PASTICHE 6 (aprile 2012, ultimo numero)

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tutte le forme del raccontare

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mensile gratuito • Aprile 2012

n°6

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Amalia Mora - La vergine di Rubik www.amaliamora.com

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Lo ha preso tra le braccia due volte in vita sua: quando è nato e dopo che è morto. Per il resto lui non ha mai avuto tempo per lei, aveva sempre qualcos’altro da fare, tra prediche e miracoli, apostoli e battesimi, protoreading paraletterari e pranzi con gli zombi. A PASTICHE questa cosa proprio non va giù e dedichiamo il numero di aprile (e non quello di maggio, consolatorio e misconosciuto mese mariano) alla Madonna, alle sue mani morbide, ai suoi occhi tristi, e a quei capelli profumati che non ci è stato mai permesso di vedere, tranne che nelle inedite e sensuali interpretazioni di Amalia Mora e Fara Peluso. Pasqua è la principale festività del cristianesimo, «la festa delle feste» nonostante celebri la morte di Cristo. Tutto deve morire, ma a volte la fine può essere un nuovo e migliore inizio. Pensateci bene quando assisterete a qualcosa di simile: Cristo è diventato più importante da morto che da vivo, vale per tutti, anche per noi. Ritorna la vita dopo la morte, sempre. In questa verde resurrezione di speranza, LEGGETE, CONDIVIDETE, SCARICATE, DIFFONDETE!

PASTICHE è pensata e redatta da Paolo Battista e Pierluca D’Antuono. Grafica e impaginazione a cura di Scuola Internazionale di Comics. Per ricevere a casa PASTICHE in abbonamento (costo 10 E) scriveteci a: pasticherivista@gmail.com indicando nome e recapito. Per inviare il vostro materiale (poesie, racconti - lunghezza da concordare disegni, foto b/n, contributi vari) scrivete a: pasticherivista@gmail.com oppure all’indirizzo: Paolo Battista Via F. Laparelli 63 - 00176 Roma www.facebook.com/pasticherivista http://issuu.com/pastiche 2

p.2 Editoriale p.3 Elisabetta (Luca Carelli) p.4 La dimora di Dioniso (Paolo Battista) p.7 Intervista a Satana sul Rock’n’Roll – III e ultima parte (Pierangelo Consoli) p.8 Cala de San Pedro (Chiara Fornesi) p.10 L’indie è un bluff come l’amore – #1 Marchetta Lunare (INA) p.12 F. C. (Ruben Dolfelli) p.13 BLITZRECENZION #6: Lei disse DISTRUGGI (S.H. Palmer) p.14 *Merry go round* – II e ultima parte (S.H. Palmer) p.15 Eros Kai Thanatos (Libeth Libet)


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ELISABETTA di Luca Carelli Quando, trenta anni fa, il mio sogno di militanza svanì rovinosamente, io non sapevo più niente di me. Pieno di angosce e timori, decisi di trasferirmi a Roma, dove mi iscrissi all’università. Andai a vivere all’Esquilino, crocevia e rigurgito delle umanità le più invisibili e disperate ricacciate ai margini oscuri della società. Abitavo in una pensione occupata da famiglie di profughi afgani, pionieri di quella che in seguito sarebbe diventata la comunità transgender romana, puttane del basso Lazio, ambigui poliziotti imparruccati, tossici marci e ultimi brigatisti post-Moro senza speranze: la periferia dell’Impero surrogata in un palazzone che dominava i giardini di Piazza Vittorio e la gloria dei Magazzini Allo Statuto. Era il 1982, avevo 22 anni, sarei rimasto a Roma fino al 1986, quando, tornato a Bologna, le gabbie della Dozza mi avrebbero ospitato per 25 lunghi anni (ma questa è un’altra storia). L’università servì soltanto a conoscere i Distruzionisti di Alba Rosa e S.H. Palmer. Erano neofascisti, così si diceva in giro, ma scrivevano dada e vestivano punk ed erano gli unici in città coi quali andavo d’accordo. Mi unii a loro informalmente e in due mesi scrissi Falange nera e L’Ispettore Colìa, due romanzetti gialli che grazie ai miei nuovi amici romani divennero inspiegabilmente capolavori neonoir. A Roma vivevo male. Non studiavo, non lavoravo, non avevo amici né donne, non mi divertivo e non dormivo. Le uniche cose che facevo era scrivere e drogarmi e di nuovo non sapevo nulla di me e di quel che volevo. Poi all’improvviso un lampo insperato. Il 6 gennaio 1985 la città era bianca eroina e io conobbi Elisabetta. Era bellissima, oscura e assorta in un silenzio misterioso che apriva squarci di dubbi tetri e profondi, e stimolava fantasie acute e morbose. Avrebbe voluto fare la modella o l’attrice, sognava di diventare ricca e famosa e intanto passava le giornate con noi tra Termini e Piazza della Repubblica. La prima volta la vidi davanti a uno di quei manifesti che allora ricoprivano la città e dicevano LA DROGA TI UCCIDE LENTAMENTE: con l’inchiostro rosso aggiunse a lettere cubitali NOI NON ABBIAMO FRETTA. Era certa che i suoi sogni si sarebbero realizzati, per questo frequentava i più importanti politici, faccendieri, avvocati e imprenditori dell’epoca. Oggi i giornali la chiamerebbero escort, ma Elisabetta si limitava a sfruttare i soldi e il potere di quegli uomini che disprezzava e odiava. Fu così che qualcuno le regalò un monolocale a Campo de’ Fiori, riparo di tutti i tossici che Elisabetta conosceva. Il tempo passava e lei era sempre più sola. L’ultima volta che la vidi pesava 40 chili. Mi parlò di un provino che avrebbe dovuto fare per La domatrice di cavalli (un film di Schicchi) e di certi video che aveva cominciato a girare con il figlio del ministro pidduista che la manteneva. E aggiunse preoccupata che volevano sfrattarla, che doveva mezzo milione a certa gente violenta e che alcuni neofascisti le stavano troppo addosso. Le sue parole erano nebulose e complesse ma per la prima volta sembrava sincera, aveva davvero paura. Come avrei potuto aiutarla io con quello che intanto stavo passando? In fondo, conclusi, era pur sempre una tossica. E la droga, si sa, rende paranoici. A fine maggio ’86 tornai a Bologna. Il 23 giugno mi condannarono a 25 anni di carcere. Lo stesso giorno, a Roma, un coltello vibrò sette colpi tra i seni di Elisabetta e una mano posò sul suo petto una banconota da cinquantamila lire. Se non l’avessero ammazzata, probabilmente ci avrebbe pensato da sola, senza la fretta insensata di una lama fredda e crudele. Senza quella lama avrei dormito più spesso in questi ultimi 25 anni. E forse questa piazza non sarebbe per me un campo di fiori funebri e fantasmi anoressici che ululano di rimpianti sotto il suo monolocale che oggi è un B&B per turisti americani che di certo Elisabetta avrebbe odiato. Elisabetta di Leonardo, aspirante modella e attrice, si trasferisce da Cagliari a Roma nel 1980. Nella speranza di realizzare i suoi sogni artistici, instaura alcune relazioni con importanti uomini politici e di affari dell’epoca e con il figlio di un potente ministro pidduista. Martoriata da una grave anoressia e da una pesante tossicodipendenza, viene ammazzata il 23 giugno 1986 nella sua abitazione di Campo de’ Fiori. È uno dei 13 casi insoluti di donne uccise a Roma negli anni Ottanta. Luca Carelli nasce a Bologna nel 1960. Negli anni ’80 scrive alcuni romanzetti gialli che per un fortuito errore di stampa cromatico vengono accolti dalla critica come noir. Nel 1986 viene condannato per uno dei misteriosi delitti del DAMS che all’epoca insanguinano Bologna. È stato scarcerato nell’agosto del 2011 e affidato dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna alla redazione romana di PASTICHE, per cui scrive brevi racconti ispirati a fatti recenti di cronaca nera. SUPERVISIONE ed EDITING Pierluca D’Antuono http://archiviostorico.corriere.it/1994/luglio/10/troppo_bella_troppo_sola_co_10_9407106991.shtml 3


