PASTICHE 1 (novembre 2011)

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mensile gratuito • novembre 2011

n°1

v e r s i c o n t r o v e r s i


pastiche Non ci posso credere! Finalmente Pastiche prende il largo, dopo mesi e mesi di sacrifici e ripensamenti e burocrazie invasive e abbandoni e rotture di palle e problemi economici questa nostra Sacra operazione ha ricevuto la benedizione del Fato (in realtà ho sempre pensato che siamo noi gli artefici del nostro destino!!! Ma... questa volta, forse con una dose esagerata di Romanticismo e Poesia, voglio pensare che anche il Fato c’ha messo il suo zampino: e per questa volta, solo questa volta va bene così). Quindi eccoci qui caro Pierluca (e cari compagni di questo – spero – lungo viaggio ), più forti e decisi che mai per portare avanti questo che è sempre stato il sogno di entrambi: finalmente Pastiche è nata, è Realtà, è Carta, è Cuore, è Poesia: finalmente Pastiche è pronta ad esplodere. Esplodere. Esplodere. e migliaia di parole pronte a sanguinare. Sanguinare. Sanguinare: Ecco allora che il Pasticcio prende vita, altri autori entrano in gioco con i loro reportage fotografici, i loro racconti, i loro disegni, la loro anima. Io continuerò a scrivere le mie storie: esistenze sbandate e precarie che vivono nella violenta periferia romana e Pierluca, beh!... lascio a lui la “parola”, sarà lui a spiegarvelo: Alda Teodorani è la nostra scrittrice italiana preferita. In questo numero riportiamo alcuni stralci della conversazione tra l’autrice di Giù, nel delirio e Pierluca D’Antuono, pubblicata in post-fazione alla riedizione di Belve, di imminente uscita in libreria, capolavoro horror fantascientifico, solo apparentemente di genere, che rappresenta il manifesto politicoconcettuale della scrittrice romagnola, summa della sua visione del mondo, della società e della esistenza, uscito per la prima volta nel 2003 e oggi finalmente rieditato dalla Cut-up edizioni di Fabio Nardini. Pastiche cresce: l’edizione cartacea, oltre a Roma, è a Monza, Avellino, Foggia, San Severo e prestissimo a Milano e a Genova, mentre la versione on-line è quasi pronta. In questo numero apriamo a nuovi collaboratori che, ne siamo certi, arricchiranno il nostro lavoro e ci accompagneranno anche in futuro: Jacopo Marocco, eclettico e prolifico scrittore spoletino attivissimo on-line e Sara Meloni, giovane fotografa pugliese da anni a Roma, autrice del freddo e intenso fotoreportage Spazi Vuoti. Se il numero zero non vi è piaciuto, vi ricrederete. Se ci avete amato da subito, ora impazzirete!

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2 Editoriale 3 Fame (Paolo Battista) 4 Le Belve son tornate Conversazione tra P. D’Antuono e A. Teodorani 6 Storia nera (Pierluca D’Antuono)

8 Spazi vuoti (Sara Meloni) 11 Nazichan (Jacopo Marocco) 12 Blitzrecenzion: Il silenzio è sensuale (S. H. Palmer) 13 Ogni volta è come la prima volta (Paolo Battista)


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fame

di Paolo Battista

La strada era deserta, notte inoltrata, ancora pochi metri e ci sono, il solito nascondiglio lurido, un lampione dai vetri rotti, Melissa raggiunse i sotterranei del supermercato in via Casilina dove la mattina passava ore a chiedere l’elemosina, era quasi mezzanotte adesso, Lucas era scappato via da ore: deve essere la fame, è quasi un giorno intero che non mangia. L’ultimo era stato quell’autista del Notturno, al capolinea dell’inferno. Melissa ancora non era abituata. Tutto quel sangue le faceva ribrezzo, affondare i denti nella carne viva, la giugulare pulsante, il sapore caldo che le entrava nelle vene, la caccia, il potere, insomma si sentiva spaventata. Fino a quel momento era stata una tossica che per vivere faceva l’elemosina, adesso era sempre una tossica ma alla roba si era aggiunto il sangue. Più cercava di resistere a quella fame incontrollabile più sentiva di perdere il controllo. Ma ormai era questa specie di mostro da più di un mese, anche se faticava ad ammetterlo. Ormai uccideva per mangiare, per vivere, per non soffrire e Lucas era stato il suo mentore, la sua guida, il suo Mefistofele. Solo che adesso Lucas non c’era e l’unica cosa importante era trovare un posto tranquillo per farsi. Melissa si guardava le cicatrici tatuate al centro del braccio, poi strinse la cinghia e scelse la più viola, la corteccia degli occhi fissa al centro, infilò l’ago lentamente, con cura, senza troppa fretta, voleva sentire gli artigli della belva straziarle le budella, si mordicchiava le labbra, orbite bianche, sangue in ebollizione, cazzo questa si che è pura estasi!!! ... e dopo, non ricordava più nulla, non ricordava più nulla!!! Si risvegliò con la testa dolorante e la spada ancora conficcata nel braccio sottile, era svenuta, in qualche modo la roba aveva fatto effetto, insomma erano stati pochi minuti ma intensi quanto un viaggio di un anno, pochi minuti in cui aveva fatto strani incubi che però non riusciva a ricordare del tutto. Poi vide un ombra dalle vaghe sembianze umane svanire davanti ai suoi occhi, cazzo la testa, Melissa infilò le dita sotto i capelli neri per capire se c’era qualche taglio, la testa le pulsava... proprio sulla nuca, ogni volta che alzava lo sguardo le sembrava di vedere qualcuno, sapeva di non essere sola, poi si sentì afferrare, Lucas l’aveva colta di sorpresa, alle spalle, le accarezzava il collo baciandola sulla nuca, proprio nel punto in cui sentiva dolore. Oh! Dio che sollievo... “Devi smetterla con questa roba... non è questo il tuo destino, non devi avere paura di quello che sei” e passandole la lingua dietro il collo Lucas raccolse il seno piccolo tra le sue mani scaltre. “Chi sono?” chiese Melissa completamente in balia del fascino di Lucas, “devi dirmelo tu...dimmi cosa sono?” “Sei una donna bellissima, solo che fino ad oggi avevi perso la strada...ma ora” passandole davanti in un soffio; “ora è diverso. Non dirmi che non ti senti diversa, più forte, più viva...”. “Più affamata” sputò Melissa riponendo cucchiaio, spada e laccio nella sua grande borsa di pelle nera. Accendendosi una sigaretta Melissa si era detta che forse sì, forse Lucas aveva ragione, doveva smetterla di compatirsi. È vero, sono sola, ma non significa che questo schifo non possa cambiare! Poi posò gli occhi sulla camicia color cenere di Lucas e vide una pennellata di sangue sul collo spigoloso. Melissa ne sentiva l’odore, qualcosa dentro il suo corpo si rimescolava azzannandole le budella, alzò gli occhi in quelli rubino di Lucas, i capelli lisci e neri gli coprivano la fronte, il mento deciso, lo sguardo penetrante, emanava un fascino perverso che ogni volta le donava un potere assoluto, si ogni volta che Melissa parlava o solo guardava Lucas dritto negli occhi sentiva la fame arroventargli le viscere. La fame, la caccia, il potere... la fame, la sento, ecco arriva... la sento, devo uscire, cazzo devo uscire, mi sento soffocare... fame... fame... fame... Uscì sulla strada sempre più deserta, si appoggiò ad un’Opel Corsa parcheggiata per riprendersi dallo stato d’agitazione che l’aveva colta nei sotterranei. Via Filarete puzzava di cibo rancido e petrolio e la luna era invasiva come un cancro. Melissa aveva i sensi acuminati e due gatti in amore le torturavano le orecchie. Lucas la seguiva, adesso chiuso nel suo impermeabile nero, il passo furtivo, enigmatico come la notte, da più di un mese ormai quello strano affascinante oscuro individuo era entrato nella sua vita, l’aveva abbindolata, l’aveva posseduta, l’aveva morsa, e alla fine le aveva fatto vedere come fare, le aveva insegnato come uccidere, come nutrirsi, come sopravvivere... Certo Melissa si chiedeva perché proprio lei, perché l’aveva scelta, era stato un caso oppure era tutto premeditato? Un giorno o l’altro lei gliel’avrebbe chiesto ma non adesso, adesso doveva mangiare, doveva nutrirsi, doveva cacciare. La roba aveva placato i suoi tremori ma adesso doveva soddisfare la sua fame. I fari di un’auto in lontananza, la luce le dava fastidio agli occhi ma poi sul marciapiede di fronte avvistò l’ombra allungata di un uomo che a passo svelto si dirigeva verso casa. Lucas le sussurrò: “Adesso sai cosa devi fare” e prendendole il viso tra le mani fredde la baciò sulle labbra carnose e screpolate. Melissa chiuse gli occhi, sangue in ebollizione, cazzo, questa si che è pura estasi!!! ... e dopo... dopo... il corpo esangue di un uomo di colore, le labbra rosse, il loro sapore è diverso, il collo squarciato, le orbite degli occhi rivoltate all’indietro, una pozza di sangue, il potere, l’estasi, la pace... la fame era svanita, o meglio placata, per stanotte si erano divertiti abbastanza, Lucas strappò il cuore dal petto del cadavere e infilzò i suoi canini nella carne viscida, poi lo lasciò cadere spiaccicandolo sull’asfalto e afferrò la mano di Melissa tirandola a sé. Finalmente lei si sentiva bene, aveva ritrovato se stessa, abbracciò quello strano affascinante oscuro individuo che più di tutti l’aveva capita, e insieme svanirono nella notte orgasmica quanto le loro anime fameliche.

