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mensile gratuito • Dicembre 2011
n°2
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Renato Florindi - San Nicola Bastard
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Famiglia, stato, chiesa e mercato: è dicembre il mese più crudele, altro che aprile. E per rispettare la tradizione, noi di PASTICHE a natale siamo tutti più cattivi. In questo numero continuiamo la spietata pubblicazione a puntate (ormai al terzo capitolo) di Siamo tutti figli di Caino, romanzo popolare, tra introspezione e cronaca di violenza suburbana, di Paolo Battista e recuperiamo dal passato il primo estratto del sadico Apocalyptical Marshmellow Crunchers, l’opera maggiore di S.H. Palmer, la nostra poetessa distruzionista preferita, morta a San Severo il 27 dicembre 2004. Nel festeggiare il ritorno del pluriomicida Luca Carelli (che il Tribunale di sorveglianza di Bologna aveva bloccato per il primo numero) e del gelido sguardo di Chiara Fornesi (con parte del fotoreportage T.A.Z.), introduciamo i lavori dell’oscuro Renato Florindi, autore delle feroci immagini delle copertine, del blasfemo Luca Antonini (di cui pubblichiamo la prima parte de La lettera, che ci accompagnerà anche nei prossimi mesi) e di Fabrizio Manuguerra, dalla cui raccolta Racconti bislacchi di giornaliera apoteosi pubblichiamo un frammento da crepacuore. Fortuna che di lì a poco venne gennaio… PASTICHE è anche on-line: la versione elettronica del numero 1 ha ricevuto quasi duecento visualizzazioni nei primi due giorni di pubblicazione. Ogni mese troverete, una settimana prima dell’uscita cartacea (che rimane il nostro canale privilegiato), il pdf del nuovo numero (http://issuu. com/pastiche) e l’ebook (su http://www.epubbud.com). LEGGETE, CONDIVIDETE, SCARICATE E DIFFONDETE! 2 Editoriale 3 S. Nicola Bastard e il bambino (Paolo Battista) 4 Francesca (Luca Carelli) 6 La lettera – parte I (Luca Antonini) 7 BLITZRECENZION: Un ago nel pagliaio (S.H. Palmer) 8 T.A.Z. (Chiara Fornesi)
10 Che non si lasci andare del tutto! (Paolo Battista) 13 Ich habe mir einen intravenösen Traumblitz gegeben – I puntata (S.H. Palmer) 14 Francesca Coco avrà la sua rivincita su Foggia (Pierluca D’Antuono) 15 Dell’amore e del mio/cardio altrui (Fabrizio Manuguerra)
PASTICHE è pensata e redatta da Paolo Battista e Pierluca D’Antuono. Grafica e impaginazione: Milena Pascale. Per ricevere a casa PASTICHE in abbonamento (costo 10E) scriveteci a: pasticherivista@gmail.com indicando nome e recapito. Per inviare il vostro materiale (poesie, racconti - lunghezza da concordare - disegni, foto b/n, contributi vari) scrivete a: pasticherivista@gmail.com oppure all’indirizzo: Paolo Battista Via F. Laparelli 63 - 00176 Roma www.facebook.com/pasticherivista
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S. NICOLA BASTARD E IL BAMBINO di Paolo Battista Il bambino faceva finta di dormire e con gli occhi socchiusi fantasticava sui regali d’aprire. Così la notte del ventiquattro, quando tutti erano già nel mondo dei sogni, scese dal letto cercando di fare meno rumore possibile e si diresse verso la bocca incenerita del camino, nel grande soggiorno della casa addobbato con un vivace albero di Natale pieno di palle dorate, palle argentate, palle blumetallizzate e svariati angioletti dalle palle celate. Mancavano pochi minuti a mezzanotte e il bambino si nascose dietro il grande divano bianco aspettando di sentire qualche piccolo rumore provenire dal camino. Indossava il suo pigiamino preferito, quello bianco e blu con la faccia di Goku che spara la sua potente sfera energetica; e se ne stava li, seduto con le gambine incrociate, pensando che forse non era proprio una buona idea ma che tanto i suoi genitori non l’avrebbero mai scoperto. E poi non riusciva a credere che una figura così grassa potesse passare attraverso la canna del camino. Certo la notte gli faceva paura…notte fonda e senza tempo! Era spaventato ma il desiderio di ricevere nuovi videogiochi o chissà quale altro bellissimo regalo gli dava il coraggio di restarsene accovacciato e aspettare. Sentiva il buio farsi sempre più fitto, lo sbattere continuo dei suoi piccoli dentini, ma decise comunque di restarsene appollaiato nel suo nascondiglio improvvisato. La mamma, il papà e il piccolo fratellino appena nato spesso piagnucolante dormivano da un pezzo, ombre allungate ghignavano nella casa, spruzzi di luce gialli, rossi, verdi e blu si frastagliavano sul pavimento scuro, un vecchio quadro sistemato sopra la parete di fronte e raffigurante un antico soggetto sacro pieno di figure smarrite gli dava i brividi, e tra l’altro il freddo iniziava a farsi sentire e s’infiltrava silenzioso da sotto la porta, ma il bambino continuava a restarsene immobile respirando velocemente, in attesa di spiare la grassa figura mascherata che i suoi genitori gli avevano insegnato ad amare e temere allo stesso tempo e che da un momento all’altro sarebbe dovuta comparire dinanzi ai suoi occhi luccicanti e assonnati. Solo che senza rendersene conto chiuse le palpebre cadendo in un sonno profondo, e stretto in posizione fetale rincagnò le ginocchia al petto implodendo in lunghi respiri stanchi. La curiosità l’aveva sfiancato e dato che di solito, vista la sua giovanissima età, andava a letto molto prima della mezza, non fece in tempo a spiare quella figura barbuta che da mesi attendeva con ansia. Con un costume rosso dai pantaloni incartapecoriti sporco di pizza mangiata poco prima, Babbo Natale buttò giù il quarto dei suoi Bloody Mary e si diresse per il vialetto incespicando in una grande siepe verde guarnita delle solite scritte natalizie che lui tanto odiava. Una volta entrato nella casa, cercando di fare tutto in silenzio, per quanto gli era possibile, Babbo raggiunse la cucina, aprì l’anta del frigo e raccolse una birra in lattina scolandosela d’un