodio: io e un mio collega stavamo lavorando insieme alla correzione di alcuni compiti. Stavamo apponendo i voti quando mi accorsi che mancavano degli scritti: gli studenti che avevano sostenuto il test erano trenta; noi invece avevamo solo venticinque compiti. Lo feci notare al mio collega che prese a zigzagare per lo studio nervosamente. Era ora di pranzo e decidemmo di prenderci una pausa. Un'ora dopo tornai in studio dove trovai la borsa del professore aperta: dentro vi erano i compiti mancanti! Affrontai il mio collega non appena rientrò. “Perché non mi hai detto degli studenti raccomandati?!” chiesi. “Sciocchezze” tuonò questi “non ci sono altri compiti!”. La mia reazione, l'unica efficace di fronte alla sua menzogna, è stato un cazzotto in pieno volto. Per questo oggi vi dico che domani emigrerò verso nuovi lidi”. Questi “nuovi lidi” sono gli Stati Uniti d'America, dove si può scoprire che non “tutto il mondo è Paese”, come amano ripetere gli Italiani per giustificare qualsivoglia bruttura del loro Paese. Lì il nostro ha avuto una splendida carriera universitaria; quella che gli è stata negata nel suo Paese a causa di un'usanza diffusa e medioevale: la raccomandazione. Ebbene, l'incontro descritto si svolse almeno quattro anni fa nel suo appartamento. Pochi mesi fa, in uno di quei rari giorni di agosto in cui ha piovuto, ho rincontrato Giorgio. Per onorare le tradizione siamo entrati in un pub per una birra. Lui ha attaccato a parlare a macchinetta. “Lo sai che adesso sono rappresentante degli studenti qui all'università di Verona?” “Davvero... dev'essere eccitante”. “Non proprio... ma ho scoperto che qualcuno del corpo docenti si ricorda ancora del professore. Sai... ultimamente lui non sta bene”. Sentii uno spasmo al cuore. “Oh, mamma, cos'ha?” “Problemi di salute... sai, fumava molto...” “Capisco. E tu come lo sei venuto a sapere?”. “Beh, vedi ero, a una riunione tra docenti e i rappresentanti. Non so come, ma sono arrivato a chiacchierare con un professore seduto affianco a me. Gli ho chiesto se si ricordasse del nostro professore. Avresti dovuto vedere la sua faccia: sprizzava rabbia da tutti i pori, come se si potesse riempire uno scolapasta di livore. Sono quasi certo che sia lui il collega che si è preso il cazzotto se è arrivato a dire di ricordarlo con poca nostalgia. Ho obbiettato e lui ha aggiunto: ‘Quell'uomo era un folle a credere che in Italia ci possa essere un minimo di mobilità sociale! Io stesso avrei voluto far assumere mia figlia come professoressa e non sono riuscito a raccomandarla!’. Ci misi un po' prima di riprendermi dalle parole di quell'uomo: sangue di Giuda, parlava proprio di come lui... voglio dire, quegli occhi azzurri e sinceri mi stavano sparando quello schifo in faccia come fosse la cosa più naturale del mondo”. Il mio amico mi raccontò, poi, di altri episodi: un professore che, come un novello Casanova, ha vissuto la sua maturità da “filosofo” –in compagnia di belle studentesse– e ha scelto di morire da cristiano, dedicandosi completamente a pratiche esoteriche; un pezzo grosso (di che cosa non s'è scoperto ancora, nda) che a ogni discorso è uso farcirsi la bocca con la parola “meritocrazia” e che invece ha regalato due cattedre di docenza al figlio e alla figlia... e così via. Questo mi fa solo pensare che un bel cazzotto se lo meriterebbero tutti. Due giorni dopo, camminando per i corridoi dell'università, incrociai il Nostro. Quando lo vidi arrivare mormorai a denti stretti: “Ecce Homo Eroticus!”

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BESTIARIO

rubrica sul_ nostro_ ateneo _osservazioni_ lamentele_ aneddoti..

L'economia del Nuovo

Ordinamento ANDREA DE MARCHI

A partire dallo scorso anno accademico È stato introdotto nell'Ateneo veronese il nuovo ordinamento degli studi previsto dal decreto ministeriale 270/04, che fissa a venti il numero massimo di esami che si possono sostenere nella laurea triennale. Si tratta di una non trascurabile razionalizzazione del percorso di studi universitari che agevola l'attività degli studenti. Infatti, questo ridotto numero díesami permette di accelerare la carriera dello studente, che, sostenendo appunto meno esami (distinti,

però, cadauno, da un maggior numero di c.f.u.), può così investire al meglio il proprio tempo, non sprecandolo in uno sterminato novero di appelli díesame, con il conseguente rischio di ritrovarsi il libretto pieno di "esamini" che, a conti fatti (e a c.f.u. contati) non meritano le fatiche spese. Certo, sostenere esami da dodici crediti può sembrare impresa degna delle dodici fatiche d'Ercole, ma questo garantisce la soddisfazione di aver lucrato un alto numero di crediti in pochi appelli. Inesperta matricola, alle

prime armi con lo studio accademico, non avevo inteso il vantaggio di questo nuovo ordinamento, che invece adesso so apprezzare con cognizione di causa. A fronte delle lamentele riguardanti il pesante carico di studio per ciascun esame e provenienti da noi, ormai ex-studenti del primo anno, giungeva il disappunto di chi, appartenendo al precedente ordinamento, vedeva tante fatiche non ricambiate da altrettanti frutti. Si è così rivelato il carattere nettamente vantaggioso del nuovo corso di studi e il vero disagio provocato dall'ordinamento precedente. Con il nuovo ordinamento si possono toccare subito con mano e con efficacia i frutti coltivati con lo studio, il cui apice è la laurea - non sembra irraggiungibile, bensì appare preceduto da un accessibile numero di tappe progressive.

Il postino non l'avevo considerato GAIA RAISONI

Avete presente quelle interminabili code verso fine Settembre per consegnare tutta la documentazione necessaria per richiedere la borsa di studio? Ecco, uno pensa che la fatica sia tutta lì, invece verso Novembre/Dicembre, si passano i pomeriggi su Internet alla ricerca delle graduatorie; quando finalmente i risultati sono visibili, sorge spontanea una domanda: perchè pur abitando a quaranta chilometri di distanza sono definita "IN SEDE"? Di qui altre code per richiedere chiarimenti, col risultato di avere come risposta questa: tutte le località entro quaranta chilometri sono considerate "sede"; come se vivessi a Verona in pratica. Tralasciando queste piccole amarezze, ricevere l'assegno della borsa di studio è veramente "manna dal cielo", perchè, come sapete tutti, le spese sono tante. La cifra predisposta per i borsisti viene consegnata in due tempi, con un primo assegno a fine Dicembre/ Gennaio e con un altro verso Giugno/Luglio. Quest'anno però è successo uno spiacevole incidente: alla fine dell'anno non è arrivata nessuna busta, nessun assegno, niente di niente insomma. Poi la vita di tutti i giorni ha fatto sì che la questione finisse nel "dimenticatoio", fino a quando non è arrivata una lettera a Luglio. L'Unicredit Banca mi informava che Loro avevano motivo di ritenere che il pagamento disposto a mio favore dall'Università di Verona non fosse giunto al mio domicilio; aggiungeva inoltre che ciò era successo "per cause non imputabili nè a questa Banca nè all'Università di Verona". Subito sotto venivo informata che "per evitarne l'uso fraudolento" avevano provveduto ad annullarlo, ad emetterne subito un altro e a spedirmelo; si consigliava di consegnarlo ad una loro filiale, dove avrei avuto "tutta l'assistenza necessaria per l'incasso del nuovo assegno". Nella busta poi trovavo un'altra lettera, quella con l'assegno. Ricapitoliamo: il primo assegno non mi è arrivato a Dicembre/ Gennaio, ma a Luglio perchè si è perso, o meglio è stato smarrito, da chi non si sa, certo non dalla banca o dall'Università; sarà stato il postino. Ma è possibile che tante persone abbiano avuto il mio stesso problema? Tutta colpa dei postini? Delle Poste Italiane? Il punto penso proprio sia il seguente, e da qui mi sento di muovere una critica: come si può permettere che degli assegni (per giunta di una cifra considerevole) siano spediti agli aventi diritto come semplice posta ordinaria? Molti assegni sono finiti chissà dove, per fortuna la Banca ha provveduto a bloccarli e ad annullarli, evitando così spiacevoli situazioni. Oltre all'amarezza per ciò che è successo, oltre ad aver perso tempo in una filiale UniCredit per farmi "cambiare" l'assegno, firmare mille e più carte, non mi resta ancora che questa domanda: ma sarebbe successa la stessa cosa se mi avessero spedito una raccomandata? All'anno prossimo l'ardua sentenza.

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Intervista a Carlotta CenA Presidente in carica del Consiglio degli Studenti di marta poli e GIULIANO FASOLi

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a scarsa affluenza alle urne durante le ultime elezioni (poco più dell’11 %), si rivela essere il dato sintomatico di un generalizzato disinteresse da parte dello studente medio nei confronti delle realtà universitarie che lo circondano. Per cominciare, che ne diresti di aiutarci ad avere le idee un po’ più chiare sulla composizione e sul ruolo dei vari organi di rappresentanza? La conoscenza di queste istituzioni è fondamentale, ed uno dei principali obiettivi è comunicarne l’importanza. A livello d’Ateneo possono essere individuati i Consigli delle varie Facoltà, il Consiglio degli Studenti, il Senato Accademico, il Consiglio d’ Amministrazione e le numerose Commissioni. Quale, tra questi, svolge un ruolo che possa interessarci più dal vivo? Sicuramente i Consigli di Facoltà, formati al loro interno da Studenti, Professori, Ricercatori e coordinati dai rispettivi Presidi; questi si occupano di questioni concrete e urgenti: appelli, nuovi corsi di laurea, calendari didattici, sessioni di laurea. É uno degli organi più dinamici e interessanti, il cui ruolo non va sottovalutato. E il Consiglio degli Studenti invece? Questo è un organo consultivo, che può quindi esprimere dei pareri da sottoporre agli organi decisionali. I Consiglieri eleggono tra i componenti del Consiglio stesso un Presidente, un Vice, i Senatori, i Rappresentanti in Commissione Fondi e i Rappresentanti che andranno a fare parte delle varie Commissioni d’ Ateneo.

