MAGAZINE
OTTOBRE 08
ADI NES, LAST SUPPER SANJA PUPOVAC
Il 98% delle storie di seduzione in letteratura sono precedute da una cena. "Last supper", fotografia di Adi Nes
IN QUESTO NUMERO 2
ADI NES, LAST SUPPER
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STITCH CHAIR
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PIEKE BERGMANS: VIRUS DESIGN
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BASTARD CHAIRS
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ARTE? ¥€$!
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ALBERTO MUGNAINI
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LA DONNA PE(N)SANTE
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ARCOBALENO IN UN BALENO
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PAOLA PIVI @ START MILANO
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MANIFESTI CINEMATOGRAFICI DALLA POLONIA
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SCULPTURE IN THE ENVIRONMENT
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FUKASAWA HANGER
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MANIFESTA7: FORTEZZA
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IL SILENZIO DI BANKSY
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BOARDROOM SANDRETTO RE REBAUDENGO
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POWERS OF TEN
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JOHANNES HEMANN: DESIGN BY STORM
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SAUL STEINBERG
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ANTONIA TOMASINI, SCULTURA SUBACQUEA
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ARENAE: SCENE DI GUERRE VIRTUALI
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JOHN BALDESSARI
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KAORU MENDE
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HERZOG E DE MEURON A NEW YORK
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BEUYS / MUNARI
SANJA PUPOVAC IGNAZIO LUCENTI
ROBERTO MARONE SANJA PUPOVAC
ROBERTO MARONE IGNAZIO LUCENTI LUCA SPAGNOLO LUCA SPAGNOLO
IGNAZIO LUCENTI
SANJA PUPOVAC IGNAZiO LUCENTI
ROBERTO MARONE
in copertina: Pieke Bergmans - Space Invaders - 2008
LUCA SPAGNOLO
IGNAZIO LUCENTI
SANJA PUPOVAC LUCA SPAGNOLO
IGNAZIO LUCENTI LUCA SPAGNOLO
MARTINA CANIPAROLI IGNAZIO LUCENTI
SANJA PUPOVAC IGNAZIO LUCENTI LUCA SPAGNOLO
ROBERTO MARONE
PIEKE BERGMANS: VIRUS DESIGN IGNAZIO LUCENTI C’è un unico concetto che fa da perno all’intero corpus progettuale di Pieke Bergmans: il Virus. La designer olandese rilascia prodotti colpiti da strane infezioni. Ogni oggetto contaminato dal virus si replica secondo mutazioni che sono sempre un po’ diverse l’una dall’altra e che lo rendono in qualche modo imprevedibile. Le sue serie diventano così il risultato di un’epi-
demia che deforma sempre, rammollendo ciò che dovrebbe essere solido, gonfiando e allungando i tessuti, facendo spuntare escrescenze ovunque. Quello che a prima vista può sembrare un semplice divertimento stilistico si rivela però una riflessione ben più profonda. Il prodotto finale, infatti, non è soltanto il risultato di un “mood” deciso a tavolino,
ma è la conseguenza di una premessa radicale che va a incidere profondamente in tutte le fasi della progettazione, dal pensiero alla produzione . Lavorare sul concetto di diversità e sul design come manipolazione significa innanzitutto esplorare le diverse opportunità offerte dagli stabilimenti produttivi. Bergmans concentra il suo intervento a monte, sul processo,
andando a definire procedimenti in cui l’imprevedibilità ha un ruolo centrale. Poi, una volta messo a punto un virus, lascia che questi agisca in autonomia. In effetti, l’unico virus presente in tutto il lavoro di Pieke Bergmens è lei stessa, quando va di fabbrica in fabbrica a infettare i processi produttivi con pratiche fuori dalla norma.
