MAGAZINE
MARZO 09
IN QUESTO NUMERO 3
NEWPATA
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FERNANDO BRIZIO
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EVA ZEISEL
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ALEX FRADKIN: BUNKERS
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PEPSI, OH BOY!!
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RESIGN
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ECAL ALLA DESIGN LIBRARY
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COSMIC THING
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MAURIZIO CATTELAN, ED ELUANA
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SUSUMU KOSHIMIZU
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ALICE WANG
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DON’T MISS A SEC
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MADE MY BEES
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BRANCUSI VS PHILIPPE STARCK
ROBERTO MARONE LUCA SPAGNOLO
SANJA PUPOVAC IGNAZIO LUCENTI
DEJANA PUPOVAC
ROBERTO MARONE LUCA SPAGNOLO
IGNAZIO LUCENTI
ROBERTO MARONE LUCA SPAGNOLO
IGNAZIO LUCENTI
ANDREA AZZARELLLO IGNAZIO LUCENTI
ROBERTO MARONE
in copertina: Gabzdil Libertiny - honeycomb vases - 2007
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NEWPATA EDITORIALE
Chi ci segue attraverso il sito già sa che il 2009 è partito all'insegna di alcune novità. Soprattutto di una nuova veste grafica strutturata e pensata per una lettura dei contenuti diversa, più leggera e fruibile. L'altra grande novità che vi annunciamo è che prossimamente sarà online, udite udite, una versione in inglese del magazine. D'altronde, internet non è per sua natura "monoglotta" e
avere un sito solo in italiano ci sembrava un ossimoro. Per questo motivo questo numero sarà l'ultimo numero solo in italiano, dal prossimo, cari lettori, ladies and gentlemen, sarete in compagnia di americani e cinesi. Nel bene. E nel male.
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FERNANDO BRIZIO LUCA SPAGNOLO L'elogio del difetto, dell'imperfezione e della casualità è di Fernando Brizio. Se i pennarelli Giotto macchiano i fogli e le dita, lo stesso possono fare sui vestiti e sui vasi; meglio se bianchi come la carta. La macchia è imprecisa e incontrollabile, ma colorata e uniforme. Del decoro possiamo vederne l'artefice, e l'artefice è protagonista del progetto stesso e della sua realizzazione formale. Il compimento dell'opera è lasciato all'incontro tra
materiali, che si svela nel lento assorbimento di colore da parte del tessuto o della ceramica. Un'altra storia sono i vasi ancora duttili e malleabili, caricati sulla jeep che ne conferisce la forma finale a forza di scossoni e curve strette. Jeep vases. Anche qui il caso e l'incognita dettano legge, ma ad una velocità differente.
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EVA ZEISEL SANJA PUPOVAC
Eva (con la figlia): un disegno di donne gentili che, come i pinguini, sono una specie a rischio di estinzione.
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ALEX FRADKIN: BUNKERS IGNAZIO LUCENTI Nell’ultima frontiera tracciata dalla conquista dell’ovest, nell’attuale territorio che si estende intorno alla baia di San Francisco, succede che l’incessante attività sismica e gli smottamenti dovuti alle piogge fanno emergere dal suolo costruzioni di altre epoche. Si tratta di bunker e strutture belliche che riaffiorano dal mare della California,
vecchi corpi deposti sulle spiagge o aggrappati a colline in disfacimento. Rimandano a un passato che spesso è più immaginario che reale, a una storia rimossa e parallela, fatta di spettri e di guerre. Quelli più antichi risalgono agli inizi dell’ottocento ed erano stati costruiti per difendersi dal Messico. Osservandoli si riesce a ripercorrere tutte
le tappe salienti della storia recente: guerra civile, prima e seconda guerra mondiale, guerra fredda. È quasi poetico il fatto che la terra con regolarità rigurgiti queste metafore solide a raccontare la costante attesa del nemico, l’angosciosa identità di un’intera nazione. Il fotografo Alex Fradkin li ha fotografati e raccolti in
un libro di prossima pubblicazione: Bunkers: Ruins of War in a New American Landscape.