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O ACCA T A N E

Dialogo e Partecipazione era risultata la lista di maggioranza. Quali sono stati i criteri che hanno portato alla tua elezione come Presidente del Consiglio? (Ricordiamo che la tua candidatura era tra le file di Student Office). Dialogo ha vinto su alcune Facoltà attraverso un particolare metodo proporzionale. In ogni caso il Presidente non viene eletto direttamente, ma tale elezione è interna al Consiglio. La mia candidatura è stata sostenuta dalla maggioranza dei Consiglieri, rappresentata da Student Office e Nuovo Ateneo. Ritorniamo al Consiglio degli studenti: qual è il suo ruolo? Come dicevo prima, si tratta di un organo consultivo, che se coinvolto tempestivamente può esprimersi su determinate

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C O N SIG LIO D

EG LI S T U D E N TI

• 1 Presidente (il Rettore) • 1 Vice presidente • 1 Direttore • 1 Rappresentante dei Direttori di Dipartimento • 8 Rappresentanti dei professori ordinari • 8 Rappresentanti dei professori associati • 8 Rappresentanti dei ricercatori • 4 Rappresentanti degli studenti • 4 Rappresentanti tecnico amministrativi

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Al suo interno sono presenti esponenti delle tre diverse liste candidate (Student Office, Dialogo e Partecipazione e Nuovo Ateneo). Questo fatto ostacola il vostro compito o la linea comune è facile da definire? Per il momento stiamo lavorando in modo soddisfacente. É ovvio che ci si impegni per superare divergenze di forma più che di sostanza, nel tentativo di perseguire il bene e l’utile comune a tutti gli studenti. Credo fermamente che con la costanza e la partecipazione, l’informazione e la preparazione di noi rappresentanti, si possano ottenere importanti risultati, senza avere la presunzione di cambiare l’Università dall’oggi al domani.

• 1 Presidente • 1 Vice presidente • 1 Segretario verbalizzante • 45 Rappresentanti degli studenti


questioni. Per fare un esempio: il piano della Contribuzione Studentesca proposto ogni anno; questo, prima di passare in Senato e in Consiglio d’Amministrazione, riceve anche il parere del Consiglio degli Studenti. Abbiamo notato una certa difficoltà nel reperire i vostri contatti. Qual è il modo più valido perché uno studente possa comunicare con voi? Sul sito dell’ Università si trovano i nominativi di tutti gli studenti che ricoprono una carica all’ interno dell’Ateneo e per alcuni di loro è disponibile l’ indirizzo e- mail. Tuttavia, riteniamo che sia impossibile per noi rispondere alle esigenze (talvolta anche estremamente banali!) di oltre 23.000 studenti. Per contattarci quindi, è opportuno rivolgersi agli Organi Istituzionali (ad esempio Segreterie di Presidenza o Segreteria del Rettore), i quali possono fornire i nostri contatti. Ecco, hai nominato più volte il Senato Accademico ed il Consiglio d’Amministrazione. Cosa puoi dirci al riguardo? Il Senato è composto dal Rettore, il Pro-Rettore, i Presidi, Rappresentanti dei Professori, Rappresentanti degli Studenti , Rappresentanti dei Ricercatori e Rappresentanti dei Tecnici Amministrativi. Il Senato Accademico Allargato è l’ Organo preposto a deliberare in merito a questioni capitali, quali la programmazione dello sviluppo dell’Ateneo, l’istituzione di nuove Facoltà e di altre strutture scientifiche, il coordinamento dei programmi nazionali ed internazionali di cooperazione, la revisione dello Statuto. Il Senato Accademico si avvale di tre Commissioni istruttorie permanenti: quella per la Ricerca, per la Didattica e quella per la Programmazione e Bilancio. Ciascuna Commissione è coordinata da un Presidente eletto dal Senato Accademico Allargato nell’ambito dei suoi membri, tra i professori ordinari. Per le deliberazioni relative alle materie

I FA

Ringraziamo Carlotta Cena, augurandoci di poter attivare e promuovere attraverso Pass un canale informativo ancora più utile e producente tra Studenti e Rappresentanti.

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IG LIO D’A S N O M

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• Presidente della Regione Veneto • Direttore Reg. Dipartimento entrate • Presidente Amm. Provinciale • Sindaco di Verona

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• 1 Presidente (il Rettore) • 1 Vice presidente • 1 Direttore • 8 Rappresentanti dei professori ordinari • 8 Rappresentanti dei professori associati • 8 Rappresentanti dei ricercatori • 4 Rappresentanti degli studenti • 4 Rappresentanti tecnico amministrativi

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CO • Professori ordinari e associati • Rappresentanti dei ricercatori e degli assistenti di ruolo pari a 1/5 dei professori ordinari e associati • 1 Rappresentante dei tecnici laureati • Rappresentanti degli studenti 5 per Facoltà con meno di 2000 iscritti; 7 per Facoltà con più di 2000 iscritti

Bene, per il momento, che ne dici di salutarci con una chicca interessante sulla nostra UniVr? Vi aggiorno volentieri sull’esistenza di un progetto di grande importanza. La nostra Università, in seguito a delibera del senato Accademico del 2008, ha aderito quest’anno al sistema di valutazione accademico IEP (Institutional Evaluation Programme), ovvero una valutazione di tipo “istituzionale” circa il profilo qualitativo del nostro Ateneo. La relazione finale è oggi oggetto di lavoro ed attenzione da parte del GAV, il Gruppo di Autovalutazione d’ Ateneo che ha coordinato il progetto dall’interno. Sul portale dell’Università, ricercando “Relazione IEP”, potrete trovare questo documento. Invito tutti a leggerlo (si tratta di poche pagine), poiché motivo d’interessanti spunti di riflessione.

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di rispettiva competenza, le Commissioni formulano pareri o proposte riferendone al Senato; nelle stesse materie, le Commissioni possono presentare proposte al Senato Accademico anche di propria iniziativa. Un esempio del lavoro svolto da quest’organo è la formulazione del regolamento d’Ateneo, che deve essere approvato dal Ministero della Pubblica Istruzione, ed al quale devono poi attenersi tutte le Facoltà. Il Consiglio d’ Amministrazione invece, al cui interno vengono eletti anche quattro rappresentanti degli Studenti, esercita tutte le competenze pertinenti all’organizzazione ed alla gestione amministrativa, finanziaria ed economicopatrimoniale dell’Ateneo.

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La dieta vegetariana: una scelta etica, sostenibile e salutare FEDERICA ROSA

Anzitutto una fondamentale distinzione: si parla di dieta vegetariana quando si elimina dall’alimentazione la carne animale; si parla invece di dieta vegana quando si rinuncia ad ogni tipo di prodotto di origine animale (quindi anche uova, latte, formaggi...). Le ragioni che portano ad una scelta alimentare di questo tipo sono tante, vediamone alcune. L’aspetto etico di questa scelta riguarda il desiderio di non essere causa di uccisione e sofferenza di alcun animale. Questa forma di compassione ha origini antiche, la ritroviamo in numerose religioni e in vari periodi della storia. Le motivazioni ecologiche sono, per la mia personale esperienza, un po’ secondarie: le ho messe a fuoco solo dopo aver scelto di eliminare la carne perché non sopporterei la visione di una macellazione, tanto meno riuscirei io stessa ad uccidere un animale, perché dovrei continuare a mangiarne le carni? Voglio precisare che queste riflessioni non devono essere recepite come slegate dal contesto in cui nascono, un paese ricco, consumista, in cui gli animali vengono allevati spesso in modo disumano e commercializzati nella grande distribuzione. Già nel mondo in cui vivevano i miei nonni, un mondo contadino, più semplice e più povero, in cui la sopravvivenza di una famiglia si fondava soprattutto sull’auto-sussistenza, questi miei pensieri forse perderebbero una parte importante del loro significato. Ma torniamo a noi. Umberto Veronesi afferma: “Sono scientificamente convinto che il vegetarianesimo è una scelta non solo opportuna ma obbligata. Per nutrire una popolazione in aumento costante saremo costretti a diventare vegetariani”. Ecco perché: agli allevamenti del bestiame e alle coltivazioni di ce-

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reali e leguminose ad essi destinati (che potrebbero invece essere utilizzati per il diretto consumo degli umani, che in gran numero tutt’oggi soffrono la fame!) conseguono perdita di milioni di ettari di terra coltivabile, enorme consumo di acqua, problemi per lo smaltimento delle deiezioni animali, ripercussioni sul clima (i ruminanti generano un’elevatissima quantità di gas serra e per far loro posto si disboscano milioni di ettari di foreste tropicali), desertificazione, uso indiscriminato di prodotti chimici inquinanti ed erosione del suolo. Di fronte a questi dati, le scelte alimentari individuali possono diventare atti consapevoli nei confronti del pianeta e di chi vive nei paesi più poveri! Arriviamo infine alle scelte legate alla salute. A partire dagli anni ’50 è sorto un filone di ricerca che si occupa di indagare gli aspetti medico-scientifici della nutrizione vegetariana. Ben presto è emerso che una dieta vegetariana equilibrata è più salutare di una dieta onnivora: porta infatti a minori tassi di mortalità e di incidenza di patologie quali tumori, malattie cardiovascolari, ipertensione, diabete, obesità. E’ necessario comunque sapere che non è possibile improvvisare una dieta di questo tipo ed è importante informarsi su quali carenze essa possa comportare. Vi consiglio due siti ben fatti in cui potrete reperire maggiori informazioni: scienzavegetariana.it e cambiamenu.it. Voglio concludere dicendo che non è facile riuscire a non considerare più come “normale” ciò che da sempre ci appare come tale, ma è proprio mettendo in discussione le nostre certezze che possiamo scoprire nuove prospettive, imparare qualcosa, essere più tolleranti e più liberi nelle nostre scelte.