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ARTE? ¥€$! ROBERTO MARONE EDITORIALE
Questa cosa dell'asta di Damien Hirst ha fatto tanta notizia. In effetti la cifra guadagnata è un bel titolo, ma se ci pensi, con calma, in fin dei conti il più quotato artista del mondo guadagna, mettendo all'asta metà della produzione della sua vita, quello che Ronaldinho o Valentino Rossi guadagnano in un paio d'anni. Non è un dato significativo: le cifre dei fuoriclasse sono fuori misura, da sempre. Il dato significativo, apparso fra le righe di articoli farciti di chincaglierie, è un'altro: l'acquirente. Chi ha comprato queste 223 opere arrivando a spendere 10 milioni di euro è lui l'animale nuovo, non Hirst. E' nella comittenza che è avvenuto uno scarto significativo. Il ventiduenne Michelangelo vendendo la Pietà si comprò una villa, proprio come Hirst, solo che Michelangelo la vendeva al Papa, non a un grossista di spazzolini cinesi, per telefono,
lottando al rialzo con una Holding di Casinò venezuelani. Il grande scarto spiazzante, il balzo, sta in un' arte che ha una committenza inusuale e sostanzialmente non paragonabile ad altri periodi storici. Per duemila anni gli artisti hanno avuto sostanzialmente due interlocutori: il re (faraone, imperatore ecc.) e la chiesa (faraone, papa, imam ecc). Il potere politico e quello ecclesiastico. Poi, scomparsi re, parrucche e nobili vari, negli ultimi due secoli l'arte si è relazionata dialogicamente con una struttura più pulviscolare: la borghesia. Una committenza che da monocentrica si sfarinò, coniando per la prima volta la parola delle parole: il pubblico. Perchè il pubblico di quelle opere, i borghesi, per la prima volta nella storia coincideva con chi quelle opere le doveva comprare. Non dovevi convincere il Papa, ne il vescovo, ma, cosa forse persino più difficile, un'intera classe sociale, dal professore all'impren-
ditore, dalla California a Berlino. Era un mondo in cui una certa collettività compartecipava all'investitura dell'artista e della sua valenza culturale, in un rapporto dialogico, empatico, fra autore e pubblico. Questo pubblico, o quantomeno questo pubblico fautore, oggi viene svilito a ruolo di spettatore. Dal professore fino al passante, dalla testa alla coda, è un pubblico che partecipa in modo passivo a un universo confezionato in stanze molto lontane dalle sue. Un pubblico inconsapevole, forse a volte persino inutile, che osserva un universo culturale sceso dall'alto, alla stregua dei fedeli sotto i dipinti di Giotto. Perchè, tolti gli orpelli, alla fine, quel mondo ha come interlocutore, come pubblico e come committente un solo personaggio: il grossista cinese. Quello che all'asta fa a gara con l'amico della finanza a chi è più ricco, come dei ragazzini a chi c'ha la moto più figa, e che, una volta messo il Penone in soggiorno lo guarda,
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come Totti guarda un libro. Siamo sostanzialmente passati da un sistema di potere policentrico (curatore, professore, museo, gallerista, spettatore, collezionista, giornalista, critico eccetera) a un sistema costruito a raggiera intorno alla figura del compratore e dove, addirittura, l'artista scavalca tutta la ragnatela per vendere direttamente l'opera online al miliardario. Un sistema centripedo, feudatario, ma paradossalmente non autoritario. Perchè quel collezionista lì non ha nemmeno il desiderio un pò narciso, come Peggy Guggheneim, di
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dare le carte. Siamo tornati al feudo, ma il feudatario non c'è: gioca a golf. Siccome non credo che tutti si sono risvegliati con una strana ossessione per il denaro, mi viene da pensare che, finita una logica, finito un sistema di poteri, la comunità dell'arte si sia per paura del vuoto aggrappata al più forte, per non cadere. Stessa logica, per dire, con la quale l'Italia dopo il crollo della prima repubblica si è affidata ciecamente al più ricco e potente di tutti. Non so se sia così, ma ammesso che non è possibile tornare a una bor-
ghesia partecipe, ne a un'idea di classe dirigente di stampo novecentesco, sarebbe utile staccarsi dalla boa del miliardario, e inventarsi una nuova logica del sistema dell'arte, una nuova gerarchia, un nuovo pubblico, un nuovo sistema di selezione, e un nuovo equilibrio dei poteri all'interno della comunità. Perchè passare i prossimi cento anni succubi dell'imperatore degli spazzolini non sarà grave, ma sicuramente molto noioso.