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LA DIMORA DI DIONISO di Paolo Battista Quando la mattina Silvia se ne va, scendo a fare due passi e becco il Piotta in Piazza della Marranella con i capelli impomatati e la faccia incarognita. Tutto bene? gli chiedo, ma si vede che c’ha la capoccia da un’altra parte e quindi lo lascio ai suoi affari e vado a bermi un caffè per togliermi il sapore di metadone incastrato tra i denti. Nel bar trovo il Postino, grosso come sempre, anzi più grosso del solito, con gli occhi più grigi del solito, che sta mangiando due cornetti alla crema anche se è quasi mezzogiorno, e mi saluta dicendo qualcosa con la bocca piena, qualcosa che non capisco e che mi sembra arabo. Che fine hai fatto? gli chiedo. Lassame perde, ribatte, che te devo dì, mi madre è stata poco bene e io so’ du’ giorni che nun me magno ‘na cosa decente. E come sta? insisto. S’è ripresa ma tira n’aria demmerda, e sbuffa gonfiando la sua faccia rotonda e arrossata. Poi gli arriva la telefonata de ‘na battona che frequenta lui e inizia ad amoreggiare come un fringuellone a primavera: daje amò, se dovemo beccà pe forza, io prenno e te vengo a pija sotto casa, capito, te nun te preoccupà che se reggemo uno coll’artro se reggemo, vabbene, daje daje...ma che sei matta amore mio! e pecchè vojo sta solo co te, dai daje, tu vedi che devi fà, datte ‘na sistemata, e magari se vedemo più tardi, te nun te preoccupà, io già ho fatto tutto, dai, te porto a magnà ‘na cosettina speciale, ‘na roba romantica, daje, te bacio tutta amore mio, te vojo coccolà...SE SEMO CAPITI, beccamose! Ciao amore mio, ciao. Poi mi guarda e dice je vojo bene, cazzo, come devo fa? Se va bene a te, ribatto, ed usciamo davanti al bar per raggiungere il Piotta 4

dall’altro lato della strada dove la guardia cicciona fa la sua ronda. Mentre stiamo per attraversare gli risquilla il telefono ma questa volta è sua madre con cui il Postino da sempre ha un legame morboso, qualcuno direbbe edipico: ao mà, come stai? ...eh sì, aspettame, che sto a passà ‘n lavanderia e poi te raggiungo a casa, sì sì aspettame, vabbè, e zufola che deve da passà prima a prenne ‘n piumone e poi dar cinese pe ‘n rotolo de carta da forno, quella bianca che nun se brucia. Così mi guarda e chiede se vojo accompagnallo, lasciamo il Piotta ad aspettarci mentre sclera con un marocchino di nome Mustafà, e ci facciamo strada sul marciapiede zeppo di cinesi e pakistani. C’ha una voce squillante il Postino e gli occhi celesti e grigi e piccoli e le gambe tozze e incrociate, e allora mentre un’autoambulanza copre le nostre cazzate e quelle di tutta la gente che cammina su via Casilina, e un cane si morde la coda, e un arabo gesticola al telefono, e un cinese sputa per terra, e una coreana spinge una carrozzina supermoderna, e un’altra autoambulanza frigna più forte della prima il Postino mi guarda serio e dice nun sai er dolore, e nun sai che m’è successo!, indicando le sue gambe coperte da un vecchio pantalone grigioscuro, nun sai er DOLORE, pensa che me se so’ spezzati li tendini…me se so’ spezZATI! ha capito che storia!, e allora…questo è er tendine, gesticolando come fosse un ortopedico, lo vedi? Beh! li dottori dice che hann’usato ‘n laser speciale, pecchè cazzo lo sai che me stava a succede? Cosa?, gli faccio infilandomi le mani in tasca. Mentre stavo a camminà me pijava ‘na specie de mancamento, te dico brutto.