GANDHI

"Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo"


RUBRICA SUGLI U.S.A. A CURA DI FRANCESCO GRECO francescogreco22@yahoo.it E' il New York Times a pubblicare un articolo interessante che apre una finestra sull'amore d'altri tempi- talvolta prorompente; il più delle volte impudico. Il giornale racconta la storia di Donna Reed, la prima "pin-up" della storia americana, la quale fu all'epoca oggetto di desiderio dell'intera nazione. Si tratta in questo caso delle lettere che venivano a lei indirizzate dai soldati americani al fronte. In realtà, la consuetudine di inviare lettere alle “beauty queens” non fu prerogativa solo di Donna, scrive il giornale, ma di un'intera schiera di ragazze: era il 1944 e gli Stati Uniti erano ancora impegnati in guerra e così aviatori, privates e marinai dall'Europa al Pacifico indirizzavano vere e proprie vagonate di lettere alle più famose attrici di Hollywood, nella speranza di ricevere una risposta; e nel caso questo accadesse provare un brivido di libidine aprendo la busta da lettere con annessa una foto autografata. Per capirsi, è come se adesso i soldati americani in Iraq inviassero email con richiesta di foto a Scarlett Johansson oppure a Sharon Stone. Nacque così presso gli Studios un vero e proprio comparto di persone preposto a

rispondere alle missive dal fronte. E d'altronde la politica delle pin-ups venne addirittura sostenuta dal governo che finanziò una nuova estetica femminile tesa a tirare su il morale delle truppe oltre-oceano: più che le istantanee delle mogli a casa, erano le foto di Betty Grable, Rita Hayworth e Dorothy Lamour che riempivano gli zaini di uomini che combattevano una delle guerre più sanguinose della storia umana. A guerra finita, col clamore delle armi cessò anche quello delle penne e delle belle pin-ups si perse presto la memoria. Senonché, i figli di Donna Reed hanno deciso di pubblicare le lettere dal fronte che lei conservava in una scatola da scarpe. Il libro è da subito diventato un bestseller negli States e senz'altro è un volume interessante. "It has been a long time since any of us boys have seen a woman, so we are writing to you in hopes that you’ll help us out of our situation. Since we know that it’s impossible to see a woman in the flesh, we would appreciate it very much if you could send us a photo of yourself" scrive un soldato.

CLARA RAMAZZOTTI

Senza tanti giri di Parole

“Bla bla bla bla cha cha cha” Petty Booka

Poiché parlare è uno dei mezzi più potenti che possediamo e colloquiare è un modo efficace e quantomeno istintivo di comunicare, mi soffermo ad analizzare alcune parole che, volenti o nolenti, sentiamo addosso cinque giorni su sette. Tipo, chessò, Inno Nazionale: Fratelli d’Italia, dell’elmo di Scipio, eccetera. In questi giorni la cantano in versione femminile / pseudo Anna Tatangelo per una nota pubblicità di collant et similia. Non è un’idea malvagia canticchiare Mameli mentre si passeggia o si spritzeggia o si guarda la tivvù. Che male c’è, dico, a imparare l’hit anno 1847 (passatella ma sempre frizzante) in modo non consueto? I calciatori hanno dovuto sforzarsi non poco a superare la crisi quando li hanno chiesto di apprendere almeno le parole per il tempo necessario del karaoke in campo, figuratevi gente comune che non ha occasione di sentire il motivetto allegramente patriottico in giro. La Televisione insegna ancora, anni dopo “Non è mai troppo tardi”. Non ci vedo qualcosa di polemico, anche se il facile mormorio politico è già cominciato (sperando non abbia seguito). La Nazione si sente offesa e oltraggiata? Si dovrà mettere il muto durante la già citata rèclame come per Rocco Siffredi, cosicché la sensibilità pubblica è preservata, o rinnovare l’inno italiano, provvedendo a renderlo orecchiabile e molleggiato? Un lavoro per X Factor, eventualmente. Il sottosegretario al Lavoro: "Credo sia meglio lasciare l'inno nazionale agli ambiti istituzionali e non usarlo per fini pubblicitari". La Russa: "Pubblicità infame, umilia e offende" Signori miei, calma, calma, è lo show-biz. Se avessero detto, ad esempio, Calzettai d’Italia o magari Compratori Famelici d’Italia, ok. Ma in realtà l’intimo messaggio dell’inno modificato è: Donne, Mameli era un maschilista becero. Perché fratelli? E le sorelle? E le nuore? E le cognate? Eh, sono mica anche loro cittadine? Donne, è arrivato il calzolaio e ha portato la parità dei sessi. Si offenderà mica l’Inno, soave e imponente, per una sorellina illegittima?

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WILLKOMMEN

IN BERLIN! Vent’anni dopo carolina pernigo

Berlino ti accoglie, in un primo momento, con una straordinaria indifferenza. Città rustega, non ti coccola come Parigi con il profumo delle baguettes, o come Londra con lo strombazzare dei clacson. Il popolo della metropolitana continua a correre su e giù per le scale mobili, lungo i corridoi che fremono e brulicano e sussurrano in una lingua strana, spigolosa, incomprensibile. Ti guardi intorno sperduto e cerchi un modo per risalire alla superficie, bramoso d’aria e di cielo. Il cielo sopra Berlino, reso celebre ed eterno dalla cinepresa di Wim Wenders, come la maestosa statua della Vittoria alata, rilucente sotto il sole. Ma, d’altra parte, Berlino non è una città che si presti particolarmente ai lirismi: l’architettura del ventesimo secolo, già proiettata nel nuovo millennio, ha marcato il territorio con i suoi angoli, le forme avveniristiche, i vetri e gli specchi, le curve che si impennano e ricadono, gli angoli puntuti e improvvisi, le linee spezzate e intersecantisi. I palazzi dei quartieri nuovi, Hansaviertel, Potsdamer Platz riecheggiano nomi come Walter Gropius, Richard Rogers, Daniel Libeskind, Renzo Piano, Arata Isozaki o Helmut Jahn. Eppure dalle strade rifulgenti e tirate a lucido, la vecchia città, la Berlino divisa, la Berlino ferita, la Berlino rinata dalle sue ceneri fa capolino, non si lascia dimenticare. La si ritrova nella maestosità solenne della Porta di Brandeburgo, nella storia suggerita dalla Humboldt-Universität o nell’essenzialità della Neue Wache.

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La si ritrova nella tramvia dell’Est cittadino e soprattutto nella East Side Gallery, negli ultimi chilometri di muro rimasti in piedi dopo la caduta, dipinti nel 1990 con murales che conservassero il ricordo di ciò che era stato e suggerissero una speranza per il futuro e che, attualmente, vengono ricreati dagli stessi artisti che l’avevano fatto allora. E nel quartiere di Ku’damm la Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche rappresenta in maniera toccante quella miscela di nuovo e antico che caratterizza la capitale tedesca. Quando poi inizi l’esplorazione dei musei, non può che scattare la scintilla della passione. Innanzitutto, la straordinaria trovata del biglietto “areale”, che ti garantisce l’accesso a tutte le collezioni d’arte di ogni quartiere per una cifra assolutamente modica, ancor più se sei uno studente e hai modo di provarlo. In secondo luogo, la possibilità di fare foto ovunque, purché siano senza flash. Tu cominci a pensare ai soldini che risparmierai al book-shop e gli occhi già ti brillano per la commozione. A questo punto, la gentile signorina dell’ingresso ti dà il colpo di grazia (tu, non parlando tedesco e annaspando nell’inglese come un naufrago che cerca di sopravvivere in mezzo al mare nuotando a cagnolino, ci metti un po’ a capire, dopodiché le salteresti al collo): l’audioguida è gratuita e disponibile in ogni lingua, compreso l’italiano, questo sconosciuto. L’emozione potrebbe rivelarsi fatale se a tutto ciò


aggiungi l’esistenza di luoghi come il Pergamonmuseum, con quei pochi ma monumentali reperti che ti danno l’impressione di esserti infilato nella macchina del tempo e di essere tornato indietro di più di duemila anni (oltre al torcicollo che inevitabilmente ti ritroverai quando, all’uscita, potrai ricominciare a guardare in basso); o ancora la Gemäldegalerie, in cui cammini incuriosito per ore tra i maggiori artisti tedeschi e fiamminghi per poi trovarti, ormai stremato, di fronte ad un’incredibile raccolta di maestri italiani che, comprendendo un periodo esteso dal Rinascimento al Neoclassicismo e i principali nomi della nostra storia dell’arte, potrebbe far invidia a qualunque museo della penisola. E poi di nuovo, per tutti i gusti, con la mostra dedicata a Picasso und seine Zeit, in cui trovi una raccolta di opere appartenenti a tutte le diverse fasi dell’artista spagnolo e ai maggiori tra i suoi contemporanei, come Braque, Paul Klee, Matisse o Giacometti; la Sammlung Scharf-Gerstenberg che espone i surrealisti, o il museo degli strumenti musicali, in cui l’immancabile audioguida ti permette di ascoltare brani eseguiti dai pezzi in esposizione; e come dimenticare il celebre zoo di Berlino, che tra i suoi pregevoli elementi può vantare il grasso orso Knut, mascotte della città, che si pavoneggia assumendo pose plastiche non appena scorge una macchina fotografica, o il panda Bao-Bao, ormai troppo vecchio per aggirarsi tra i bambù e dedito ad un’unica attività: il sonno. Dopo il primo impatto, dunque, anche Berlino rinuncia alla sua ritrosia per darti un buffetto sulla testa e offrirti tutto ciò che puoi desiderare, se hai la pazienza e la voglia di andartelo a cercare. E, soprattutto, se hai piedi robusti e un buon paio di scarpe da ginnastica.