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LA DONNA PE(N)SANTE
SANJA PUPOVAC
I pensieri di una donna, come la ramificazione degli alberi, seguono un disegno inventato ma preciso. Un soffio di vento leggerissimo, e si fanno i nodi. Dafne è una figura della mitologia greca, ninfa del bosco, figlia del fiume Peneo. Scultura di Abraham Jamnitzer, dal titolo "Daphne als Trinkgefäß"
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PAOLA PIVI @ START MILANO ROBERTO MARONE
Vino caffè aranciata eccetera, graficamente delineati nello spazio, fra frastuono, schizzi e odore. Hanno qualcosa di umano, corporeo, persino di erotico, queste nove macchine incasellate che spruzzano ri-ciclicamente liquidi. Ed
è un guizzo picassiano riuscire a raccontare umanità, con quattro tubi e un pò di piscio. Note da giornalista: Paola Pivi vive in Alaska, prima viveva ad Alicudi. non ama la città e il marito fa il musi-
cista. E' milanese e ha i capelli molto ricci. Da sempre espone alla galleria De carlo. E da sempre eccede in spettacolarità, con un tratto circense, forse persino volgare. E' una che ha capovolto carroarmati ed elicotteri, fotografato
asini sulle barche e zebre in mezzo al ghiaccio. E ha scritto su una tela, olio su tela, "cazzo figa culo tette". Fine della nota giornalistica.
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SCULPTURE IN THE ENVIRONMENT IGNAZIO LUCENTI
Nel 1970, mentre risuona ancora forte il rimbombo delle domande di rinnovamento e delle critiche al consumismo capitalista condotte dalle contestazioni studentesche, in un periodo storico in cui il sistema dell’arte si sta aprendo a nuove pratiche come la land art e le performance con il corpo, tre anni in anticipo su una crisi energetica che cambierà per sempre la consapevolezza delle persone sui temi ambientali, a New York viene fondato un piccolo studio di architettura: Sculpture In The Environment, in breve SITE. Con una formazione da scultore, la visione di James Wines e dagli altri soci fondatori è quella di riuscire a coniugare la progettazione di edifici con le arti visive, con una tecnologia eco-
compatibile e con il paesaggio, inteso come ambiente sociale e naturale. Per tentare di comprendere la filosofia progettuale di SITE e l’importanza che questo studio ha ricoperto, forse vale la pena partire da tre parole che rimandano direttamente agli eventi appena citati: consumi, arte e verde. E subito dopo ne aggiungerei una quarta, il tempo. L’universo dei consumi di massa entra nel discorso su SITE per almeno due aspetti. Innanzitutto, il consumismo rappresenta quello strato vitale fatto di riti e di economia che sta alla base dell’esistenza di catene di grandi magazzini come Best Products grazie ai quali lo studio ha avuto la prima opportunità di cimentarsi con l’architettura. Inoltre, il concetto di consumo, volendo rivolgere
uno sguardo più ampio, va a coinvolgere la natura stessa del fare architettura. In un orizzonte politico e sociale come quello attuale, in cui qualunque committente può rivolgersi al (super)mercato internazionale dell’architettura e portarsi a casa il suo Hadid o il suo Libeskind, la norma produce edifici costruiti per essere sempre più spudorati nel fare mostra di sé, urlando attraverso se stessi uno stile che diventa griffe, ma che resta spesso incapace di istaurare relazioni profonde con la funzione dell'edificio e con il paesaggio in cui si posa. Di fronte al nascere di un consumismo dell’archittura delocalizzata, SITE negli anni ’70 ha teorizzato il concetto di dis-architettura, dove l’attenzione del progettista scivola via dalle questioni formali e si accasa in quella
zona non ben definita, fatta di soglie, che sta ai margini della disciplina, soglia tra edificio e paesaggio, tra edificio e comunicazione, tra edificio e società. L’esordio dello studio, come dicevamo, vede la progettazione di punti vendita per una catena di grandi magazzini. Gli interventi realizzati su questi enormi scatoloni, sebbene rappresentino una fonte di curiosità e di divertimento per i clienti impegnati nella celebrazione della liturgia tutta laica dello shopping, portano con sé, un po’ nascosto dalle pieghe (concrete) di un sipario spettacolare, un messaggio inquietante fatto di rovine e di precarietà. Un supermercato con una parete fratturata, un centro commerciale spaccato da una foresta, possono essere considerati divertenti, l’iro-
