tutte le forme del raccontare
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mensile gratuito • Marzo 2012
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Stefano Bessoni - Il piccolo impiccato
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I miei sogni sono incubi neri e tu non ne uscirai vivo... C’è un serial killer dentro ognuno di noi. A volte dorme, si insinua la notte nei nostri sogni e li trasforma in incubi armati di coltelli assetati di sangue, incubi che urlano tra le pareti oscure dei nostri cervelli, che si dimenano e scalciano e sfoderano lunghe zanne bavose e unghie adunche. Altre volte si risveglia di colpo, bestemmia e inizia a progettare nuovi misfatti, devasta i prati verdi e ben curati della nostra coscienza. Spesso lo ignoriamo, lo lasciamo affamato e solo in un angolo del nostro cervello. PASTICHE vi aiuta a prendervi cura del vostro Passeggero Oscuro: questa volta gli abbiamo preparato un piatto prelibato, che sicuramente sarà di suo gradimento. La desolazione dell’ultima chiamata, la solitudine di un mostro alla fine dei suoi giorni, l’orrore di un incubo sempre uguale nel tempo, la fuga nel sesso senza compromessi, lo smarrimento dopo la devastazione e Satana onnipresente: grondano di sangue le pagine di questo nuovo numero, dove ospitiamo i versi e le opere di Nico Piancastelli, un giovane artista romagnolo scomparso negli anni Ottanta (un ringraziamento doveroso a Renzo Balducci per averci fornito preziose indicazioni). LEGGETE. CONDIVIDETE, SCARICATE E DIFFONDETE! ABBONATEVI A PASTICHE - TUTTE LE FORME DEL RACCONTARE: CON SOLI 10E (SPESE DI SPEDIZIONI INCLUSE) RICEVERETE A CASA PER UN ANNO LA RIVISTA IN FORMATO CARTACEO E IL PDF VIA MAIL, ARRETRATI COMPRESI!!! per info pasticherivista@gmail.com
p.2 Editoriale p.3 Ultima chiamata (Morris del Frate) p.4 Senza cuore (Pierluca D’Antuono) p.6 L’orrore ti fa a pezzi (Marco Lupo TerraNullius) p.7 BLITZRECENZION #5: La storia della PASTICHE è pensata e redatta da Paolo Battista e Pierluca D’Antuono. Grafica e impaginazione a cura di Scuola Internazionale di Comics. Per ricevere a casa PASTICHE in abbonamento (costo 10 E) scriveteci a: pasticherivista@gmail.com indicando nome e recapito. Per inviare il vostro materiale (poesie, racconti - lunghezza da concordare - disegni, foto b/n, contributi vari) scrivete a: pasticherivista@gmail.com oppure all’indirizzo: Paolo Battista Via F. Laparelli 63 - 00176 Roma www.facebook.com/pasticherivista http://issuu.com/pastiche 2
mia signora (S.H. Palmer) p.8 Farnetico Frenetico (Nico Piancastelli) p.10 Sognando, Sognando (Paolo Battista) p.13 *Merry go round* – I parte (S.H. Palmer) p.14 Intervista a Satana sul Rock’n’Roll – II parte (Pierangelo Consoli) thephotographymarielclayton.com
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ULTIMA CHIAMATA di Morris del Frate La cucina era calda e scura, puzzava di aglio. Una lama di luce se ne stava sdraiata beffarda sul pavimento, inerpicandosi per un tratto sul ripiano di marmo. Lambiva appena il volto di Carlo, voleva abbracciarlo. Ma era troppo tardi. L’avrebbe fatto quella notte stessa, il coltello aspettava. Carlo era sicuro che se non avesse risposto al suo richiamo il vuoto che aveva dentro avrebbe continuato a sgretolarlo, fino a quando quella sensazione di disagio che provava ogni giorno della sua vita non avesse prevalso. C’era un unico modo per disfarsene, doveva morire. Doveva farlo perché in trentadue anni non aveva ancora trovato un senso alla propria vita, mentre gli altri sì. Loro sembravano tutti così sicuri, era inutile discuterne. Solo il tempo di un’ultima chiamata, un ultimo tentativo di comunicazione. Ci aveva riflettuto a lungo ed era giunto alla conclusione che l’unica persona degna di ricevere la sua telefonata era la sorella. Accarezzò la fredda lama sul pavimento, la salutò con lo sguardo e poi sollevò la cornetta. «Carlo, sei tu? Non posso parlare ora, sono in macchina con Gianna!» «Sì, no, senti Susanna, non voglio disturbarti, è solo che...» «Non sento niente! Sto guidando, richiamami dopo, ciao!» «Non ce la faccio più a vivere!» Aveva riattaccato. Non avrebbe mai immaginato un esito simile. Passandosi una mano tra i capelli, si sforzò di pensare a qualcun altro. Qualcuno che lo aiutasse a vedere le cose in un’ottica diversa. Ora più che mai aveva bisogno di aiuto, una persona con cui confidarsi. Quando digitò il numero del suo migliore amico, non lo fece con la convinzione di chi si lascia cadere sul telone dei pompieri. Il telefono squillò per ore. «Roberto, pronto? Sono Ca...» «Tim, informaz...» «Eccheccazzo!!!» sbottò Carlo, innaffiandosi la camicia di saliva. Scagliò la cornetta contro l’apparecchio telefonico. Doveva calmarsi. Non poteva perdere la pazienza proprio alla fine. Attese in silenzio, poi decise di chiamare Luca. Era a una festa. Gli passò tre ragazze sbronze e un tipo che gli stava sul cazzo, ma non lo ascoltò nemmeno per un attimo. Quando il tuut-tuut meccanico sostituì la voce dell’amico, Carlo si sentì sollevato. La paura era svanita, erano tornati i calcoli, il lavorio dei neuroni. Le rotelle che riprendevano a girare. Carlo era un matematico, la sua vita era sempre stata un inferno perché le persone che aveva intorno non sembravano avere bisogno di uno come lui. A loro piaceva la tv, con quei volti abbronzati e quelle tette da quintale. Ma io ho un coltello, si diceva Carlo. E abbastanza benzina da raggiungere la casa di Gianna – Susanna era sicuramente lì, la lesbicona. Aveva le gambe lunghe, Susanna, un femore dei suoi usato come clava avrebbe tramortito un ippopotamo. E il caro Roberto, seppur grosso, era comunque un uomo e, povero ragazzo, soffriva d’intestino. Quanti metri misurano le interiora umane? Carlo fece un rapido calcolo: forse non bastavano ad impiccare tutti gli invitati a quella cazzo di festa ma il solo pensiero, indossando la giacca e guardandosi allo specchio, la sola idea, afferrando le chiavi e chiudendosi la porta alle spalle, lo fece sorridere per la prima volta dopo tanto tempo.
