PASTICHE 3 (gennaio 2012)

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mensile gratuito • Gennaio 2012

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Vania Barbato - TRIQA

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La città fa schifo e a noi piace per questo: cessi sporchi della stazione e autobus notturni, stradoni deserti e ippodromi-cimiteri, cantieri sempre aperti come corpi infetti e strategie vincenti di guerriglia urbana, baretti di quartiere superaffollati e locali Macello dove perdersi e sparire. La salvezza è nel paesello? Sesso e poesia, certo, ma anche complotti paraclericali e carceri pieni… e in apertura un racconto davvero speciale: Alda Teodorani ci ha concesso la pubblicazione di Non hai capito, il suo primo lavoro uscito in libreria nel 1990, apparso nella antologia Mondadori Nero Italiano e da allora mai più ripubblicato da altre case editrici. LEGGETE, CONDIVIDETE, SCARICATE E DIFFONDETE! ABBONATEVI A PASTICHE - TUTTE LE FORME DEL RACCONTARE: CON SOLI 10E (SPESE DI SPEDIZIONI INCLUSE) RICEVERETE A CASA PER UN ANNO LA RIVISTA IN FORMATO CARTACEO E IL PDF VIA MAIL, ARRETRATI COMPRESI!!! per info pasticherivista@gmail.com (La versione elettronica di PASTICHE è on-line all’indirizzo http://issuu.com/pastiche) p. 2 Editoriale p. 3 Non hai capito (Alda Teodorani) p. 4 Gioia armata (Pierluca D’Antuono) p. 6 Vinz (Simone Ghelli) p. 7 Sesso&Poesia (Paolo Battista)

p. 8 Strategie di Ottobre (Fabrizio Romano) p. 10 Sopravvive (Paolo Battista) p. 13 Ich habe mir einen intravenösen Traumblitz gegeben II parte (S.H. Palmer) p. 14 La lettera – II parte (Luca Antonini)

PASTICHE è pensata e redatta da Paolo Battista e Pierluca D’Antuono. Grafica e impaginazione: Milena Pascale. Per ricevere a casa PASTICHE in abbonamento (costo 10E) scriveteci a: pasticherivista@gmail.com indicando nome e recapito. Per inviare il vostro materiale (poesie, racconti - lunghezza da concordare - disegni, foto b/n, contributi vari) scrivete a: pasticherivista@gmail.com oppure all’indirizzo: Paolo Battista Via F. Laparelli 63 - 00176 Roma www.facebook.com/pasticherivista 2


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NON HAI CAPITO di Alda Teodorani Scendo dall’autobus traballando per il male ai testicoli. Pulsano, urlano. E anche il mio cervello urla. Resto per un attimo lì, fermo, riafferro un po’ di lucidità, vedo che nessuna auto si avvicina e traverso la strada di corsa. Ho pensato a lei tutto il giorno. Non è servita a niente la sua voce incazzata che mi diceva di lasciarla stare. Che doveva terminare un lavoro importante. La sua voce era acuta, diversa dal solito. Avevo programmato tutta la giornata per lei. Ora mi accorgo con stupore che sono qui, in un pomeriggio spezzato a metà, un pomeriggio afoso e caldo di luglio. Mi avvio verso la stazione. So già che dovrò aspettare quasi due ore il treno che mi riporta a casa. I testicoli continuano a pulsare, così mi scaravento al bagno della stazione e mi masturbo. Penso ai suoi capelli biondi, ai suoi fianchi. Vengo subito, in un orgasmo povero. “Dio,” penso dopo, “ho bisogno di psicofarmaci. Oppure di rifarmi con Fabri, stasera.” Ma so già che non potrò farlo. La ragazza mi adora, ma i suoi genitori no. Oggi è giovedì, so che stasera quei due sono in casa. Non la lasceranno uscire e non potrà regalarmi niente. Il programma si riduce drasticamente a una passeggiata col cane, a una cena a base di pizza. Da solo, come succede troppo spesso. Ho attraversato l’atrio della stazione velocemente, gettando appena un’occhiata al cartellone delle partenze. Mi blocco vedendo i telefoni pubblici splendere e ammiccare con complicità. Potrei telefonarle ancora. E con questo potrei dire addio alla prospettiva di rivederla, se non l’ho già fatto. Sì, perché quando le ho chiesto se e quando ci potremo rivedere, lei ha risposto con voce acida che non lo sapeva. “Vedremo” ha detto, come se stesse parlando con un fattorino. La mia vita è improvvisamente senza alcuna prospettiva. L’amore per Elena sta crescendo in me come un cancro. Un tumore che mi fa soffrire senza che io lo voglia. Mi volto di scatto, corro fuori dalla stazione, prendo al volo il ventisette, l’autobus che porta proprio davanti a casa sua. Mi apre lei. È sola. Appena mi vede, fa per chiudere la porta, senza dire nulla. Caccio il piede tra i battenti, con ambedue le braccia apro la porta, scaravento Elena per terra, vedo la sua faccia stupita, osservo assurdamente le sue scarpe. So già cosa significo per lei: tempo perso. La rabbia mi si scatena dentro. Furioso, strappo la macchina da scrivere dalla scrivania, mentre la spina scatta via dalla presa di corrente con uno schiocco. La alzo sopra la testa, la scaglio per terra. Poi procedo metodicamente alla distruzione dell’ufficio, mentre gli occhi di Elena mi fissano terrorizzati. Il video del computer è finito contro il portone d’ingresso, fracassandosi sotto il suo stesso peso. Ho tirato su Elena da terra, l’ho sbattuta contro il muro, una, due, dieci volte. Lei picchiava la testa contro la cornice del quadro di Mirò che tiene nel suo studio, di fronte alla scrivania. I suoi capelli volavano intorno, come farfalle. Sulle spalle nude, sulla camicetta bianca, sono apparsi, scendendo dolcemente, rivoli di sangue. Apro i rubinetti del gas, tutti quelli che trovo. Lascio la porta aperta tra l’abitazione e l’ufficio. Spengo il pilota dello scaldabagno a metano, mettendo fuori uso il dispositivo di sicurezza. Lascio Elena lì, per terra. Tra i suoi capelli mi pare di vedere una schiuma biancastra. Non me ne curo. E non mi curo di vedere se è ancora viva o no. Ho preso il treno in perfetto orario. Tra un’ora sarò a casa. Guardo con interesse la bionda seduta di fronte a me. Mi sento bene, felice e tranquillo. (Agosto 1989)