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LE BELVE SON TORNATE Conversazione tra Pierluca D’Antuono e Alda Teodorani Belve è uscito per la prima volta nel 2003, dopo Organi e Sesso col Coltello e prima di La Signora delle torture. Tutti libri che, mi pare, compongono una nuova fase di ripensamento, riflessione e maturazione della tua scrittura. Organi era un romanzo post-moderno, in bilico tra realtà e finzione, un manuale di scrittura anatomica in cui l’istanza autoriale coincideva e si fondeva esplicitamente con una esigenza narrativa evanescente filtrata attraverso una (auto) ironia e un sarcasmo che sono stati poco capiti e spesso fraintesi. Sesso col Coltello era una rilettura critica dei tuoi primi racconti fino ad allora inediti, che già evidenziavano i nuclei tematici che in seguito avrebbero caratterizzato la tua scrittura fino ad oggi. La Signora delle torture era un’operazione simile ma con scritti in parte già editi e corredati da tue note esplicative a fine racconto. All’interno di questo quadro, come si colloca Belve? “Come una nuova ricerca stilistica. Sono stata sempre una grande lettrice di fantascienza, e l’ho amata molto. Trattare temi fantascientifici era il mio sogno e pensavo di non essere in grado di farlo. Alla fine il romanzo non è proprio fantascienza, ma si è servito dei suoi stilemi per andare oltre il genere. In Belve, più che negli altri libri precedenti, c’è il mio modo di vedere le questioni sociali in maniera meno velata e soprattutto meno provocatoria e mi sono presa la possibilità di esporlo proprio perché non si tratta di un romanzo con un’ambientazione contemporanea: non amo parlare apertamente di politica nel mio lavoro di scrittura, poiché per me la realtà è una questione e la finzione è un’altra, insieme alla scrittura. Chiaro quindi che non avrei mai potuto trattare queste tematiche in un libro che narrasse una vicenda urbana e contemporanea, in un’ambientazione realistica. Diverso è il discorso di Belve: l’umanità è in declino e il Sud del mondo, alla lunga, sta vincendo. Non c’è niente che lo colleghi alla realtà contemporanea, Belve è soprattutto l’effetto di quel che l’uomo è stato, dei suoi comportamenti.” A mio avviso, uno dei capitoli più significativi di Belve è il quindicesimo, quello in cui Brin, dopo aver divorato Toby, si riscopre ancora affamata. In verità non ha necessità di cibo ma bisogno di uccidere, perché sta lentamente mutando, contaminata dall’ambiente di Cinecittà, “terra di assassini”. È allora che incontra Deborah, uno dei personaggi minori più importanti del libro, una prostituta sedicenne, immigrata clandestina, che scatena in Brin sentimenti ambivalenti, che vanno dalla pietà alla rabbia. Ciò accade perché Deborah, subendo un’aggressione da