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PEPSI, OH BOY!! DEJANA PUPOVAC
Pepsi ha un nuovo logo. Un logo che ha riportato le bollicine dentro lo storico marchio. Ci sono molte cose che sono state dette con il lancio di questo rinnovamento grafico, communicativo e anche politico. Il nuovo logo è un logo 'Obamesco'. Il nuovo logo PEPSI esce con la campagna e la
vittoria di Obama, il nuovo logo dagli stessi colori della bandiera e del bollino di Obama promette il rinfresco come riciclo. Un refresh più fresh di quelli di prima. Refresh everything. Sempre in sintonia con il clima di speranza che porta la vittoria del presidente nero, la comunicazione del
marchio di questa bevanda scura, porta un messaggio semplice ma importante che la pubblicità rivolta alle masse sembra aver dimenticato: felicità, ottimismo, amicizia. Che si uniscono sotto la bandiera dello stesso marchio. La campagna della pepsi riprende degli elementi vincenti della pubblicità degli anni pas-
sati. Unisce quel metodo pubblicitario che puntava alla semplicità e alla qualità negli anni novanta (primi piani in bianco e nero di persone sorridenti, ritratti di persone comuni, dissetate e felici) con l'ammirabile sinuosità e rigore grafico sperimentale degli anni settanta: il marchio si semplifica, ricorda quasi
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un simbolo delle olimpiadi giapponesi. La scritta pepsi è sottile. La lattina è perlata più che metallizzata. E non cè traccia di quelle prepotenze di capacità computerizzata, di effetti speciali, plastici, naturalistici e sovvranaturali, di quella confusione che si è creata in questi anni dove gli stru-
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menti per comunicare sono diventati l'aspetto principale e decisivo della qualità della comunicazione. La pepsi ha fatto un passo indietro facendo un passo avanti. E' tornata indietro come per tentare di ricreare questi anni che sono andati storti. New York è tappezzata di parole di otti-
mismo e di gioco su sfondo colorato, ogni 'O' rappresentata dal tondino del nuovo marchio. Sui palazzi e sotto terra si legge OH BOY, POP, TOGETHER... La voglia di seguire, come abbiamo seguito le bollicine che ci scoppiavano sul viso e dentro lo stomaco, un prodotto non per
la sua qualità nutrizionale ma per il suo messaggio di umanità e amore è quasi irresistibile. E ci ricordiamo quell'emozione che la pubblicità ci provocava una volta, quel desiderio di appartenere ai bambini Benetton, di bere la coca come i ragazzi americani, di avere una famiglia Barilla e
di portare le mutande Calvin Klein sotto i blue jeans strappati. Non so perchè quella pubblicità fu forte, convincente, libera e sexy. Pepsico è una grandissima azienda e io non pretendo di conoscere i metodi e meccanismi, buoni o malvagi che siano, del suo mondo operativo. Io, la Pepsi non la bevo neanche, è un prodotto malsano. Allora perchè mi fa sentire di buon umore questa sua nuova immagine? Perchè, pur non bevendola, sento le bollicine che mi fanno lacrimare gli occhi mentre leggo OPTIMISM su sfondo rosa? The answer, my friend, is blowing in the wind...
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RESIGN ROBERTO MARONE Suona strano, lo so, ma succede che ogni tanto ricercando in giro ci si imbatte in progettisti italiani. Non che la qualità qui da noi manchi, ma la quantità, quella, non c'è dubbio. La vitalità dei blog, dei musei, delle associazioni, e di tutta la filiera degli altri paesi, tende a squadernare un ventaglio di possibilità al quale noi opponiamo invece dei rari e isolati campioni. Per lo più battitori liberi, fuori campo.
E così finisce che girando su un blog tedesco scopri che qui dietro, a Faenza, ci sono dei ragazzi bravissimi. Giocano sull'idea di riuso (non a caso si chiamano Resign) costruendo delle anomalie visive inconsuete che superano il presupposto, forse logoro, del riciclo, fino a lasciare a queste ipotesi ancora sperimentali una suggestione spiazzante. Succede vedendo la cattedra/balcone fascista, e
lo sgabello per gli scacchi. L'albero di sci appendiabiti, la lampada con le ruote e, forse il più bello di tutti, le due sedie per fare una sedia. Non so se questo sia design, ne se sia arte, resta il dato piacevole e confortante che un gruppo di ragazzi di talento muova qualcosa, spostando qualcos'altro.