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GIOIA ARMATA

di Pierluca D’Antuono La zia non sa, la zia non sa Quanto noi amavamo Anna… (VIGO, La Famiglia)

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Le automobili ci scivolano attorno veloci come acido di batteria su asfalto fresco d’incidente. Le conto e mi chiedo dove andranno mentre Nina si sdraia sulle mie ginocchia e ad ogni sospiro le si scopre la schiena. Chiedo a Sergio di rallentare anche se so che non c’è più tempo. Il fumo denso della polvere da sparo avvolge la strada come una nebbia d’acciaio rotta soltanto dai colpi di pistola che esplodono in aria dalle finestre piene di luci e di lampi. Lamù ha paura delle esplosioni e guaisce nascosta sotto il sedile, mentre Annio lentamente si risveglia, l’abbiamo colpito appena perché non guardasse. Superiamo la villa e ci fermiamo davanti alla rete segata, Carla è nel portabagagli, tocca a lei per prima perché è la più piccola. Sergio la prende e insieme attraversano l’ippodromo tra cespugli di edera incolta e rami di ghiaccio che ricoprono il sentiero, verso la torretta abbandonata. Noi restiamo qua a consolare Annio che piange come un bambino perché Carla è la sua preferita (sono gemelli). Ora vorrebbe chiamare mamma e ci prega di tornare a casa, ma sa che è tardi e che tra poco tocca a lui. Mezz’ora dopo Sergio viene a prendere la pala e mi chiede di aiutarlo. Dico a Nina di fare uscire Lamù, le do i sacchetti per non sporcare a terra e prima di andare chiudo in macchina. Carla è per terra, ha il cappotto sbottonato e i pantaloni abbassati, per un attimo non capisco ma poi mi accorgo della gola squarciata e che Sergio l’ha presa alla fine (l’aveva promesso). Mentre lui scava le tolgo i vestiti, le ricopro i polpastrelli di Attack e le passo una mano tra i capelli. Nella buca ci sta appena, Sergio vorrebbe allargarla ma non c’è tempo e allora torniamo alla macchina. Viale Fortore è vuota, ci sono solo le puttane che tremano dal freddo e i camionisti che si accostano per rimorchiarle. Uno di loro mi guarda e un brivido mi sale da dentro, ha la faccia d’assassino che un po’ mi spaventa. Scende dal camion con una bottiglia di spumante e una batteria napoletana che sistema sul bordo della carreggiata. Le puttane brindano illuminate dalle lance di fuoco che esplodono sulla strada, urlano «Buon anno!!!» e ci invitano per un bicchiere. Sergio rallenta e sorride, vorrebbe fermarsi ma Lamù comincia ad abbaiare appena sente le urla, non piange più ma trema, ora è seduta sul sedile tra me e Nina, che cerchiamo di calmarla accarezzandole le orecchie e la pancia calda. Un cellulare suona ma nessuno risponde, io ho voglia di fumare e chiedo una sigaretta a Sergio, che finisce la sua, butta il mozzicone dal finestrino, saluta una biondina e riparte sgasando. Nina si incazza, sbuffa e scalcia e gli urla dietro «ma che cazzo fai? E il posacenere che ci sta a fare? STRONZO!» La vena sulla fronte le si gonfia e si fa viola e pulsa ad ogni parola come quando era bambina. Io la guardo e mi dico che ha ragione e vorrei dire qualcosa ma lei se la prende anche con me perché ho voluto portare Sergio. Sono quasi le undici, le sigarette sono finite, dobbiamo fermarci al distributore,


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qualcuno ha incendiato quelli su Viale Ofanto e allora andiamo direttamente a Piazza Libanese. Parcheggiamo sotto al maxischermo delle pubblicità e prima di andare Sergio chiede se abbiamo fame. Alla bancarella fanno solo panini con gli intestini, Nina chiede qualcosa di vegetariano e le danno una Peroni calda chiusa. Fumiamo seduti alle panchine, Nina mi tiene per mano e insieme guardiamo la luna. È rossa e grande e come una ferita illumina la città morta piena di fumo e di fuoco. Ho freddo ma non mi va di alzarmi, da dove siamo ho lo sguardo su tutta la piazza, ma non vedo né Sergio né Lamù e allora mi preoccupo. Nina mi guarda. «Secondo te Sergio ha preso i sacchetti?» mi chiede. «Quali sacchetti?» «Quelli per Lamù» Mentre ci penso, mi viene in mente che stasera è la prima volta che io e Nina siamo sole, dovrei essere contenta, ma invece mi sento in ansia perché non so che dirle, e non voglio che se ne accorga. Guardo le mie mani e mi accorgo che sono sporche di fango e di sangue: ho le unghie nere e scheggiate e la pelle secca sta per scoppiare. Passo gli incisivi sotto le unghia ma non riesco a togliere lo sporco, allora penso che l’unica cosa che posso fare è mangiarle e in fretta. Le mani sono fredde e acide di terra, riesco a sentire il sapore della colla che mi piace e ho voglia di spalmarmene ancora, ma la colla è nel portabagagli, con Annio. «Forse dovrei fare uno squillo a Sergio o forse è inutile perché sicuro Lamù l’ha già fatta, no?» «Nina andiamocene. Ora, dai!» «Ma Lamù?» «Andiamo!» «E Sergio?» «DAI!» Le chiavi sono attaccate al cruscotto e la macchina è aperta, metto in moto e da un cespuglio Lamù si fionda su di noi (ha riconosciuto il motore). Dietro i rovi c’è Sergio, in mano ha la pala sporca di sangue, ai suoi piedi c’è Annio senza vestiti, i capelli impiastrati di materia cerebrale. «Arrivo, ho quasi finito!» urla senza guardarci, mentre Nina si allaccia la cintura e io faccio entrare Lamù in macchina. «Auguri fratellino, buon anno!» gli dico e sgasiamo senza sapere dove andare, in direzione cimitero. «Che cazzo fate? Non scherzate STRONZE!!!» Nina mi guarda senza parlare e accarezza Lamù. È mezzanotte meno dieci. «Dove andiamo?» mi chiede. Io non penso ad altro che alle sigarette e alle mie dita nere. «Dobbiamo comprare le sigarette.» «E poi pensare a Lamù.» «Non possiamo abbandonarla, Nina!» «Non voglio abbandonarla!» «E allora? Che facciamo?» Nina non risponde. Stringe Lamù con forza e mi sorride con gioia. «C’è un’altra pala nel portabagagli.» Una gioia armata. «Ci penso io.» È mezzanotte.