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pastiche tre stupratori seriali, dimostra l’incapacità di gestire rapporti di solidarietà tra donne, rifiutando l’aiuto di Brin, ai cui occhi appare come l’emblema della donna degradata, schiavizzata, senza dignità, che non fa nulla per riscattare la propria condizione. È corretto dire che attraverso questo episodio suggerisci che la liberazione e l’emancipazione della donna è fondamentalmente uno stato di consapevolezza, che si realizza nel momento in cui, oltre a essere artefici del proprio destino, le donne si preoccupano di quello delle altre? “Verissimo. Deborah è consapevole del proprio destino di vittima e non fa nulla per uscire da quel circolo vizioso, nemmeno quando potrebbe salvarsi semplicemente chiedendo aiuto alla belva, che è una specie di suo opposto! Si offre invece ai suoi stupratori e mette in atto le tecniche della sottomissione come metodo per salvarsi, porgendo il collo come fanno i lupi: espongono la parte più vitale per segnalare che non aggrediranno più; è un gesto che significa: tu sei il più forte. Di fatto questo non la salverà; l’episodio di Deborah è un segnale molto forte che volevo dare alle donne, ‘chi si fa pecora il lupo se lo mangia’ diceva un vecchio testo di Dario Fo. Se una donna è debole, potrebbe facilmente non esserlo chiedendo aiuto a un’altra donna, eppure sotto le finte moine e le carinerie che animano le chiacchiere femminili io non vedo, non riesco a vedere, una reale solidarietà, ci vedo piuttosto una strenua difesa di diritti acquisiti che mi fa pensare più ai barboni che litigano per un pezzo di cartone con cui coprirsi o immigrati che si litigano un semaforo a cui chiedere spiccioli. La donna fa troppo poco per sottrarsi al suo ruolo di vittima, non denuncia gli stupratori nemmeno se sa che potrebbe capitare a qualcun’altra di essere a sua volta stuprata.” Cosa pensi dei tuoi colleghi che pubblicamente, o nei loro libri, prendono posizioni politiche esplicite? Te lo chiedo perché penso che la tua scrittura si presti da sempre a una interpretazione di tipo politico, sebbene indiretta. Quale pensi debba essere il rapporto tra intellettuali e cosa pubblica? “Non credo molto nelle dichiarazioni d’intenti così esplicite di chi ostenta la sua appartenenza politica, sono alquanto diffidente verso le persone che si schierano in certi particolari momenti. Di fatto non credo nemmeno all’esistenza di una vera cosa pubblica, ritengo che la nostra società sia essenzialmente una cosa “privata”, gestita da personaggi loschi che si dividono i loro guadagni speculando sulla gente. In tutto questo, il ruolo di una scrittrice come me deve toccare per forza dei punti dolenti, se non altro perché appena so che una cosa non va fatta, io la faccio subito, e poi perché sono comunque dotata di una coscienza sociale che mi fa credere che se io smuovo qualcosa, il mio gesto verrà osservato da un po’ di gente in più di quella che avrebbe osservato l’Alda non scrittrice, ritengo che gli scrittori, con le loro “balle”, le storie che raccontano, abbiano davvero la possibilità di rendere il mondo migliore.”

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STORIA NERA di Pierluca D’Antuono Mi prende da dietro all’improvviso con un colpo violentissimo e non respiro più. Ho paura. Sento il suo respiro caldo sul mio collo gelido e un brivido come una lama mi squarcia di lungo la schiena. Per terra, in ginocchio, mi tiene per i capelli con le sue dita nere e tozze e al ritmo di stantuffi spezzati sotto scarponi chiodati mi sbatte la testa sui binari marci e arrugginiti. I denti esplodono in frantumi, ingoio brani di lingua lacerata e vomito in una pozza oscura di sangue. Mentre allenta la sua morsa slacciandosi i pantaloni, tento di voltarmi per guardarlo ma il fruscio della cinta che scivola tra i passanti tuona nella mia testa come un’unghia su una lastra e allora ride di piacere e in un colpo con lo stivale mi spacca il naso che esplode (non era difficile) mi strappa i pantaloni chiudo gli occhi e aspetto (respira!) all’improvviso non accade più niente. Davanti a me sento gridolini di bambini e una voce morbida e infantile chiamare il mio nome dolcemente. Una carezza tenera mi ravviva i capelli insanguinati e mi culla con amore, non piango più e le ferite si rimarginano ma dietro di me sento ancora il suo sorriso che incombe, i denti d’oro brillare e il tanfo spaventoso delle sue mani sporche e oscure pronte a ricominciare. Ma è nella mia testa, così apro gli occhi per vedere e lui non c’è. E allora capisco. Ci sono solo due bambini, sono i figli dello zingaro che ieri sera Mattia ha pestato a Piazza Vittorio. Era sicuro che lo avessero scippato. Mentre lo prendeva a calci ho detto a un vecchio di chiamare l’ambulanza, poi ho preso Mattia e ce ne siamo andati. (respira!) Zoppicando si avvicinano incerti e di nuovo sento l’odore del padre. Mi guardano sorridenti e allora mi rendo conto di essere nuda. Ho paura ma penso che non possono farmi del male perché sono due bambini e hanno al massimo quattro o cinque anni.

Mentre lo penso si spogliano e si avvicinano sempre di più, mi spingono per terra e cominciano a toccarmi mugolando con furore. Le loro mani scivolano violentemente sul mio corpo, sono a testa in giù come prima, non riesco a urlare impietrita dallo stupore, non possono perché sono due bambini, e mentre uno dei due mi si para davanti per tapparmi la bocca, l’altro si toglie la protesi di plastica che ha al posto del braccio e mi allarga le gambe con forza, brandendo l’arto con eccitazione. (respira!) Un colpo solo, violentissimo, dentro di me è finita Quando sento la voce di Mattia che mi urla: respira! apro gli occhi e mi risveglio nel mio letto al suo fianco. Sono le sette, devo andare a scuola. Oggi torno al Kant per la prima volta dopo dieci anni. Maurizio mi ha incaricata di coordinare il Blocco per le prossime elezioni di istituto, che quest’anno, quasi certamente, vinceremo noi. È incredibile quello che è successo negli ultimi cinque anni nel mio vecchio liceo: l’unione degli studenti non esiste più e anche quei coglioni dei giovani comunisti sono praticamente scomparsi. Se penso che quando mi sono diplomata in tutto l’istituto eravamo in dieci mi viene da piangere. Appena sono entrata un’onda di nausea e terrore mi ha sommersa e per un attimo ho temuto di dover vomitare, quando ho attraversato il cortile affianco alla palestra. Mi è sembrato di vedermi proprio lì, sotto i portici, a fumare da sola come un’appestata dopo il solito litigio durante la lezione di storia, ogni volta che quello stronzo di Garinei mi chiedeva se preferivo uscire perché avrebbe dovuto spiegare la resistenza. Nel corridoio ho rivissuto la stessa orribile sensazione che provavo ogni mattina passando sotto le grandi porte ad arco di legno e vetro, che allora mi sembravano ghigliottine affilate