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nia che ne traspare però, non è quella di una risata positiva, ottimista e rasserenata, si tratta piuttosto di humor nero, di risata isterica, dell’ubriacatura sfrenata che precede la rovina. Proprio la rovina è, infatti, un elemento retorico che ricorre spesso, soprattutto nei primi progetti, sia si tratti di una parete che crolla a terra, sia di una corsia stradale sbalzata in alto come se fosse una frusta, i SITE hanno portato avanti una poetica che si può definire dell’instabilità. Quello che emerge chiaro è un forte senso del tempo inteso come entropia, come ciò che rimane prima della Fine. Il fenomenico di conseguenza è tutto giocato su frane, crolli, pieghe, crepe, fratture,smottamenti e scosse telluriche. In altre parole, la spettacolarità degli edifici Best Products,
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seppure sicuramente finalizzata al marketing, non rinuncia a una riflessione critica che anzi forse è resa perfino troppo esplicita. Come dire: se si vuole provocare un ragionamento, tanto vale farlo in modo divertente e spettacolare. I progetti per Best Products ci portano dritti alla seconda parola: l’arte. La frana che precipita dalla facciata di un supermercato a Huston è una citazione quasi letterale delle colate di cemento e asfalto di Smithson, la parete di un grande magazzino che si solleva, come se l’edificio fosse una scatola alzata da un gigante, è degna di Duchamp. SITE ha progettato architetture come se fossero installazioni dadaiste, e poi è andato oltre, realizzando edifici pensati come performance o come happening.
Il concetto di usare l’architettura come una tecnica artistica è presente in modo esplicito negli scritti di Wines, quando afferma ad esempio che lo scopo supremo di un edificio è l’arte, non il progetto. Highway 86 Processional in questo senso è esemplare. Costruita in occasione dell’esposizione universale a Vancouver, consiste in una corsia di autostrada che emerge letteralmente dalle acque e che, dopo aver tirato qualche colpo di frusta librandosi nell’aria, va a morire, semidistrutta, tra due viadotti. Su questa particolarissima strada sfila una processione festosa composta di scarpe da tennis, biciclette, automobili, elicotteri, aerei, capsule spaziali e qualunque altro veicolo ci possa mai venire in mente. Tutti gli attori di questa sfilata, realizzati
con una finitura monomaterica grigia, vanno a comporre un nuovo tipo di arte ambientale, una forma di scultura abitabile. Il verde è un tema che si fa via via più ricorrente nei lavori di SITE. Viene alla luce già in alcuni edifici costruiti per Best Products, come il Forest Building di Richmond in cui un magazzino è spaccato in due e attraversato da porzioni di un bosco preesistente, ma diventa negli ultimi anni una vera e propria ossessione intorno alla quale ruotano tutti gli sforzi progettuali dello studio. Il fulcro di questa ossessione, che emerge anche dagli scritti del gruppo e in alcune prese di posizione che possono essere viste come vere e proprie forzature teoriche, consiste nel creare costruzioni che oltre a essere ecologica-
7 | OTTOBRE 08 mente sostenibili sul piano tecnologico, diventino filtro e insieme mezzo di propaganda, architetture militanti che facciano politica attiva in difesa della natura. Edifici che sono concepiti non come prodotti dell’uomo innestati su un terreno, quanto come elementi di giunzione tra l’abitare delle persone e il regno naturale. Approdiamo infine al tema del tempo. Questo, come un fiume carsico sottende l’intero percorso progettuale di SITE. È già presente nella fuga entropica cui rimandano le fratture dei grandi magazzini, e la sua presenza, o meglio la sua assenza, è evocata nell’istantanea sfilata di cemento sulla Processional Highway, ma i lavori di SITE offrono numerosi altri appigli a cui collegare questo argomento. Forse il progetto più riuscito in tal senso è il restauro della residenza Laurie Mallet a New York. Qui l’architettura si trasfigura in memoria sedimentata e il progetto degli interni è portato avanti come una metonimia solida di vite precedenti. Il restauro è eseguito