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VINZ di Simone Ghelli La mia città deve essere sporca, la voglio con persone che girino in strada con il coltello tra i denti e l’occhio attento a ogni passo, con i cantieri sempre aperti come corpi infetti sotto il bisturi del chirurgo. La voglio che pulsi, perché se a qualcuno gli passa in testa il grillo di murarla viva lei abbia l’istinto di muovere un muscolo a calpestare ogni erezione di mura. Ne conoscevo uno così, al modo della mia città. Si chiamava Vinz, e aveva un paio di occhiali dietro ai quali lo sguardo ci girava come una cagna in calore, per non rischiare di passare indifferente a chi ha il vizio di camminare a testa bassa e con passi allineati. Ecco, la mia città dovrebbe essere proprio come un paio di lenti appannate: invisibile e indiscreta finché il viandante non vi si addentra, tossica e appiccicosa alla prima svolta ad angolo, male strisciante sulle pietre innalzanti palazzi, ché quando giunge la buia notte venga paura a chi vi cammina e, paralizzato, lo immortali nella sua ultima estrema difesa. Era un baluardo così la città in cui sono nato e vissuto, prima che arrivassero i predicatori dell’ultima ora con quell’aria da angioletti saputelli e i piedi scalzi da marchiare con il loro sudicio dolore. Bastò che ci cadesse il primo nella loro fitta ragnatela, ché il resto venne dietro come le mosche sulla merda. Abissi si sono spalancati sulle nostre coscienze. Vinz è stato il primo a essere tagliato fuori. Hanno iniziato dai suoi lunghi riccioli, pretendendo di districarglieli a uno a uno come si fa con i fagioli quando si sgusciano, che si lasciano sfilare come tanti soldatini da gettare nel secchio dell’uniformità. Vinz ha abbassato la testa e si è lasciato tosare come un novello bonzo. C’era da ridere a vederlo così, carponi per terra come un bambino che non sa camminare. Adesso va in giro mostrando la propria pelata e sembra che il suo unico scopo sia quello di trovare un po’ di sole che gliela scaldi, perché così gli ribolle tutto quanto dentro e non gli viene più il vizio di mettersi a scegliere tra cani e porci. Ormai Vinz non li porta neanche più gli occhiali, perché si dice in giro che non ci sia proprio nient’altro da nascondere sotto questo cielo e che l’armonia divina si mostri a tutti allo stesso identico modo. Ma alla sera, quando si mette la testa sotto le coperte e si cerca un po’ di calore che ci riscaldi il cuore, c’è ancora qualcuno che si lamenta che non si può togliere così il pane di bocca a chi se lo è sempre sudato. Pesce grosso mangia pesce piccolo, canta la filastrocca di chi non trova pace nella notte. Io ho deciso di abbandonare la nave prima che affondasse. Ho lasciato che la penna dei censori mi marchiasse a fuoco. Non è mia la carta su cui scrivono. Se vorranno la mia pelle per incidervi sopra i loro giudizi dovranno attraversare il deserto che ho lasciato dietro di me. Ho impronte digitali ricavate da vecchie sporcizie e sapore rancido di bastardo. I miei capelli ricresceranno prima che questo sole mi faccia impazzire, perché qua non arriva mai la notte con le sue oasi oniriche. Tra una duna e l’altra si estende sempre il medesimo mare di sabbia rovente. La mia città è adesso questa immensa onda dorata che non smette mai di andare e venire. Il pesce piccolo ha finalmente ritrovato la propria pace, ma le grandi bocche sanno inghiottire mondi ben più vasti delle mie piccole certezze. So che qualcuno un giorno chiamerà nuovamente il L’ora migliore (2011), l’ultimo volume mio nome a gran voce. Voi lasciatelo gridare, c’è così pubblicato da Simone Ghelli tanto silenzio qua dove sono…