pastiche pronte a squartarmi, ma l’esecuzione veniva sempre rimandata perché chiunque nella scuola avrebbe voluto essere il mio carnefice, e ogni volta litigavano per ore su chi avrebbe dovuto avere l’onore, immobilizzandomi in un divenire d’ansia senza fine né avvenire. Vicino ai bagni mi si è fermato il cuore. Ogni ragazzo che usciva mi ricordava di lui e ho ritrovato il vortice di pena e ridicolezza che per cinque anni mi fu d’albergo. Allora ho ammesso quello che sapevo da quando Maurizio mi ha chiesto di tornare qui, il motivo per cui non dormo più e ho degli incubi spaventosi: ho paura del fantasma di Ciriaco, la vergogna più grande dei miei anni peggiori. Per cinque anni ho creduto di amarlo alla follia nonostante, da rappresentante d’istituto, avesse scatenato, con il consenso della preside e dei professori, la più infame pulizia etnica mai vissuta sulla mia pelle, che ci isolò completamente da ogni attività scolastica, sotto i sacri sigilli dell’antifascismo militante. Una crudeltà insensata e gratuita per cui ancora oggi alcuni dei nostri, i più deboli, quelli che non avevano abbastanza forza d’animo ed erano stati bocciati o si erano ritirati da scuola, ne pagano le conseguenze. Per me fu una manna dal cielo: capii definitivamente di non essere una di loro, e ammisi senza remore di essere quel che da sempre sono, probabilmente con molti nemici, ma di sicuro con molto onore. Ai ragazzi non va giù questa storia del coordinamento, non ne sapevano niente e mi hanno mandata via. Hanno fatto tutto da soli e sono stati bravissimi, non accetteranno mai il mio aiuto. Sono sicura che Maurizio lo ha fatto volutamente, so che mi ha dato questo incarico come punizione. Per la faccenda della lettera della scorsa settimana. Vado via prima di mezzogiorno, sono troppo stanca e non mi reggo in piedi, ho paura di addormentarmi. Via Cavour è in fiamme. Un oceano di nostre bandiere nere mi sommerge mentre i lacrimogeni esplodono e si confondono con

il fumo delle automobili che bruciano attorno a me. Un diluvio di sampietrini piove su di me squarciandomi la testa, dalle orecchie perdo materia cerebrale che mi scivola nella bocca, ma non fa male e ha un buon sapore di giovinezza al potere. Sono sola davanti alla basilica, mi guardo attorno ma non vedo gli altri e non ricordo come sono finita qui. È notte fonda, la manifestazione è imponente, il corteo incede immenso verso San Martino ai Monti distruggendo ogni cosa con violenza, sono a pochi passi quando all’improvviso mi circondano e si slacciano le cinghie brandendole contro di me. I primi che vedo sono Maurizio e Glauco ma a colpirmi è Ciriaco, tento di scappare ma è più veloce di me e quando mi raggiunge mi colpisce ancora, ora ha il volto di Mattia che mi guarda con rabbia e dice «[…] Con il coraggio e l’ardore di sempre, suggellammo con eroismo e onore una idea che da sempre e per sempre val bene una “strage” o presunta tale. Abbiamo sempre osato coraggiosamente e non ci siamo mai vergognati né pentiti, anche quando, specchiandoci nel riflesso vorticoso del sangue della nostra gente, la nostra comunità, una rabbia cieca e fiera animava il nostro spirito ribelle, guerriero e vendicativo. […] E a chi dei nostri figli, nell’incertezza del margine che occupiamo, dovesse chiederne timoroso la ragione, noi risponderemo, come un sol uomo,e per un unico motivo, la nostra idea: libertà e rivoluzione! » Il vostro Colonnello. Glauco non fa in tempo a finire di leggere che un applauso fragoroso rimbomba nella stanza delle assemblee del lunedì sera, rallegrando i tanti camerati accorsi più numerosi del solito, nonostante la tarda ora e il freddo, eccitati dalla lettera che il vecchio colonnello ha inviato per accettare l’invito all’incontro sugli anni di piombo. Qualcuno ha addirittura sentito dire che presto il colonnello potrebbe trasferirsi lì da loro nella sede storica dell’Esquilino. Sarebbe splendido. CONTINUA A PAG. 10

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“Lo stato mentale del fotografo nell’atto in cui crea è un vuoto. Il fotografo si proietta in tutto ciò che vede e con tutto si identifica per meglio conoscerlo e sentirlo”.

Di

fatto,

esplorare gli spazi vuoti significa svuotarsi e proiettarsi in una nuova dimensione, che non è la propria bensì quella altrui, esattamente come accade nella professione del fotografo.


pastiche

Il

reportage

dimostra

e

racconta

come gli spazi vuoti non siano poi cosí inconsistenti: essi svelano, anche se in silenzio, la storia che in passato li ha riempiti e svuotati, la storia che nei nostri giorni

li

lascia

momentaneamente

sospeso, immersi nel loro essere vuoti.

Il formato scelto, quello del provino a banda, non è casuale: il provino è la fase iniziale di lavoro per il fotografo, esso è selezione, correzione, presa di coscienza. È tuttavia una tappa momentanea ma fondamentale per il risultato di un progetto: il supporto diventa qui metafora, trasposizione materiale di ciò

che gli spazi vuoti sono e ciò che raccontano nelle foto stesse.

www.sarameloni.com e.sarameloni@gmail.com

in


pastiche (CONTINUA DA PAG.7) L’ esplosione di gioia lentamente si esaurisce, Maurizio sta per chiedere se ci sono domande, quando a un certo punto dalle prime file qualcuno si alza per prendere la parola. È la ragazza di Mattia. «Cos’è sta merda?» sibila fissando minacciosamente Glauco. Glauco sorride incrociando lo sguardo di Maurizio, mentre dalla stanza il brusio iniziale si trasforma in plateale contestazione. «Che cazzo hai detto? Come ti permetti, stronza! » «Glauco vaffanculo, mi dici cosa cazzo c’entra questa merda con noi?» «Con te niente, lo sanno tutti che non sei fascista!» dice Glauco soddisfatto girandosi verso Maurizio che scoppia a ridere, mentre i ragazzi in sala formano un capannello attorno a Linda, che sembra non accorgersi della loro pressione, finché non vede tra gli altri anche Mattia, che fino a poco prima era al suo fianco. «Testa di cazzo!» Linda tenta di scagliarsi contro Glauco che appena vede gli occhi della ragazza colore del sangue non ride più, impaurito. «Ora basta Linda, stai esagerando!». La voce cupa di Maurizio impone in un attimo il silenzio in tutta la stanza. «Sai chi è il colonnello, vero?» «È un ambiguo. Un vecchio stragista infiltrato. Ti basta?» «Lo sai che verrà a vivere qui tra pochi mesi? E a quel punto che farai, andrai via tu?» «Io non…» «Stai zitta Linda, adesso mi ascolti. Le cose che stai dicendo sono molto gravi, anche tu hai il dovere di raccontare e tramandare l’intera nostra storia in maniera non conforme e liberamente. Per questo abbiamo organizzato l’incontro della prossima settimana, e insieme a Mambro e Fioravanti ci sarà anche il colonnello, a cui devi il massimo rispetto!» «Ma che c’entrano Mambro e Fioravanti con il colonnello? Loro sono innocenti, quante volte lo hai detto pubblicamente tu stesso!» Una risata forte e liberatoria esplode nella stanza e ora tutti guardano Linda che per la prima volta sembra a disagio e vorrebbe scomparire. Ride anche Glauco, che ora fissa la ragazza con disprezzo, e non ha più timore del suo sguardo. «Sei proprio un’ingenua Linda! Ci sei o ci fai?»