c’aveva du’ zinne favolose e ‘n bolide della Mercedes che nun so’ quanto l’aveva pagato, ao ha capito che a ffà bocchini se diventa ricchi!, e ride colpendosi la pancia con le mani scorreggiando pasta sfoglia come un muflone. Dopo qualche metro vediamo il Piotta venirci incontro mozzicando un panino con la coppa che dice lui è er mejo che ce sta! M’ero rotto d’aspettavve, sbrodola, e poi fra meno de n’ora dev’annà a laorà che oggi devo da fa er pomeriggio. Dice che da quarche mese j’hanno cambiato zona, nu sta più all’Aeronautica militare ma adesso sta a ffà le pulizie da n’artra parte che manco lui sa bene de che se tratta, e la matina se deve arzà minimo a le sei. Me pagheno ‘na miseria ma armeno me pagheno!, esclama trafugandosi l’ultimo morso di panino e gettando via la bottiglia di Nastro Azzurro sotto il marciapiede merdoso. Poi penso che devo mettere l’annuncio su Porta Portese per affittare la camera o comunque spargere la voce, e poi penso che ho saltato un paio di colloqui di lavoro, e poi penso a Silvia, e poi che devo scrivere un racconto breve per una rivista underground e questo mi da la forza per tirare avanti. Cazzo guadagno una miseria scribacchiando recensioni cinematografiche su un portale d’informazione culturale, e penso che se proprio si mette male posso sempre chiudermi dentro qualche magazzino a scaricare scatoloni o continuare a fare il cameriere in qualche trattoria, ma comunque di un lavoro, che possa chiamarsi tale, non se ne parla neanche a pagarlo (alla faccia della laurea). Certo potrei rimettermi a spacciare ma la posta in gioco è troppo alta, e dopo tutte le cazzate che ho fatto questa volta nessuno mi starebbe vicino e poi se penso che per andare d’accordo con la mia famiglia sono dovuto fuggire 5

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Figurate che l’artra vorta mentre stavo co la tipa co cui hai sentito parlamme prima, me so’ poggiato su de lei pecchè ho visto la gamba ch’annava ‘ndietro e dopo semo cascati pe tera come du’ pere secche. Cazzo che teatrino, frigno io che inizio a non capirci più una sega tra lui e sua madre. Poi mi dice che all’ospedale pel dolore j’hanno fatto ‘na puntura d’antinfiammatorio e nun sa che artro. Nun sai che DOLORE, sbrodola strizzando gli occhi ripetutamente, e pensa te che fino a jeri nun riuscivo manco a moveme. Te dico che adesso sto a tirà ‘na boccata d’aria, aggrottando le guance rosse, poi si ce metti pure la storia de mi madre te dico ma quale tendini! pe poco nun me scoppiava la capoccia, nun me scoppiava…ma te che ne voi sapè! Dai che è finita, gli faccio tirando un calcio ad un pacchetto di Kim appallottolato. E poi nun sai che ago, lungo DA PAURA, sbotta il Postino ed entriamo in lavanderia: so’ er fijo de sora Amalia, dice e la tipa bassina e tarchiata svanisce dietro al bancone tornando poco dopo con un piumone a fiori rossi. Una volta fuori passiamo dal cinese: devo da comprà la carta pel forno, mi fa e prende due scatole dallo scaffale, scherza con la cinesina alla cassa che intimorita abbassa la testolina liscia, e saluta tutti con un cenno della mano. Appena esce però si scontra con un trans molto femminile, gli osserva le tette e fa un apprezzamento felice. Un ricordo gl’illumina gli occhi e inizia a raccontamme de ‘na vorta che uno de questi je s’era affezionato e je faceva ‘n sacco de regali, addirittura, mi confessa: ‘na vorta so’ annato e j’ho detto che c’avevo bisogno de pagà l’affitto e questo… ‘nsomma questa, m’ha messo tra le mani sette piotte così, ce stava ancora la lira, te dico fermate, cazzo aveva perso la capoccia pe me. Me ricordo che


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in un’altra città, mi dico lascia stare Pierpaolo, non peggiorare la situazione, basta cazzate! Insomma sono loro che mi pagano l’affitto, e sarà bene non tirare troppo la corda. Domani è er compleanno de mi madre, raglia poi il Postino intromettendosi nuovamente nei miei pensieri sconclusionati, fà settantanni! Beata lei…, sbrodola Piotta, ad arrivacce a quell’età. Me sa che noi schiattamo morto prima, ma comunque falle l’auguri e dille de nun pensacce. A cosa?, chiede il Postino. A la vecchiaja, sputa il Piotta, a la morte, a cosa sennò?, e s’allontana mulinando il suo marsupio e ruttando in faccia alla gente che corre per raggiungere l’autobus. Io guardo l’ora sul telefono, è quasi l’una, il Postino mi saluta che deve raggiungere sua madre, resto ancora qualche minuto a guardare le auto, gli autobus, la gente che frettolosa piena di pacchi si dirige verso casa, penso che mi piacerebbe uscire da questa situazione da acqua alla gola, sento che sto per scoppiare, Silvia spesso mi rimprovera dicendomi che sono io a non voler star fuori da quest’inferno, e forse ha ragione; ma cazzo, il problema reale è il lavoro, e se una persona non ha lavoro si annoia, e se si annoia si aliena, e se si aliena si droga, e se si droga le speranze vanno a farsi fottere; ma a questo punto mi dico tieni duro perché in fondo potrebbe andare ancora peggio! Così me ne resto seduto da solo in Piazza della Marranella a riflettere su questo e quello, il cielo stranamente biancolatte, i pensieri in guerra con me e tra di loro, un’ oliosa fragranza d’autunno mischiata a benzina e a gomma bruciacchiata, decido che mi piace, inspiro come fosse popper, mi guardo intorno e stranamente non vedo nessuno, la piazzetta esagonale è vuota, neanche la guardia che di solito è piazzata davanti alla odiosa porta scorrevole 6