«Cosa vuoi che ti cucini?». «Non lo so,» le rispondo, «decidi tu… lo sai che mi fido.» «Allora…apriamo il vinellino!!!» ma il tappo le s’incastra nell’apribottiglie e mi alzo per aiutarla. Sara è sempre nuda, arrapante, che assaggia il sughetto e lava l’insalata, io scolo la mia birra, la raggiungo e l’afferro da dietro. Le stringo i capezzoli rosei. Le bacio il collo. Lei mi bacia sulla bocca. Mi lecca. «Sai di birrrrra…!» mi fa e tira fuori il formaggio dal frigo, poi riempio due bicchieri di Merlot, il cazzo mi diventa una pietra e mi struscio sul suo culo sodo e tatuato. Quante volte l’ho afferrata e scopata lì, mentre taglia le patate o lava i bicchieri, facendola godere come una cagna? Tante ma adesso decido di non farlo, forse più tardi. Lei non sembra d’accordo ma tanto nessuno vuole scappare e abbiamo tutto il tempo che ci serve. Così butto giù un sorso di vino e aspetto che mi chiami per prendere i piatti. Sono due giorni che scrivo poesie senza mai fermarmi e le uniche pause che faccio sono per mangiare o per scopare. Un profumo di carciofi mulina dalla cucina fin sotto le mie narici. Ogni tanto alzo la testa e lo sguardo mi si posa sul suo culo favoloso. Dalla finestra il borgo appare come una favola medioevale e la valle ammanta i tetti delle case con il suo grande mantello verdognolo. «Mi aiuti???» «Eccomi…» e le vado incontro, mi sento al posto giusto al momento giusto, non resisto, sposto i piatti sul piano del lavello e la tiro a me, inizio a strapazzarle i capezzoli con le dita, poi con la lingua, poi con i denti e infine succhio come un poppante affamato. Sara è sempre nuda. Io ho ancora i calzoni addosso che getto via scalciando come un terzino di serie C, m’inginocchio davanti al suo sacro orifizio castanoscuro, le allargo leggermente la fica e inizio a leccarle il clitoride, lentamente, con dolcezza, prima dal basso verso l’alto e poi muovendo la lingua in avanti come un serpentello eccitato in cerca della sua Eva. Poi ci diamo il cambio, e questa volta è lei ad inchinarsi succhiandomi palle e uccello. Tossisce dopo che più di venticentimetri di carne rossa le strizzano in gola. «Fa piano…piano…» mi dice sputacchiando saliva sulla mia cappella arrossata. Poi: «Cazzo mi sa che c’ho un pelo infilato in gola» e ancora tossisce, s’infila un dito nell’esofago, ma in piena fibrillazione sessuale riprende la sua opera e poggia le sue labbra viola sulle vene ingrossate del mio uccello che sprizzano pornografia. «Cazzo girati» e l’afferro per i fianchi, sbattendola e cavalcandola sui fornelli, le stringo le chiappe e rallento ogni volta che sto per venire, sbatto e rallento e ricomincio, sbatto e rallento e ricomincio, e ancora sbatto e rallento e ricomincio, Sara miagola come una gattina estasiata, sbatte le sue chiappe contro il mio cazzo curvo; sudo, m’infiammo, le stringo le tette allungando le braccia come uno scimpanzé, le afferro i capelli castani e ondulati tirando la sua delicata testolina verso il mio petto sudato, la sento arraparsi, titillare, cantare SI DAIIIIISIDAIIIIIIDIIIOOOOOOSISISISISISISIIIIIIIDIOOOOHH HSSIIIIII, puntando i piedi in terra fino a quando entrambi non crolliamo come due petali appassiti: io sulla sua schiena umida, lei sui fornelli arruffati insaporiti dai carciofi. «Ti amo, è stato bel….» ma la interrompo versandole del vino e schiaffeggiandola sulla chiappa destra. Dopodiché prendiamo i piatti con la pasta ormai fredda e senza rivestirci ci sediamo al tavolo per mangiare. Cazzo, questo si che è un paradiso!, penso scolandomi il Merlot e ficcandomi una forchettata di carciofi nel forno secco. «Cazzo che fame!» le faccio, pensando che dopo una bella scopata mi sembra la cosa più buona del mondo, e forse lo è! Sara strizza gli occhi complice, mi guarda e sorride spalancando la bocca piena di cibaglia fredda e verde. Alla fine mi sporgo sulla valle e guardo la natura che letteralmente brilla. Il sole scalda insetti e fiori gialli e foglie di tutti i tipi. Sfumature verde chiaro. Il mio sangue caldo. Variazioni verde argento. Merlot rosso. Sara accende una Camel e sbuffa soddisfatta piccoli cerchi di fumo. Io butto giù l’ultimo bicchiere di vino, accendo una siga e ritorno al mio computer: sesso&poesia, mi dico, cosa vuoi di più dalla vita?

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SESSO & POESIA di Paolo Battista

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15 ottobre 2011. In 82 paesi e 951 città, da Tokyo a Vancouver, da Melbourne a Lima, l’appello internazionale degli indignati contro “il mondo della finanza” è stato raccolto pacificamente da migliaia di persone che hanno sfilato in cortei più o meno grandi e colorati. Solo a Roma la manifestazione si è tinta di nero, dando luogo a una lunga battaglia urbana.

Fabrizio Romano

STRATEGIE Fot.1-2 Una manifestazione è l’esposizione dell’opinione comune di un gruppo di persone. Le manifestazioni sono una forma di attivismo che solitamente si svolgono per mezzo di persone che si riuniscono insieme. In questo modo, l’opinione che si vuole manifestare prende significato grazie alla moltitudine di persone che sono d’accordo con essa e si radunano per dimostrarlo visivamente. (http://it.wikipedia.org/ wiki/Manifestazione)

Fot.3 Perché possa funzionare, la guerriglia urbana deve essere organizzata in piccoli gruppi. Una squadra di non più di quattro o cinque membri è chiamata gruppo di fuoco. Un minimo di due gruppi di fuoco, separati e isolati da altri gruppi di fuoco, diretti e coordinati da una o due persone, è quello che si chiama una squadra di fuoco.


Fot.4 Le dinamiche della guerriglia urbana stanno nel violento scontro con i militari e le forze di polizia della dittatura. In questo conflitto la polizia ha la superiorità. La guerriglia urbana ha forze inferiori. Il paradosso è che, tuttavia, la guerriglia urbana è l’attaccante.

DI OTTOBRE Fot.5 Il guerrigliero può evitare la sconfitta soltanto se mantiene il vantaggio iniziale che ha e sa come sfruttarlo sino alla fine per compensare la sua debolezza e mancanza di materiali. I vantaggi iniziali sono: 1. Deve colpire il nemico di sorpresa. 2. Deve conoscere il terreno dello scontro. 3. Deve avere maggiore mobilità e velocità della polizia e delle forze repressive. 4. Il servizio informazioni della guerriglia deve essere migliore di quello nemico. 5. Deve avere il controllo della situazione e dimostrare una decisione così grande che ognuno dei nostri ne debba essere ispirato e non debba mai pensare di esitare, mentre dall’altra parte il nemico resterà sorpreso ed incapace di agire. Da Piccolo manuale della guerriglia urbana di Carlos Marighella,1969 Contatti_fabr.romano@yahoo.it

Il numero di assistenza legale per il 15 ottobre è: 06 49 15 63 (Casa dei diritti sociali) http://italy.indymedia. org/node/1209