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SENZA CUORE di Pierluca D’Antuono I miei sogni sono incubi neri e tu non ne uscirai vivo. Ho paura di quel che stanno diventando e di come ti trascineranno dentro di loro, a fondo nel mio corpo che suda e brucia come una febbre. Le lancette del tuo tempo incendiano la mia pelle e ci squarciano le ossa dritto fino al cuore perché tu possa capire che manca poco alla fine. Questa notte ho sognato Annio. Era triste e sorridente. La paura mi incendiava la pelle e mi ha tappato la bocca. Lui era immobile e rideva, mi guardava scivolare, ho tentato di parlare mentre lui accarezzava il letto e mi diceva di ascoltare, ma ho sentito solo un groppo, dritto al cuore come un tumore. Ho fatto di tutto per liberarmi ma non potevo respirare e il suo ricordo mi faceva male. Quando ho acceso la luce, la stanza era vuota e il letto era ricoperto di acqua ghiacciata, densa come sangue e nera come le mie gambe, immobili dal freddo. Solo allora mi sono accorto di aver lasciato la finestra aperta. Il vento ululava come un cane rognoso e la pioggia abbatteva qualsiasi cosa trovasse. Io guardavo impotente quella devastazione che non era alla mia portata e solo dopo un’ora ho trovato il coraggio di alzarmi e correre in bagno e poi in cucina a bere e a fumare. Mentre l’acqua del rubinetto scorreva, pensavo alla visione e ho tentato di capire. Annio era identico a come lo ricordavo, fragile e splendente, minuto come quel pomeriggio lo ha congelato nella mia mente. Sorrideva pieno di graffi e il sangue lo sommergeva, era rosso come il suo pianto e ferito come il suo dolore. Eppure lo sento, ne sono certo, non mi detestava e chiamava il mio nome con amore. Ho tossito mentre cercavo le sigarette e ho acceso il lume arancione. Fuori non pioveva più e la notte era diventata fresca e ventosa, piena di odori leggeri e colori vivaci. La luna cresceva e addolciva l’attesa del sonno ossessiva. Questa notte, me lo sentivo, non avrei più dormito, ma ho pensato che potevo farcela perché il tempo era cambiato, il cielo era tornato maggio. Allora era gennaio e avevo vent’anni, Annio era morbido e tenero, la sua pelle sacra e sincera. Ho tentato di ricordare quanti anni avesse quella sera e all’improvviso nei miei occhi ho sognato ancora. Annio era triste e stanco e mi chiedeva di non abbandonarlo. Una vampata è esplosa nel mio cuore e ovunque nel mio corpo un fuoco è divampato. Ho spento la sigaretta, ho tossito sangue e quando ho cercato di alzarmi una vertigine mi ha demolito sul pavimento ghiacciato. Mi sono risvegliato in una pozza di sangue denso, ma era soltanto la mia bava gommosa. La cucina sembrava più piccola e insidiosa e più sporca di prima. Ho tentato di sollevarmi aggrappandomi alla tovaglia che dal tavolo di fòrmica pendeva come una liana ma al primo strappo ogni cosa è crollata, del vetro mi ha aperto la testa e il posacenere ha rovesciato sulle ferite i resti polverosi della nottata. Strisciando ho cercato di raggiungere il piano di sotto. Ho sceso precipitando milioni di scale e quando sono finite ho battuto la schiena. Ho percepito senza senso lo scorrere immutabile del tempo che riavvolgeva e si espandeva
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e quando ho riaperto gli occhi ho sperato che fosse mattina, ma ero immerso in una cortina fumosa di oscurità insondabile. Il mio laboratorio è buio e freddo e da sempre conserva un fascino oscuro e insano che negli anni mi ha plasmato trasmettendomi la sua essenza – o viceversa, non è più tempo di ricordare. Ho passato gran parte dei miei giorni tra i miei attrezzi da falegname e il legno solido e fedele a se stesso e al tempo e queste mura solide e vischiose, ammantate da un silenzio spettrale che da sempre ha lo stesso colore dei miei ricordi e dei miei sogni – il colore della muffa sulle pareti e della polvere nera che si trascina ovunque. Il gelo polverizzava le poche ossa sane che ancora resistevano ma io non sentivo più niente. Nei miei occhi senza cognizione sono riprese le visioni. Annio non era più solo e come un esercito sono apparsi danzanti. Ognuno di loro sorrideva e piangeva e mi chiedevano di non dimenticare e di non abbandonarli mai al loro destino. Mi apparivano come fotogrammi dell’ultima volta in cui li ho incontrati: c’era Anna, che a un anno strisciava come una gattina, la più piccola di tutte, allora ancora non parlava; e Marco, con i suoi sei anni di ginocchia sbucciate, pantaloncini