fiato, senza accorgersi del bambino che ormai dormiva come un sasso disteso sul pavimento: magari sognando i bei regali da scartare l’indomani! Dopodiché Babbo salì al piano superiore, fece un rutto silenzioso per lo sforzo e infilò nel suo saccone rosso tutti gli oggetti di valore che gli capitavano davanti: orologi, gioielli, portafogli, telefonini… poi ridiscese le scale e prima di andarsene svuotò anche il soggiorno (compreso il quadro) e solo in quel momento si accorse del bambino. Ruttò nuovamente per la sorpresa, poi s’inginocchiò e avvicinandosi al suo piccolo orecchio, gli sussurrò: «Hai fatto il bravo? Piccolo impertinente impiccione?» Il bambino riuscì solo a muovere la testa in un gesto d’assenso, poi ascoltò Babbo ciarlare: «Io non ne sono tanto sicuro, e se terrai chiusi gli occhi fino a domattina forse ti lascerò un bel regalino, ci siamo capiti?» Così il bambino, impaurito stanco e obbediente, vide quella grossa figura rossa uscire dalla porta (non prima di essersi scolato un’altra lattina dal frigo). Ma era stata come una specie di visione o era tutto reale? E al mattino, quando aprendo gli occhi sentì la mamma strillare da sopra, pensò che forse ce l’avevano con lui. Poi si guardò intorno, sentì anche suo papà gridare: «Cazzo, è entrato qualcuno stanotte», ma il bambino non disse niente, si diresse verso l’albero cercando il suo pacco regalo ma non c’era nessun pacco o pacchetto o pacchettino o contropaccotto, in realtà non c’era più neanche la solita roba che da sempre era abituato a vedere. Capì che qualcosa non andava e solo allora nella confusione generale piagnucolò: stanotte mi è sembrato di parlare con Babbo Natale…e puzzava di birra, ma poi girando la sua testolina castana verso l’albero solitario e insolitamente sgombro di regali pensò: forse sono solo un bambino cattivo, solo un bambino cattivo!!!
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FRANCESCA
di Luca Carelli
8 settembre 1980 Siamo a Bologna da due giorni ma ci sembra già una vita. […] Per ora abbiamo trovato una stanza fuori dalle mura, in Via Fioravanti […] Mara è felice e radiosa, ieri per strada abbiamo visto Lucio Dalla (che usciva da una farmacia con un tredicenne alto e muscoloso) e Guccini ubriaco fradicio (ma forse era un barbone). Abbiamo riso per tutta la sera e ovunque respiravamo un’aria elettrizzante […] Abbiamo cenato in una osteria (che secondo Mara è la stessa di Altri Libertini) dove abbiamo trovato un afgano buonissimo pagato due lire, e poi siamo tornati a casa a piedi, sconvolti e contenti. Mara è bellissima e sento di amarla sempre di più. Tra di noi è così intenso che a volte mi sembra di stare insieme a lei da pochi mesi, e non da sei anni. I problemi dell’inverno scorso sono solo un ricordo, andare via da Pescara è stata la cosa migliore che potevamo fare. Abbiamo fatto l’amore per tutta la notte ed è stato stupendo, piangevamo e ridevamo e urlavamo come matti […] Mara è tutto per me, senza di lei non esisto. Qui con lei mi sento protetto e al sicuro. Non ho più intenzione di toccare quella merda che stava per dividerci. La mia arte sta per esplodere, lo sento. 4 novembre 1980 […] Appena finito il trasloco nel monolocale che i miei hanno comprato in Via Santo Stefano, non lontano dall’università […] Mara è raggiante, finalmente abbiamo una casa tutta per noi […] Stamattina sono cominciati i corsi, il DAMS è esattamente come lo immaginavo: tutto è arte e creatività, non solo le opere, ma anche i gesti, le parole, le movenze, gli abiti e le espressioni serie e severe. Non esistono gerarchie né autorità, e l’autorevolezza è il principio fondante su cui si basa la vita universitaria, […] unica regola che si incarna nella produzione di senso che non prevede limiti né barriere di ruolo. Da quando sono qui sto dipingendo come mai prima d’ora: ogni notte, è come una febbre, non dormo più ma sono contento. Mara scrive regolarmente, sta lavorando per l’Erba Voglio e ha quasi finito il suo primo romanzo. Abbiamo orari diversi, ci vediamo poco ma siamo felici […] 17 dicembre 1980 Mara è partita stamattina, è tornata a Pescara con una settimana d’anticipo. È colpa mia, ieri sera non dovevo farmi trovare a casa come uno zombi! So che quello che dice è assurdo, se mi faccio una volta ogni tanto è soltanto per dipingere meglio e vivere con più intensità e consapevolezza la mia arte. Ma questo lei non può capirlo […] Due giorni fa ho conosciuto un pittore di Trento, un dadaista perso, molto interessante. Ha una roba favolosa e da quel che ho capito fa parte degli enfatisti, il movimento della Alinovi. Non so quasi niente di loro, devo scoprirne di più […] 21 febbraio 1981 […] mentre scrivevo all’improvviso una nebbia è calata rumorosamente sulla città, ma solo io potevo vederla posarsi elegantemente sulle mura e sulle torri, infilarsi nelle guglie dei portici e scivolare come una fronda nei portoni oscuri e tetri del quartiere. La spiavo sinuosa e seducente dai vetri opachi della mia stanza mentre pensavo a Francesca e allora ho capito che nulla accade mai per caso […] l’ho incontrata per la prima volta questa mattina, al suo corso di estetica […] ero in piedi appoggiato al muro come un vestito sgualcito impiccato a un appendiabiti sfondato e guardavo i suoi capelli cotonati, corvini come le sue labbra, mentre lei mi fissava con un’intensità che solo in parte mi lusingava perché in realtà mi impauriva […] nei suoi occhi ho visto una luce, il bagliore delle mie ambizioni, che da allora hanno smesso di essere sterili illusioni […] Francesca è il mio futuro, l’avvenire della mia arte […] 7 giugno 1981 Ho paura di Francesca, sono diventato la sua ossessione. Vuole avermi ad ogni costo in modo totale ed esclusivo […] ma io non posso fare l’amore con lei perché per me c’è solo Mara […] e poi non provo nessuna attrazione fisica per lei […] (che è) l’amica di Basquiat e Wahrol, la mia insegnante, la mia mecenate, nient’altro che l’avvenire della mia arte […] la riconoscenza che serbo nei suoi confronti ci ha permesso di passare momenti belli e intensi, che lei fraintende e manipola abilmente, da donna forte e geniale qual è, costretta a nascondere al mondo intero (ma non a me) una fragilità spaventosa e frustrante. Alla festa di C******* ieri sera voleva a tutti i costi fare l’amore con me, era imbarazzante, ma io ero troppo fatto e pensavo a Mara […] esasperato, ho baciato platealmente C******* perché lei pensasse che sono gay […] 20 dicembre 1981 L’eroina mi sta divorando, mi allontana da Mara e mi lega perversamente a Francesca […] devo vendere i miei quadri perché ho bisogno di soldi, solo Francesca può aiutarmi […] ieri ha cercato di lasciarmi e allora ho dovuto simulare una crisi di gelosia […] l’ho picchiata