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SOPRAVVIVE... di Paolo Battista Ogni giorno alla stessa ora Gianni scende da casa e si avvia alla stazione degli autobus a Largo Preneste. Col sole o con la pioggia appena scoccano le otto di mattina si mette le sue belle scarpe da ginnastica Nike e s’incammina zoppicando per via di Acqua Bullicante. Il pusher lo aspetta alla fermata del 541, in modo da fare lo scambio sull’autobus quando si ferma al capolinea. Stamattina ci sono anch’io ad accompagnarlo, ne ho proprio bisogno dopo aver trascorso tre giorni a Genova per il funerale del fratello di Silvia! I funerali mi straziano, sono una tortura e adesso mi ci vuole qualcosa di forte per riprendermi da questa settimana pazzesca. Daje allunga er passo, sbotta Gianni sudato come un atleta pieno di vesciche, che vita demmerda, mi ripete, ma nun posso fanne a meno, e giù rotoliamo per la strada incasinata e casinara. Gli è indispensabile di drogarsi ormai anche per alzarsi dal letto e fasse quarche ‘lavoretto’; ha quarantanni e più di venti li ha trascorsi in galera e da più di venti si buca. Che vita demmerda, continua a ripetere mentre stiamo per raggiungere Mida, un negro dai labbroni sproporzionati e le orecchie a forma di cucchiaino. Intorno a noi la città cigolante di macchine in doppia fila e autobus immobili come vecchie sculture di ferro. Il pelo tagliato corto e la faccia grossa e quadrata sono una specie di marchio di riconoscimento: da quello che ricordo Gianni è stato sempre così, qualche volta si lascia crescere i capelli più del solito ma il corpo taurino e tatuato infilato nel jeans blu e nel giubbotto sintetico nero completa la sua dura storia personale. Devo da sbrigamme, mi dice. Così prendiamo io la nera e lui la bianca e torniamo indietro per raggiungere la vivace multietnica Tor Pignattara. Ogni giorno la stessa storia per Gianni: appuntamento mattutino, buco e sotto a lavorare in qualche supermercato; poi a metà giornata birra, altro buco e altro lavoretto (questo un po’ più serio e pericoloso), fino a verso le due quando ha recuperato un po’ di soldi e sale in casa per mangiare. Poi da quando ha finito i domiciliari spesso il pomeriggio scende giù dal Casinaro, un baretto de quartiere che bazzica da anni, proprio sotto casa sua dalle parti della Casilina vecchia. Si conosce bene con Franco il proprietario, suo vicino di casa, sono cresciuti insieme. Da pischelli passavano le giornate ad ubriacarsi, poi le strade si sono divise ma dice Gianni che ogni tanto è bello ritrovasse co quarche amico de vecchia data, visto che la maggior parte o so’ morti o stanno ar gabbio. Ultimamente Gianni passa molto più tempo dal Casinaro, e chiamatela pure malinconia, chiamatela disperazione, chiamatela come volete ma sembra che almeno in quei momenti la persona che è si lascia andare ai ricordi, alla lacrimuccia, e questo per uno come lui è effettivamente strano e smielato visto dall’esterno, ma anche i più incasinati hanno un’anima… e quindi alla fine non c’è niente di strano, magari smielato, ma strano non credo! Oggi è una giornata spietata e nuvolosa e prima di tornarmene a casa resto ancora un po’ di tempo con Nico e il Postino che arrivano insieme da via Filarete. Cazzo, se semo fatti ‘n pezzo da sturbo, chioccia Nico con le palpebre rammendate come un vecchio calzino. Sì… bbona, rantola il Postino schiaffeggiandosi il pancione gonfio ricoperto da una vecchia camicia gialla e una giacca color crema. Avemo trovato ‘n pakistano, Arim, che te fa sti pezzi da ‘n grammo a settanta euri, sbava Nico. Vabbé, piagnucola il Postino, ma se je dai sessanta è uguale, nun te fa storie, e poi guardandomi di striscio con gli occhietti mezzistrabici per la fattanza mi chiede se ho per caso del metadone in più da vendergli; ormai, spara, quello che me danno ar SerT nun m’abbasta manco