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Il dio della falce e martello Paradosso o coerenza?

Il libro di Michele Straniero I comunisti – Una religione dell’aldiquà propone una riflessione insolita perché accosta, fino a identificarli, il comunismo e la religione. Sostiene l’autore che tale identificazione è possibile perché esistono dei paralleli sia a livello superficiale che di contenuti, e leggendo si capisce che non è affatto una tesi assurda. Soffermiamoci al livello superficiale della terminologia con la quale siamo soliti riferirci ad essi: entrambi hanno riti rigidi e formali; propagandisti che convertono gli infedeli; teologi (o teorici) che ne definiscono la dottrina; martiri, divenuti santi, morti per la causa; e, soprattutto, un’ortodossia che ogni buon fedele dovrebbe seguire. Certo, ad un livello ancora più superficiale tutti sappiamo che se i comunisti si chiamano tra di loro compagni ciò invece non avviene tra i fedeli di una religione (i quali però, pensiamo al cristianesimo, ricorrono al non dissimile fratelli); ma qui entrano in giogo le specialità gergali tipiche dei rispettivi ambiti. Pensiamo invece, per esempio, all’URSS, che per 71 anni è stata ufficialmente uno Stato comunista (nonché il primo a dichiararsi tale). Durante i suoi sette decenni di vita, non abbiamo forse periodicamente assistito a sfilate e plenum (riti), commissari politici (propagandisti), ideologi e, soprattutto, ad una rigida concezione dell’idea politica, che stabiliva l’annientamento della persona e delle idee per chiunque vi si discostasse (ortodossia)? E come in URSS, è stato così in tutti gli altri Paesi che, seguendone l’esempio, si dichiararono comunisti, dal Vietnam di Ho Chi Minh alla Cina di Mao. Ma andando più a fondo, l’autore dimostra come sia possibile rintracciare strette analogie anche a livello di contenuti, ovvero di quei concetti che danno significato e peculiarità ad ognuno dei due sistemi comparati. Anche a tale livello, naturalmente, non tutto è identico: le religioni credono in Dio o nel suo Messia, i comunisti appunto nel comunismo; eppure un’analisi attenta mostra come entrambi ricorrano ad un identico strumento per tenere unite le rispettive Chiese: la fede. La riflessione di Straniero, in particolare, accosta all’ideologia comunista il cristianesimo. Interessante è notare come l’Europa vide, a partire dal XVII secolo, una lunga sequela di agitatori o di “movimenti”, tutti predecessori

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illustrazione di Giovanni Panunzio

Iuri Moscardi iuri86@libero.it

di quello di Marx, che si richiamavano direttamente a Cristo ed al suo insegnamento. Lo facevano, innanzitutto, perché era un modo per raggiungere un elevato numero di seguaci, dato che anche i più poveri (che erano analfabeti e sul malcontento dei quali questi agitatori puntavano) andavano a messa; ma lo facevano, soprattutto, perché Cristo era l’esempio di ciò che volevano realizzare, e cioè la fratellanza tra gli uomini a discapito dell’interesse materiale. Ma, tralasciando i diretti riferimenti a Cristo e ai Vangeli, Straniero ci dimostra come le forme di comunismo “applicato” del XX secolo (questa volta sì figlie dirette delle idee di Marx) avessero un’impalcatura identica a quella della religione: un capo, cioè, come guida ferrea del proprio gregge di popolo, che stabilisce editti inviolabili (la cui trasgressione si paga con la vita o la scomunica) ed impone a tutti dei sacrifici in nome della causa da raggiungere; una causa in cui, appunto, bisogna credere, senza chiedersi se sia giusta o sbagliata. Ma allora perché il comunismo ha incarnato la massima espressione del materialismo, se vive attraverso le strutture della religione? È un enorme controsenso o una dimostrazione estrema di coerenza? Io propendo per la prima ipotesi, quella del paradosso. Il comunismo, infatti, è una delle teorie politiche più radicate nella società: Marx lo aveva pensato partendo da dati concreti, ovvero le disumane condizioni di

vita degli operai inglesi e tedeschi che nel XIX secolo vivevano sulla loro pelle lo sfruttamento del lavoro industriale nelle fabbriche. In comune con la religione cristiana aveva sì la speranza in una futura redenzione degli oppressi: ma, diversamente dal cristianesimo (che permette di raggiungere tale Paradiso soltanto dopo la morte e attraverso il giudizio divino), enunciava anche i metodi pratici per giungervi. Se il problema era una vita materiale pessima e misera, gli operai dovevano darsi da fare, organizzarsi per prendere il potere e con esso il controllo del sistema industriale: fattisi co-proprietari delle fabbriche, avrebbero soddisfatto le esigenze materiali di tutti. Niente di più pratico e pragmatico, quasi un vademecum per l’emancipazione che presuppone come necessaria l’azione degli uomini e non le preghiere ad un Dio qualsiasi. Eppure il comunismo, per imporsi e durare, ha avuto sempre bisogno di sfruttare le pratiche della religione. Coloro che furono i suoi emblemi più noti hanno tradito i contenuti, o meglio la prassi, dell’idea che dicevano di rappresentare meglio di tutti. Hanno sfruttato l’azione di masse di persone – che lottavano (e non solo in senso letterale) per migliorare le proprie condizioni di vita, e che credevano di avere in loro dei leader fedeli all’ideale del comunismo – per impadronirsi di un potere che, una volta conquistato, non lasciavano più. Pensiamo a personaggi come Lenin, o Stalin o Mao: apparivano alla loro popolazione come degli onnipotenti; si caricavano sulle spalle i problemi del Paese come il buon Dio quelli del mondo; erano ritratti in pose ieratiche simili alle icone religiose; si ponevano come gli unici depositari di un messaggio di salvezza. In alcuni casi, imponevano un’adorazione tanto sviscerata ed irrazionale che, come i Santi del Medio Evo, si arrivò perfino ad imbalsamarli dopo la morte.

illustrazionI di Giovanni Panunzio

Ma allora, mi chiedo, come proporre il progresso dei popoli, se l’unico modo per guidarli era quello di porsi intoccabilmente in alto come dèi? Così facendo, tutto si riduce ad un’osservanza cieca di precetti imposti: ma di solito non ci si comporta così per educare le bestie più che le persone? Credo che il comunismo sperimentato nel ‘900 abbia fallito proprio per questo. Perché si è autotradito, tagliandosi da solo le gambe: prima pontificando ai singoli la presa di coscienza di loro stessi, con la promessa di decidere finalmente da soli del proprio destino, e poi dimostrando di non poter accettare, per la sua stessa sopravvivenza, una simile autonomia. Identico, insomma, a tutte quelle strutture di potere che per sopravvivere richiedono non seguaci critici ma fedeli mansueti, pronti ad accettare qualunque cosa. Basta che provenga dall’alto.

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SCHIAVI SILENZIOSI NEL PARADISO DI DUBAI La grande globalizzazione

Foto di Joi [Flickr]

Matteo Trebeschi

Com’è noto, Dubai è la città più importante di un piccolo stato della Penisola arabica, che in questi anni ha fatto i soldi con il petrolio: gli Emirati Arabi Uniti. Affacciata sul Golfo Persico, Dubai è però famosa per essere un paradiso fiscale; da qui, infatti, sono stati inviati i soldi ai dirottatori dell’11 settembre, anche se non si sa da chi in particolare. Dubai è un’opera di tecnologia miracolosa: da trent’anni, cioè da quando si è scoperto il petrolio, ha cominciato uno sviluppo moderno fortissimo. Grattacieli, hotel lastricati fuori e dentro di marmo, centri commerciali, fermate dell’autobus con l’aria condizionata: un paradiso, insomma. Costruito, però, in mezzo al deserto, con un clima arido e pesante. Eppure Dubai è un centro finanziario fondamentale per tutto il Medio Oriente, è una piazza del commercio dell’oro, ma soprattutto è un paradiso fiscale – anche per le mafie, come quella russa. Durante gli anni della finanza selvaggia e del credito facile, lo sviluppo immobiliare ne ha fatto una città