della banca, nessuno, non un cinese, non un indiano, non un ubriacone, nessuno, cazzo, NESSUNO! Solo…un gabbiano, sembra ferito ad una zampa, si posa a meno di un metro da me e se ne sta immobile fissandomi con quei suoi occhiettini piccolissimi, ogni tanto sbatte un’ala come a voler comunicare la sua presenza, zompetta con difficoltà per via della ferita, non sembra niente di grave ma il taglio è visibile; allora afferro un pezzetto di panino lasciato da qualcuno nell’erba, allungo il braccio e miracolo della natura, il gabbiano si avvicina fino a pochi centimentri dalla mia mano succulenta, penso che non ne ho mai visto uno da così vicino, manco fosse un cucciolo di cane o un cazzo di gattino, e me ne sto li col braccio allungato, guardandomi intorno come per cercare un appiglio di realtà, poi col suo becco dalla punta rossa l’uccello afferra il pane, le piume sono bianchissime con delle piccole sfumature nere e grigie qua e la, istintivamente sposto la mano per accarezzarlo, lui saltella un poco all’indietro timoroso ma subito ci ripensa, e come una gru tira il collo in avanti appoggiandosi con la parte inferiore del becco sulla mia coscia sinistra. Cazzo quasi mi viene da piangere, l’accarezzo delicatamente, sento battere il suo cuore, è una cosa bellissima; poi però riavverto la stessa sensazione di prima, le cose si capovolgono velocemente, e dal silenzio ritorna il caos: il gabbiano si divincola, fa un balzo all’indietro ma un istante prima di spiccare il volo tentenna, i suoi occhi mi penetrano, la sua anima selvaggia mi entra dentro, sembra volermi dire cazzo non mollare, fottuto coglione non mollare! Poi lo vedo sfrecciare per l’ultima nuvola a destra dopo la dimora di Dioniso e me ne torno a casa un po’ meno deluso del solito. (CONTINUA)


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I N T E RV I S TA A S ATA N A S U L R O C K ’ N ’ R O L L di Pierangelo Consoli (Parte III) «Ok, abbiamo quasi finito, prima però facciamo un giochino, io ti faccio un paio di nomi e tu mi dici si o no, ok?» «Va bene, cominciamo!» «Bob Dylan.» «Troppo facile, il vecchio Bob ormai ha ammesso tutto quanto, sarei un coglione se negassi, comunque si, Bob è stato un ottimo investimento, credimi, soprattutto per le droghe, ora non comunica più come prima, ma resta sempre un grande investimento.» «Walt Disney.» «Questa volta hai sparato una cartuccia per elefanti, sul serio, non si doveva parlare di rock n’roll?» «Walt Disney è abbastanza rock per me!» «Quando Walt venne da me era disperato, letteralmente, aveva questi disegni fatti dimmerda, con un topo e una topolina e dei cani, non era nemmeno roba sua, li aveva fatti Ub Iwerks, veniva deriso da tutti quelli a cui faceva vedere il suo lavoro, ma io ci vidi il futuro in quella merda, sul serio, vidi i diamanti che scintillavano. Vado molto fiero dell’operazione Disney, davvero, l’ho messa in piedi da solo, io ho capito che con quella roba si arrivava dritti al cuore dei bambini, cazzo, era l’atomica della corruzione, capisci? Sarebbero bastati dei cazzi e delle vagine nascoste qua e là nei fotogrammi, i bambini guardano quei film in continuazione, tutti i giorni, e piangono se non glieli fai vedere, gli intossico il subconscio con il subliminale e la loro mente pura trattiene tutto, sono talmente ricettivi, rielaborano e al momento opportuno vengono a galla le nevrosi. Io ci vidi la pedofilia, e ogni cazzo di disturbo della sessualità, mi portò Mickey Mouse e io ci vidi dentro i semi delle psicopatie del futuro, incredibile, no?» «Inquietante più che altro…» «Walt non era un genio, però aveva altre qualità, qualità molto apprezzate in questo lavoro…» «Che genere di qualità?» «Era ostinato, era assetato di vendetta, era motivato e aveva quella punta di sadismo che non guasta mai; Walt era un carrarmato, credimi, sarebbe passato sul corpo di sua figlia pur di riuscire, sono queste le cose che apprezzo in un uomo.» «Justin Bieber.» «Mai sentito.» «Lady Gaga.» «Non aveva nessun talento, era persino più brutta di tutte le sue rivali, ma sapeva che se avesse puntato tutto sulla musica e sulla sua fisicità sarebbe stata una delle tante e persino più brutta, così ha capito che doveva puntare sulle cose strane, le mutazioni, i vestiti strani, ed è stata veramente brava, solo che adesso sta esagerando, tutta quella filippica sui gay, mi sta sfuggendo di mano. E dire che mi piaceva un sacco, mi pareva la nuova Madonna, e io solo so quanto ho amato Madonna, è stata una delle poche con cui ho deciso di fare un altro accordo, per perfezionare il precedente, è un lusso che concedo a pochissimi.» «Che accordo?» «Le ho concesso di invecchiare senza che diventasse vecchia, in modo da poter essere accattivante ancora per molto tempo» «Con chi altro hai fatto un patto simile?» «Mick Jagger.» «Continuiamo col giochino, vediamo, Vasco Rossi.» «Mai sentito.» «Iggy Pop.» «È stato utile per un sacco di cose che mi sono tornate buone successivamente, come il punk. Penso che gli Stooges abbiano ancora un sacco di potenziale, poi non lo so, non è che posso prevedere il futuro!» «Ah no?» «No.» «Ultima domanda e abbiamo finito: tu cosa sei? So che puoi assumere tutte le forme che desideri…» «Le forme che ritengo più opportune, non è che me ne sto lì a sfogliare l’armadio per pura vanità!» «Si, ma cosa sei tu?» «Io sono il riflesso di un pensiero.» FINE (Le puntate precedenti nei numeri 4 e 5 di PASTICHE) 7


Giulia alla fonte: arrivando a San Pedro dal sentiero desertico e senza un filo d’ombra, la fonte d’acqua dolce e fresca è la prima cosa che s’incontra. Un cartello artigianale di legno intagliato mi prega di portare via la mia spazzatura e di non lavarmi con saponi chimici. È scritto in molte lingue perché qua s’incontra gente da tutto il mondo: ma chi viene qui, e soprattutto chi decide di restare, parla la lingua del rispetto e della libertà…

Terra rossa splendente desolazione di terra rossa. sospiri bruciaticci e vento pregno di salsedine. un’arsura di pietriccio per chilometri si estende: Aguillas. Garrucha. Costa del sol. il tempo scorre dardeggiante e lento. polvere e siccità tormentano l’asfalto bollente e ogni macchia d’ombra è un’oasi da conquistare, ogni respiro ansima sudore, commozione: Nijar. Campohermoso. Las negras. il torrido agosto si schianta sulle carni indifese. Paolo Battista Arash fa il pane: Lui è francese, è qui da più di un anno ed ha iniziato a fare panini e pizzette per risparmiare sul cibo. Poi hanno cominciato a chiederglielo, ed ecco che Arash diventa fornaio per una comunità di una ventina di persone. Chi dice che per aprire un’attività servono un capitale e una qualifica?