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MANIFESTA7: FORTEZZA LUCA SPAGNOLO
Quando prendo il treno per andare a Brunico a trovare i miei genitori devo sempre cambiare a Fortezza. Se da ragazzo volevo fare un giro a Bolzano venendo da Brunico dovevo cambiare a Fortezza. Ho sempre avuto un pessimo rapporto con questo posto. Fortezza è un buco, in inverno si gela, un freddo indescrivibile per via delle montagne alte e schiacciate contro le poche case (non più di 20) da non far passare un raggio di sole per quasi tutta la giornata. A Fortezza ci vivono i ferrovieri e non si fa nulla, se non cambiare il treno. L'ho sempre pensata così. Si è vero c'è anche la fortezza, ma è talmente un fatto certo che nessuno ci fa più caso. Poi succede che la settima edizione di Manifesta arriva in Alto Adige (sia
ben chiaro, non in Italia) e una delle sedi scelte è proprio il paesino sfigato vicino a casa, quel posto che ho sempre snobbato. Così capita un giorno che per la prima volta nella mia vita prendo il treno per Fortezza. Per rimanerci un po'. Ancora mi è poco chiaro come sia possibile che un dei maggiori eventi dell'arte sia arrivato dalle mie parti, e come possa essere stato organizzato così in malo modo. Per la prima volta Manifesta è itinerante, e non tra quattro città prossime l'una con l'altra, ma molto distanti tra loro. Per esempio la sede di Bolzano e di Fortezza distano tra loro 50km ca..., ma arriviamo al dunque. In giro non si fa altro che parlare di questo evento, di quanti soldi sono stati spesi, di quanta poca gente abbia fatto arrivare. Interessa solo questo non l'arte. All' Alto Adige piacciono i soldi. La verità è che ultimamente si parla molto di arte, dei limiti della trasgressione e della blasfemia, ma Manifesta non centra assoluta-
mente nulla. Il soggetto di infinite diatribe è una schifezza di opera di tale Martin Krippenberger esposta al Museion di Bolzano, una rana crocifissa con un boccale di birra in mano. Tutti si offendono se ne chiede l'immediata censura. E' arte o non è arte? Toglierla o no? Un mese fa ha seminato il panico fra tutti, stava arrivando il papa, bisognava eliminarla. E invece è ancora li, il Museion ha deciso che l'arte è arte e va conservata. Sono anche d'accordo, ma al di là dei significati quell'opera è davvero brutta e la eliminerei immediatamente. Ma torniamo alla fortezza. Un posto splendido, non ci ero mai entrato ( fino a pochi anni fa era ancora zona militare). Degna del suo nome, l'ampia corte interna ospita una piccola cappella in stile neo gotico, con uno degli altari più belli che io abbia mai visto, uno dei momenti più appaganti della visita. Per il resto non riesco a soffermarmi molto sulle opere. Una serie di installazioni
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audio all'interno di stanzoni vuoti, desolati e desolanti, con muri spessi piÚ di un metro. Si parla della storia della fortezza, dell'attesa di un attacco mai avvenuto da parte delle truppe napoleoniche, delle armi e di un tesoro svanito nel nulla; si sentono anche frasi da trascrivere immediatamente sul taccuino: "la bellezza può arrivare senza essere invitata" Arundhati Roy. Le stanze ospitano
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un'opera alla volta, spesso la stessa della stanza prima, ma tradotta in un'altra lingua. Onnipresenti le sedute di Gamper che questa volta gioca in casa. Interessanti le installazioni luminose di Philippe Rahm, neon installati all'esterno delle finestre che illuminano lo spazio interno come fosse luce naturale e molto belli i video, solo cinque, ma ci si ferma
volentieri a guardarli. Esco dalla fortezza e mi siedo al bar, la ragazza tedesca vicino a me dice che avrebbe voluto vedere quadri.