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pe gnente! Mi dispiace, strascico io abbastanza sconvolto, devi chiedere a Giorgio o forse Orazio, che di solito ce l’hanno da parte. E proprio in quel momento come una citazione arriva claudicante Orazio, tutto abbottonato in una giacca verde militare, barba spessa, occhi annacquati, mani tremanti; entra dal china e compra una Peroni grande, si appoggia con le spalle al muro e spara che anche lui quarche giorno fa la robba l’ha presa da sto pakistano, bassetto, co li capelli ‘ngelatinati e secchi schiacciati su la capoccia, er naso sporgente e l’occhi scuri come la faccia, ma, e sottolinea MA… pe me nun era tanto bbona, anzi, sbotta nervoso, se devo di la verità è stata la peggio robba che ho pijato da ‘n par de settimane a sta parte. Ma che cazzo stai addì, barrisce il Postino che poi approfitta per chiedergli se ha dello sciroppo da vendergli chè inizia a stare a rota. Me dispiace, ghigna Orazio, l’ho finito tutto pe famme. Poi schianta la birra a terra e scappa via da una parte mentre Nico e il Postino galoppano dall’altra. Dopo mangiato, scendo a fare due passi e raggiungo piazza della Marranella dove Giancarlo tutto solo, sventola come una bandiera sbiadita della pace. Bella Pierpà, che stai a ffà?, bela stringendosi la cinta di un buco. Che dici, continuo io, passiamo dal Casinaro che m’ha chiamato Gianni e dice che lui sta lì a bere birra? Vabbé, bela Giancarlo, e ci avviamo alla fermata del 105 che proprio in quel momento sta risucchiando una mandria di poveracci in attesa da mezzora. Allora Frà che se dice?, sbotta Gianni che quando ci vede fa un piccolo cenno con la testa senza però distogliere lo sguardo dal bancone. E che se deve dì, è sempre la stessa caciara, anzi me pare che le cose stann’annà sempre peggio, questi parleno solo de crisi, crisi ar cazzo!!! Li leggi li giornali sì? Ma che dovemo da fa, nun ce sta rimmedio co sti quattro farabutti che ce governano e fanno quello che je pare, decreta Franco con la sua grottesca e sincera saggezza popolare. Sapessi che crisi c’ho io, frigna Giancarlo. Sapessi la mia, mi aggancio restando in tono. E che dovemo fa, dovemo sopravvive, ribatte Gianni fisso con gli occhi su una vecchia fotografia del Casinaro: che bei tempi, farfuglia riferendosi alla foto, come se stava bene, senza tutti sti problemi che c’avemo oggi… la gente pensa solo a mettertelo ar quer posto. Eh si, c’hai proprio ragione ma che dovemo fa? E che voi fa?, ‘n cazzo, dovemo solo da lavorà, e sperà che armeno ‘n po’ le cose s’aggiusteno, sbotta Gianni buttando giù la sua Peroni e prendendone un’altra dal frigo. Lo imito e mi siedo ad uno dei tavolini argentati pieni di quotidiani sportivi che letteralmente trovo inutili. Vabbè ma a la fine come te la passi?, fa poi Franco che sa del vecchio problema dell’amico e in passato aveva pure cercato d’aiutarlo, ma inutilmente. E come dev’esse, se tira avanti, ha capito come!!! E la regazzina de tu moje come sta?, sputa er Casinaro che da poco ha ricevuto in regalo dalla moglie il terzo figlio, anche se non era programmato. Franco ha compiuto trentanove anni da poco, ha un corpo massiccio ma non è troppo alto, il naso schiacciato e i capelli lisci e brizzolati con la fila a destra. Il taglio degli occhi è di tipo calmucco e in certi momenti le pupille sembrano argentate come una lamiera nuova di zecca ma forse sono solo i neon del bar. Cercando di sviare la risposta ma accorgendosi che non è facile sfuggire allo sguardo indagatore dell’amico, Gianni bela: ma nun lo so, da quarche settimana… quella troja der cazzo dice che la regazzina dopo che c’ha visto de litigà se comporta ‘n modo strano, ma proprio nun so che vole di....seconno me è solo che sta pensanno de lasciamme e nun vole famme vedè più la regazzina… e s’enventa ‘n sacco de cazzate. Ma te nun devi dajela vinta, la ragazzina te vole bene no?, quinni vedi de nun fa er cazzone, passando a volo lo straccio sul bancone argentato.

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Nun lo so… si… forse… me vole bene, però ha visto pure troppi casini tra me e su’ madre, ha capito come!, e accendendosi una Marlboro Light Gianni pensa che ha voglia di un buco. Ogni volta che parla di Olimpia gli viene voglia di farsi. Ogni volta che le cose si mettono male gli viene voglia di farsi. Allora si chiude nel cesso del Casinaro e si spara l’ultima dose della giornata pensando che in questo modo può per qualche ora dimenticarsi della ragazzina continuando a sguazzare in quella fottuta vita dimmerda da cui non riesce a staccarsi. Ormai c’ha più buchi che peli su quel corpo tozzo e scarabocchiato. Ormai riesce a farsi solo spogliandosi tutto e cercando qualche piccola venuzza sulle gambe o sui piedi, ma prima di centrare il tubo giusto si fa minimo dieci pertugi. Quando esce Gianni c’ha gli occhi sbarrati e sballati, riprende la boccia che aveva lasciato sul bancone con le ultime due dita di birra e trinca come se non bevesse da secoli. Vedo la sua faccia intesirsi, le mascelle indurirsi, i denti sbattere e gli occhi schizzare fuori dalle orbite. Io e Giancarlo continuiamo a bere birra e a scambiare battutine con Franco. Il calendario della Roma sul muro scrostato segna che ormai siamo quasi a metà ottobre e penso che il tempo come al solito corre troppo velocemente. Poi Giancarlo mi dice che l’artro giorno mentre stava pe tornassene a casa ha sentito come ‘n gemito da vicino a ‘n secchione. Dice che ha allungato la capoccia e che ha visto?...dice che ha visto ‘n cucciolo de cane, ‘n bastardino chiazzato de nero che ruzzolava dentro le buste de la monnezza. E quindi, gli chiedo, che hai fatto? E che ho fatto, mi risponde, me lo so’ portato a casa, che dovevo fa? Mica potevo lasciallo a morì pe strada oppure ‘nvestito da ‘na machina? No che non potevi e Gigetto che dice? gli chiedo, visto che Giancarlo non ha una casa e da mesi, se non anni (anche

se saltuariamente sparisce per qualche giorno) vive da Gigio che comunque ha bisogno di qualcuno con cui dividere le spese, dato che campa con la miseria di pensione che gli passa lo Stato: sieropositivo anche lui come la maggior parte dei ragazzi, e sicuramente anche epatitico. E che devi dì Gigetto, ormai je s’è ‘ffezionato e adesso si lo vedi è tutto coccole e carezze. Io, spara Gianni er cane ce l’avevo, e te dico che quanno so’ piccoli so’ pure carucci, ma quanno se fanno più grandi diventeno ‘na rottura de cojoni che manco te l’immagini. Pe questo ‘n sacco de gente l’accanna sull’autostrada! Pe fortuna che ce stava mi madre a pensacce chè s’era pe me er mio era già morto de fame o sminchiato sotto ‘n copertone de ‘n camion. Sei senza core, sputa Giancarlo che sbotta: cazzo, ma nun è morto er cane tuo quarche tempo fa? Poi ricordandosi sbotta: Sì… sì che è morto, ma mica semo tutt’uguali...pe fortuna! Vabbè, vabbè, sbotta il Casinaro, la vità è bella pecchè è varia… nun litigate e ci offre tre bicchieri e una Peroni grande per calmare gli animi. Grande er Casinaro, dichiara Gianni, sei n’amico e insieme brindiamo al bel gesto del barista, ormai così raro in questa giungla del cazzo chiamata città. (CONTINUA)