strappati e guance rosse screpolate; c’era Nina che all’epoca già fumava e – oggi posso dirlo – fu un tragico errore (era troppo grande); e Andrea, alto magro e olivastro, bello come il sole, otto anni e una sorellina di cinque, Rita, che per un pomeriggio fu il mio più grande amore. Ognuno di loro conservava la purezza e l’ardore di quei giorni lontani, ma erano pallidi e sfatti, emaciati e distrutti come il loro sangue raggrumato che schizzava in ogni dove, mentre le ferite si aprivano e vomitavano dolore. Sorridevano e mi supplicavano di portarli via con loro e io non potevo capire cosa volessero dire. Le urla e i lamenti erano ossessivi e le mie orecchie liquefatte grondavano come cera bollente sulla mia pelle sfiorita. Serpeggiando, come un verme, ho avuto la forza di trascinarmi fino alla botola posteriore dove, sfinito e arreso, ho ceduto al mio corpo che urlava come una belva ferita. Per un attimo ho sperato che fosse tutto finito e illuso ho bramato un riposo – che giuravo – meritato, ma proprio allora sono tornati e tutti insieme hanno urlato: «non abbandonarci, portaci via con te!» È stato un lampo che allora mi ha pervaso. Risuonava la mia ultima ora e non era un sorriso. Il cuore infranto da troppo amore ha ceduto in uno schianto e dalla botola sfondata il mio corpo è precipitato nella cantina. Nelle viscere di quella che era stata la mia casa e il cimitero dei miei più grandi amori, il sogno di un vecchio falegname si stava infrangendo. Il mio burattino non avrebbe mai visto la luce del sole e i suoi giorni erano già finiti. In tutti quelli anni avevo conservato i teneri resti dei miei piccoli tesori, per dare forma e sostanza al mio sentimento. Le loro anime avevano tentato di avvisarmi e mettermi in guardia dalla morte insulsa di un banale malore. Alla mia creatura mancava solo il cuore. Sono nato solo e sto morendo mostro, ma non lo sono diventato. Me lo sono guadagnato.
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L’ORRORE TI FA A PEZZI
di Marco Lupo
(TerraNullius) 1998. Guatemala. Quattro uomini escono dalle loro case prima dell’alba. Il primo vive in una strada di case bianche e cancelli grigi. Il secondo vive in una villa su una collina, da dove può vedere i quartieri poveri dove le case sono bianche e i cancelli grigi. Il terzo vive fuori città, in un capanno per gli attrezzi, accanto a un lago artificiale dove abbondano le carpe. Il quarto non si sa dove viva. I quattro uomini si incontrano all’imbocco di una delle grotte scavate dal vento nella montagna, che alcuni chiamano semplicemente la Montagna, e altri la Montagna scavata. Poco dopo l’alba, i quattro uomini scavano una buca profonda. Hanno le unghie coperte dalla terra, spezzate dai sassi, graffiate dai minerali. Verso mezzogiorno i quattro uomini si siedono nella buca, ognuno in posizione fecale, ognuno perfettamente speculare al compagno. I loro cadaveri vengono ritrovati 20 anni dopo da un cacciatore. 2003. Helsinki. Una donna con la pelle incipriata da poco, con un trucco fresco che si potrebbe definire mattutino, ma non è detto, perché si potrebbe supporre che si sia truccata per uscire con un uomo, per uscire con l’uomo e andare ad una cena, o ad una festa, o a un concerto di musica sinfonica, comunque questa donna viene ritrovata 23 anni dopo nella sua casa di Helsinki. I termosifoni ancora accesi, il tacchino in forno ancora umido, i fiori nella brocca sul tavolo in soggiorno ancora freschi. La donna riporta tracce di rossetto sulla fronte, sui seni e sulle natiche. Nuda, con una cravatta al collo, in piedi sulla parete ovest, di fronte alla finestra che affaccia sui giardini. Un sorriso che qualche idiota potrebbe definire enigmatico, ma che a prima vista sembra solo un sorriso. Uno di quei sorrisi vuoti che abbondano negli amplessi. 2005. Cagliari. Sul promontorio dove l’erba si muove come una marea, quando il vento del nord scende con la luna e abbaia ai ruderi di pietra, al sentiero che porta dal pozzo alla casa, in questo posto in cui un incubo e un sogno si incontrano e mangiano pane vecchio imbevuto nel latte acido, in questo posto lui cresce e decide di volare. Il 21 luglio tosa una pecora. Quella mattina costruisce un triangolo con gambe di sedie, carta velina e corda di iuta. Poi, usando una colla speciale trovata in offerta mesi prima, incolla il vello della pecora sulle ali del triangolo. Quando la luna sorge ed è alta sopra i ruderi, lui sale verso il promontorio. Si dice che non fosse la prima volta. Si dice che da anni provasse a risalire il promontorio con un triangolo appeso sulle spalle. Si dicono molte cose, ma nessuno dice la verità. L’unica cosa certa è che di lui non si è saputo più niente. 