‘imperiale’. Ma chi ha costruito Dubai? Ufficialmente è frutto dell’ingegno dello sceicco – così dicono. La realtà, invece, è che i grandi palazzi di Dubai li hanno costruiti gli operai, la grande maggioranza dei quali sono emigrati, che hanno lasciato i loro paesi d’origine per poter spedire qualche soldo in più a casa. Come Sahinal, un ragazzo di 24 anni, originario del Bangladesh, intervistato dal giornalista britannico Johann Hari, del quotidiano The indipendent. La sua storia è esemplare della condizione schiavistica in cui vivono i cosiddetti ‘operai di Dubai’. “Appena è arrivato all’aeroporto di Dubai – scrive il giornalista – l’impresa edilizia che l’aveva ingaggiato gli ha tolto il passaporto, che Sahinal non ha mai più rivisto”. Se è vero che la filosofia riconosce un fondamento ontologico alla persona, la stessa cosa non vale per il cosiddetto cittadino. Nello Stato di diritto, infatti, l’identità dell’individuo non esiste di per sé, ma presuppone un riconoscimento giuridico. Tant’è che la nostra identi-

tà può essere messa in discussione in mancanza di una carta d’identità. Se in questo mondo l’identità di un individuo è legata ad una carta che ne certifichi la cittadinanza, allora privare un immigrato del suo passaporto è un atto disumano. Sahinal è uno dei 300mila uomini che vivono “schiacciati” a Sonapur, una bidonville non troppo distante dal centro. Nel leggere quest’intervista al ragazzo del Bangladesh viene spontaneo chiedersi ‘chi’ sono gli altri, qual è la loro storia, quali le loro angosce che nessuno racconta sulle colonne dei giornali. Pensare a queste persone che vivono nel totale anonimato, che lavorano come bestie sotto il sole cocente del deserto è angosciante. Prigionieri in un città straniera, senza documenti né conoscenza della lingua, son costretti a lavorare 14 ore nei cantieri con un paga da fame, circa cento euro al mese. La descrizione delle abitazioni è impressionante: in una cella di cemento armato ci dormono undici persone; tra l’odore degli escre-

menti che hanno otturato una specie di gabinetto e la mancanza d’aria il dormire diventa impossibile. Da una parte l’acqua non è desalinizzata e pertanto provoca la nausea; dall’altra il caldo, durante il lavoro, è una cosa inimmaginabile: “Ti fa sudare al punto che per giorni e settimane non riesci a pisciare perché tutti i liquidi ti vengono fuori dalla pelle – afferma Sahinal – Dopo un po’ cominci a puzzare, poi ti vengono nausee e giramenti di testa”. Il lato oscuro di Dubai è quello che nessuno dei cittadini arabi arricchiti vuole vedere. E’ ovvio immaginarsi scioperi o proteste da parte degli schiavi (non riesco più a chiamarli operai), ma anche in questo caso la complicità delle autorità è determinante. La polizia è al servizio dei più forti o dei più ricchi, che in fondo è la stessa cosa: reprimono le rivolte e incarcerano. Così un ordine apparente regna sulla città, dove grattacieli imponenti costruiscono un paesaggio sempre più simile a Manhattan e le gru sono sempre in movimento. Ciò che non si vede o, meglio, non si vuol guardare sono gli operai schiavizzati. I suicidi nei cantieri sono moltissimi, ma non li denuncia mai nessuno. Ritengo che Dubai sia anche un esempio della deriva propria della globalizzazione: le diseguaglianze aumentano a fronte di una ricchezza che aumenta per pochi grazie alla finanza e al petrolio. Ciò che conta, quindi, sono i soldi (tanti) e l’immagine che si proietta all’esterno. La terza grande voce del bilancio della città è infatti il turismo. Qui sorgono alcuni degli hotel più lussuosi del mondo, ma allo stesso tempo il mare è inquinato al punto da dover evitare di bagnarvisi. Crescita immobiliare, turismo e un enorme volume di soldi in circolazione. Il potere dei soldi o, meglio, l’allucinazione di una ricchezza eccessiva ha prodotto di conseguenza delle opere spropositate. Se pensate che in una delle zone più aride del mondo è stato costruito un campo da golf, allora capite la follia: per evitare che si secchi l’erba e quindi scompaia sotto la sabbia, “bisogna pomparci dentro più di 18 milioni di litri d’acqua al giorno”. Da una parte gli schiavi che lavorano nei cantieri con 55 gradi, dall’altra un

campo da golf che è un insulto per la loro dignità umana, oltre che un’opera assurda. La crisi – prosegue il giornalista – si è fatta sentire anche in questa città: la recessione ha fermato i lavori dei cantieri di Dubai. Inoltre le aziende edili, che se ne sono andate, si sono portate via anche i passaporti degli schiavi e le loro buste paga. Li hanno condannati ancora una volta. Il giornalista cerca di confrontarsi con i cittadini di Dubai che vivono normalmente. Tenta invano di aprirgli gli occhi sulla realtà disumana degli schiavi, ma molti di loro vedono solo la prosperità e la ricchezza odierne. “Nessuno vuole tornare indietro. Prima avevamo il tenore di vita di un paese africano” – afferma Ahmed, un ragazzo di 23 anni che parla un inglese perfetto. Ciò che a Dubai è più vistoso, i grattacieli e gli hotel appunto, sono stati realizzati sulle spalle di esseri invisibili, che per il governo e per i cittadini non esistono; sono lì per lavorare, come bestie. “Ma perché lo stato si dà tanto da fare per difendere e nascondere questo sistema schiavistico?” – si domanda il giornalista. Molte imprese sono di proprietà statale e quindi è una questione di profitti. I lavoratori schiavizzati costano meno e, poiché son costretti, lavorano di più. Urge una riflessione. Da circa vent’anni le teorie neoliberali stanno governando le dinamiche del villaggio globale. Non solo quelle economiche, ma anche quelle politiche e culturali. Dato che il mondo sta assumendo un connotato sempre più omogeneo, bisognerebbe chiedersi dove ci condurrà la logica del profitto. E’ chiaro che tra il PIL e il surriscaldamento globale c’è un rapporto diretto. Più ‘cresciamo’, più consumiamo e più inquiniamo. Stiamo letteralmente consumando la terra e le sue risorse e non vi è atto più immorale di condannare le generazioni future a non avere un futuro e una terra perché noi, in nome del ‘legittimo’ diritto al profitto, abbiamo distrutto questa terra. Questo è prima di tutto un problema culturale e, di conseguenza, politico. La politica

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attuale, anche quella che si definisce democratica o socialista, ha in realtà accettato come normale le dinamiche della globalizzazione e del capitalismo. Ciò che spaventa è la mancanza di una coraggiosa critica politica all’etica del profitto; mancano le idee politiche e quindi manca la capacità di immaginare un mondo diverso, che resta possibile. La politica, orfana di idee, si sta riducendo ad amministrazione dell’esistente, considerato normale. O siamo in grado di criticare il primato del profitto in nome di idee più nobili e meno materiali, che prediligano l’interesse generale rispetto a quello individuale, oppure continueremo a costruire una società diseguale e schiavista.

19 PaSS Foto di Paul Keller [Flickr]


I DOLORI DEL GIOVANE RICHEY federico longoni federico.longoni@yahoo.it

Questo mese voglio proporvi un album semplice, senza barocchismi o eccentrici suoni ricercati e onirici. Protagonisti sono chitarra, basso, batteria e voce, i quattro amiconi che vanno sempre d’accordo e non litigano mai. Ecco a voi Journal For Plague Lovers dei Manic Street Preachers. Il nono album della band gallese più sottovalutata del mondo è una vera bomba. Se il mondo girasse dalla parte giusta, i Manic sarebbero diventati i padroni incontrastati del brit-pop (o brit-rock che dir si voglia) anni ‘90 e questo loro nuovo superlativo lavoro sarebbe un best seller mondiale. Purtroppo però l’album, in Italia, è passato quasi inosservato.

spesa facendo errori non è molto onorabile, ma è molto più utile di una vita passata facendo nulla. Ma passiamo alla musica: Peeled Apples apre le danze con sferraglianti chitarre e un James Dean Bradfield

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Fabrizio Capo donbrizio@hotmail.it

(lo storico cantante della band, ndr) in stato di grazia. Ascoltando le tracce successive, sembra di rivivere il dolore e l’alienazione di un altro indimenticato mito del rock, Kurt Cobain. Ne è prova una delle migliori canzoni del disco, She Bathed Herself In A Bath Of Bleach, con sonorità molto vicine proprio al grunge dei Nirvana. Questo brano parla di una ragazza, compagna di degenza di Richey durante uno dei suoi tanti ricoveri in ospedale, che aveva tendenza all’autolesionismo, proprio come il chitarrista dei Manic (il testo dice: “avrebbe camminato sui vetri per amore. Pensava che la pelle bruciata potesse compiacere il suo amante”). Non mancano le ballate: Doors Closing Slowly, è la più impressionante, il brano più introspettivo ed emozionante dell’album. Nell’ultima parte del disco c’è un terzetto di canzoni da stadio abrasive e martellanti (come l’ottima Pretension/Repulsion), che non sfigurerebbero neanche se fossero cantate dalle due band da stadio per eccellenza di quest’anno, i Green

Day e gli U2. E poi il finale sbalorditivo: William’s Last Words. Un pezzo sublime che infonde all’ascoltatore malinconia e dolcezza. La fragile voce di Nicky Wire (il bassista) è struggente, e rende ancora più intenso il testo di questa canzone che sembra essere l’addio al mondo di Richey. Le parole del brano sono spiazzanti: lasciami andare, Gesù, ti amo, ma lasciami andare. Amo anche il diavolo. Ha fatto male a tenermi ancora qui, perchè sono davvero stanco. Vorrei tanto dormire, e svegliarmi felice. Erano anni che non sentivo un album come Journal For Plague Lovers: rabbioso, malinconico, sincero, pieno di melodie magnetiche che infondono all’ascoltatore emozioni già dalle prime note. I Manic Street Preachers hanno confezionato una pietra miliare da avere e consumare, in ricordo di un ragazzo pazzoide, solitario e geniale com’era Richey Edwards. Buon ascolto.