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ICH HABE MIR EINEN INTRAVENöSEN TRAUMBLITZ GEGEBEN di S. H. Palmer (Parte II) I bambini più belli del mondo stavano al Macello. Correvano forte senza capricci. Facce sporche di fumo e di polvere. Bambini svegli. Mangiavano inchiostro e mangiavano i libri. M** era il più cucciolo tra i cuccioli; aveva cinque anni, ma non era antipatico come i suoi coetanei. Ogni sera recitava poesie e spiegava le costellazioni ai più grandi, quelli dei QUARTIERI INFORMI che si sentivano coraggiosi a venire al Macello. Spesso non ci capivano nulla e lui lo sapeva; si guardava in giro e rideva. Ho portato quasi tutti i miei libri ai Randagi al Macello, quando faceva troppo freddo e non riuscivano a nutrirsi in giro. Solo di un libro non ho parlato mai con loro. Pagine severe, cuori tristi e fieri: era già tutto uno schifo, non avrei mai potuto distruggere fantasie di utopie passate. Non lo avrei fatto. Non io. Perché a loro – bambini del Macello – resta solo la speranza di un ricordo. Né una speranza, né un ricordo: solo la speranza di un ricordo. Accanto a noi, quella notte al Macello, giacevano ingordi biondi fanciulli non (più) alti e forti e a tratti un po’ mosci. Buttavano l’occhio di lato e traverso, parlavano piano, tra i denti. I ragazzoni ridevano forte, intanto S** ha cominciato ad attaccarci briga. Non avrei sopportato risse anche quella sera. «Dove cazzo stanno le chiavi della macchina?!» Immobili, al proprio posto, dove sono sempre state. Il catorcio non ci ha mai abbandonato. Fino a oggi e neanche oggi. L’attaccamento permaloso e compulsivo ai particolari fa di S** una totale e geniale cretina, e vederla arrivare con quel sorriso a denti di lama è rigenerante e stomachevole allo stesso tempo. «Corri corri corri… ma che cazzo te lo sei portato fin qua? Cristo santo gli tagliamo un braccio!» Il dorato agitato voleva solo farsi S** e dare un giro di vite a noi, ma non sapeva di essere capitato nella tana dei topi di fogna. Ce la cavammo in otto secondi e mezzo. Lui ci rimise quasi un arto superiore. S** rise, pianse, pisciò dietro lo sportello del catorcio e quasi si addormentò. Con la sua faccia scioglievolmente idiota, S** racconta sempre cose di gente che conoscevamo decenni di polveri fa, ricordandosi di chi si lasciava e diventava autistico per poi tornare insieme a guidare autobus pieni di scarafaggi inferociti, di chi non faceva nulla e sorrideva, di chi era buono per forza o buono per voglia o buono per indole o buono per niente. Come facesse non l’ho mai capito, ma ricordava tutto tranne il rilevante. Viveva così e così ci piaceva. Attaccata al rimanente. S** la conoscevo da anni e sempre cretina è stata, ma di una stupidità altissima. Non era buona però o non lo era quasi con nessuno. L’ho sempre adorata per questo. Le proposi di rimanere a dormire da noi quella notte.1 Albeggia rapidamente quando dormi con gli occhi aperti. La ridondanza della stanchezza post-Macello evidenziava ogni volta i segni della lotta per la sopravvivenza. Dopo L’ULTIMA GUERRA CONTRO IL NULLA non c’era davvero più niente da perdere. Case non ne esistevano più, almeno come le ricordavamo. Non esistevano più neanche gli strumenti per misurare il misurabile. Non potendo sapere quanto fosse durata la guerra, potevamo/possiamo solo cercare di riconoscerci dentro lo specchio per capire se saremmo potuti mai tornare ad essere un terzo dell’ombra di noi stessi. I sopravvissuti non erano molti dove stavamo noi; così almeno ci sembrava di percepire. In realtà saremmo potuti essere tre o tre milioni e ciò non avrebbe fatto alcuna differenza, perché albeggia troppo rapidamente se dormi con gli occhi aperti. (CONTINUA)

1 Calammo le tende ed alzammo i calici. La nottata indecente non tradì i suoi fasti iniziali e lui non riusciva a dormire: ridevamo troppo forte, ma non era colpa nostra. La roba pervinca ci faceva le gote rosse come il vino buono d’infanzia che il nonno era solito bere di domenica a pranzo. Come il vino sporco di adolescenza che eravamo soliti bere a qualsiasi ora del giorno e della notte. Affrettati per nulla dal tempo che passa (è passato e passerà) guardavamo la tenda di sabbia calare sul mare quando l’occhio penetra il limite dell’orizzonte. Quanti neuroni attivi (ci) sono rimasti nei teschi di cartone ondulato?

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LA LETTERA di Luca Antonini (parte II) Il giorno dopo, una domenica fredda e piovosa, mentre preparava con cura la colazione, si accorse di essere rimasto senza sigarette. Per fortuna il bar in piazza dove di solito le comprava sotto banco era aperto tutti i giorni. Uscì in pigiama e velocemente raggiunse il locale. Mentre entrava un suono di campana riecheggiò per la piazza facendolo sussultare e dal portone della vecchia chiesa emerse una marea indistinta di cappelli e giacche a vento minacciose. Il bar era semivuoto e dietro al bancone c’era una giovane ragazza che Andrea non aveva mai visto prima. «Un pacchetto di sigarette». «Non vendiamo sigarette, questo è un bar, non una tabaccheria», rispose con voce stridula la ragazzina. «Ma le ho comprate ieri! » «È impossibile, qui non vendiamo tabacchi», disse, spostando il suo sguardo su un uomo ben vestito appena entrato.. Andrea alzò la voce sbattendo con forza il pugno sul bancone ma era come se nessuno facesse caso a lui. Tornò in piazza alla ricerca di una sigaretta. Aveva le scarpe e i pantaloni del pigiama zuppi di pioggia e guardava la massa di giacche a vento uscire dal bar liberando dalla plastica lucida grossi pacchetti di sigarette che aspiravano voluttuosamente, fissandolo con odio. Scoraggiato, tornò verso casa dove si accontentò della vecchia pipa di suo padre, che caricò d’erba per fumare fino a svenire sul letto, dove sognò ancora. Era di nuovo bambino. Si trovava nella sua vecchia scuola ed era quasi natale. Tutti i bambini erano vestiti da angioletti per la recita, ma lui non aveva un costume e lo avevano costretto a mettersi in mutande dentro una cesta per fare Gesù Bambino. Ridevano di lui, ma più che i suoi amichetti di scuola sembravano i suoi colleghi di lavoro. Sopra tutti c’era Luciano, vestito da Arcangelo Gabriele che ripeteva con voce solenne e sacrale: «secondo me hai fatto una cazzata, secondo me hai fatto una cazzata!»