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«Mi dici che cazzo ti ha preso oggi?» Mattia è arrabbiato e non mi guarda mentre tento di parcheggiare, dietro San Martino ai Monti. Sto cercando le parole adatte per spiegarmi, ma a un certo punto una sensazione di inutilità si impadronisce di me: sa benissimo cosa volevo dire. Sono anni che lo ripeto. «Credevo che fossi d’accordo con me» gli dico senza guardarlo. «Non puoi dire davanti a tutti ogni stronzata che ti passa per la testa, Maurizio e Glauco sono incazzati neri, sai cosa significa?» «Che mi ammazzano a cinghiate?» «Non scherzare! Ascolta…» Ora non lo sento più, ho solo voglia di dormire. Appena arriviamo davanti alla Tana delle Tigri esce dalla macchina senza salutarmi e corre verso Glauco e Maurizio. Stasera c’è il concerto degli ZetaZeroAlfa, il primo brano è Cinghiamattanza, per questo le donne non possono entrare, ma non m’importa, voglio solo dormire, domani devo svegliarmi presto per andare al Kant. E poi c’è la nostra manifestazione, non posso mancare. Mentre vado mi telefona Mattia. Maurizio ha detto che stasera mi fanno entrare. Il concerto sta per cominciare. Dice di fare in fretta, mi aspettano tutti, con ansia… Sono felice. La mia gente mi ama e io per loro farei ogni cosa. Torno indietro, di corsa. Non posso perdermi la mia canzone preferita.


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Nazichan

di Jacopo Marocco

Max è cotto. Lo vedo. Lo vedo da come si muove agitato, lo vedo dalla faccia che sembra spaurita, dagli occhi sporgenti e rossi, ma soprattutto, lo vedo da come si carezza nervosamente la testa, perfettamente tonda e rasata. Ha deciso che vuole andare a prendere qualcosa da bere al bar all’angolo, quello gestito dai cinesi. Io gli ho detto: “Col cazzo che ci vengo dai cinesi!”, e gli ho ricordato che anche lui li odia, i cinesi. Così lui ha detto che sì, è vero che odia i cinesi, ma che stasera gli è presa così, che quando è strafatto di anfetamine non sa dirsi di no e che se gli prende una voglia deve accontentarsi e che poi, ha continuato, non ci sono, nelle vicinanze, bar che non siano gestiti dai musigialli. Io ci penso su e, forse per emularlo, anche io mi carezzo la testa - mi piace sentire i capelli cortissimi che mi grattano la mano. Nel frattempo mi sparo un’altra botta di speed, l’ultima la lascio a Max - per inciso, ‘sta roba doveva durarci tre giorni, fino a capodanno, ma alla fine ce la siamo sparata tutta tra oggi pomeriggio e stasera - e alla fine deduco che sì, Max ha ragione. Max ha sempre ragione, soprattutto sotto anfetamine. So un cazzo com’è, ma è così. Allora mi allaccio bene l’anfibio destro, osservo la mia faccia slavata ed inespressiva allo specchio e dico: “Va bene, andiamo”. Non siamo entrati ancora del tutto nel bar, che Max già ordina due amari, due Fernet - che non ha pronunciato così, ma FeLnet, calcando sulla L. C’è un odore forte qua dentro. Non so perché, ma ogni posto dove ci sono cinesi prende quel loro cazzo di odore che è un misto tra la puzza di fritto e quella di sudicio. Anche qui, che è un bar, si sente odore di fritto e di zozzume - quando il bar era di Pietro, e noi ragazzini ci venivamo a giocare a biliardo, non puzzava così, certo, non profumava, ma di sicuro non puzzava in questa maniera. Dietro al bancone ci sono due ragazzine: cinesi, ovviamente. Avranno al massimo diciotto anni, e indossano entrambe un cappellino da Babbo Natale. Come si adattano subito questi musigialli del cazzo, penso. Una delle due cinesine ci prepara da bere: ci riempie fino all’orlo - giuro, fino all’orlo! - i bicchieri di Fernet, neanche fosse, chessò, Coca-Cola o un’aranciata. Max mi guarda, mi fa l’occhiolino e dice: “Cazzo, guarda, questi sarebbero sei di Fernet in un bar normale!” Io lo guardo spalancando gli occhi, cercando di fargli capire di abbassare la voce, così lui, sorridendo, dice: “Ma mica capiscono un cazzo, queste, di quello che diciamo!” e mi dà una pacca sulle spalle. Mi guardo intorno: nel bar, oltre a noi e alle cinesi, non c’è nessuno, d’altronde è tardi... anzi no, c’è un vecchio, uno delle parti nostre. Sta vicino ai video poker, addormentato su di una sedia. Davanti a sé, sul tavolo, diversi bicchieri vuoti. Max prende in mano il suo bicchiere, io il mio e, prima di brindare, mi si avvicina. Stavolta a voce bassa mi fa: ”Queste qua ci stanno...”. Di nuovo l’occhiolino. Io abbozzo un sorriso, piego le labbra all’ingiù, come a dire: Boh, non so. E allora Max mi dà un’altra pacca sulle spalle, e insiste dicendo: “Fidati, ci stanno, dai retta a me, io ‘ste cose le capisco al volo....” Non è vero manco per un cazzo. Sono sicuro, sicurissimo che ha frainteso: lui pensa che la cinesina ci ha riempito i bicchieri di Fernet perché le interessiamo, perché le piacciamo, e non semplicemente perché non capisce un cazzo di quanto sia la dose di amaro che va in un bicchiere da servire al banco. Max è convinto di essere irresistibile; senza neanche brindare, manda giù da bere in due sorsate. Io lo seguo e, mentre reprimo un conato di vomito, mi fa: “Una cinese non la toccherei nemmeno col cazzo di quel vecchio addormentato laggiù, ma tutta quella roba che ci siamo presi, beh, tutta quella roba m’ha messo addosso una certa voglia di scopare...” Ordina altri due Fernet. Io gli dico di aspettare a bere di nuovo. Gli provo a dire che è da oggi a pranzo che beviamo, che tiriamo e che ingoiamo pasticche. Lui dice solo: “E sii uomo, cazzo!” La cinese, neanche a dirlo, ha già riempito di nuovo i bicchieri. Fino al bordo, ovviamente. Con la sua amica musogiallo ci guardano di sottecchi e, ogni tanto, ridono sommessamente. Max se ne accorge, le indica col mento, e sorridendo mi fa di nuovo l’occhiolino. Poi prende i bicchieri colmi di Fernet - tanto che un po’ ne cade da entrambi - e me ne porge uno. Io, titubante, lo prendo. “Stavolta bisogna brindare, però!” “Va bene, a cosa?” chiedo io. “Al Duce” annuisco. Sono preoccupato. “Al Duce” diciamo quasi all’unisono sbattendo i bicchieri tra loro. Io ci metto energia con la speranza che cada più liquido possibile. Max, neanche a dirlo, ingoia tutto alla goccia. Io ci provo, ma il Fernet nemmeno è arrivato in gola, che sento tutto quello che ho dentro lo stomaco tornare su impetuoso, prepotente. Riesco a malapena ad appoggiare il bicchiere sul banco. Subito mi porto una mano alla bocca, bocca che cerco di tenere serrata il più possibile. Mentre le mie guance si gonfiano di vomito, corro,