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davanti alle sue amiche e più tardi a casa l’ho minacciata con il coltello [...] Ha avuto paura, ma nei suoi occhi c’era come un sollievo, la conferma del mio amore, che non esiste, non è mai esistito e mai esisterà, se non nella sua testa malata. […] Siamo stati insieme tutta la notte, molto dolcemente, è stato bello e mi sentivo bene finché non ha insistito per fare sesso […] mi ha quasi stuprato […] poi ho fatto finta di addormentarmi. 6 novembre 1982 Sono ormai due mesi che siamo a New York, domani finalmente torno in Italia. Non vedo l’ora di rivedere Mara, e se penso che manca solo un giorno mi viene da piangere come un bambino […] Ma questo viaggio è stato importantissimo per la mia carriera: sono ufficialmente l’unico enfatista presente qui al Guggenheim, nel catalogo della mostra di Francesca. Mi sembra un sogno, ma è tutto vero: i miei quadri tra quelli di Keith Haring e Basquiat (che ieri sera mi ha offerto la migliore roba mai provata in vita mia)! […] Con Francesa sempre uguale, a tratti penso di essere ormai abituato alle sue insistenze, e di poterle sopportare: è allora che mi rendo conto di dipendere completamente da lei […] Appena in Italia troncherò definitivamente, la mia arte non ha più bisogno di lei. Voglio smettere di farmi e lasciare Bologna. Voglio diventare ricco e famoso e dipingere per sempre. Voglio sposare Mara e amarla per tutta la vita. 9 marzo 1983 Ho finalmente parlato con Francesca. Le ho detto che non possiamo più andare avanti così e che tra noi non c’è che un’amicizia intellettuale. Mi fissava con un sorriso sarcastico, come se lei fosse me e io lei. Alla fine piangevo lacrime dolci di gioia e sollievo, pensando alla fine della nostra storia. È stato allora che mi ha gelato: se mi lasci, mi ha detto, non dipingerai più neanche un soffitto, scordati la fama, le gallerie e la personale di giugno a Londra. Ho avuto paura, un terrore violento e oscuro mi ha preso da dentro e ho vomitato sangue, ma era soltanto la cena. Tremavo e sudavo freddo e stavo davvero male, non mi bucavo da due giorni e avevo bisogno di farmi. Allora Francesca ha tirato fuori i soldi degli ultimi quadri venduti, erano quasi seicentomila lire. Nei miei occhi le lacrime si confondevano a un sudore giallo e acre, che li costringeva aperti quel tanto per vedere Francesca sorridere soddisfatta. 11 giugno 1983 Mara ha letto il mio diario. Quando mi sono svegliato ho trovato un suo biglietto. Torna a Pescara dai suoi. Avrei voluto uscire per cercarla, ma ero troppo stanco e avevo voglia di morire. O meglio, desideravo una morte giustiziatrice che ponesse fine a questa mia caduta giù, nel delirio […] Dalla finestra chiusa osservo la città calda e cattiva, immobile e minacciosa come un assassino che agisce nell’ombra […] il telefono squilla a vuoto, non rispondo ma so che è lei […] mi cerca da una settimana per chiedermi se ho bisogno di soldi, come se non lo sapesse che mi servono per non impazzire […] il sole è ancora alto quando infine rispondo. Francesca mi chiede di essere al suo fianco questa sera, per l’inaugurazione della sua mostra al Circolo degli Artisti […] senza di me è perduta, io sono tutto per lei, dal momento in cui ha deciso che non avrebbe potuto (o voluto) fare a meno di me […] dopo la telefonata mi sono addormentato e ho sognato di morire per lei e allora ho capito che sarebbe finita in ogni caso e per sempre. Nel sogno Francesca moriva mentre mi suicidava, affogandomi dentro di lei, sempre più a fondo, godendo come se la stessi finalmente penetrando. A dividerci non era un destino atroce, ma un sentimento feroce e insincero, espressione di una prevaricazione che negli anni, per inganno, abbiamo chiamato amore. Un tempo violento e impostore che aveva il nostro nome. Francesca Alinovi è stata uccisa la sera del 12 giugno 1983 con 47 coltellate. È stata ritrovata senza vita tre giorni dopo nella sua casa di Via del Riccio, a Bologna. Per l’omicidio Francesco Ciancabilla è condannato nel 1986 a 15 anni di carcere, ma subito dopo la lettura della sentenza definitiva scappa dall’Italia. Latitante per 10 anni, viene arrestato nel 1997 a Madrid ed estradato in Italia, dove sconta la sua pena fino al 2006, quando torna in libertà. Tutt’ora si dichiara innocente e giura di non aver mai amato Francesca. Luca Carelli nasce a Bologna nel 1960. Negli anni ’80 scrive alcuni romanzetti gialli che per un fortuito errore di stampa cromatico vengono accolti dalla critica come noir. Nel 1985 viene condannato per uno dei misteriosi delitti del DAMS che in quegli anni insanguinano Bologna. È stato scarcerato nell’agosto del 2011 e affidato dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna alla redazione romana di PASTICHE, per cui scrive brevi racconti ispirati a fatti recenti di cronaca nera. SUPERVISIONE ed EDITING Pierluca D’Antuono