2007. Beirut. La notte del 12 luglio 2006, quando le milizie di Hezbollah attaccano una pattuglia delle Forze di Difesa Israeliane, lei sta dormendo tra lenzuola cucite a mano, il palmo della mano sinistra schiacciato tra il cuscino e il peso della sua testa, e il palmo della mano destra appoggiato alla gamba dell’uomo steso accanto a lei. Quella notte le succede di sudare e sognare ininterrottamente di bombe e fuochi e uomini che urlano nascosti nelle buche, e vede quattro di loro in una grotta, e una donna che non le assomiglia in un appartamento con gli scaffali Ikea, e un ragazzo dalla pelle ambrata che corre sotto la luce della luna. Per un anno si chiede cosa volesse dire quel sogno. Spesso, prima di addormentarsi, pensa a quel sogno. A volte le sembra di sognarlo ciclicamente, ma non ne è sicura, non potrebbe giurarlo. Capita che durante il sonno, dopo un periodo di languore finito con una sferzata, o dopo un periodo di lunghe passeggiate terminate sotto una grondaia che luccica, capita che lei abbia la sensazione del ciclo onirico che ritorna. Una notte di luglio, mentre l’uomo che le dorme accanto respira profondamente, lei si ricorda tutto. Quindi si addormenta. Quindi si risveglia. Ha gli occhi bagnati. Pensa a sua madre. L’odore di Beirut entra dalla finestra aperta in cucina. Fuori, sulla strada, due uomini aspettano fermi ad un angolo. 2010. San Francisco. Lo chiamano il cubano. Ha la faccia come un osso, stretta e magra. Non si sa da dove venga. Nessuno ci ha mai parlato. Il cubano è muto. Apre bocca per mangiare, per sputare o per fumare. Appena sveglio, si infila i pantaloni e 6
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scende su Otis Street. Poi Prende McCoppin Street. Fa colazione in un bar con i vetri sempre appannati, muto. La cameriera che lo serve pensa che sia uno spacciatore, o un piccolo contrabbandiere, e a volte pensa che vorrebbe andarci a letto, ma lui non la guarda mai. A febbraio il sole è tiepido ma riscalda. Il cubano sta mangiando le uova seduto al suo tavolo. Dalle grandi finestre può vedere la strada, un paio di ragazzini che corrono attraverso un parcheggio, un cane che canta vicino a un cassonetto. La cameriera è italiana e viene da Potenza. La chiamano Rosanna. Ha le labbra rosse e non mette mai il rossetto. Quel mattino, quando il cubano esce a fumare, Rosanna lo segue. Si appoggia con la schiena alla colonna, si infila una sigaretta tra le labbra e aspetta che il cubano se ne accorga. Il cubano intanto fuma. Nel parcheggio di fronte tre ragazzini stanno tagliando le gomme ad un Chrysler. Il cubano osserva ed aspira. Rosanna aspetta. I ragazzini corrono attraverso il parcheggio e scompaiono. Il cubano schiaccia la cicca con il tacco e guarda Rosanna. Parliamo, le dice. E parlano di sogni, di incubi, parlano di febbre. Poi le accende la sigaretta. E niente è come sembra. 1247. Moravia. Vladislao di Boemia corre come un principe sul cornicione di legno della soffitta del castello che i padri hanno trasmesso ai figli e che i figli trasmetteranno ai figli e che qualcuno brucerà in una notte di rivolta, mentre la luna si avvicina e i galli dormono e le orchidee si fanno impollinare e il ponte accoglie i piedi stanchi dei suicidi. Vladislao non sa che il dolore penetra e scioglie i nervi e cambia gli uomini. Sa solo che vuole finire il cornicione, entrare dalla finestra, guardare sua cugina che lo guarda, baciarla, lasciare che cada sul letto, passarle una piuma sotto il naso, toglierle le scarpe, alzarle la gonna, infilarle la lingua nel cuore delle gambe. Ma Vladislao ha vent’anni, dice di essere un uomo, un uomo che non teme la caduta più di quanto non tema ascoltarsi. Non teme niente, in effetti, ed è un coglione, lo dicono tutti a corte, anche i meno coglioni. Ora la pioggia è densa e forma una curva come se fosse un fiume di lattice, e poi diventa vetro, cioè grandina e i chicchi colpiscono Vladislao al quindicesimo metro, e lui sobbalza, trema, sussulta, sbadiglia, scorreggia, conteggia, patteggia, resta in piedi, sì. E allora un uomo salta il fossato e uccide le guardie, uccide gli arcieri, uccide il custode, il cuoco, la spia, il fabbro, il topo, e poi va da Vladislao e gli bacia la mano. E dice, io qui ho finito.