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pastiche scattando sulla destra dove prima, entrando, ho visto l’insegna WC. Apro una porta, c’è un antibagno con un lavandino e uno specchio, lo oltrepasso con i rivoli di vomito che mi fuoriescono dalla bocca, dalla mano e scendono giù lungo il collo. Apro un’altra porta, senza riuscire a chiudermela dietro, e trovo il water, finalmente. Mi ci metto con la faccia sopra, tolgo la mano, e dalla bocca mi parte il più potente getto di vomito della mia vita. Sembro Linda Blair ne L’Esorcista, quando vomita addosso a Padre Kerras. Cado sulle ginocchia, e abbraccio il water. Non so se sia possibile, ma sento i capillari dei miei occhi e dei miei zigomi esplodere, tanto è lo sforzo. In un attimo di tregua del mio stomaco, sento qualcuno alle mie spalle, nell’antibagno. Sento confusione, rumore come di schiaffi, qualche mugolio. Mi giro, ma ho gli occhi pieni di lacrime dovute allo sforzo di rimettere, e non vedo nulla. Distinguo due figure, però. Poi sento una voce familiare, è quella di Max, che fa: “Su prendilo musogiallo, lo so che lo vuoi, è tutto tuo”. Sto per dire qualcosa, ma il vomito torna su potente e sono costretto a darci dentro di nuovo, non riuscendo più a sentir nulla. Quando finalmente mi sento vuoto, mi asciugo gli occhi con una manica del bomber. Sento qualcosa bagnare le mie ginocchia. Penso che sia un po’ di quel vomito che non ho centrato nella tazza, così guardo a terra, ma vedo che a bagnarmi le ginocchia non è vomito. No. A bagnarmi è un liquido rosso vivo. Un liquido tiepido. Un liquido che mi circonda piano piano. Mi giro di scatto, verso l’antibagno, e la prima cosa che vedo è Max, seduto per terra, con le spalle al muro, in una posizione un po’ storta: sembra uno di quei barboni ubriachi che incontri stravaccati a terra per i marciapiedi della stazione. Ha il mento appoggiato sul petto e gli occhi socchiusi. Dalla fessura delle palpebre, si intravede una sottile linea bianca. Dal naso gli scende un piccolo rivolo ematico, ma non è quello il sangue che arriva fin qui. Dallo stomaco di Max esce fuori un pezzo di stecca da biliardo. Se ne sta lì, bello dritto, come se fosse un’enorme erezione. Ed è da quella ferita, quella ferita che gli ha aperto la stecca, che esce il sangue che arriva fino a me. Poco più in là, vedo una cinesina in lacrime, e un’altra che sta dando piccoli calci al corpo esanime di Max, urlando qualcosa in cinese. Credo che Max sia morto. Non riuscendomi ad alzare - vorrei tanto ma non ci riesco -, cerco, da dove sono, di girarmi ancora di più, per avere una visuale maggiore, migliore. Così vedo il vecchio che prima dormiva di là sulla sedia, ora in piedi a pochi passi da me. Mi guarda fisso negli occhi. Il suo sguardo è inespressivo. In mano ha l’altro pezzo della stecca da biliardo. È la parte iniziale della stecca, quella dove si impugna, quella con maggiore circonferenza. Se la porta con entrambe le mani sopra la testa, per caricare il colpo. Si ferma un istante e dice: “Nazisti di merda!” Ed è l’ultima cosa che sento. (jacopomarocco.splinder.com)

BLITZRECENZION di S. H. Palmer Il silenzio è sensuale Potrebbe stare in silenzio per giorni. Mentre le gridi nell’ombelico: “TI impiccherò, un giorno, alle mie terminazioni nervose”. 12

(shanduziopalmer.tumblr.com)

http://www.youtube.com/watch?v=hex6IErt9do


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OGNI VOLta è come la primA volta! di Paolo Battista

Me so stancato de fa li furti, brontola Gianni con la gola ficcata nel becco della Peroni, adesso che finisce st’agosto ho deciso che me faccio quarche rapinetta cor povero Schizzetto che pure lui sta peggio de me. E intanto arriva Giorgio, con una maglia a righe bianche e celesti e un jeans strappato sul ginocchio destro, che come un Pollicino tossicomane lascia dietro di sé i resti di una scatola di Rivotril che ha appena finito d’ingurgitare. Devo pure portaje un par de piotte ar negro pe la coca che ho preso l’artra settimana, continua Gianni, …basta co ste bottije, ‘nsomma basta che ce vestimo e poi chi ce ferma, c’avemo pure li mezzi, sia la machina, sia er du rote che anzi cor casco è pure mejo che nun te vedono pe gnente, dice gridando più del solito tanto che devo allontanarmi di qualche passo per non beccarmi spruzzi di saliva sulla faccia. Ma che cazzo stai addì? Nun lo vedi che se finisce sempre allo stesso posto, sbotta Giorgio pensando alle carceri superaffollate di Rebibbia dove sono rinchiusi molti dei suoi amici, manco la finisci da fa ste cazzate. Anvedi chi parla, strombetta Gianni colpendolo con un pugno preciso al centro del petto, sei er peggio ladro de Roma e te metti a ffà la morale. E poi ce vole er fero, vomita Giorgio che inizia a grattarsi sul braccio dove un drago lecca vecchie e nuove cicatrici d’aghi arrugginiti. Io ripenso alla prima pistola che ho toccato in vita mia e faccio partecipi gli altri: stavo con uno sbirro amico mio, un certo Claudio Renzulli, sopra una montagna a sparare agli alberi. Che cazzo, sputacchio, non c’avevo manco quindici anni e sto Claudio che smaniava come per i provini di Tango e Cash facendo saltare cortecce e topi di campagna. Solito atteggiamento da sbirro superboEprepotente: mi stava proprio sul cazzo, e chiudo il raccontino ghignando come un oscuro Black Blok che odia i poliziotti. Poi saluto Lisa che sembra rotolare come una palla da bowling mentre Gianni deciso e agitato ci tiene a dire che lui nun se preoccupa der fero, dice che Schizzetto sa come movese e comunque se proprio er compare nun je la fa a lui nun je frega ‘n cazzo pecchè in un modo o nell’artro saprebbe come trovallo e soprattutto saprebbe com’usallo. Così mi appoggio di culo su una Fiat Punto impolverata e mi specchio nel vetro del