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LA LETTERA di Luca Antonini La lettera giunse a destinazione un sabato mattina di metà ottobre. Il simbolo che la sovrastava e il mittente scritto in caratteri grandi e chiari – “VICARIATO DI ROMA” – lo spingeva a rileggere tutto con calma, a voce alta e solenne. Era seduto in cucina avvolto da un piumone dai colori vivaci. Sentì Martina solamente nel pomeriggio e annunciò la notizia scrivendola a caratteri cubitali sulla chat: MI SONO SBATTEZZATO! La risposta tardò ad arrivare e non era quella che Andrea si aspettava: «Non avevi detto che ne avremmo discusso insieme?» Di lì a poco, nel giro di una Nastro Azzuro e una canna, avrebbero seguito il solito copione. Cominciò Andrea: «Tu mi parli del fatto che ti senti in colpa perchè non paghi metà dell’affito, ma è normale! Io lavoro qui, tu stai ancora studiando e sei a Londra!» «Non mi piace il tono in cui dici che sto ancora studiando! E poi..» «E poi non mi hai ancora detto nulla della lettera! Ma ti rendi conto? E’ la cosa più importante che ho mai fatto in vita mia! Mi sento come rinato, libero! NON SONO PIÙ NELLE LORO LISTE, MI SONO RIAPPROPRIATO DELLA MIA COSCIENZA!» «E tu invece? Non mi domandi mai come sta andando il mio stage sull’uso del videoclip come mezzo di indottrinamento delle masse! Non mi chiedi mai del mio lavoro di ricerca o di tutti i gruppi rock che sto conoscendo... ma che ne capisci tu? Ascolti reggae da quando avevi tredici anni e l’unica scoperta che hai fatto negli ultimi quindici anni è stata la tarantella!» Andrea pigiava i tasti furiosamente, sovrapponendo vocali e consonanti, cancellando in fretta e scrivendo ancora più forte. Le risposte giungevano lente e pacate, aumentando il suo ritmo di scrittura e la sua dislessia digitale. Si accorse che si era fatto tardi quando sentì bussare alla porta. Troncò la discussione senza pensarci troppo per dedicarsi completamente al suo ospite. Lo fece sedere, gli diede la lettera e cominciò a camminare avanti e indietro in attesa della sua reazione. Luciano piegò il foglio con cura riponendolo nella busta. Guardò negli occhi il suo collega di lavoro e unico amico in quel piccolo paesino a due passi da Perugia e sentenziò: «Secondo me hai fatto una cazzata!» Andrea spalancò la bocca incredulo: «Cosa? Quando te ne parlavo pensavi che era giusto, che uno deve essere libero di credere in quello che vuole!» Luciano si accese una sigaretta, e con un tono simile a quello di un genitore che spiega come si fanno i bambini si prodigò in un discorso lungo e chiaro, con pause calibrate che non ammettevano repliche, tra il monologo e l’ammonimento. Andrea sbuffava ad ogni frase, lasciandosi andare a vistosi tic nervosi. Stava per esplodere. «Insomma, di questi tempi, con l’aria che tira, hai visto mai che escono fuori ‘ste liste? Magari tu non lo sai, ma ti mettono in mezzo. Andrea, il Vaticano è un potere politico prima che spirituale e hanno tutti i mezzi per controllare la vita politica del paese... non so, forse con altre elezioni...» A quel punto Andrea non potè più trattenersi: «Esci da casa mia fascista che non sei
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altro! Anzi, sei molto peggio! Sei un qualunquista omologato al sistema! Di più, tu sei un democristianuccio, come tutti i marchigiani e i romani, come i vecchi esattori papalini! La mia famiglia è meridionale e lo sai quanto ha dovuto soffrire mio padre per le sue idee?» «Mi hai capito male Andrea...» «Fuori ho detto! Fuori!!!» La porta si chiuse con uno schianto e Andrea si gettò sul letto. Era sveglio da ore, si addormentò in un attimo e subito cominciò a sognare. Era ritornato bambino e si era perso fra le piante di peperoncino di suo padre. Un piccolo lembo di terra nell’orto che però ora era foresta. Le piante erano enormi e sopra di lui vedeva volti di giganti che un tempo erano i suoi compagni di gioco. Sembrava che lo stessero cercando. Lui urlava a squarcia gola: «Sono qui! Non mi vedete?» Si svegliò madido di sudore, con un senso di angoscia nel petto e con l’odore del peperoncino nel naso. (CONTINUA)
BLITZRECENZION di S. H. Palmer Un ago nel pagliaio
Fotografa il codice QR con il tuo cell e guarda il video
http://www.youtube.com/watch?v=9pyBB7y8fDU&fb_source=message
Ti ho cercato per quattro lune eppure sei sempre stato lì, nel sangue secco delle mie vene (tralla-llallalla-lalla-lallero). Una corda, una sedia e una felpa col cappuccio che puzza di sudore stantio. (shanduziopalmer.tumblr.com) 7
T.A.Z. Viaggio nella cultura dei rave illegali in Italia Di Chiara Fornesi Taz sta per Temporary Autonomous Zone (Hackim Bey ci illustra l’idea nell’omonimo libro) e il “Manifesto del raver” ne riassume il concetto così: “Il nostro stato emotivo l’estasi. Il nostro nutrimento l’amore. La nostra dipendenza la tecnologia. La nostra religione la
musica. La nostra mone Potete odiarci. Potete ig capirci. Potete essere inc esistenza.Possiamo solo giudichiate, perché noi n mai. (…) Continuiamo corpi nei club, nei depos voi avete abbandonato e ragione, e gli riportiamo
Una vita forte, deflagrante, che pulsa nella sua più pura, intensa, edonistica forma. In questi spazi improvvisati cerchiamo di liberarci dal peso dell’incertezza di un futuro che voi non siete stati capaci di stabilizzare e assicurarci. Noi cerchiamo di liberarci delle nostre inibizioni, liberarci dalle
manette e dalle restrizioni che avete messo in noi per la pace del vostro pensiero. (…) Fino a quando il sole sorgerà per bruciare i nostri occhi rivelando la realtà del mondo che avete creato per noi, balleremo fieramente coi nostri fratelli e sorelle, celebrando la nostra vita, la nostra cultura e i valori in cui più crediamo.”
eta la conoscenza. (…) gnorarci. Potete non consapevoli della nostra o sperare che non ci non vi giudicheremo ad ammassare i nostri siti e negli edifici che e lasciato senza alcuna o vita per una notte. Reportage completo su www.myspace.com/lapink_art o clikka il mio facebook.