BLITZRECENZION # 5 di S. H. Palmer La storia della mia signora
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http://www.youtube.com/watch?v=uHwojyIc52c
Tutto quel tempo perso a pensare a ciò che ero mi stava facendo dimenticare che c’è ancora tutto l’oceano da esplorare. (shanduziopalmer.tumblr.com) 7
Cella Bianca né sbarre né pareti Cella Bianca ovunque I pensieri s’intrecciano in quel Bianco Abbaglia Dispersione e Paura
nico PIANCASTELLI
FA R N E T I C O FRENETICO L a r abbi a , l a g i oi a, l’amore, l a mor te. I sentimenti, le frustrazioni, i desideri di un gruppo di amici, un piccolo paese perso nelle nebbie della Padana, la fine degli anni settanta e di un sogno di libertà emozionale e sociale (“il personale è politico”), i primi anni ottanta e l’impossibilità di accettare una resa meschina e borghese. E poi Nico, capo ideale di un gruppo di artisti ed intellettuali senza capi e senza organizzazioni, ma non privo di una precisa e coerente posizione politica pur nel costante rifiuto di etichette partitiche ed istituzionale, i graffiti di un sogno di liberazione da una cultura accademica e bigotta, una secchiata di vernice verde su un foglio di carta nera. Ora, all’alba di questi anni novanta popolati di giovani yuppies inebetiti da una tossicomania ideale, da una kafkiana ricerca, perennemente insoddisfatta, di meschini ideali borghesi, il ricordo di quegli anni settanta così vivi di fermenti innovatori è inevitabilmente associato alla amara constatazione di una ennesima vittoria di quello stesso Potere cieco e bigotto, da sempre nemico di ogni forma di liberazione intellettuale. (Renzo Balducci, in Nico Piancastelli, Poesie)
Pezzi di Compagni incollati a un Bar le parole scivolano sul tavolo e sguardi di Nostri cervelli crepati da DILEMMI asciugano le lacrime di una solitudine VOLUTA Ma sono crollate anche le ultime bandiere, al bar o nelle osterie lì accanto sotto un orologio troppo vecchio per battere si smorza la voglia di piacere di Sempre
Giuseppe. Io. Wolkswagen. Stazione Bologna Stuprati per le strade bagnate viceversa nelle osterie dell’attesa la “nuova sinistra” è un Relitto d’autocommiserazione. Gli storici e i cronisti si divertono. Macchie bianche su sfondo nero. sposta delicato velo leggero colore senso Cupido amore leguor sgocciolante in luminosi rigognoli Finestra Zozza Onore Finito
Farnetico frenetico nell’ovattato Talwin lacrimazione Ridistruibuzione cellulare Isolato è un mattino domenicale www.facebook.com/nicopiancastelli
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SOGNANDO, SOGNANDO di Paolo Battista Finalmente questi bastardi m’hanno fatto l’accredito, sfodera Silvia parata davanti alla porta di casa felice per il suo primo stipendio dopo tre mesi di lavoro, e consapevole che meglio di così non le potrebbe andare; questo è il suo primo contratto, anche se a tempo determinato. Entra e mi fa: alla posta oggi c’era un gran casino con la gente che usciva di testa per niente. Comunque, continua sedendosi sul cesso per pisciare, è impossibile vivere così, belin che palle, è sempre la stessa storia: o non ti pagano proprio o ti fanno stare sulle spine fino a farti diventare sclerotica, e si dirige sparata in camera, getta via la giacca grigia della Diesel sul letto, e lascia cadere la borsa di tela bianca con alcuni libri che le avevo prestato sul copriletto celeste come fosse una bomba lanciata da un caccia, e infine scalcia via le Converse a quadrettini come fossero i birilli di un giocoliere palleggiatore. Da qualche tempo Silvia lavora per il Centro d’ascolto radiotelevisivo, insomma raccoglie dati da programmi radio e tv seduta davanti al computer. C’ha un contratto di un anno ma a quanto pare viene pagata in ritardo per negligenza della società, e questa è una cosa che farebbe inkazzare chiunque, oltre al fatto che se non hai dei soldi da parte non ti trovi neanche gli spiccioli per mangiare! Vado a farmi una doccia, sbuffa mentre fa la coda ai suoi capelli. Io l’ascolto a fatica per via di un dolore intercostale che mi punzecchia da due giorni e leggermente piegato in avanti non dico niente, sorrido, l’afferro per le spalle, la rigiro come una monetina e le do un bacio passandole la lingua sulle labbra come marmellata sul pane. Poi però mi butto sulla poltrona bucherellata piazzata vicino alla libreria spartana e preparo una canna per non pensare a queste fitte del cazzo che mi trapassano come un scarica elettrica, consapevole del fatto che magari è proprio il fumo a farmi dolere il petto in questo modo. Sparsi dappertutto una serie di fogli pieni di parole e scarabocchi e alcuni vecchi libri di William Saroyan e Erskin Caldwell. Sto scrivendo da giorni, ché il portatile mi si è rotto e devo farlo aggiustare e i polpastrelli mi fanno male. Poi prendo un foglio a caso e leggo una mia vecchia poesia: Sognando Sognando… stelle topazio nel cielo squamato blu elettrico: alterazioni dorate che vibrano in milioni di dinamo e spettri e tragedie e scheletri e angeli caduti e ingranaggi contorti rumorosi e pazzi che cercano giustizia e tossici troppo sensibili dagli occhi dorati e migranti dalle lingue colorate e orgasmi accucciati sotto le lenzuola ululanti sotto l’orgia di cieli metallici. uuuh! vento ipnotico e fantasmi d’alabastro e amanti della frenesia nella per niente immacolata concezione che danno vita a nuove razze nelle strade della giungla blu e gialloneon e rossoconvulsione