Cos’era rimasto alla fine degli anni ‘80 di quel suono che fece scuola, di quel meraviglioso periodo che aveva dato i natali a mostri sacri come Led Zeppelin, Deep Purple, Black Sabbath, Ac/Dc, Blue Oyster Cult? Cos’era rimasto di quel meraviglioso decennio (‘67-’77) e di quei gruppi che avevano dato vita non solo ad una musica meno filtrata e più viscerale (battezzata in seguito “Hard Rock”), ma anche a un vero e proprio stile di vita? Ma erano rimasti i Guns N’ Roses! Eredi musicali di cotanta Tradizione, ma anche Punk nell’attitudine, con i piedi piantati saldamente nel passato ma con lo sguardo rivolto al presente, sono il baluardo di quell’Hard Rock che continuò a vivere nell’underground senza trasformarsi in qualcos’altro. La voce stridula, violenta e grezza di Axl Rose stride con il suo volto angelico: involontariamente un paradigma della nostra epoca, anzi, di quell’epoca in cui niente era quel che sembrava, in cui il lusso più sfrenato e l’apparenza sgargiante della società dei consumi facevano da contraltare alla durezza della vita di ogni giorno. Arrivati nel posto giusto al momento giusto, i Guns N’ Roses sono stati i messia che tutti attendevano, coloro che hanno portato le Tavole della Legge dopo essere stati annunciati dai Profeti del Rock negli anni precedenti. Appetite For Destruction (uno degli esordi discografici più venduti di tutti i tempi) rappresenta il delirio generazionale degli anni ‘80, tra esistenze consumate nell’alienazione di metropoli industriali (Welcome To The Jungle), inni alla droga e all’alcol (Mr. Brownstone, Nightrain) e tentativi di redenzione (Paradise City). Il basso di Duff McKagan e la batteria di Steven Adler disegnano un tappeto ritmico e melodico che fa sentire tutto l’odore e l’energia della terra. Su questa solida base volano alte, a disegnare affreschi policromi, le chitarre di Izzy Stradlin e di Slash. Questo paradisiaco inferno sonoro è squarciato con forza dalla voce particolare di Axl, a siglare quasi un miracolo: come se correnti, stili ed esperienze di vita diverse convergessero casualmente in un certo punto della Storia, unite assieme da chissà quale strana alchimia, fermate e fuse tra loro proprio in quell’attimo del Tempo. Lo stile nettamente zeppeliniano di Slash (chitarra solista) dà corpo all’ambizioso quadro ideologico-sonoro della band, che contemporaneamente si rende protagonista di ogni tipo di eccesso possibile, riassumendo e contestualizzando con una serie di folgoranti gesta a effetto (abusi alcolici, risse, censure, arene sfasciate da fan fuori controllo) tutto il rock amorale e irresponsabile delle decadi precedenti. I Guns N’ Roses squarciano il panorama musicale mondiale racchiudendo insieme la potenza sonora e l’attitudine pornografica dello Street Metal, il cinismo lirico del Trash, l’iconoclastia

del Punk e l’erotomania dell’Hard Rock. Poi vomitano il tutto, rielaborato e riestetizzato non solo su un’orda di fan adoranti, ma su un pubblico vastissimo, che assiste allibito e ipnotizzato alle violente requisitorie millenariste di Axl Rose, messia della downtown, profeta dei ribelli a oltranza, capopopolo dei discepoli del sex-drugs-rock’n’roll, supremo sfregiatore del sacro e delle ipocrisie. E allora preparate le vostre orecchie a tonnellate di violenza elettrica a 100000 watt e i vostri occhi alla polvere di strada; abituate il vostro naso all’odore forte della pelle dei giubbetti e degli stivali, alla puzza del sudore di una vita vissuta sulla strada, tra sesso, droga e Rock and Roll... Ma come sempre quando si parla di Musica, le parole sono niente e la Musica è tutto: e allora vi lascio alla voce graffiante di Axl, ai riff e agli assoli ormai diventati leggenda di Slash, al basso di Duff, agli arrangiamenti straordinari, alla potenza di una produzione spettacolare e di un mixaggio perfetto. Ancora oggi come più di vent’anni fa “Appetite For Destruction” centra pienamente il suo obbiettivo: quello di arrivare direttamente al Sangue e alle Viscere, prima e al di sopra di una qualsiasi possibile descrizione che cerchi di andare oltre il livello puramente estetico-emozionale.

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Journal For Plague Lovers esce in un periodo difficile per i Manic Street Preachers. Il loro chitarrista Richey Edwards, infatti, misteriosamente scomparso nel 1995, è stato dichiarato ufficialmente morto nel novembre dello scorso anno. Ed è proprio questo ennesimo tragico mito della storia del rock a dare nuovo vigore alla band, che soffriva da qualche anno di un leggero piattume compositivo. I testi delle tredici canzoni che compongono l’album sono l’ultimo tesoro lasciato dal compianto Richey ai suoi compagni; testi graffianti, dolorosi, e dannatamente autobiografici. Prima ancora della musica, a toccare nel profondo è il libretto: sul davanti il magnifico dipinto di Jenny Saville che funge da copertina; all’interno solo i testi in nero su sfondo bianco. La pagina centrale ospita l’unica foto presente: Richey intento a scrivere a macchina. E poi il retro, con una stupenda frase di George Bernard Shaw: una vita

ROCK PASSION

DAVIDE SPILLARI

Toccato il fondo si può solo scavare per arrivare ancora più giù. Questa è la legge degli Skiantos. Perciò: Riprendiamoci la Corsica. È un imperativo, un consiglio, un dovere e uno schianto di canzone. Ma i corsi dal canto loro potrebbero rispondere Invaders Must Die (Prodigy, ndr) attaccando una cassa da un milione di watt puntata verso la penisola. Ma il rumore sarebbe così forte da disturbare, in un’isola vicina, la quiete di una certa villa di un certo presidente, il quale potrebbe a sua volta partecipare a cotanto bordello attaccando a tutto volume un bel disco di Apicella. Ecce la playa lista di un’estate che fu.

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PAURA E DELIRIO A VENEZIA federico longoni federico.longoni@yahoo.it

Quest’anno, alla 66° edizione della mostra d’arte cinematografica di Venezia, non mi hanno colpito i bei filmoni italiani e stranieri presentati dai grandi registi come Tornatore o Herzog, ma i documentari di denuncia di Michael Moore e di Erik Gandini. È difficile digerire quello che Michael Moore mostra nel suo nuovo documentario, Capitalism: A Love Story. Famiglie a cui è stata pignorata la casa perché non riuscivano a pagare i troppi interessi chiesti dagli istituti di credito, operai licenziati dalle fabbriche senza nessun preavviso, carceri minorili privatizzati per poter essere liberi di rinchiudere in cella giovani per motivi ridicoli, sono solo alcune delle scioccanti realtà che il regista porta a galla. La domanda che Moore pone è chiara: siamo sicuri che il capitalismo sia il sistema migliore? La risposta e’ ovvia. No, il capitalismo come lo concepiamo adesso e’ il male assoluto. È uno stesso documento della “City Bank”, una delle più importanti e influenti banche americane a porre il problema. Gli Stati Uniti d’America si sono trasformati da una democrazia ad una plutocrazia in cui chi ha il potere decisionale e’ solo 1%. Il regista riporta una serie di mosse fiscali e legislative compiute da alcuni presidenti americani (da Reagan a Clinton fino ad arrivare a Bush) per lasciare che le banche e Wall Street facessero un po’ come meglio credevano. Con le prime voci della candidatura del democratico Barack Obama, i grandi lobbysti cominciano a preoccuparsi, e sferrano così l’ultimo attacco . La grande crisi scoppiata ad Ottobre viene vista come l’ultima grande mossa per rubare quanto più si poteva, infatti chi era ricco e’ diventato incredibilmente più ricco e chi era povero ha perso anche quel poco che aveva. Risolvere il devastante problema

mostra internazionale d’arte cinematografica

< Michael Moore

della crisi economica non è facile, come si evince dal film, ma Moore tenta una teoria che prevede un ritorno al passato, cosicché il futuro possa tornare ad essere positivo; quel passato in cui Franklin Delano Roosevelt osservava che sarebbe stato opportuno riscrivere la costituzione americana, garantendo così i diritti fondamentali dei cittadini in modo inequivocabile (purtroppo il Presidente morì prima che ciò potesse realizzarsi, e infatti ancor oggi la costituzione americana, in fatto di tutela dei cittadini, fa acqua da tutte le parti). Erik Gandini ha in comune con Michael Moore il coraggio di denunciare la società bacata, malata del proprio Paese. L’esordio del giovane regista italiano, Videocracy, docu-film presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, punta il mirino contro il “bestiario” televisivo italiano per scovare la radice del nostro sistema politico-mediatico, che da tre decenni or sono ha il nome di Silvio Berlusconi (definito dallo stesso Gandini il presidente prima della televisione, poi di tutto il resto). Nella prima parte del film i protagonisti sono dei sognatori disillusi, commoventi e innocenti: un giovane spronato dalla madre a partecipare ai provini per entrare in qualche reality show dove l’unico requisito richiesto è essere finti e stupidi; delle ragazzine che mostrano il loro corpo ancora bambinesco per diventare la prossima velina; una donna di mezza età che fa uno spogliarello davanti a persone che si fanno chiamare “scopritori di talenti”. Questa innocenza e questa tenerezza scompaiono quando entrano in campo due personaggi a dir poco inquietanti: Fabrizio Corona, paparazzo super-iper-mega egocentrico che ha portato l’estetica berlusconiana a livelli a dir poco “perfetti”, che dichiara di essere il Robin Hood del nuovo millennio, che ruba ai ricchi per dare a sé stesso; e Lele Mora, amico e vicino di Berlusconi in Costa Smeralda, che nel candore in cui è immerso, ci fa sentire senza troppi problemi la suoneria del suo cellulare, uno degli inni fascisti più noti, e ci mostra i muri della sua villa tappezzati da simboli del partito di Mussolini. Con questo sconcertante Videocracy, Erik Gandini vuole mostrare come, dalla quotidiana dose di culi, tette, tronisti, veline e compagnia bella sia nato un mostro, ovvero il popolo italiano. Un popolo/mostro completamente rintronato da quell’ arma di distruzione di neuroni chiamata televisione, un popolo che si accontenta di avere sei telegiornali a disposizione, che danno tutti le stesse identiche notizie superficiali (omettendo un gran numero di notizie importanti), un popolo che ha come massima ambizione apparire, rubare qualche inquadratura, avere pochi minuti di celebrità, diventare un vip. Insomma, a Venezia quest’anno si pensa, si rimane sconvolti da questo mondo che va sempre più a rotoli, dal nostro Belpaese che cade sempre più in basso, verso un baratro senza fondo. Riusciranno questi due registi nell’impresa di farci alzare la testa e dire no a tutto questo marciume? La speranza è l’ultima a morire. Erik Gandini >