Casa di Paco: Paco vive ad Almeria, ma appena può torna qui per scrollarsi di dosso la frenesia cittadina, e mentre non c’è mi permette di usare la capanna che ha costruito con legno e canne di bambù. Dal letto posso vedere il mare e sentire le onde… chi vuole può costruire la sua casetta qui, ma solo con materiali naturali, niente plastica o cemento! E chi ha bisogno dei muratori?

Chiara Fornesi

Cala de San Pedro

Parco naturale di Capo de Gata. Almeria, Spagna, ottobre 2005

Da casa vedo…: Arash viene a trovarmi al tramonto alla mia capanna, chi dice che servono tanti soldi per vivere su una terrazza vista mare?

Madre natura: C’è chi ha partorito a San Pedro, e ci sono bambini che sono cresciuti e vivono qui con le loro famiglie. Lei è di passaggio, ma si è perfettamente calata nell’armonia del posto… Abbiamo davvero bisogno di tutti i prodotti che certe aziende ci propinano per la salute dei nostri figli? www.youtube.com/watch?v=wUNq1_mYNIA&feature=related

Per il resto del reportage visita il mio facebook: Chiara Fornesi


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L’INDIE È UN BLUFF COME L’AMORE #1 MARCHETTA LUNARE (INA) I contorni (con)fusi nella densità della nicotina si fanno vivi. In una periferia assolata dove a colpi di serranda si chiude la realtà che sta intorno: si sgretola nella fame che non lascia tempo all’attesa. Tra i bicchieri usati in cui ci specchiamo come vecchi amici. Non lo siamo. Dopo un’ingenua notte di primavera, mille paure affogano nella pelle candida di un divano. Dentro un tubo di plastica appassita. Nelle mie scarpe da Joey posate sul pavimento. In una contrazione assorbita da un ronzio incazzato da LP, nessun silicone penetra due parti distinte di questa stanza che si ritorce ai desideri, pure se indossiamo lo stesso nome e un’unica voglia intossica i nostri corpi sbiaditi. Niente di serio: siamo simili ai palazzi inquinati fuori da cui cerchiamo l’aria congedando parole per non fraintenderci, come in quei romanzi che non abbiamo mai letto negli anni che ci dividono. Non resta che annegare le ore in un alcolico caldo come un centro ingoiato dai cinesi. Non ci sono salvezze tra dischi ben ordinati. Noi non abbiamo iniziali di martiri innalzati sugli altari. Siamo solo due musicisti. Ci scambiamo sulle labbra una sigaretta che resta cenere, e io resto con i miei piedi abbandonati in disparte. Specchiandomi tra le unghie, nell’oscurità del rosso lucente. Le canzoni si assentano come la preghiera di un qualche santo che non lascia guardarsi negli occhi. I cavi jack si staccano. Non scorre corrente in questo talamo in Alaska. Vestita di scuro, mi nascondo nell’inaccessibilità del buio. Senza le luci di palchi dove c’incontreremo per forzatamente ignorarci. Amami una volta nella vita. Nel nome del Padre e della New Wave. Anche se sai che non posso darti ciò che pretendi e che resto la Blondie dal cuore di vetro persa nelle trame di un film troppo complesso per il suo pop sugar and spice. Non sono un eroe. Non voglio farmi sbattere da dio al muro con lo squallore e la violenza di rapporti uguali a città distrutte in un testo dei Gaznevada. Berlino. Nevadagaz. Hong Kong. New York. L’amore è un gas. È proibito parlarne. Ai tempi dei licenziamenti discografici si dicono solo gli arrivederci. Non c’è più tempo per divertirsi con lo yéyé. I sentimenti imballati da lattice antiproiettile non hanno alcun sapore. Premono sulle costole con la rigidità di una transenna che divide l’anima. Sono assalti di stati d’ansia. Sfiancano con la spranga che si nasconde sotto il cuore di ogni cappotto. Gli idranti che devastano le piazze in rivolta contro la Virgin non bastano a lavarmi i peccati dai piedi. Il suono di una lingua potrebbe benedire. Cerco nel Verlaine sulla parete le parole di una religione da posarmi sulla lingua muta di carezze, ma i Television non aprono il sipario che resta chiuso da una minigonna nera. Non sento una canzone, solo una marchetta lunare. Mentre fai l’amore perdo la vista nelle finestre dagli occhi chiusi sognando un milione di miglia via dal ring di questa camera da letto che non mi appartiene. Ascolto la pioggia. Ascolto qualcosa di diverso. Sono in esilio da me. Al risveglio non c’era. Era scappata all’alba. A caccia di luce. Ma nelle strade strette dio non arriva e in un bar la tv trasmette un programma in cui una casalinga travestita da hipster prepara la torta di mele consigliata dall’ultimo numero di Rolling Stone. Non le rimane che 10