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e furtivi gridolini di gatti copulanti sotto la finestra della mia cattedrale invisibile e isteriche risatine spruzzanti fulmini che squarciano nuvole in frantumi e mille soprannaturali trasformazioni e Sognando Sognando mi lancio da uno scivolo fatto di vecchie vene arrugginite e denti d’acciaio e labbra rubino e vortici d’orecchie e schizzi di sperma calcareo e i miei occhi ramati come opali che guardano increduli la folla di ombre che incimicia il marciapiede degradato sfrenato e piattaforme rotanti con merci di ogni tipo e sguardi cattivi e misericordia esposta in piazza a testa in giù. adesso, brandelli di nuvole trasformate in bestie feroci che cercano di mordermi il culo e schizzi ferrei di sangue vomitati per lo sforzo sul foglio scarabocchiato che stringo tra le mani come un tesoro azteco : Poesia della frenesia che illumina d’assurdo il mio corpo distorto come una chitarra elettrica e coppie di lune lucenti come crani senza capelli e cuori penzolanti e pupazzi smollati e pensieri svirgolanti nel trionfo di radiazioni astrali nel cielo fecondato blu elettrico. Intanto che leggo Silvia entra con il mio asciugamano blu sulla testa, il reggiseno nero e rosa e la mia vecchia tuta dell’Adidas ma in realtà non le do il tempo d’infilarsi nient’altro che l’afferro per un braccio e la tiro verso di me. La pelle profumata di the bianco, le tette sode. Le abbasso in un solo colpo tuta e perizoma nero, le sue chiappe mi parlano, le lecco la vagina come prima ho fatto con la cartina, si bagna, le infilo due dita nella fica, mi bagno, il mio cazzo duro urla, non resisto, mi faccio strada e poi inizio a darci dentro come un trapano sull’asfalto bollente, lei gode, le stringo i capelli bagnati tirando la sua testa verso di me, le palle mi scoppiano, lei geme, io spingo sempre di più di più, fino a quando non la sento venire, ne vuole ancora, poi si placa, cade giù, le bacio il collo, il cuore rallenta, prende una Camel, sbuffa. Per un attimo ripenso al primo giorno che l’ho incontrata, in attesa sulla panca al neon del Ser.T, ferita, affascinante, ammucchiata su se stessa, i lunghi capelli neri con la frangetta corta sulla fronte, gli occhi più verdi del solito, il sorriso avvolgente; cazzo, com’è volata! non c’è neanche più il tempo per viverlo il tempo! Quante cose ci sono state in mezzo: la roba, gli sbattimenti per il lavoro, la strada, l’aborto, qualche piccola scappatella, la rabbia, la morte, la sfiducia, ma siamo ancora qua, stretti l’uno all’altro, più decisi che mai a farla finita con questa vita precaria e balorda ma anche e soprattutto con la nostra cara “polvere delle stelle”. Non è facile, ma siamo ancora qui. E Silvia? Lei ci riesce meglio di me, non tocca droghe da anni tranne una piccolissima ricaduta dopo la morte del fratello. Io invece non sempre riesco a restarmene pulito e lei mi rinfaccia che non ci metto la testa, che non voglio, che mi piace vivere così e che non potrò mai darle una famiglia; e forse ha ragione, forse non faccio abbastanza, forse se al
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posto di scrivere poesieeeeehh muovessi il culo per cercare un lavoroooooooooohh!!!… ma neanche in questo riesco a restarmene pulito per lungo tempo. Poi Silvia ricomincia con la storia dei soldi: … e speriamo che questi non se ne escano sempre così…e se mi pagano con tre mesi di ritardo è un casino…e come faccio…e ci vorrebbe una bomba…e afferrando la borsa dalla poltrona si accende la solita sigaretta doposesso e chiude: forse devo cercarmi anche qualcos’altro, che ne so, magari c’hanno in mente di non pagarci nei prossimi mesi, e poi come faccio? E come fai?, ripeto come un registratore anni ‘80 e metto su il cd dei Tapes ‘n Tapes per sputtanare il silenzio. Poi mi alzo, nudo come un verme, prendo due birre nel frigo, e subito ritorno a letto. Tra l’altro da quando il mio ex-coinquilino Jerry si è trasferito per lavoro, la casa è sempre vuota e quindi ci possiamo divertire e girare ignudi senza rotture di palle. Ormai sono quasi dieci anni che vivo a Tor Pignattara e devo dire che il quartiere inizia ad entrarmi dentro come un ago spuntito. E comunque stavo pensando di risubaffittare subito l’altra camera, così almeno recupero i soldi per le bollette; e penso a voce alta, e Silvia mi guarda stranita: sono anni che mi chiede di convivere ma io trovo sempre una scusa per rimandare. Tanto abbiamo tempo, le dico. Poi mentre sbuffa fumo come una squaw dai lunghi capelli neri la tiro nuovamente verso di me facendole annusare tutta la mia voglia di sesso, ancora, voglia del suo corpo, ancora, e dei suoi morsi sotto le palle, ancora. Lo sento indurirsi e riscopiamo come due ricci. Poi mi dice: devo rimettermi a fotografare, è da tanto che non scatto! Se è quello che senti, devi farlo, le rispondo appoggiandomi con la testa sulle sue tette morbide. Ma belin troppi problemi…! e ce ne restiamo li, immobili, sul letto sgualcito e pieno dei nostri odori vissuti. Fuori l’autunno se ne va ancheggiando stretto nel suo cappotto ocra nero viola magenta, i rumori della città si assottigliano, le saracinesche ingrigiscono, portoni che sbattono, luci che si dissolvono… …lo sai che ti amo, e per la prima volta dopo tanto tempo - lucidamente - le dico quello che provo, ti amo, ripeto, nel bene o nel male. Silvia mi guarda sospesa, nuda, intimidita, come se da tempo stesse aspettando quelle due semplici parole che però tardavano ad arrivare. Anch’io ti…, sussurra increspando il labbro inferiore lievemente, ma non fa in tempo a chiudere la frase che scoppia in un riso isterico, a metà tra un lamento sofferto e uno sfogo soppresso. Per la prima volta dopo tanto tempo la stringo a me con la voglia di farlo, senza quella dose di abitudine e accettazione che rende l’amore sicuro ma anche pericolosamente statico. Usciamo? le dico. Andiamo a mangiare qualcosa, ti va? e per un attimo vivo come un’esperienza di trapasso dimensionale, mi sento bene, guardo Silvia sospeso, nudo, stranito, e per una volta mi sento veramente bene. Metto su la mia unica camicia preferita, le mie uniche scarpe preferite e i miei unici jeans preferiti. Infine indosso la mia unica giacca preferita ed anche se la vita non è proprio come uno se l’aspettava sento una piccola fiamma di speranza accendersi dentro il mio corpo freddo, dentro il mio cuore freddo ammaccato rovinato disilluso bastardo. Anch’io ti amo, pigola Silvia che inizia a cercare i suoi vestiti sparsi ovunque, e almeno per stasera ce ne andremo Sognando Sognando! (CONTINUA)