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BOARDROOM SANDRETTO RE REBAUDENGO
LUCA SPAGNOLO
E rieccoci al secondo appuntamento di Living Spaces alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino. Avevamo già parlato di questa iniziativa, con il primo lavoro di Martì Guixé, il PFIC bar ; ora è il turno di Atelier van Lieshout, del quale già avevo scritto in precedenza; all'epoca scrissi molto poco e forse niente, qualcuno si lamentò anche per l'inutilità delle mie parole.
Ieri a Torino ha inaugurato questa piccola mostra dove saranno presenti una serie di lavori intorno al progetto di Slave City, la città utopica i cui abitanti, schiavi, seguono una serie di regole ferree a vantaggio di tutta la comunità. Si riciclano le persone, tutta l'energia viene prodotta dall'interno, si lavora molte ore per se stessi e per gli altri, ci sono i bordelli e non si può sbagliare. Difficile.
Oltre ai modelli della città e vari plastici dei diversi reparti, sarà presente anche un nuovo lavoro, Boardroom, la stanza riunioni della città degli schiavi. Fino al 12 ottobre. Non so, alla fine credo di non aver scritto cose insensate in quell'articolo: Slave City continua a farmi paura e gli incubi sono rimasti.
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JOHANNES HEMANN: DESIGN BY STORM
IGNAZIO LUCENTI
C’è un che di Michelangiolesco in questi lavori di Johannes Hemann, in questo design che procede in negativo, per ostacoli, come una punteggiatura o come la musica. C’è anche un qualcosa che sa di Front Design, in questa ricerca per un progetto generato da elementi che per definizione sono incontrollabili: animali, esplosioni, in questo caso piccole tempeste gentili ricreate in laboratorio. Il processo a grandi linee funziona così: dentro una grossa scatola si fanno accendere
dei mulinelli vorticosi che sollevano e portano in giro particelle di polipropilene, sughero, plexiglass, schiume e quant’altro. La designer, come un vero Deus ex-machina, interviene dall’esterno a fissare gli ostacoli e risolvere la creazione. Dopo qualche tempo l’aria calda all’interno della scatola fa si che il materiale cominci ad aggregarsi intorno alle forme che intralciano il suo girare libero. Si apre la scatola e viene fuori un oggetto unico: designed by storm.
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CASSETTO
Alcuni gioielli del passato da rispolverare
ANTONIA TOMASINI, SCULTURA SUBACQUEA
SANJA PUPOVAC
Un monumento agli uomini quando sono lenti e zittizitti. “Fantasia degli italiani – piscina o lago?” Articolo di Gio Ponti che commenta una piscina di una villa a Bordighera disegnata da arch.Giulio Minoletti che ospita la scultura subacquea di Antonia Tomasini
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JOHN BALDESSARI
IGNAZiO LUCENTI
Tips for Artists Who Want to Sell 1966-68. Acrylic on canvas. 68 x 56 1/2 in. (172.7 x 143.5 cm).
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HERZOG E DE MEURON A NEW YORK
ROBERTO MARONE
Se il papa fosse persona seria li avrebbe già fatti santi. Invece mi sa che dobbiamo aspettare il prossimo. E' che non ne sbagliano una, ma nemmeno una, dall'installazione in biennale al grattacielo di New York. Eppure, vado a memoria, gli architetti bravi a New York finiscono sempre per deludere. E invece, Herzog, è di nuovo lì con quella sua freschezza creativa, a stupire come al solito, con idea semplice ai limiti del banale.
Nell'ordine ineluttabile della lottizzazione urbanistica americana, nel cuore della landa capitalista, loro scompongono l'edificio in piccoli frammenti di spazio ordinati a caso, come fossero stati accatastati lì, dopo essere usciti da una nave. Senza pensare. Come scatole di cioccolattini appogiati in fretta, a caso, sul tavolo ordinato del finanziere.
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STITCH CHAIR
LUCA SPAGNOLO
Come se Mendini avesse sperimentato per il Bauhaus, Adam Goodrum (australiano) progetta questa sedia, il cui potenziale cliente è un giullare di corte. Bellissima. Edita da Cappellini.