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riversarsi nell’oblio di un bicchiere che ondeggia a ritmo di rockabilly. È intossicata dal tuo alito. Incrostato nella bocca le raddoppia la dose di nicotina. Sei arrabbiato e spaventato se la trovi a pulire una tazzina. Urli che in lei c’è qualcosa di sbagliato ogni volta che chiede di fare una doccia. Domandi perché si senta così sporca a stare con te. Sbagli a gridare che si trova qui solo per rubarti qualche accordo. Ogni gesto è già in una canzone ascoltata e scritta troppe volte. Incolpi le sue sembianze che ti ricordano Nic Endo. Gli ideogrammi guerriglieri che le leggi nel volto. Ma sei tu ad averla portata a vivere in questo Campo di Marte e di guerra. Ora è scappata in un labirintico parco assieme ai Tuxedomoon. Senza una lacrima. Si è rifugiata nella tua auto depositata in un parcheggio. Qui può ascoltare i ritmi delle ballate che preferisce e che non ti piacciono. Siete due poli opposti che non si attraggono. Come un cecchino lei si punta le colpe sul ventre, ma chiusa nel bagno non ha il coraggio di guardare quanto la fai sentire sbagliata. Pensa a un esercito di sillabe. Sottile come la carta s’infila tra le porte della macchina per salvarla dalla potenza suicida che può avere The Mercy Seat alle tre del mattino in una sequenza di Richard Lowenstein. Si raccoglie dalla sfrenata voglia di una contusione mortale. Percorrendosi con le dita tra le gambe intarsiate lungo la carrozzeria può sentire lo sfregare delle masse comporre un perfetto ritmo industriale. Simile al battito regolare che dilata la cartilagine. Fessura cromata di piacere. In questo bunker ferroso in cui la carne si perde tra le trame surreali di un sogno di Dale Cooper. Nella nebbia di una vertigine onanistica riflessa sul vetro antiproiettile che insonorizza la realtà. Immagine che si perde nello specchio retrovisore come un qualunque download. In questa storia nessuno merita di più. L’amore cieco non esiste perché è morto soffocato in un sacchetto di plastica. Nessun esercito verrà a portarvi via da queste seimila leghe sotto l’asfalto. Se non decidete di andare un milione di miglia lontano da una musica senza verità. Imbocca la strada verso nord. Sul caos schizofrenico cosparso in questo appartamento. Sopra le mensole che sono assi di legno precarie come anime fissate male. Rischia di cadere e sbucciarsi le ginocchia. In questa città c’è troppa nebbia e non vede bene. Lo dice con quei modi glaciali. Teutonici. Una piccola Regina Tedesca che porta il mio stesso nome. In certe notti bianche mentre programma la sua drum machine parla con amore da perdizione di un grande Gatsby che conosco a malapena. Le piace molto più delle chitarre elettriche mentre lo invoca ballando con un dio techno a me sconosciuto. Questa inconsapevole freccia si scaglia meschina contro l’echo del mio ego. Inizio ad usarla come un giornale porno che deve soddisfarmi l’uccello. Nonostante i beat delle bombe sono oramai sul nostro letto, anche quando sento cedere i suoi muscoli bagnati e paralizzati, non mi arrendo. Mi aggiro lungo il corridoio stretto e tachicardico perché vedo la fine di tutto nel mio orrendo modo di vendere dischi. Mentre lei si nasconde tra il volume alto e biascica qualcosa con quella bocca che afferro senza parole. Senza che possa arrivare alla fine di un nome. I nostri discorsi sono parole tronche. Senza titoli di coda. Perché dai suoi vent’anni mi aspettavo una donna col senso del dovere? E’ figlia di un inganno: l’amore cambia con la rapidità dei generi musicali. In un leggero vento di sigaretta lei mi dice addio dal binario. Nella luce di un’alba tenera e senza catene corre verso un milione di sillabe da scrivere via da questa città. Nulla la potrà fermare, ballerà un ultimo valzer con qualcuno che non sono io. Dice che tornerà la moda del dolce stil-lento.


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F.C. di Ruben Dolfelli Il traffico rallentò per un istante. Non è una cosa che vedi con gli occhi, ma la percepisci dietro le vetrine del locale. Guardò l’ora assaggiando il cappuccino, poi alzò lo sguardo e vide il suo uomo che telefonava attraversando la strada. Era il suo studente migliore ed era stato scelto insieme ad altri suoi nove colleghi per perseguire il risultato finale. «Professore», disse il giovane universitario, «è tutto pronto. Dobbiamo solo attendere l’ora.» «Perché lo facciamo?», chiese il professore, accendendosi una sigaretta. «Mi scusi?» «Dimmi il perché.» Lo studente era sorpreso. «L’atto dimostrativo deve dirigersi contro la cultura, contro la scienza. Ma non ogni scienza si presta allo scopo. L’attentato deve avere tutta l’assurdità rivoltante di una gratuita bestemmia. Poiché il vostro mezzo di espressione sono le bombe, veramente espressiva sarebbe una bomba lanciata nella matematica pura. Ma questo e impossibile», concluse fissando con trepidazione il suo interlocutore. «Dove l’hai sentita?» «Ad una sua lezione», sorrise arrossendo. «È un passaggio di Conrad, ma è diventata la frase più chiara di un altro testo critico, un’opera politica e sociale: La società industriale e il suo futuro. Sono esattamente duecentotrentadue punti. Sai chi li ha scritti?» «No», balbettò il giovane. «Ted Kaczynski», iniziò il professore, senza mai togliere lo sguardo dalla facciata del palazzo di fronte. «Il manifesto venne firmato Freedom Club, ma per gli investigatori voleva significare Fuck Computer. Kaczynski non era un pazzo terrorista, non aveva idee religiose o politiche estremiste, era perfettamente integrato nel sistema, e un giorno decise di dire basta a quel sistema. Il tre aprile del 1996 venne arrestato in una sperduta capanna del Montana. Dal 1978 disseminava il terrore negli Stati Uniti, prendendosi gioco dell’FBI, con sedici attentati dinamitardi che uccisero tre persone e ne ferirono altre ventitré. Ma Kaczynski non era un folle… i test d’intelligenza a cui venne sottoposto da bambino dimostrarono che era un piccolo genio; a 16 anni, dopo il diploma, si iscrisse ad Harvard, si laureò in soli quattro anni e ad appena 25 anni vinse il dottorato in matematica alla Università del Michigan, e la sua tesi fu premiata con un riconoscimento nazionale della Casa Bianca. Subito dopo venne assunto a Berkley, che all’epoca era l’università più prestigiosa del paese. Ma allora successe qualcosa: dopo due anni, con appena tre righe e nessuna spiegazione, Kaczynsky rassegnò le dimissioni, per trasferirsi nel Montana, dove grazie a un prestito della madre comprò tre ettari di terreno e una capanna senza luce, gas e acqua. Il primo ordigno risale al 1978, è rozzo e rudimentale e non provoca molti danni. Ma Ted affinerà il suo metodo fino a raggiungere la perfezione nel 1995, senza mai commettere errori né lasciando tracce o indizi per la polizia. Nello stesso anno abbandona l’anonimato per chiedere la pubblicazione del suo manifesto – che firmerà con la sigla F.C. – in cambio di una tregua armata. Il “New York Times” e il “Washington Post” accettano la proposta. Ad incastrarlo, paradossalmente, sarà suo fratello minore, che riconosce lo stile e le idee di Ted, e informa un avvocato». Il professore fece una breve pausa, accese avidamente un’altra sigaretta guardando il suo giovane interlocutore sempre più perplesso e desideroso di conoscere il resto della storia; subito dopo, senza dire una parola, riprese il suo racconto. Sembrava freddo, cinico e distaccato, come se parlasse da solo. «In America il suo scritto viene considerato spazzatura, ma in Europa trova molti estimatori. Il punto è che Ted non si limita a constatare il mondo per quello che è, lui lo rifiuta totalmente, scagliandosi contro le tecnologie portatrici di destabilizzazione sociale, di disgregazione economica e di distruzione dell’ambiente. Non a caso, anni dopo il “New Yorker” capirà – in ritardo – che quel manifesto conteneva una critica reale e attuabile del sistema. La restrizione della libertà è un fenomeno inevitabile nella società sviluppate; la rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state un disastro per la razza umana, in quanto, se è vero che hanno incrementato a dismisura l’aspettativa di vita di coloro che vivono nei paesi sviluppati, hanno nello stesso tempo destabilizzato le società del terzo mondo, rendendo la vita insignificante e assoggettando gli esseri umani a (mal) trattamenti psicologici e fisici indegni. Ted credeva che per questa ragione venissero esercitate 12