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*MERRY GO ROUND* di S. H. Palmer (Parte I) Smettere di scavare. Non desideravo nient’altro che starmene un po’ appollaiata sul tetto del mondo e ruzzolare giù su lame di stagno, dando le spalle al mondo che muore. Prima di tornare dovevamo però fermarci assolutamente, visto che la nostra dimora scarseggiava di alimenti e/o presunti tali. Dovevamo attraversare l’agglomerato suburbano per trovare qualcosa di decente, lì dai nostri fornitori di fiducia. Il neon grigio squarciava la rotta dell’amabile catorcio amico che ci conduceva nei pressi del Vecchio Salotto, dove era la città prima del collasso. Fondamenta solide erano riuscite a conservare gallerie sotterranee ed ipogei urbani alla perfezione. Cogli stivali di gomma e i guanti di tela percorriamo i corridoi stretti e giallastri, numerose porte si aprono e si chiudono da un lato e dall’altro e mercanti e clienti di ogni colore si accalcano con gentilezza, salutano tutti senza rancori e senza guardarti con la coda dell’occhio perché ormai non è più come un tempo, dove il povero stolto si atteggiava a marchese spendendo troppo per ogni inutile gingillo e il principe dei rospi faceva il taccagno accumulando ricchezze in attesa di tempi post-contemporanei migliori. Ormai siamo – lo eravamo anche prima, ma molti facevano finta di non saperlo – tutti uguali, tutti affamati, tutti grigi e un po’ gialli, tutti pieni di lividi e con le macchine in panne. Finalmente di fronte alla porticina facciamo educatamente la fila. Durante il corso della mia esistenza, ogni volta che ho fatto una fila mi è sempre venuta in mente quella vecchia che incontrai in Albione, mentre aspettavo diciottenne e sorridente l’autobus rosso a due piani e tre fossi: «il nostro sollievo più grande», diceva, «è fare file. WE LOVE STANDING ENQUEUED.» «Cosa c’è di bello e buono per noi oggi?» Matriarca della resistenza, la signora P** era dolcissima. In una piccola stanza nera mercanteggiava prodotti utili in maniera decisamente onesta. Sulla porta l’anziana donna fissava un punto di fuga col latte negli occhi, ma conosceva e ri-conosceva dalla frequenza e dal peso i passi di ognuno. Riconosceva anche noi, e sapeva perfettamente quanto eravamo stanchi o quanto ubriachi o quanto avevamo pianto il giorno prima. Mi dava sempre una carezza con la mente ed io ricambiavo di buon grado. Poco più in là, all’interno della scatola nera, c’erano gli altri componenti della famiglia. T**, U** e F** gironzolavano tra le grandi scatole di cibo precotto, premasticato e predigerito. Ci facevano sempre grandi feste come bambini. La signora P** non ha mai potuto avere dei figli, o forse non c’ha mai pensato, e durante il GRANDE SFOLLAMENTO DEI CESSI PUBBLICI ha raccattato per strada queste tre creature a cui anche dio aveva voltato le spalle. U** soffriva di un grave ritardo psichico, aveva grandi occhi verdi e abiti colorati, cantava continuamente e sapeva esattamente ciò che piaceva ad ognuno di noi, clienti abituali. F** e T** erano complementari l’uno all’altro. A T** mancavano braccia e gambe, ma non lingua e occhi: vomitava veleno dalla boccuccia tagliente (fssss). F** sembrava perfettamente sano, e fisicamente in effetti lo era. Di contro era completamente scemo. Non soffriva di alcun ritardo. Nessuna diagnosi funzionale a giustificare la sua stoltezza. Era soltanto scemo. Me lo ricordavo, in tempi non sospetti, quando in giro per la città faceva il belloccio e io e S** ci capivamo al volo: «che idiota cesso del cazzo.» Lì dentro spendevamo sempre più del tempo necessario, a cantare una canzone con U** o a ricordare con la signora P**. Ho cercato di scoprire come e dove avesse trovato salvato e cresciuto i suoi figli, ma facendo lei cadere nell’acqua come sassi le mie domande, alla fine lasciai perdere. (CONTINUA)
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I N T E RV I S TA A S ATA N A S U L R O C K ’ N ’ R O L L di Pierangelo Consoli (Parte II) «C’è comunque qualcosa che non mi torna, voglio dire, uno fa il patto e poi che succede? In che modo gli fai avere successo, cambi gli eventi o cose del genere?» «No, no, non funziona così, vedi, per me lavora un sacco di gente, gente con cui faccio affari da tanto tempo, è come una mafia, una famiglia, mettila come ti pare, funziona così, tu fai il patto con me e all’improvviso succede che Iggy Pop viene a vedere un tuo concerto e finisce che gli piaci così tanto che vuole lavorare con te, così lui ti presenta al suo produttore, che ovviamente fa parte anche lui della famiglia, poi arriva questo grande regista di videoclip e anche lui sta con me, lo stesso gli stilisti e tutto il motore parte e tu diventi ricco, fico e famoso. Credimi ho messo in piedi questo baraccone poco alla volta, non è stato facile, all’inizio volevano sapere da me cosa dovevano fare, che dovevano scrivere e io gli dicevo sei tu l’artista, stupiscimi! Ma non è che ci riuscissero tutte le volte, alcuni erano un completo disastro… non c’era molta base con cui confrontarsi, ci mancava la grammatica e andavamo tutti un po’ per tentativi. Oggi pensi a Prince, agli Zeppelin e cerchi di capire come devi muoverti. A molti di