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CHE NON SI LASCI ANDare del tutto! di Paolo Battista È ancora presto, sono le dieci del mattino e mi sono appena svegliato dopo una notte da incubo, da quando mi sono laureato le giornate passano mute e apatiche. Ultimamente l’insonnia è tornata a farmi visita, quindi mi addormento tardi per svegliarmi a giorno inoltrato, quando ci riesco! Poi con gli occhi semichiusi incespico in cucina, metto su il caffè e apro la finestra per far scorrere l’aria. Il sole di fine agosto mi acceca ma appena una nuvola esagonale gli si para davanti vedo Gianni e Orazio appostati dietro al secchione dei rifiuti che aspettano il negro della roba, ma c’è qualcosa di strano. Gianni si apposta accovacciato come una iena in attesa di saltare fuori mentre Orazio fa il palo con la faccia tesa e il nervoso che gli si legge nelle palle degli occhi neri come i peli che ha sulla faccia. Sono sicuro che c’hanno qualcosa in mente perché continuano a confabulare come due cani che si leccano il culo e saltellano entrambi sul posto, nervosi e sudati, ed entrambi zoppi. Poi arriva il negro, un tipo col pizzetto e la faccia rotonda da cui mi rifornisco io stesso, pare che si chiami Simon, ma questi non usano mai i loro veri nomi. Se non ricordo male è il terzo Simon della serie. Prima ce n’erano altri due che usavano lo stesso numero di telefono e lo stesso nome. Insomma appena si avvicina per fare lo scambio Gianni esce dal suo nascondiglio puzzolente e gli molla un destro sulla mascella a cui però Simon prontamente reagisce spingendo Gianni che per mezzo della gamba quasi cade a culo per terra. Ecco cosa volevano fare...penso. Prenderlo alla sprovvista, picchiarlo e derubarlo di soldi e pezzi. Solo che Orazio, anche lui gamba di legno per un incidente automobilistico, non fa un cazzo, non si muove di un centimetro, resta immobile con Gianni che impreca e il nero che si gira e scappa via di corsa senza voltarsi. Così mi vesto al volo e li raggiungo e Gianni bestemmia, prende una bottiglia di vetro e la schianta sul muro sfiorando di poco la vetrina dell’ottico. Ma che cazzo fate? gli chiedo con gli occhi ancora pieni di sonno e astinenza. Volevamo menallo, strilla Gianni agitato, ma il cazzone qua, puntando Orazio con la mano aperta e tremolante, nun ha mosso ‘n dito. Prima dice che vole rompeje er culo e poi come me movo nun fa ‘n cazzo. Vaffanculo m’ha fatto pure struscià li gomiti pe tera, e mi mostra il braccio insanguinato bestemmiando madonne e bambinelli di cui chiaramente non è un sincero credente. Gianni e la cocaina, Gianni e Olimpia che lascia e molla ogni due giorni, Gianni e le rapine, Gianni e le sue cazzate che urla in continuazione provocando chiunque, fosse anche sua madre che tra l’altro tratta peggio del suo vecchio piccolo cane nero ora morto. È che nun je l’ho fatta a menallo, borbotta Orazio. E sei ‘n cojone, sbotta Gianni, dovevi dimmelo prima de famme appostà dietro ar secchione. Insomma n’artra giornata demmerda e dire che lo stavo a ffà pe te, visto che la robba nun è che me la faccio tanto volentieri. A Già nun me rompe er cazzo, che devo fà, sbotta Orazio e insieme ci avviamo davanti al Ser.T per bere un paio di birre con il resto del gruppo che popola l’arena. Quando arriviamo seduti sul marciapiede ci sono Bruno e Chiara che confabulano mentre Schizzetto e Umbertino si spaccano una Peroni prima di mettersi in moto e
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fare qualche lavoretto. Poi arriva anche Olimpia, questa volta c’ha i capelli rossicci e indossa un pantalone mimetico e una magliettina stretta e unta con la faccia di un topo che sorride e si siede sullo scalino e saluta tutti tranne Gianni, il quale fa finta di niente e compra una birra versandone per tutti tranne che per lei continuando questo stupido giochetto senza senso. Ma falla finita, gli sparo io, non vedi che è venuta solo per te? Ma fatte li cazzi tua, sbotta Gianni, te che ne voi sapè, e stringe i pugni sognando di schiacciare il mio cervelletto impiccione. Se nun l’ammazzo de botte, continua gonfiando le sue vene nervose, è solo pe la piccola Claudia. Piccola per modo di dire, adesso Claudia c’ha diciassette anni e Gianni non è il suo vero padre, ma l’ha vista crescere e a modo suo le vuole bene; solo che Claudia, dopo aver visto sua madre piena di lividi, non vuole più saperne di Gianni e quando lo vede cambia strada. Cosa che invece non riesce a fare Olimpia, ma è anche questo l’amore, no? Forse perverso, violento, ma pur sempre amore. E giorno dopo giorno litigano, e fanno pace, e si menano e rifanno pace e si bucano e rilitigano e scopano e avanti così fino al prossimo buco, al prossimo livido. Poi Bruno e Chiara si alzano e raggiungono il pusher che oggi ha cambiato zona spostandosi alla fermata di S.Elena, quella del Pigneto, perché dice ‘essere biù sigura’. Allora compro una