BLITZRECENZION # 6 di S. H. Palmer Lei disse DISTRUGGI

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La luce era spenta e il pozzo troppo profondo: lei gli ordinò di distruggere tutto, e così lui fece. (shanduziopalmer.tumblr.com) 13

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pressioni ai bambini perché eccellessero nei campi scientifici, ma sapeva che non era naturale per un adolescente passare la maggior parte a studiare!» Il professore cominciò a infervorarsi, sembrava particolarmente coinvolto da quel passaggio e per un attimo lo studente pensò che si identificasse – non solo scientificamente e politicamente, ma in un modo intimo e profondo – con Kaczynski. Il giovane si distrasse controllando il telefono, in attesa del momento prestabilito. Si sentiva eccitato e spaventato, ormai mancava poco. Il professore riprese fiato accendendo l’ennesima sigaretta, poi parlò ancora e il tono della sua voce si indurì sensibilmente. «Ted era stato uno di quei bambini costretti al sapere, e di conseguenza conosceva a fondo i problemi dell’uomo moderno: noia, demoralizzazione, bassa autostima, sentimenti di inferiorità, disfattismo, depressione, ansia, sensi di colpa, frustrazione, ostilità, abusi psichici e fisici, edonismo insaziabile, comportamenti sessuali abnormi, disordini nel sonno, disordini nell’alimentazione e altro ancora. Le sue critiche maggiori erano rivolte ai baroni universitari, ai docenti e ai ricercatori al servizio delle grande multinazionali, ma anche alla sinistra americana, in cui lui aveva militato, e che accusava di essere falsa, cinica e sedotta dal potere e sai perché? Perché hanno perso di vista gli obiettivi e i bisogni reali degli individui e ora si concentrano sulla soddisfazione del proprio io, incuranti dei veri problemi del pianeta e dell’umanità…» «Professore, ci siamo!» disse il giovane, interrompendolo all’improvviso e fissando l’ora sul suo telefono. Si girarono per godersi lo spettacolo attraverso la vetrina, platealmente soddisfatti, come di fronte allo schermo gigante di un cinema all’aperto. Una prima esplosione centrò la sede dell’Università, proprio nel suo cuore battente e grondante. Nel giro di soli cinque minuti, altre nove esplosioni seguirono alla prima… il fegato, i polmoni, il cervello… bisogna distruggere ogni organo vitale di questa società per liberarla… Il professore andò via all’improvviso, senza salutare il suo studente, lasciando sul tavolo una risma di fogli. Erano i suoi appunti. Il giovane sorrise. Erano firmati F.C.