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ECAL ALLA DESIGN LIBRARY LUCA SPAGNOLO Ieri sera alla Design Library a Milano c'è stato un incontro con Pierre Keller, il preside della ECAL, l'Ecole Cantonale d'art de Lausanne, o University of Art and Design Lausanne (da notare come in francese il termine design non compaia). E non c'era nessuno, solo quattro gatti fortunati. Colpa della pioggia? Poco importa, chi non è venuto non potrà mai capire la differenza che
passa tra una scuola triste come il Politecnico di Milano e una scuola che sforna talenti già dai primi anni di corso. Per tutto il tempo Keller, con il suo italiano dal fortissimo accento tedesco ha parlato di giovani, del loro potenziale, di quanto sia più bello vedere un designer di 30 anni che non uno di 40, di come nella sua scuola si dia libertà totale alla progettazione, "basta sedie o
armadi, quelli li possono disegnare dopo! Quello che i nostri studenti fanno all'interno dei laboratori, molto probabilmente non potranno farlo una volta usciti di qui!", è una questione di approccio al progetto, lavorare con la testa, inventare, imparare le nuove tecniche e tecnologie. Keller, sicuramente non privo di un grandissimo spirito imprenditoriale, porta in giro i lavori dei
suoi studenti, organizza mostre presso le gallerie più importanti del mondo (Galerie Kreo per esempio), le quali riconoscendo un certo valore alle opere, non si tirano indietro a metterle in produzione (per serie limitate). La qualità dei progetti è altissima, si sperimenta sempre e ovunque, si passa dalla progettazione di sgabelli per mungere le mucche, all'utilizzo del pane come materiale, dal tavolo per terremoti con
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tanto di kit di sopravvivenza, alle casette per uccelli. Cose che qui in Italia, e sicuramente a Milano, verrebbero etichettate
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come frivole o inutili e rimpiazzate dal progetto perfettissimo di una caldaia. Insieme a Keller c'era Alexis Georgacopoulos. La prima volta che si sono
incontrati Alexis aveva 24 anni e a scuola gli insegnavano a disegnare rasoi e flaconi di detersivi, "cose di una tristezza infinita" dice Keller, Ora Ale-
xis ne ha 32 ed è professore presso l'ECAL. Eeeeh si Luca, ma il Politecnico, la tradizione, i maestri...
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COSMIC THING
IGNAZIO LUCENTI
Damián Ortega con l’installazione "Cosmic Thing" del 2002, espone un maggiolino della Volkswagen scomposto. L'artista messicano (ma lavora a Berlino) inizia la sua carriera come vignettista di satira politica ed evidentemente, nella sua sensibilità di artista ha tenuto da parte quel senso di gioco e di assurdità deflagrante che
faceva parte del suo precedente bagaglio professionale. Il suo lavoro ha a che fare con gli oggetti di consumo, e ciò è particolarmente evidente quando prende un maggiolino e ne realizza un esploso come quelli che si trovano sui manuali d’istruzioni. Smontando un’automobile e mettendo in sospensione su dei fili
tutti gli elementi, ottiene il risultato di un’immagine corto-circuito in cui convivono l’idea comune che si ha solitamente di quell’oggetto (i pezzi sono i medesimi, non sono una riproduzione e anche l’ordine spaziale è sostanzialmente rispettato) e uno schema logico che lo descrive concettualmente (o sarebbe meglio dire tecnicamente).