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BASTARD CHAIRS
IGNAZIO LUCENTI
Forse non sono belle, forse non sono eleganti, probabilmente nemmeno comode, ma sicuramente sono uniche. Come suggerisce Micheal Wolf, l'autore di Bastard Chairs, in Cina gli oggetti usati come sedie sono tanti quasi quanto le
occasioni per sedersi. Wolf le ha fotografate e raccolte in un volume da cui emerge la bellezza di questi oggetti imperfetti, l'arte di arrangiarsi e la capacitĂ di una sedia di raccontarci molte cose su colui che la usa.
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ALBERTO MUGNAINI SANJA PUPOVAC Quando Alberto Mugnaini apre la porta di casa sua (per ospitare a turno artisti sele-
zionatissimi) le curve delle sue creature di legno ti ipnotizzano puntualmente. Sono
sedie dal nome di donna; sono tutte belle, raffinate, vanitose, uniche e cornute.
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ARCOBALENO IN UN BALENO
LUCA SPAGNOLO
Dopo aver fatto una breve ricerca ho capito che Masashi Kawamura non è particolarmente geniale, uno come tanti altri, niente di eccezionale (questo solo a livello professionale, spero che nessuno se la prenda a male), ma ammetto che questo suo lavoro merita una certa attenzione e rimarrĂ
nella mia testa per un po' di tempo. Un piccolo libretto nero con la stessa banda colorata posta sempre nello stesso spazio di ogni pagina, simmetricamente opposta rispetto alle pagine destra e sinistra. Da sfogliare velocemente, giusto il tempo di vedere un arcobaleno.
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MANIFESTI CINEMATOGRAFICI DALLA POLONIA
IGNAZIO LUCENTI
Negli anni '70 e '80 succedeva che i manifesti dei film americani che arrivavano in Polonia, fossero ritenuti non adatti dai dirigenti del partito comunista. Quelle immagini sfavillanti, fatte di primi piani di celebrità e spruzzate d'aerografo dovevano sembrare davvero troppo occidentali. Gli artisti polacchi erano
quindi incaricati di ridisegnarli con uno stile più aderente ai valori socialisti e alla tradizione grafica europea. Se guardati oggi, quei manifesti, non possono che sembrare piccoli gioielli di grafica, lontanissimi da quell'ansia tutta holliwoodiana di produrre poster ammiccanti che aiutano a vendere. I manifesti
polacchi sembrano venire invece da chissà dove, lontano nel tempo e nello spazio, sinteticamente geniali nel fissare in una sola immagine il sentimento del film, opportunisti nell'approfittarne per mostrare anche altro, rimandando a temi e argomenti ben più profondi. Viene da sorridere se si pensa che in
molti casi questi manifesti sono molto più belli della pellicola pubblicizzata. Viene un po' di malinconia se si pensa che oggi nella stessa Polonia che ha prodotto questi capolavori probabilmente si usano le medesime immagini che qualche addetto stampa dalla California sceglie e spedisce in tutto il mondo.
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FUKASAWA HANGER
LUCA SPAGNOLO
Con questo progetto Naoto Fukasawa dice tutto. Spiega cos'è il design, spiega come si progetta tra tradizione di materiali, rustici chiodi, semplicità, prezzo basso, produzione irrisoria. Quando un designer ti da la possibilità di riprodurre un suo oggetto con un semplice fai da te, ecco raggiunta la perfezione.
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IL SILENZIO DI BANKSY
MARTINA CANIPAROLI
C'è chi li chiama arte e chi li chiama atto vandalico, i graffiti che compaiono nelle nostre città sono difficili da giudicare ma sono considerati all'unisono rappresentazione della nostra società almeno quanto le pitture rupestri della preistoria. Nel
frastuono del battibeccare di chi li considera da osannare e chi da cancellare arriva Banksy e lascia tutti in silenzio. Condanna sarcastica poetica forte ma allo stesso tempo piena di dolcezza di questa società di cui tutti parlano a vanvera.
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POWERS OF TEN
IGNAZIO LUCENTI
Ray e Charles Eames nel 1977 realizzarono un cortometraggio che a suo modo è un piccolo gioiello. Girato come un documentario, in 10 minuti conduce in un viag-
gio che va dall'infinitesimo all'infinito. Ogni 10 secondi si passa alla potenza del 10 successiva, partendo da un picnic in un parco di Chigago si arriva ai limiti della cono-
scenza: dalle particelle subatomiche ai confini dell'universo, per scoprire che gli estremi si toccano.