bella Peroni fredda che di mattina mi stona di brutto e chiamo Silvia per sentire come sta. C’ha una voce strana, mezzaroca come dopo un pianto e pigola che vuole raggiungermi e quando attacco sento i ragazzi che parlano di morte e mi viene da toccarmi le palle, anche se con rispetto, ed ho come un brutto presentimento che mi rimbalza nello stomaco. Poi passo la birra a Olimpia seduta ma iperattiva mentre Gianni ancora fa finta di niente. L’artra vorta, dice Schizzetto, è morto n’artro amico de li tempi che stavo a Rebibbia. Poraccio, l’hanno trovato solo come ‘n cane, dentro ‘n vagone de quelli abbandonati vicino la stazione Tiburtina. Che cazzo, nun vojo fa la stessa fine demmerda! E pecché dovresti da fa la stessa fine?, spara Umbertino che però ha la medesima spiacevole preoccupazione. Forse pecché nun c’ho più nessuno e dormo all’addiaccio, te che dici?, guardando l’amico con le lacrime agli occhi. Guarda che pe me è la stessa vita demmerda, ciancica Umbertino, e allora? Che volemo fa? Te lo dico io, continua accendendosi una Marlboro, nun dovemo fa ‘n cazzo, dovemo solo sopravvive e fanculo chi nun ce capisce. Ma si, forse c’hai ragione, dici bene! Annamo va! Che devo recuperà ‘n po’ de sordi pe la robba, e insieme volano via sul mezzo di Schizzetto per scippare qualche vecchietta rimbambita o qualche ragazzina spaventata. Io intanto mi guardo intorno smarrito, poi penso che oggi è giorno di consegna, allora entro al Ser.T. e prendo le sei boccettine settimanali da cinquanta mg l’una. Quando esco con mia sorpresa vedo Silvia che mi aspetta. È bella…e immusonita, col suo pantalone nero a zampa e la canotta a cuori simile ad una vestaglia trasparente. I capelli neri e lunghi sono legati e ordinati con cura, lo sguardo triste e le pupille verdi sbattono da una parte all’altra e luccicano come stelle di giorno. Mi sorride, ma è un sorriso forzato, il piercing al labbro luccica riflettendomi negli occhi, i suoi invece sono pieni di lacrime e quando la raggiungo mi si para davanti senza dire una parola. Una lacrima solitaria le riga il volto ma non dice nulla. Così ci facciamo da parte lontano da orecchie indiscrete e le chiedo cosa c’è? Cos’hai?, le chiedo tutto bene? stringendole le mani tremolanti. Ora gli occhi sono immobili, mi guarda. Silvia poggia la fronte sul mio cuore e singhiozza come una bambina che si è persa al supermercato. Poi farfuglia: Ivano, mio fratello, è morto, cazzo si è ucciso!
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Come si è ucciso? le chiedo esterrefatto. Si, si è ucciso, pigola Silvia senza smettere di balbettare, ha chiamato mia...mia so.. so..rella, l’hanno...trovato nel suo stu… dio, dice che ha preso non so cosa e quando hanno sfondato la porta era già morto da molte ore. Ho paura… ti prego stammi vicina, ho paura di fare una sciocchezza. Ma cosa dici, le faccio sbatacchiandola un po’, di che parli? Dico che sono sola, tu cosa pensi? Ormai c’è rimasta solo mia sorella e tra noi non c’è mai stato un grande rapporto. Ma adesso ci sono io, le faccio cercando di essere quanto più convincente possibile. Ma cosa è successo di preciso, le chiedo ansimando disagio. Ho paura, ripete Silvia, ho paura, voglio farmi…il dolore è troppo, non resisto, ti prego prendiamo qualcosa che oggi voglio dimenticare, voglio mettere da parte il dolore, almeno per oggi. Sei sicura, le chiedo preoccupato, sono mesi che non tocchi niente, sei sicura di volerlo fare? Lo sai che alla fine il dolore ritorna sempre e questo è solo un modo per metterlo da parte qualche ora, ma non funziona, questo lo sai bene, no? Si che lo so, ma sono sicura… adesso che ti metti a farmi la predica? soffocando un vaffanculo che probabilmente vorrebbe lanciarmi addosso come una freccia avvelenata. Ma quale predica, è solo che…, ma non trovo le parole adatte e l’unica cosa che posso fare adesso è chiamare Simon per prendere la roba. Così faccio e dopo dieci minuti siamo a casa, Silvia è ancora agitata e confusa e sola e impaurita ma quando l’ago le buca la vena tutto sembra tornare al suo posto. Mi punta con gli occhi spillati e lacrimanti. In realtà è solo un’illusione e questo Silvia lo sa, anche se per ora non le interessa affrontare il problema. La morte è sempre difficile da superare, soprattutto se è quella di una