finestrino ma non è un bel vedere. Due occhiaie mi devastano la faccia bianca e pelosa e la lingua sembra un pezzo di merluzzo cotto in padella. I capelli sbarellano come corde spezzate di una chitarra e l’occhio destro è segnato da venuzze rosse e ribelli. Lisa si avvicina e dice che da più de n’anno nun tocca robba né coca ma oggi se sente strana, e quasi quasi se pija ‘n pezzo, anche se sarebbe mejo dividesselo pecchè li sordi nun abbasteno mai, e strizza gli occhi come per sottolineare questo suo messaggio in codice. Stringe la bottiglia nella sua piccola mano ciotta e le unghie sono incrostate di sporco tanto da sembrare smalto nero. Indossa una maglietta larghissima con la faccia rossa di Che Guevara. Mi guarda e fa: tu che dici? te va de pija quarcosa ‘nsieme? Io c’ho dieci euro, le rispondo spulciandomi nelle tasche, anzi no undici, aggiungo dopo un minuto, anzi no tredici, infilando le dita nella tasca abissale e poi, ormai preso dalla voglia sparo: chiamo io! Gli dico se me lo da pe trenta euro. Così mi allontano di qualche passo e faccio la chiamata. Chiaramente il negro non fa problemi e ci avviamo per via Filarete aspettando lo squillo definitivo per la punta. Ma da quant’è che non ti fai?, le chiedo un po’ preoccupato mentre evitiamo pezzi di merda grossi come zucchine sparsi sul marciapiede e Lisa sentendo la mia sincera domanda mi confessa che nun è vero che nun se fa da n’anno. Io, dice, nun gliel’ho fatta e so un par de settimane che me sto a ribucà. E tutta corpa de quella stronza de mi sorella!

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Poi arriviamo dal negro e prendiamo la roba. Da un lato sono felice che non decida di rifarsi dopo tanti anni proprio con me ( anche se felice non è la parola giusta ) così ci buttiamo al solito posto, sotto il garage del supermercato e inizio a scaldare l’occorrente. Mentre sto squagliando la roba le chiedo che c’entra sua sorella e Lisa mi guarda come una star sorpresa da un paparazzo, poi passandomi la pompa vuota per farla caricare mi dice che da quanno la madre se n’annata all’artro monno lei nun gliela fa a occupasse de tutto e che la sorella più piccola se comporta da stronza che certe vorte vorebbe pijalla a pizze ‘n faccia. Che storia dimmerda, sputo io infilzandomi la vena destra gonfia sull’avanbraccio. Lisa fa lo stesso bucandosi sulla mano piccola e grassa: che spillata!, sbotta togliendosi la pompa dalla mano. Poi raccogliamo i nostri arnesi e li gettiamo nel primo secchio dei rifiuti, torniamo verso l’arena barcollando al semaforo in attesa dell’omino verde. Una Mercedes squilla le sue trombe, una moto per poco non c’investe, un gruppo di bambini caga spensieratezza e per un attimo il sole svanisce dietro una grossa nuvola disegnata a matita. Davanti al Ser.T c’è Giulio con la sua casacca arancione fosforescente che strimpella come una chitarra heavymetal. Ho la gola secca e le tasche vuote, mi avvicino e gli chiedo da bere. Fanculo, mi dice e poi mi allunga la bottiglia. Me so rotto er cazzo, grugnisce, me so rotto er cazzo, sti pezzi demmerda nun fanno artro che rubasse sordi dalla busta paga! Adesso se pijano n’artri venti euro de tasse der cazzo, ma io me devo da fuoco ‘ncatenato davanti ar cancello de la ditta, me so rotto er cazzo de scopà la merda che la gente zozzona molla pe strada e a la fine de famme pure ‘nculà lo stipendio nun ce penso propio, e si ripiglia la Peroni sbavandosi sulla casacca. Poi arrivano Bruno e Chiara da una parte e Orazio e Gigetto dall’altra. Si fermano davanti all’Opel dell’Unità di strada che intanto si è parcheggiata con il suo carico di pompe, fiale, preservativi e conforto. Anna distribuisce siringhe e aghetti come una cazzo di benefattrice e così come sono arrivati, Bruno Chiara e Orazio si trasferiscono nel parchetto alle spalle del Ser.T. Solo Gigetto resta, perché è una vita che non tocca roba, preferisce farsi du’ schioppi de birra e come ogni mattina si accovaccia sullo scalino poggiando le spalle rinsecchite sulla saracinesca arrugginita. Intanto Giulio continua il suo sfogo pisciando imprecazioni contro il suo fottuto lavoro di operatore ecologico ma io sono fatto, ho la testa in orbita, gli occhi mi si chiudono e le parole mi girano sulla testa come uccellini della Disney. A Pierpà l’hai sentito l’urtimo pezzo de li Red Hot? mi fa Gianni tirandosi su i pantaloncini. Sono una banda di froci, sbotto io antipatico e cago che da anni non fanno un album decente. Che cazzo stai addì!, esclama Gianni che gira le pupille per il nervoso, se so la mejo banda americana, ma il suo gusto musicale è molto labile perché passa dai Red Hot a Gigi D’Alessio, dai Guns & Roses a Marco Carta di Amici ficcandoli tutti nello stesso fottuto contenitore, quindi lascio perdere e cerco di mettere insieme un euro per comprare una birra. Non è una cosa tanto facile, ma alla fine ci riesco e mi siedo al fianco di Gigetto sullo scalino stretto e spigoloso del China, sorseggio la mia birra ghiacciata, accendo una siga gentilmente offertami da Lisa e resto dieci minuti in silenzio a pensare che dovrei smettere di fumare e a osservare la gente che urla, che canta, che si gratta i coglioni, che si trucca, che si bacia, nelle loro quattroruote sulla sempre incasinata via Casilina. Vedo una donna con la faccia da ippopotamo infilarsi il grosso indice nel piccolo naso rosa, un altro guidatore con la faccia da merluzzo attaccato al volante, un coppia travestita da pinguini, un uomo sudato come una foca che parla da solo: lo zoo è aperto, come ogni giorno pronto da visitare, le strade sono piene di bestie depresse e nevrotiche, scolo la mia birra e mi godo lo spettacolo ( e anche la mia roba ). Da qualche giorno non sento Silvia e la palle mi fanno male. Ho voglia di vederla e di scopare e quindi la chiamo per sentire cosa fa. Mi dice che se voglio stasera posso raggiungerla, lei resta in casa perché c’ha da fare ed io sono contento di sentirglielo dire. Ultimamente le sto rendendo la vita impossibile, con le mie cadute di stile e le mie ansie letterarie. Ci sono giorni in cui mi sento così depresso da rasentare l’euforia, quasi può considerarsi una sorta di abissale felicità all’inverso, non so neanche io che cazzo voglio dire, so solo che certi giorni vorrei strapparmi il cuore dal petto! Poi vedo un gabbiano planare nel cielo pieno di cacatine grigie ma la testa mi gira come una compagnia di ballerini depilati e col pacco prominente. Devo pisciare e mi alzo per nascondermi dietro il secchione metallico dei rifiuti ma una gomma mi si è attaccata sul culo e bestemmio per staccarla. Giorgio mi raggiunge pecchè dice chi nun piscia ‘n compagnia o è ‘n ladro o è ‘na spia, e a due passi l’uno dall’altro armeggiamo con i nostri compagni bitorzoluti cercando io di centrare una lattina ammaccata di Fanta e lui un pacchetto appallottolato di Ms.