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SAUL STEINBERG
SANJA PUPOVAC
L'architettura non è noiosa. E' che la disegnano così. Saul Steinberg, Graph Paper Architecture, 1954.
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ARENAE: SCENE DI GUERRE VIRTUALI
IGNAZIO LUCENTI
Marco Cadioli ha messo via pellicola, obiettivi e macchina fotografica li ha sostituiti con un programma che cattura lo schermo: al posto della realtà fisica ha scelto di catturare in immagine quello che accade nei mondi virtuali di second life, delle chat e dei giochi di ruolo. E la cosa, anche se a prima vista potrebbe sembrare scontata, non lo è affatto. Internet si è da subito imposto come un laboratorio dove in ogni istante si inventano relazioni sociali e si sperimentano altre forme di vita che
meritano di essere oggetto di riflessione. Quanto ai videogames poi, che essi abbiano influenzato l’iconografia e le tendenze estetiche almeno degli ultimi quindici anni è un dato che possiamo dare per acquisito. Per capire quanto profondamente i videogiochi stiano ridisegnando i nostri sogni, basta ricordare la notizia di poche settimane fa secondo cui l’industria videoludica ha ormai superato in fatturato perfino quella cinematografica. Il sempre maggiore interesse da parte del sistema dell’arte verso questo “media” è quindi una conse-
guenza quasi naturale. Niente di strano quindi nel fatto che un artista scelga il videogioco come oggetto di rappresentazione, come riferimento stilistico e perfino come strumento di produzione d’arte. Cadioli, con il suo progetto Internet Landscape, già da alcuni anni documenta per immagini quello che accade nello sterminato paesaggio in evoluzione che è la rete, fissando su pixel eventi, relazioni sociali, vittorie e drammi che segnano le seconde vite degli internauti. ARENAE, naturale proseguimento di Internet landsca-
pes, porta il reportage nelle zone di guerra. Ogni giorno, infatti, sono migliaia i server su cui per gioco ci si ammazza. Il fotografo dunque, proprio come un reporter embedded, si è fatto condurre per questi mondi da giocatori esperti, seguendo da vicino le loro azioni e documentando in presa diretta questi scenari di guerra sintetica. A guardare bene queste foto, la cosa più impressionante è la perfetta somiglianza tra le scene digitali e le immagini dei grandi fotografi che ci hanno mostrato cosa è la guerra standoci in mezzo.
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KAORU MENDE
LUCA SPAGNOLO
Con un gioco di parole potremmo effettivamente dire di essere al secondo Match, ovvero il secondo incontro con i fiammiferi sulla nostra rivista. All'epoca si era parlato dei fiammiferi a testa doppia di Paolo Ulian (senza dimenticare Mircea Cantor) amati da qualcuno ed evidentemente non compresi da altri.
Ora è invece il momento di portare all'attenzione di tutti quest'altro lavoro, del designer giapponese Kaoru Mende, che pensa ad un fiammifero davvero archetipo di se stesso. Come un dito immerso nella nutella diventa cucchiaio, un rametto nello zolfo diventa fiammifero.
7 | OTTOBRE 08
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DALLA CANTINA
un vecchio articolo riportato alla luce
BEUYS / MUNARI ROBERTO MARONE
Sono biograficamente a una generazione di distanza, culturalmente due continenti non confinanti, parlano lingue diverse, hanno respirato paesaggi diversi, raccontano mondi diversi e generato culture diverse. Eppure per un momento, Beuys e Munari, si sono incontrati, parlando di sedie. Non di quadri: di sedie.
Forse si sono solo sfiorati per caso, ma che importa. Importa che due geografie lontane riescono a incontrarsi in un punto, e in quel punto comunicare, da miglia di distanza. Chissà se si sono incontrati anche nella vita, i due, e se si, chissà quante cose si possono non dire, due personaggi così.
Joseph Beuys "Sedia con grasso" 1964 Bruno Munari "Sedia per visite brevi" 1947