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Il giorno dopo, in ufficio, trovò Luciano davanti alla sua postazione, immobile, che lo guardava dritto negli occhi. “Hai una convocazione dal capo e sei in ritardo come al solito!” Con tono gentile Andrea lo mandò affanculo e si diresse al piano superiore, dove trovò il capo seduto in poltrona, che rispondeva contemporaneamente a tre, forse quattro telefonate, e chattava con altrettante persone. Gli fece solo un gesto di attesa con la mano e non lo invitò a sedere, facendolo rimanere li in piedi per più di mezz’ora, finché non tirò fuori da un cassetto una lettera. Andrea sobbalzò. Gli parve di vedere in alto quel simbolo e soprattutto la scritta. VICARIATO DI RO... «Ho qui una lista di tutte le sue inadempienze nell’arco delle ultime settimane. I suoi continui ritardi, il suo aspetto trasandato, la sua improduttività, le voci dei colleghi...» «Quali voci? Di che parla? E’ stato Luciano? Cosa le ha detto? Le ha parlato della lettera?» «Mi faccia finire e non mi interrompa. Con questa lista...» «Ma si, certo! E’ stato lui a spifferare tutto. A lei e agli altri!» «La smetta! Abbia almeno un po’ di rispetto per me, visto che per se stesso sembra non averne più! Se non lo ha capito, quello che le sto facendo è un richiamo ufficiale. Se non cambia la sua condotta professionale e privata sarò costretto a trovarle un posto di lavoro più consono alla sua persona. Ci siamo capiti? Ora torni al lavoro e


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domani si presenti in orario e vestito civilmente!» Ci mise un po’ ad uscire da li. Le gambe erano pesanti, la vista era annebbiata da numerosi dettagli che ora cominciavano a combaciare. La macchinetta del caffè vicino alla sua postazione sempre rotta mentre le altre funzionavano... quella scritta nel bagno degli uomini DIO, PATRIA, FAMIGLIA... lo spam che intasava la sua mail di lavoro... i colleghi che non parlavano più con lui. Erano arrivate le direttive dall’alto e Luciano era l’artefice di tutto: MOBBING.. L’avrebbero degradato, costretto a scendere ai piani bassi, giù in catena di produzione, magari prima come supervisore, ma presto si sarebbe ritrovato con la tuta blu, come suo padre. La visione nella sua testa si fece chiara: guardò tutte le persone attorno a lui e passò il resto della giornata davanti al pc a rileggere le vie legali della lettera. Aveva diritto a denunciare il parroco nel caso in cui avesse tradito il segreto d’ufficio, ma nulla poteva contro un collega che non teneva la bocca chiusa. Erano giorni che non riusciva a contattare Martina, mancava poco ormai al suo rientro per le vacanze natalizie, quando finalmente una domenica sera la trovò in chat. «Amore mio mi sembra di impazzire. Non puoi neanche immaginare quello che ho passato. Mi sembra di vivere in un incubo. Credo che stiano complottando contro di me. Sai, per la lettera...» «Non ci sentiamo da settimane e tu mi parli della lettera? Ti sento distante, io mi sento sola, non sai quante volte avrei voluto averti qui accanto...» «Ma se sei a Londra! Mica ti ho obbligato io a fare quello stupido stage!» «Stupido? E’ questo che pensi? Come sempre le frasi cominciarono a sovrapporsi, generando parti di discorso spezzate e poi abbandonate. Più la confusione aumentava, più le parole si facevano pesanti. Andrea fumava direttamente l’erba dalla pipa e quando a notte fonda la loro discussione finì ci mise un po’ a capire quel che era successo. Martina lo lasciava per il cantante di un gruppo Cristiano Copto, i TORRENT95, conosciuto durante lo stage. Era l’unica cosa certa. Si sedette con i palmi delle mani sulle cosce, respirò a fondo e cercò di calmarsi. Contò a voce alta fino a dieci, poi cominciò ad elencare una lunga sfilza di bestemmie nel suo dialetto, mise lo stereo al massimo, aprì la finestra e buttò di sotto tutto la roba di lei. La polizia arrivò mezz’ora dopo. Sfondarono la porta, lo ammanettarono e lo portarono in questura. Balbettando tentò di spiegare la sua triste storia: il mobbing sul lavoro, la ragazza che lo aveva lasciato, ma non parlò della Lettera. L’appuntato era più interessato ai vincoli parentali che sembravano scorrere tra i due, in quanto entrambi provenienti dallo stesso paesino del sud Italia. Sfortunatamente, se si poteva soprassedere per il disturbo alle quiete pubblica, non si poteva per l’assassinio. Andrea sussultò e si accorse che per la prima volta dopo anni gli era sfuggito un: «O mio dio, ti prego questo no». Un omicidio minore, accidentale, precisò la guardia. Nel suo volo, lo specchio indiano a cui Martina tanto teneva si era schiantato sopra il cane della vicina del piano di sotto, che era uscito ad abbaiare attirato dal rumore. In più, la vicina era la sorella del parroco del paese e questo aggravava le cose. E al processo si sarebbe discusso anche dell’erba trovata sul tavolo, avvolta da una lettera... Quando la porta della cella nella questura si chiuse, la guardia assicurò il compaesano sulla sua sorte. Domattina telefona all’avvocato, disse, e tutto si risolve con una multa! (era pur sempre incensurato). Andrea continuava a guardare dritto davanti a sè tra le sbarre, come perso in un sonno senza sogni... (CONTINUA)

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Vania Barbato - HYB http://vaniabarbato.tumblr.com/ http://www.flickr.com/photos/va_sh/


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