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ARTE

Mantova, 9-13 settembre 2009

Avventurose serate tra la cultura “Noi cerchiamo la bellezza ovunque” Bellezza - Marlene Kuntz

clara ramazzotti clararamazzotti@yahoo.it

Che spasso gente, che spasso. Stai in mezzo a libri e scrittori e poesie notturne e birra (molta, la birra) per una settimana e poi, tornato a casa, rifletti sul fatto che forse non tutto è perduto. Straordinario, qualcuno ancora legge. Sicuramente un folle, uno sprovveduto. Quel tizio non ha capito che in quei giorni, anziché fare il volontario al Festivaletteratura, doveva rintanarsi in casa a guardare le tette di Miss Italia. Pazzi, ‘sti giovani. Vagabondeggiano per la città dei Gonzaga, coi suoi ciottoli fastidiosi sotto le scarpe e i ciclisti che spadroneggiano in strada, leggendo De Luca, Zucconi, Robinet, Calabresi, Mazzantini, Simone Weil. Ben strani davvero, bestie rare che girano con delle pagine incollate agli occhi, discutendo animatamente col compagno della serata, mescolando luppolo e De Andrè su chitarra. Sono stata al Festival per ben sette giorni, e volevo restare per altri sette anni, minimo. Il frenetico vivere tra i coetanei, con maglie blu indosso, e Monicelli che ti passa accanto a braccetto di Marcorè, li fermi, ti fanno l’autografo, continuano per la loro strada; o l’assoluta normalità di recitare una poesia ad alta voce, alle tre di notte, in Piazza Delle Erbe, o di incontrare al bar uno scrittore e farsi offrire l’aperitivo, tutto questo è magico. Un mondo assurdo, davvero, dove la bellezza sta tutta nella perfetta commistione di Cultura e Voglia di cercarla. Partecipando a diversi eventi, sotto un tendone bianco dove l’agitazione per l’arrivo di questo o quell’artista era palpabile, ho intuito la grande forza di un festival che da tredici anni porta soffi di vita su chi ama leggere, scrivere, sapere. Persino il più sfigato autore della più sfigata casa editrice ha spazio (approfittatene giovani letterati veronesi, cogliete la rosa finché è il tempo) e qualche interlocutore ce l’ha sempre.

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Barbara Scafuro

Storici, artisti, artistoidi e… comuni mortali preparatevi! E’ iniziata la nuova intensa stagione culturale italiana densa di importanti appuntamenti con l’arte per tutti i gusti. Non basterebbe l’intero numero del Pass per segnalarvi tutti gli eventi in programma, ne segnaliamo alcuni dei più importanti, alcuni anche un po’ “fuori porta”, ma che potrebbero essere una buona occasione per organizzare un week end culturale con amici e colleghi di facoltà. Il MART di Rovereto, dal 19 settembre al 10 gennaio, propone “ Capolavori della modernità. Opere dalla collezione del Kunstmuseum Winterthur” . Oltre 240 capolavori assoluti della storia dell’arte del XX secolo dalle collezioni del museo svizzero, protagoniste dell’esposizione articolata in un percorso cronologico e tematico che attraversa l’impressionismo, il cubismo, il surrealismo e le ricerche astratte, per giungere ad una apertura di altissima qualità sulle ricerche internazionali del secondo dopoguerra. Il MUSEO DIOCESANO di VENEZIA, dal 29 agosto al 10 gennaio, ospita “Torcello. Alle origini di Venezia tra Oriente e Occidente” una mostra che celebra i mille anni della Basilica di Santa Maria Assunta di Torcello eretta nelle forme attuali nel XI sec. motore di ricerca della esposizione che studia la nascita e lo sviluppo dell’arte veneto-bizantina in laguna. Il CASTEL SISMONDO a Rimini, dal 10 ottobre al 14 marzo, accoglie “Da Rembrant a Gauguin a Picasso. L’incanto della pittura. Capolavori dal Museum of Fine Arts di Boston” rassegna di oltre 65 quadri dal Cinquecento al Novecento in trasferta per lavori in corso.

VILLA MANIN di Udine, dal 26 settembre al 7 marzo, propone “L’età di Courbet e Monet. La diffusione del realismo e dell’impressionismo nell’Europa centrale e orientale”. Un percoso attraverso il quale per la prima volta studiato e raccontato il rapporto tra la nascita della cosìddetta scuola di Barbizon in Francia e la diffusione del realismo e del naturalismo nei Paesi dell’Europa centrale e orientale. Centoventi opere, provenienti da Musei di tutto il mondo, per scoprire la misura profonda di una lezione, quella francese, che nel secondo Ottocento ha dilagato in tutta Europa. PALAZZO ZABARELLA a Padova, dal 19 settembre al 31 gennaio, espone “Telemaco Signorini e la Tra tutti gli ospiti, penso con piacere a Cristiano Godano, leader dei Marlene Kuntz, al Festival anche in veste di scrittore (“I Vivi”, sei racconti editi da Rizzoli, una lettura calma e brillante), che ha arricchito chi era presente con la sua voglia di darsi all’arte, totalmente e senza freno come solo chi ama spassionatamente può fare. E in poche parole ha coinvolto il suo pubblico invitandolo a cercare la cultura dappertutto, leggendo scrivendo vivendo. Ho annuito anch’io, tra le cento testoline in Piazza Virgiliana, che non è poi una vera piazza, ma un parco, se mai voleste andarci. A ben vedere, ogni autore ha il suo tipo di pubblico: il visionario ha un seguito di giovani e alternativi con unghie laccate di nero e Converse stracciate, la diva ha casalinghe che sbavano ai suoi piedi e l’accolgono con mucchi di luccichii ingioiellati, il giornalista sfrontato ha ragazzi seri e padri di famiglia quasi sempre antiberlusconiani, la scrittrice esordiente ha pochi fans e molti curiosi

che non sanno chi hanno davanti. L’ideale piatto da servire a uno studente di sociologia. Passa di tutto, insomma. Non c’è da pensare a un festival con intellettualoidi ingobbiti e un po’ marzulliani, c’è invece il fior fior della gioventù italiana e non (segnatevi: volontariato europeo) e conoscete laziali, veneti, lombardi, marchigiani, pugliesi, emiliani…Insomma, Garibaldi si sarebbe leccato le dita vedendo quest’Unità d’Italia sotto l’egemonia del Libro. E così, in una solare giornata settembrina, col ventaccio forte dei “laghi” mantovani, sono diventata volontaria, amica e compagna dei libri. Con nuovi compagni di viaggio, musica stupenda nella testa (“noi sereni e semplici o cupi e acidi / noi puri e candidi o un po’ colpevoli / per voglie che ardono”) e dei racconti indelebili sottobraccio. www.festivaletteratura.it

pittura in Europa” mostra in cui si propongono i massimi capolavori dell’artista toscano vis a vis con quelli di altri grandi maestri della pittura europea del momento attraverso un percorso che mette in luce le affinità elettive tra macchiaioli e impressionisti.

La mostra “Boldini nella Parigi degli Impressionisti” è protagonista al PALAZZO dei DIAMANTI di Ferrara dal 20 settembre al 10 gennaio, che documenta il primo periodo parigino del pittore ferrarese attraverso l’esposizione di circa cento opere che rievocano la vita pulsante della ville lumièr. Il MUSEO ARCHEOLOGICO di Napoli, dal 18 settembre al 12 dicembre, presenta la nuova esposizione di più di trecento sculture, tra le quali un gruppo di marmi inediti, che compongono la leggendaria Collezione Farnese. Anche le SCUDERIE DEL QUIRINALE, dal 24 settembre al 17 gennaio, offrono grandi suggestioni dal passato con la mostra “Roma. La pittura di un Impero”. Grandi affreschi, ritratti su legno e su vetro, decorazioni, fregi e vedute provenienti dalla Domus Patrizie, dalle abitazioni e botteghe popolari dei più importanti siti archeologici e musei di tutto il mondo, mettono in luce la meravigliosa arte figurativa dell’Impero dal I a.c. al V d.c. secolo. Sempre a Roma, presso la GALLERIA BORGHESE, dal 01 ottobre al 24 gennaio, si celebra il quarto centenario della morte di Caravaggio con l’esposizione di una serie di capolavori dell’artista affiancati a venti dipinti di Francis Bacon di cui ricorre il centenario della nascita. I due geni maledetti raccontati attraverso un inedito e inconsueto accostamento delle loro creazioni più visionarie ed intense. I MUSEI CAPITOLINI, dal 06 ottobre al 07 febbraio, propongono “Michelangelo Buonarroti architetto a Roma” una selezione di disegni relativi ai progetti romani del maestro affiancati ad una serie di studi di architettura che documentano l’attività di Michelangelo nella capitale attraverso un percorso cronologico che va dalla giovanile passione per l’arte classica all’innovazione compositiva della maturità.

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G iocare con le parole scritte da penne diverse, per comporre, attraverso

pensieri differenti ma simili, un’unica storia. É questo il bizzarro tentativo della rubrica Nero, in questa edizione. Due innamorati sono i protagonisti. Ecco gli svariati esiti del loro amore, secondo gli autori. Interverrò anch’io per rendere più chiara la sequenza narrativa. Ricordiamo ai lettori che gli autori sono reali ma il dialogo tra di loro, che non si conoscono l’un l’altro, É frutto di una finzione letteraria.