Per questa caratteristica fa la stessa impressione delle tassidermie di formaldeide realizzate da Hirst, nella loro surreale rappresentazione di un corpo-tassonomia. Ci si muove insomma sulla linea precaria (sempre di più a dire il vero) che corre tra realtà e rappresentazione della stessa. Tra vita e catalogazione. La scelta del soggetto poi,
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26 non è casuale ma fa parte di quel sottotesto satirico/politico presente nelle opere di Ortega di cui si diceva poco sopra. L'automobile della Volkswagen, infatti, in Messico è uno dei simboli più forti della occidentalizzazione e del benessere economico raggiunto dal paese. C’è quindi il gusto dell’allusione ironica in questa rappresentazione a pezzi del modello economico Messicano che ricorda in parte il finale esplosivo del film Zabriskie Point in cui Antonioni fa saltare in area una serie di prodotti di consumo. Se però nel film del ‘70 la deflagrazione arriva anarchica e liberatoria, nel lavoro di Ortega è invece letteralmente “da manuale”, ordinata e razionale. Qualche anno più tardi Ortega dovendo esporre in Italia decide di ripresentare lo stesso meccanismo, cambiando il soggetto. In Italia il ruolo non può che toccare alla Vespa. Tra i due momenti però qualcosa è cambiato, se la prima volta si assisteva a un’immagine surreale ma sostanzialmente statica, stavolta il processo di decostruzione è rappresentato attraverso tre istantanee che ne restituiscono il movimento. La vespa esplode o si ricompone a seconda del senso di lettura, restando in uno stato sospeso di crisi che, per la situazione economica attuale, appare molto appropriato.
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MAURIZIO CATTELAN, ED ELUANA
ROBERTO MARONE
Non credo che Cattelan, crocifiggendo una donna a un lettino, si riferisse a Eluana. E forse nemmeno all'eutanasia. Certo è che questo lavoro in questi giorni butta fuori una energia diversa, forte, nella quale io non riesco a non pensare a quanto l'idea di crocifissione, di pena, di costrizione, appartenga totalmente e forse persino esclusivamente al mondo cattolico. Che sia una invenzione loro, figlia della loro idea di sofferenza, di colpa e di privazione. Figlia del loro concetto delirante di vita, e della loro paura ossessiva della morte. Perchè solo così si può arrivare a capire la caparbietà con cui difendono l'idea straziante per cui un umano attaccato a delle macchine da 17 (diciassette) anni possa definirsi vita. E avere paura, persino paura,
che quel corpo morto possa morire. E solo la loro idea di privazione della altrui libertà (vecchia di secoli) può arrivare a concepire che questa delirante idea sia La Verità, la logica unica e inappellabile da imporre agli altri, da perseguire con foga culturale e addirittura politica. Al punto persino di ledere la libertà di una famiglia, la dignità di quella persona, e la libera coscienza che il resto del paese (minoritario o maggioritario che sia) coltiva per se stesso. Voi siete liberi di coltivare questa vostra idea di cosa sia la vita, di chi la dona, il concetto di dolore, di morte, e il vostro senso di colpa innato da espiare con improbabili sofferenze. A noi queste cose non interessano. La crocifissione non ci appartiene. E non vogliamo che appartenga ai nostri figli.
CASSETTO
DICEMBRE 08 Alcuni gioielli del passato da rispolverare
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SUSUMU KOSHIMIZU LUCA SPAGNOLO Giappone. Mono-ha si traduce in italiano come "scuola delle cose". Le cose sono gli elementi della natura, terra, rocce, carta, legno, vegetali, acqua. Per molti versi e fondamentalmente per capirsi meglio, non è altro che la trasposizione dell'Arte povera nel Giappone dei fine '60. Nobuo Sekine potrebbe esserne il precursore, Susumu Koshimizu e Katsuro Yoshida i suoi complici nell'aver scavato nell'ottobre del 1968 una grossa buca,
scavando con le loro stesse forze nella terra, per poi ricreare con la stessa materia, a pochi metri un cilindro perfetto. La materialità delle cose, la sottolineatura di ciò che è inerente alla materia, ma non per questo visibile e la forza dell'essere natura, porta al centro il lavoro di Koshimizu. Uno dei suoi primi lavori, 1969, forse il più famoso, Paper, porta in un museo un grosso sacchetto di carta giapponese, le cui dimen-
sioni portano già la nostra mente altrove, ma poi all'interno scopriamo, in forte contrasto con il contenitore (per la sua dimetricalmente opposta matericità), una roccia. E pensiamo che la carta e la roccia fanno parte di mondi diversi, che la carta è fragile, la roccia troppo dura e pesante, il sacchetto potrebbe rompersi, non potrebbe mai essere alzato, il loro destino, se si vuole l'integrità di uno e la stabilità dell'altro elemento, è di
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rimanere li, fermi immobili, in una disturbante armonia, per sempre. Un altro lavoro, Paper Bag, utilizza la carta come supporto per comunicarci una diversa possibilità di interpretazione,
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quasi come se la carta smettesse di sentirsi un derivato della cellulosa, e desiderasse l'aspetto di una superfice marmorea. Ma basta il nostro passaggio, un leggero spostamento d'aria a svelarci tutta la sua leggerezza.