loro dicevo “senti fammi una cortesia, va con dio!” Sul serio, nella conversione ci guadagnavo di più. Facevano così schifo che la gente arrivava ad odiarli tanto da cercare altrove e oltre dio ci sono solo io.» «Perché pensi di avere così tanto appeal sui giovani?» «Perché io sono affascinante, non c’è una parola migliore per dirlo, c’è un momento dell’ellissi esistenziale in cui si finisce con l’arrivare a tanto così da me, capita a tutti e quel momento è l’adolescenza. Il Rock’n’Roll è un fenomeno adolescenziale, fatto da adolescenti per gli adolescenti, ed è giusto così, perché è lì che trova tutta la sua carica sovversiva, è un gioco per ragazzi; quando si passa quella fase il rock diventa un’altra cosa, non necessariamente peggiore, ma sicuramente diversa. Tanti musicisti, alcuni tra i migliori, sono diventati famosi quando erano molto giovani, diventando delle icone prima ancora di avere i peli sulle palle, e non riescono a reinventarsi crescendo, così si spiegano le overdosi, i suicidi e tutto il resto. I musicisti spesso non vogliono crescere, così si ammazzano prima dei trenta, ma questa è roba che puoi trovare nei libri, basta farsi un giro. Per quanto mi riguarda, “morire presto” non è un clausola che mi piace esercitare, e poi non posso interferire più di tanto, sai anche io ho delle regole, il libero arbitrio e cose del genere. E poi non mi conviene, io dico: vivi a lungo e parlerai molto di me. E’ una specie di motto. Però a essere onesti, un inghippo c’è…» «Che inghippo?» «Vai avanti quanto ti pare e divertiti, prendi il meglio, io so aspettare, ma quando decidi di smetterla, di tirarti fuori, quando dici basta, non me la sento più di partire per una tournée, o di entrare in uno studio di registrazione, allora è arrivato il momento di sederci intorno a un tavolo e tracciare un bilancio, dobbiamo fare i conti, e non si scappa, non c’è niente da fare. Perché credi che gli Stones stiano ancora a fare dischi? E i Pink Floyd? Per non parlare di Dylan, cazzo, quell’uomo non sta più in piedi eppure non si decide a farla finita. Ma te l’ho detto, io non ho fretta, ho tutto il tempo del mondo.» «Adesso ci sono questi tipi in rete, che si fanno chiamare “Gli Illuminati”, gente che vuole smascherare la tua… come la chiamiamo, organizzazione?»
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«È tutta pubblicità gratis e tutta la pubblicità è buona pubblicità. La gente ha fame di cose del genere, ci sono un mucchio di ragazzini curiosi là fuori che hanno solo bisogno di un pensiero che gli passi per la testa, da qualunque fonte gli arrivi, e verranno dritti dritti da me, è una cosa che vedo succedere ogni giorno, credimi!» «Quindi lavori come una casa discografica qualsiasi, cioè ascolti i pezzi e poi decidi, giusto?» «Beh, non è che va proprio così, te l’immagini il diavolo con le cuffie e le corna? Ahahah! Ci sono persone che lo fanno per me, e poi ci sono tutti quelli che dicono di stare con me ma non è vero, che ci posso fare?» «Mi stai dicendo che ci sono artisti che dicono di aver venduto l’anima al diavolo anche se non è così?» «Proprio così!» «E che senso ha?» «Io sono un marchio cazzo, aiuto a vendere, a creare il mito, non ho detto che mi piace, credimi, quella è tutta gente che ha provato a compromettersi ma non li ho voluti, li ho mandati via a calci nel culo, metti quel rapper, come si chiama? Kanye West?» «Si, Kanye West.» «Ecco, quello va in giro a dire che ha fatto un patto con me, ma non è vero, col cazzo che faccio affari con una merda simile, non è alla mia altezza. Ci vuole un bel coraggio, questa è gente che ha soggezione degli uomini, persino di dio, ma non di me, pensano che io non faccia altro che stare al palo ad aspettare, come una puttana qualsiasi, ma io non ne ho bisogno, ho richieste quotidiane. Questo mondo mi sottovaluta, io odio le persone, c’è gente che tratta scorie nucleari e ci fa soldi a palate, ma non è roba che si porterebbe a casa, ci stanno alla larga, gli fa schifo eppure la commerciano. Per me è lo stesso, non mi piace, ma non vedo business migliore dell’intera umanità, è così e basta.» «Che tipo di musica ti piace?» «Il pop. Il pop è forte, mi piace un sacco quella musica che sa parlare alla gente in maniera subliminale, e non sto parlando di ridicole tracce che si sentono se le metti al contrario, sto parlando di quei fantastici doppi sensi così lascivi, i mugolii che trasudano sesso perverso, donnine che sparano panna montata dalle tette, perché quella è roba che si può trasmettere a tutte le ore, non mi serve merda che finisce nel palinsesto delle quattro di notte, la nicchia mi fa schifo!» «E col metal come la mettiamo?» «Io odio il metal! Lo odio cazzo! Dicono che sia la musica del diavolo, ma col cazzo che lo è. I metallari sono la mia croce, la mia rovina, non sai quanti metallari dimmerda vengono da me a piangere ogni santo giorno!Io ci ho lavorato, lo ammetto cazzo, ma era venti anni fa, pure trenta, adesso il metal è morto e sepolto! Ci ho messo una croce sopra. Sai cosa? E’ un pessimo investimento, uno spreco di tempo. Primo mi fa cacare, secondo sono brutali, non hanno stile, non capiscono che a me piacciono le cose trasversali, quelle che possono arrivare a tutti, mi piacciono i padri di famiglia che passano Sergent Pepper ai figli, o un fantastico Led Zeppelin IV, roba che passa di generazione in generazione! Invece ti arrivano sti Impaled Nazarene o quel che cazzo che è, con crocefissi in putrefazione e io questa roba non la voglio, questa è roba che si vende a un ristretto gruppo di persone che tanto è già fottuta, non aiuta, capisci?» «Credo di si…» (CONTINUA)
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Stefano Bessoni - Sophia la compagna del boia