persona cara, ed anche se i rapporti con il fratello non erano del tutto idilliaci, perdere gli ultimi brandelli della famiglia deve toglierle il fiato o peggio ancora, la terra da sotto i piedi. Si, sapere di ritrovarsi soli, dev’essere come non avere terra sotto i piedi e questo spaventerebbe anche il più cinico e forte degli uomini. Anch’io sono spaventato, e cerco di non darglielo a vedere, anzi, forse più che spaventato mi sento impotente, vorrei tanto aiutarla, vorrei tanto non vederla soffrire così, ma è la vita, e nulla si può contro l’inevitabilità del destino. Dopo la morte dei genitori questa non ci voleva. La vita si accanisce sempre contro chi non può difendersi, contro chi non ha più niente da perdere. È ingiusto, ma dire che è ingiusto non risolve le cose, e neanche farsi una pera, ma chi sono io per negarle questo suo desiderio? Se lo facessi, finirebbe da sola a farsi per conto suo, ed io non voglio questo, assolutamente non voglio vederla soffrire da sola. Quindi salutiamo tutti e ci spariamo la nostra bella dose e poi Silvia si addormenta, con la testa sulle mie cosce, mentre io... io non faccio altro che controllare il suo respiro, come un medico che teme per la vita di un suo paziente, resto sveglio a controllare il suo battito, resto sveglio a controllare che non si lasci andare del tutto! (CONTINUA)
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ICH HABE MIR EINEN INTRAVENöSEN TRAUMBLITZ GEGEBEN di S. H. Palmer Il Macello è ciò che resta di noi. Di un vecchio edificio grigio e magenta. Fili elettrici scoperti e tubature rotte. Quando ti viene sonno stringi forte i cavi e ti riprendi un po’. Se ti annoi a morte vai a tirare su col naso un po’ di suffumigi putridi dai tubi, così poi/prima vomiti e ridi2. Non c’è più niente da squagliare. Più niente da comprare: troppe corsie a scorrimento lento. Corsie bloccate. Nei cervelli. Di chiunque. Sinapsi addormentate. Chi più chi meno la gente era un po’ tutta uguale al Macello, non ci si aveva un cazzo a che fare, forse perché non c’era troppo da farsi e tutti stavano un po’ lì a non fare, pensando a quanto era bello farsi quando tutti si facevano e c’avevano cazzi da fare, da farsi sul serio. Quando entri al Macello c’è un paio di scalini: vecchie lastre metalliche di quelle usate anni fa per le rampe dei garage. Quando erano garage. Quando c’erano garage. Dopo il paio di gradini in alto compare un bulbo, intermittente in quanto moribondo: ti penzola sulla testa. Non si ferma mai, chissà perché poi. Davvero. Magnetismo terrestre, questo sconosciuto. Per una cazzo di pestilenza da bere c’è un labirinto da fare e da scomporre e ritornare. Tutto puzza di muschio e ogni tanto penso che ci lascio l’anima qui dentro – poi o prima che sia, coi piedi bagnati di fango e i fili scoperti. «Tre. Grazie.» Che ci beviamo mica lo so per certo, ma va bene così. È buona e non fa male. A breve scadenza almeno. Al Macello si parla del tempo passato trascorso e spezzato, senza orologio: pochi giorni fa o tra dieci anni è ormai la stessa cosa, nessuno di noi ricorda troppo perché si è arrivati a questo punto; sappiamo riconosciamo e facciamo nostra solo la puzza di noi stessi. Sopravvissuti e ridondanti. Non pochi s’intenda: popolazioni intere, o quasi, sopravvissute a loro stesse. Scorsi S**, puntuale per qualche arcano motivo. Non la vedevamo da tantissimo davvero, che poi potrebbe essere stato anche solo un giorno, data la cognizione del rapporto spazio-tempo. Completamente persa3 . I vuoti li riporto al senza volto nella melma là sotto. Mi sembra gentile, sebbene non possa mai vedergli il grugno, o magari vederla4 . Fumando la pipa, risalgo più in fretta. Mi toglie il respiro la galleria umida. Fumo la pipa di mio nonno. datata 1957. È di creta, è arancione e ci fumo dentro quello che cresce sul balcone, nella giara di pietra spaccata e rattoppata con mastice e PVC. «Deglutisci meno forte, ti verrà un attacco. Non saprei cosa fare di me se dovesse succederti qualcosa.» S**, Q** e io ridacchiamo tra noi dei vestiti che indossiamo: sono gli stessi da anni. Per me poi sono gli stessi dal doppio del tempo, dato che anche prima che il cielo cambiasse colore non buttavo via nulla e mi innamoravo della roba vecchia. Lui anche5. Portava quelle strane felpe, incappucciato di azzurro e amaranto. Scarpe dalle grandi bocche spalancate. S** di contro riusciva sempre a farsi prestare qualcosa, a ricamare col sangue e con la colla Pritt fiori di damasco tra le giravolte delle gonne. E ci pareva quasi venisse ogni giorno da un mondo diverso, per parlarci coi gesti di gente e di usanze lontane che non potevamo più ricordare. Noi. Fumando e bevendo, ridendo e saltando passavano i giorni al Macello. Eppure quella notte l’aria sapeva di miele (di fiele). Un numero imprecisato di bottiglie fluttuava tra le mani di gente senza volto definito. I giornali vecchi per girare il tabacco erano finiti e lo masticavamo dopo averlo ammorbidito, inumidito con qualche goccia di benzina. Noi lo masticavamo così6. (CONTINUA) 1
1«Cerca di non fare troppo tardi.» «Senti, mi ha chiamato S**. La passo a prendere. Ma che ne so.» «Ci beviamo il Macello. Magari.» 2 «La successione temporale delle due azioni è a discrezione dell’attore sociale. Non c’è niente che lasci presagire e/o dia la precedenza a un atto rispetto all’altro» (nda). 3 La cognizione dico, ma anche S** a volte. 4 Magari è una donna. 5 Era così anche per Q** intendo. 6 Lo spargi fiamma l’ho lasciato a casa. Mi dispiace.