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*MERRY GO ROUND* di S. H. Palmer (Parte II) Cenavamo a Kretindipity se c’era qualcosa da festeggiare. Era un quartiere di merda con posti di merda e gente di merda per i vicoli: ci piaceva da morire. Ed anche se non ci fosse piaciuto per nulla, ce lo saremmo fatto piacere, come molto probabilmente e realisticamente è stato. A Kretindipity trovavamo sempre un angolo per sistemarci a dovere. Di solito nei pressi del Muro Blu, trasposizione dell’immagine che mi sono sempre fatta in testa del muro di Berlino. Q** scartava la spesa speciale e consumavamo il lauto pasto guardandoci intorno come mosche, gli occhi proiettati in tutte le direzioni. Dopo la cena decidiamo di fare una puntata al Macello, per consegnare Goethe ai piccoli polverosi angeli dell’inchiostro. M** è completamente commosso dal dono, e mentre scendo i due gradini sorrido del novello romantico che ingurgita uno dei miei libri preferiti, sotto l’occhio vigile di Q**, che non gli avrebbe permesso di tritare carta fino a stare male per il gusto di strappare quel sapere dalle bocche degli altri. Q** riesce a patteggiare porzioni quasi eque per tutti solo con la promessa del manuale. Sa perfettamente che M** se le segnerà sotto la pianta del piede il nome di quel libro, e questo non gli dispiace affatto. Il Macello intanto brucia di voci. Qualche volto conosciuto sotto la pergola di amianto ciarla allegro con le teste di vetro. Scorgo H**, un vecchio amico. Mi avvicino a lui in silenzio, per attirare l’attenzione. Lo porto al catorcio con me, e Q** ha quasi un crollo emozionale: quando non si sa più che ora è e che tempo fa, la sensibilità si amplifica. Ritrovati, cominciamo il rituale di sempre: battute caustiche, bottiglie di vetro scuro e commenti sempre appropriati. Ad un certo punto H** ci espone un progetto, qualcosa a cui pensava da tempo. Ha paura di parlarne ad alta voce. La guerra sembra ancora troppo vicina, sebbene (in effetti) potrebbero essere passati degli anni. Partendo dal presupposto che non avevamo più nulla e che H** ha sempre amato le inferenze tra i fatti di tutti, di tutto e un po’ di più, avrebbe voluto, proprio lui, con l’ausilio di chiunque avesse voluto aiutarlo – ma anche con l’aiuto involontario di chiunque e basta – cercare di (ri)costruire il passato del nostro mondo, quello banale, che si stava affievolendo per cause più o meno disparate, più o meno naturali. Qualsiasi cosa sarebbe stata bene accetta, sebbene H** avesse delle riserve pesanti sulle controversie politiche che hanno sempre spaccato tutto e ci hanno ridotti dove siamo. L’idea è tremenda e grandiosa. La beffa insita in questo progetto fa di esso la sfida più grande a cui potessimo aspirare. Dopotutto fino a un certo punto i libri sono stati scritti. Come e da chi non importava al momento, però almeno esisteva un’attestazione più o meno oggettiva di che cosa si era e cosa si faceva e di cosa si rideva e di cosa ci piaceva. I bambini del Macello sono i detentori di questa saggezza storica. La casta predestinata alla futura rieducazione del popolo. Evoluti per sopravvivere ed assimilare. Non ho mai pensato a ciò in questi termini, e un brivido mi scuote profondamente mentre realizzo la verità. H** tiene i Randagi sempre sotto un controllo silenzioso, e li nutre regolarmente con tutto il materiale possibile. Quello che spetta a lui è ricostruire la parte più dolorosa. Intervistare le vittime e i carnefici significa leggere e interpretare rughe e ferite: confrontarsi con gli sguardi di tutti. Dopo esserci presi qualche istante per stemperare l’alcool, accettiamo di far parte di questa grande opera di recupero della memoria. Di recupero di civiltà e/o barbarie. 14


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EROS KAI THANATOS di Libeth Libet Ore 23:00 Era marzo ed il cielo aveva un’espressione sognatrice. Avevo deciso di cenare al ristorante cinese per diversi motivi, non ultimo il fatto che proprio davanti quel locale vi fosse la fermata dell’autobus. Mentre pagavo bevvi un amaro che aveva un’intensità dolciastra e nauseante; pensai che ci fosse qualche erba fin troppo aromatica. Io non fumavo erba, detestavo i cannabinoidi ed i suoi adepti. Mi piaceva, al contrario, passeggiare velocemente nel traffico e sorridere agli sconosciuti. Mi piaceva fingere, indossando maschere e velleità, come le EROINE di un passato inesistente. Uscii, ascoltando ninna-nanne elettroniche. Fumavo sigarette forti. Avevo gusti decisi e capelli tagliati in maniera troppo simmetrica. FUNZIONALE. Disfunzionale soltanto al mio senso di appartenenza. In quel tempo abitavo in una città in cui i trasporti pubblici erano in servizio SOLO fino alle 23e30, questa cosa mi creava imbarazzo e non ne facevo parola con nessuno. Nessuno di quei conoscenti e semi-sconosciuti che avevano invece la fortuna di vivere in luoghi altri. NONluoghi lontani, dal friabile terrore del Terreno. L’autobus arrivò puntuale e mastodontico. A mio parere aveva un’aria fascista. Sul tragitto sentivo il vino bianco – di quarta categoria – mischiarsi ai succhi gastrici e al fritto scadente. Ero comunque convinta che non avrei vomitato. Era una convinzione del tutto arbitraria, in realtà. Ricordo che osservavo le luci dei lampioni, come se fossero opere di un’arte non riconosciuta. Le note bioniche, che pulsavano nelle contrade della mia mente, mi accompagnavano spazientite, in quel viaggio meta-urbano e siderale. Contemplavo le strade ed i loro nomi, soffocavo quel ribrezzo gastronomico che piano piano sarebbe risalito in superficie. Tirai via qualche neurone di troppo nell’attesa della Tua venuta. Poco dopo ero di nuovo distesa in quel giaciglio color porpora, TU indossavi la solita giacca nera e quel sinistro sguardo dissidente. Ascoltavamo musica da camera e ballavamo immobili, su di un ritmo silente ed esauriente. Cercavi uno spiraglio all’interno del tuo Long Island. Eri cresciuto sulle note di cantori neo-romantici, di epilettici eroinomani. Erotomani di fine millennio. Avevi abbracciato controculture e voluttuosità, senza farti tangere dal dissesto umano che le caratterizzava. Sognavi sculture ed approdi onirici. Amavi la tua immagine, riflessa nei vetri rotti. Io osservavo incuriosita qualsiasi cosa, incosciente del fascino che trasudavo, inconsapevole del grado di sensualità che incarnavo. Mi spaventavi con i tuoi discorsi razionalmente insensati, con le tue paturnie trans-genetiche. Amavo osservarti e perderti. Disperderti tra relazioni liquide, vacue di affetto. Ti lasciavo scivolare tra le impurità mondane, senza mai sfiorarti, se non con i miei ingannevoli pensieri. Quella notte bevemmo tanti Long Island, finché non rigettammo tutto il nostro dissapore in un rigurgito. Disquisendo silenziosamente sulle nostra incapacità di stare al mondo. Ed il tuo volto è ora rotto da un pianto cosmogonico ed apocalittico, imbrattato di nero e di cenere. 15


Fara Peluso - Magdalene #1 http://f.moody.over-blog.com/


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