pastiche Pecchè nun famo a chi ariva più lontano, bela Giorgio che prende nuovamente la mira e questa volta cerca di centrare lo scheletro di una lampadina morta sull’asfalto. Io accetto da uomo d’onore quale sono ( o forse solo da uomo del Sud ) e la sfida ha inizio. Giorgio spisciazza un getto rigido e deciso, il mio invece è più basso e curvo. Solo che dopo esserci riempiti le scarpe di urina decidiamo che è ora di finirla. Giorgio alza le mani in segno di vittoria lasciando sventolare il suo uccello scapocchiato che sgocciola a destra e a sinistra. Mettilo dentro, gli dico che le signorine ci guardano, e vedo due polacche smaniare sorrisini concentrate sui nostri bei cazzi tossici. In realtà una non è niente male, quella coi capelli corti e biondi e due tette da pornodiva, ma arriva il 105 che le risucchia entrambe come un Folletto di ultima generazione. Cazzo, sputa Giorgo, è da du’ mesi che vado ‘n bianco, e quella troja de mi moje nun vole sapenne. Mi sa che stasera me ne vado da ‘na battona de Centocelle e me scarico li cojoni. Ma non era… EX…moglie? gli chiedo stuzzicando ancora di più i suoi giramenti di palle. Poi però torno sulla battona di Centocelle: quanto si pija? gli chiedo curioso di sapere quali sono i prezzi di una puttana nell’epoca della globalizzazione. Ma nun lo so, balbetta, me pare trenta de bocca e cinquanta de fica, poi se te piace er culo n’accordo sempre lo trovi. Tra l’artro è pure romana de Roma, e cosa più importante… c’ha du’ ziZZE FAVOLOSE, grosse quanto du’ meloni. Io invece me ne vado da Silvia, gli confesso e lui mi guarda come a dire beato te a fijo de ‘na mignotta che ancora c’hai chi te s’encula. Intanto Gigetto è sempre seduto sullo scalino lurido del China che ascolta i Queen dalle sue cuffiette rosse, Gianni parlotta con Anna che stranamente fa di tutto per aiutarci anche se lo stipendio è da schifo, Lisa guarda Giorgio e grida: ma fracicone, nun vedi che c’hai la patta aperta, e bela come una puledra presa a calci in culo da un contadino. Ma che te frega, ribatte Giorgio grattandosi i coglioni, che voi: te va n’assaggio? Ma Lisa ridacchia e ancora stralunata dalla botta di prima lascia andare la testa all’indietro, si gratta sulle guance verdi e infine con una voce gutturale esclama ma vattela a pija ‘n d’er culo, bastardo! Ma chi te se pija, sbrocca Giorgio che poi appena vede Orazio arrancare come Pietro gamba di legno gli si fa incontro alzando il pugno minaccioso. A pezzo de merda, gli urla, avevi detto che me chiamavi pe famme fa du’ liniette! Aspetta e spera ma la prossima vorta nun me venì a rompe li cojoni che se ne no te spacco l’artra gamba. Allora Orazio trascinandosi fino all’ombra dell’unico albero presente sul marciapiede geme che già stavano ‘n tre, e si asciuga il sudore usando la maglietta bianca come un asciugamano. Poi Giulio che da solo ha bevuto più di noi tutti messi insieme ci saluta e inciampa, cerca di appoggiarsi al muro ma il muro sembra prenderlo per i fondelli: si sposta, svanisce: stavolta proprio non ce la fa. Vomita tutte le pennette che aveva mangiato la sera prima e poi come se niente fosse si ripulisce sballonzolando lento verso casa stringendo un cartoccio di Tavernello nella mano. Lisa vestita con un jeans troppo corto e delle grosse scarpe da ginnastica di marca indefinibile mi dice che ancora nun se sente la capoccia, che la robba de prima era ‘na favola ma che nun deve pensacce troppo, e manco a farlo apposta arriva la sorella più piccola, vestita come una mignotta ma dagli occhi impauriti, e iniziano a discutere come due vicine di casa che si odiano imprecando e alzando la voce ogni due/tre cazzi. La piccola Cabiria deve avere ventanni, anche lei ha i capelli castani come la sorella solo che le palle degli occhi sono verdi e non celesti. Mi pare di capire che la piccola vuole vendere la casa e vivere per conto suo mentre Lisa ancora non se la sente. Sono mesi che discutono e litigano o peggio ancora se le danno come due lottatrici nel fango ma un giorno o l’altro la povera Lisa sarà costretta a cedere. E addio ultimo residuo di famiglia! Dopo un po’ ci beviamo la birra della staffa, poi Gianni schizza via con un pacco di pompe e fiale gentilmente donati dall’Unità di prevenzione e soccorso, Giorgio si butta nel 105 perché non ha voglia di fare neanche i cento metri che lo separano dalla casa dei suoi, la piccola Cabiria se ne va ancora gesticolando e blaterando come un cagnolino spaventato ma aggressivo, Orazio zoppica in direzione della Marranella perché forse c’ha ancora da svoltare, Gigetto si spinge nel parco pe fasse ‘na pennichella pomeridiana ed io mi allontano guardando Lisa addormentata con la testa piegata in avanti. Nessuno cerca di svegliarla, ma ogni volta è come la prima volta, è la botta!, e nessuno ha il diritto di rompere il cazzo quando uno si sta facendo il suo fottuto viaggio nei dannati dintorni della morte……o forse si!!! (CONTINUA)

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PASTICHE è pensata e redatta da Paolo Battista e Pierluca D’Antuono. Grafica e impaginazione: Milena Pascale. Per ricevere a casa PASTICHE in abbonamento (costo 10E) scriveteci a: pasticherivista@gmail.com indicando nome e recapito. Per inviare il vostro materiale (poesie, racconti - lunghezza da concordare - disegni, foto b/n, contributi vari) scrivete a: pasticherivista@gmail.com paolobattista76@gmail.com oppure all’indirizzo: Paolo Battista Via F. Laparelli 63 00176 Roma www.facebook.com/pasticherivista


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