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FRANCESCA COCO AVRÀ LA SUA RIVINCITA SU FOGGIA di Pierluca D’Antuono Quando Francesca Coco andò via da Foggia c’erano ancora le torri gemelle. Poco mancò che cadessero per questo. La prima volta partì di settembre e tornò a Natale. A Piazza Puglia non si parlava d’altro. Cambiarono gli sguardi e il tono delle voci. Le si chiedeva perché, non come mai. Non era gelosia ma invidia. Presto le tolsero il saluto perché dicevano che se la tirava e ormai per tutti era diventata soltanto la romana. Anche la mamma non le perdonò mai d’averla lasciata sola, e col suo cane che aveva sempre odiato. Fu allora che Francesca fiduciosa cadde in una forma tempestosa di ricatto. Cominciò a sentirsi in colpa e a tornare a Foggia ogni due settimane. Agosto lo passammo in città, tra Piazza Puglia e l’Ippodromo, dalle sette di sera alle sei del mattino. Non parlava che di Roma, giurava che a settembre ci sarebbe in ogni modo ritornata. Tre mesi dopo Francesca Coco si faceva 4 grammi di eroina al giorno. Prendeva 120 mg di metadone ogni mattina e di notte, prima di andare a dormire, 15 roipnol e una bottiglia di caffé Borghetti. Passava le giornate a scollettare tra la stazione e il bar Cocozza a Corso Roma, le sere al CEP o al Candelaro sotto casa dei suoi spacciatori. Aveva perso 36 kg, ora ne pesava 40. Si era fatta 29 piercing a crudo e non aveva più mestruazioni. Una volta, per mezzo grammo d’eroina e una siringa usata una sola volta, le giurarono, aveva regalato a Mario “Ubba Ubba”, pusher di fiducia, Boy, il suo amato pastore maremmano di 12 anni. Tre mesi più tardi scoprì di essere sieropositiva e di avere bisogno di un fegato nuovo a causa di un’epatite C fulminante. Un giorno, per dieci euro, vendette ad un diciassettenne di Stornarella tre grammi di AJAX in polvere per tutte le superfici lavabili della casa, spacciandolo per purissima eroina haitiana. Il ragazzo morì rantolando in un quarto d’ora soltanto. La mattina dopo i carabinieri andarono a cercarla dalla mamma e la trovarono nel bagno. Era nella vasca, aveva ancora la siringa nel collo, ma era già gelida, splendida come un super8 d’altra epoca. L’ultima nota su Facebook Francesca l’ha scritta che era ancora a Roma: Il posto in cui mi piace andare di più qui a Roma è Melbook Store in Via Nazionale. È la mia libreria preferita. Ci vado ogni sabato e domenica mattina. È qui che ho scoperto Alda Teodorani, Roberto Bolano, Stefano Tamburini e S.H. Palmer. È qui che ho visto Isa La Santa scrivere poesie improvvisate con uniposca neri indelebili sulle pagine di Penna, Montale, Sanguineti e tutte le mummie italiane; è qui che ho conosciuto Alba Rosa e i post-distruzionisti, che mi hanno proposto di unirmi a loro. Fu la volta in cui s’inventarono la “Giornata Mondiale dell’Orgoglio PostDistruzionista degli Espropriatori Proletari di Libri Mondadori ed Einaudi”, la cosa più incredibile a cui io abbia mai assistito in vita mia. Alba Rosa convinse una trentina di tossici della stazione a bucarsi contemporaneamente nei bagni della libreria. Quel giorno scoppiò il caos: clienti isterici in preda al panico e tossici che imbrattavano di sangue i libri di Baricco in offerta a metà prezzo, mentre noi indisturbati rubammo un centinaio di Mondadori ed Einaudi. Tutti i giornali ne parlarono per giorni, ma Melbook non sembrò prenderla male: in una settimana ripulirono tutto e ampliarono il reparto dell’usato, con i libri di Baricco al 75% di sconto, e incredibilmente si offrirono di ospitare la presentazione della prima antologia autoprodotta di poeti postdistruzionisti. Il falso incontro si tenne nei bagni della libreria, alla presenza di poliziotti della Digos in borghese, e a sorpresa furono proiettate le immagini dell’esproprio riprese dalle telecamere a circuito chiuso. Ci arrestarono tutti. Mi unirò sicuramente a loro, sono esaltanti! Roma è splendida, Foggia non mi manca per niente (a parte Boy e i miei vinili degli U2). È qui che voglio vivere per sempre. È qui che diventerò una grande scrittrice.
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Francesca Coco avrà la sua rivincita su Foggia. Lo giuro.
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DELL’AMORE E DEL MIO/CARDIO ALTRUI di Fabrizio Manuguerra Si ritrovarono in compagnia di una piazza solitaria, a provar piacere nell’incantare vagabonde pantomime, ad osservare i muri delle abitazioni dibattere sugli ossimori in panne, sciolti in uno spurgo dell’anima e della coscienza, degustando le paure dell’oltre/assurdo, le angosce liberate dai proprietari circensi armati di frusta, mostrando con superba vanità e con superba brutalità, il kammerspiel umano, contenente le emozioni macinate, poste a macerare nel frigorifero del circolo polare della cavità toracica. I balletti intorno allo squassare delle testate nucleari, gli arlecchini delle raffinerie del sarcasmo entrarono in collisione con i desideri in frantumi, come materia di batteri e molecole. La nuda emissione dei rantoli sessuali si spense davanti allo schermo del negozio dell’alta nanotecnologia, poiché la condizione generale è evidenziata da un alto giovamento di posizioni scomode per l’interpretazione di un’attività inutile e senza fine. Come un sasso gettato da un cavalcavia, la presentazione del nostro risultato appare palesemente pulito: fuori da ogni logica, inutile ed imperante. Fuori da ogni ovvietà, sporca e becera. Fuori da ogni razionalità. L’aritmetica della nostra limitazione è così impossibilitata da far scomparire, tramite una magia, le speranze, precedute dal vessillo dei ragni velenosi. Supponiamo una mancanza di risorsa primaria, come un’arrendevolezza alla voluttà, anche più voluttuosa della voluttà. I piaceri sono canoni superati, per l’interconnessione tra lo spappolamento cervicale e quello dei movimenti involontari degli arti. E’ come in una Gymnopedie (lent et doulourex) di Erik Satie, amaro ed ipnotico, che salta fuori un mondo alquanto contraddittorio in contrasto con una perfetta armonia degli elementi.
L’abolizione del filosofeggiare superfluo, solamente un vaneggiamento non vanitoso, della fuga irreprensibile delle mie/tue emozioni cestinate nel desktop friggitore a cui rivolgiamo preghiere mattutine, pomeridiane, serali, notturne. Si intravedono splendenti vene deossigenate, concave, contenenti pasti caldi di rimasugli d’amore; per quel che resta, per quel che rimane, l’energia non si sparpaglia come polline alla corrente, ma si coagula in un recipiente di quiete autoinflitta. Liscia la nave lascia il molo, l’aereo oscilla/ decolla, il desiderio andato a maledizione prima di essere assalito da una frode invadente, che fa breccia all’ingresso di questo tempio profanato e saccheggiato. La funzionalità s’appassisce e restituisce quello che il secolo narcotico ha deliberato; non il secolo, non l’epoca, non parole parsimoniose parassite, posate, prima passate, ora prosaiche. La rete/ragnatela sociale era ormai intasata e i loro cuori erano inesorabilmente divenuti una polpetta al tonno con capperi, spiacevolmente nauseanti, violati da migliaia di mosche, simili ad un secchio di pastura di un pontile solitario. I sentimenti, acidi come carne di gabbiano, presero il sopravvento su quel equilibrio caduco, dell’amore e del mio/cardio altrui. (Estratto da Racconti bislacchi di giornaliera apoteosi)
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Renato Florindi - Inside the rave - www.renatoflorindi.it - www.facebook.com/profile.php?id=1027077793