“Quand on n’a que l’amour (a s’offrir en partage)” Jacques Brel “Quando si ha soltanto l’amore (da dividere insieme)”

Ti amo Ti amo, per tutti i momenti che il tempo ci ha rubato, ti amo, per le lacrime versate per te, ti amo, per l’alchimia che unisce i nostri corpi, ti amo, per la passione che i nostri sguardi trasmettono l’uno l’altro, ti amo, per il pensiero fisso dei tuoi occhi che mi danno una ragione di vita, ti amo, per il semplice motivo che sei unico? Virginia Gianesella (poesia ispirata dalla lettura di P.Eluard)

rubrica di parole

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Una poesia d’amore scritta da lei a lui:

NERO a cura di: Elisa Zanola

INVIATE I VOSTRI RACCONTI, POESIE, CITAZIONI A: zanola.elisa@libero.it

Il malcapitato perde la memoria Il matrimonio “É arrivato il gran giorno. Mi devo sposare, ma non so bene con chi, anzi non so assolutamente niente, perchè oggi il giorno delle nozze ho perso la memoria.” Domenica, sono le nove di mattina, ieri ho passato la Domenica in macchina, sono felice ma sento che c’è qualcosa che non va, non ricordo cosa devo fare, comunque vado in bagno, accendo la luce, mi lavo la faccia, i denti, insomma le solite cose, poi faccio colazione, so bene che mi piace il tè con i biscotti, e so ancor meglio che con i biscotti alla cioccolata preferisco il latte, e continuo a pensare che c’è qualcosa che non va, ma non perchè ho preferito il succo d’arancia. Squilla il telefono. Appare “Anna” sul display. Rispondo: “pronto?” “Sono Anna! sei in ritardo! siamo tutti qui! ad aspettarti! hai paura? sbrigati! di fronte la chiesa tra cinque minuti ciao!” e mette giù. Io non conosco Anna, non ricordo, ma non ho neanche tempo di pensare quindi mi vesto alla svelta e vado alla chiesa del quartiere. C’è tanta gente, tutti elegantissimi, mi accerchiano e mi parlano tutti assieme contemporaneamente, non capisco niente, un funerale? Un matrimonio? Un battesimo? Sono molto confuso, ma non ho il tempo di pensare che subito mi portano in una stanza. Rimango da solo con due persone che mi dicono di vestirmi alla svelta perchè mi sta aspettando la sposa. Ho gli occhi sbarrati, ho capito, ma non voglio far capire che ho perso la memoria, anche perchè se ero d’accordo fino a ieri dovrei essere contento di sposarmi, dunque dico a loro di andare di là con gli altri, e che di lì a poco sarò pronto. Il vestito che devo indossare è ridicolo, un smoking verde pistacchio allungato dietro come gli abiti da cocchiere, comunque lo indosso e vedo che manca un bottone. Sono pronto! Allora vado di là dagli altri che mi parlano del più e del meno con i loro sorrisi tipo il gatto del paese delle meraviglie, ma io sono distratto, continuo a vedere le persone che fissano il mio petto nel punto dove manca il bottone, dunque non ascolto e non rispondo, non mi sento a mio agio: “è il giorno del matrimonio e mi manca un bottone.” solo un bottone, ma continuo a pensarci, mi rende nervoso, devo cambiarlo, o continuerei a pensarci, non posso rischiare di rovinare questo giorno, non posso deludere la sposa, devo trovare un bottone. Dunque ad alta voce avviso tutti: “ho lasciato a casa una roba, vado e torno”. Tutti mi guardano con facce sorprese ma non fanno in tempo a rispondermi che corro a casa. Tra meno di quindici minuti inizia la celebrazione. Sono agitato, tutti mi stanno aspettando, devo sposarmi, É un giorno importante, dove trovo un bottone, un bottone verde, verde pistacchio. Lo cerco disperatamente, svuoto tutti i cassetti, ma non c’è nessun bottone di quel colore, e comunque tutti i bottoni che trovo sono troppo piccoli rispetto gli altri appesi sulla giacca. Il tempo passa, sono già in ritardo, ma non resisto senza bottone, sento che c’è qualcosa che manca in me, un bottone, dunque cerco un negozio aperto la domenica, vado in un grande magazzino, sono in ritardo già di 20 minuti, ma finalmente trovo il bottone, un bottone massiccio di colore verde pistacchio. Mi sento bellissimo, sicuro di me, dunque ringrazio la commessa e torno velocemente alla chiesa. Sono 40 minuti in ritardo, entro in chiesa correndo, sono

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già tutti seduti, la sposa e il prete sono pronti nelle loro postazioni, manco solo io, allora corro, corro sempre di più e mi posiziono in linea con la sposa, alla sua destra ma non troppo vicino. Non sono più agitato, sono pronto, finalmente libero da pensieri per la testa “vuoi prenderla come tua legittima sposa?” “No”. Jacopo Gobber

Il nostro eroe, senza bisogno di viaggi lunari come fece invece Orlando per recuperare il senno, ritrova la memoria in una notte qualunque di malinconia e scrive poesie piene di gelosia e desiderio ripensando all’amata... Rovi Va l’uomo per la strada romìta. S’intorpidisce nel trambusto con inusitata foia; la signora, ancora, lo avviluppa. E tra il luccicore del crepuscolo e la notte lumeggiante di stelle incantate si consuma questo amore lascivo. Sveglia i tuoi pensieri un’alba come tante: torni a lavorucchiare, a fare la badante, nella zona di confine dove, tra il comò e lo specchio, tra un tuo amante ed un vecchio, dimora forse la via dell’esistenza. E non abbiamo mai tempo per raccontarci tutto il niente che vorremmo. Fabrizio Capo

A questo punto, con un misto di nostalgia e passione, decide di rivederla. Lui è tormentato dal rimorso per averle detto quel “No” e ha in mente una soluzione drammatica per sigillare per sempre il loro amore. Si danno appuntamento in una località marittima; lei lo sta per raggiungere... Estrema unione Stretta nell’impermeabile cerco di nascondere gli occhi alla pioggia, che cade, cade, cade. Cammino senza evitare le pozzanghere, senza evitare nulla. Non sento niente. Stringo ancor più le braccia in grembo. Guardo il mare: animale vivo, irritato, con la rabbia alla bocca. Mi fa paura. Non riesco a credere che lo stesso mare calmo di stamattina, sia ora così cambiato: potenza distruttiva. Senza scampo. Mi fermo, qui, col vento che mi schiaffeggia il viso. Smetto di guardare il mare, ora guardo solo lui. Cammina, non intende fermarsi. In lontananza si vede l’isola Malva, sembra essere ancorata bene perchè neanche la furia di Nettuno la fa vacillare. Torno a muover lo sguardo su di lui. Figura d’ombra, nero da capo a piedi, da capo ad anima. Con la testa china sembra un busto d’albero che avanza lentamente. Sembra diretto in fondo alla banchina: niente più barche, niente più sbarre di ferro, solo mare in tempesta. Gli anfibi neri si fermano sull’orlo. Io riprendo a camminare. Tento di concentrarmi, ma il vento e il mare mi assordano, rimbombano nel mio cervello che pulsa. Sono dietro di lui. Ancora un passo..no, è meglio aspettare. Guardo giù e non vedo altro che un liquido scuro che va e viene, come ballando una danza macabra. Mi chiama. So che anche lui lo sente. Lo so per certo e ciò mi fa tremare. Mi sposto avanti, di fianco a lui. Il vento improvvisamente tace. Un silenzio inaspettato e le nostre teste si voltano a guardarsi con naturalezza. La sua faccia è cinerea, cadaverica, ma gli occhi, quelli no. Sono di pece e bollono riscaldati dal fuoco che gli sta distruggendo l’anima. Resto muta, le mie labbra semiaperte vibrano, scruto e indago quei due pozzi. Lui abbassa gli occhi, mi prende la mano. Il vento ricomincia ad urlare e trova la forza di sbatacchiare avanti ed indietro i nostri vestiti fradici. Lui mi stringe la mano, prima piano, poi sempre più forte. Mi fa male, ma non dico nulla. Continuo a guardarlo. Lui d’improvviso mi fissa, spalanca la bocca, grida: “Ora!” e salta. I miei occhi che leggono l’ordine su quelle labbra che sono mie, la sua voce che entra nelle mie orecchie, la mano che mi tira e mi lancia nel vuoto.. volo e chiudo gli occhi. Serena Pellegrin

Li ripescano, dopo parecchio tempo di amoreggiamenti subacquei, che hanno preso il posto dell’idea del tentato suicidioomicidio d’amore. Nel frattempo nella loro nazione d’origine, a noi sconosciuta, scoppia la guerra ma i due sono cosi’ innamorati che non possono che tubare e perdersi nella loro stanza, improvvisato nido d’amore I libri di filosofia sull’amplificatore e la chitarra in un angolo. Sulla scrivania un computer e uno stereo spenti, dalla tv esce musica di tutti i tipi.Vestiti sparsi ovunque assieme ai fogli di poesie e alle candele accese. I due ragazzi sotto le coperte stanno stretti in un abbraccio, come fossero una persona unica. Lei si accende una sigaretta mentre lui parla di poesia, poi lo bacia. Fuori, la luna è uno spicchio di limone nel cielo limpido, qualche stella qua e là contorna il firmamento. I razzi e le bombe sganciate dagli aerei sembrano volerla toccare, ma ogni volta le passano solo vicino. Le truppe in marcia contro un nemico troppo grande da schiacciare, i blindati annientano tutto quello che trovano. La guerra e sta infuriando attorno ai due ragazzi, troppo presi per accorgersene. Lei vede fuori la luna e le esplosioni, guarda le candele, vede il libro che lui tiene in mano. Spegne la sigaretta e gli sussurra in un orecchio: “Guarda, amore mio! I fuochi d’artificio!” Ektor Noir

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