Una roccia spaccata in due da un taglio netto all'interno del Museum of Modern Art di Tokyo è semplicemente un modo per esporre una roccia in quanto roccia e in quanto fragile. Un modo diverso di guardare alla scultura.
From surface to surface è la variante del tema. 14 modi diversi di trattare lo stesso materiale, le stesse dimensioni in maniera sempre diversa. Come le varie possibilità di immaginare una scala a pioli di Cildo Meireles.
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Sempre di forme simili si tratta durante un installazione del 1983, dove diversi tavoli, presentano piani e strutture sempre diversi. I piani sono sempre d'ostacolo all'utilizzo che di solito se ne fa; è difficile appoggiarci le cose. Le superfici sono defor-
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mate, a volte rivelano la loro natura, il loro passato, altre volte solo il loro presente, facendoci capire cosa può averle ridotte cosÏ. Superfici complesse e mai superficiali. Domo arigatò Susumu Koshimizu!
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ALICE WANG IGNAZIO LUCENTI
Alice Wang dice di interessarsi a quei bisogni che le grandi multinazionali potrebbero non essere in grado di soddisfare. L’obiettivo è di realizzare un piccolo scarto in quegli oggetti che per tradizione o per conformismo formano un fronte compatto in qualche modo disumano. Quale oggetto migliore su cui esercitarsi, allora, della sveglia. Col suo suono
fastidioso ogni mattina ci introduce a tutta la serie di doveri che ci attendono. Che si manifesti con un trillo acuto o attraverso una suoneria più o meno elaborata risulta sempre spietata, implacabile e puntuale. Ogni giorno ci addestra a rispondere ai suoi stimoli, modellando il nostro stile di vita su un ritmo meccanico. Alice Wang propone due modelli più morbidi giocando sul modo di inte-
ragire con l’oggetto ma conservandone intatta la funzione. Tyrant, il primo modello, si collega al telefono cellulare del proprietario e inizia a chiamare casualmente uno dei contatti presenti sulla rubrica a intervalli di tre minuti. Perfect Sleep invece è dedicata a tutti quelli che hanno uno stile di vita che gli consente di dormire quanto vogliono. Questa,
infatti, permette di decidere il numero di ore che si vuole dormire e non l’ora in cui ci si deve svegliare. Con il progetto Asimov’s firt law tocca invece alla bilancia, altro oggetto per definizione preciso, inflessibile, cattivissimo. Il progetto si compone di tre modelli: White Lies, permette all’utilizzatore di mentire a se stesso, ponendosi lontano dal display il peso apparirà
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34 inferiore, in questo modo la persona potrà avvicinarsi ogni giorno alla verità. Half Truth ha il display posto sul lato, in modo tale che chi si pesa non possa vedere direttamente il risultato. La comunicazione è affidata invece alla responsabilità di un partner, che avrà a disposizione l’intelligenza e la sensibilità di cui è dotato per decidere di volta in volta se dire la verità o alterarla. Open Secrets, infine, invia un sms con il valore del peso a un numero scelto in precedenza. Chi riceve il messaggio potrà decidere se rivelare il segreto o tenerlo diplomaticamente per sé.
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DON’T MISS A SEC ANDREA AZZARELLLO
L'artista che inserisce spazio, genere e potere in un parallelepipedo di due metri e cinquanta per un metro e quaranta, alto quasi un paio di metri. L'azione dell'artista, espressa in installazioni come questa, è una conquista anche fisica di libertà, contestazione di potere politico o mediatico. Riflette inoltre sull'influenza dei media nella definizione ed imposizione dei ruoli nella società, creando strutture ed ambienti che rileggono in maniera dissacrante alcuni miti contemporanei e rivelano i legami esistenti tra strutture architettoniche e strutture di potere. Concentrare una riflessione
o riflettere per concentrarsi attraverso oggetti, forti della pratica quotidiana. Questo e' il vero valore dell' opera, che sa inevitabilmente evidenziare il sottile punto di equilibrio fra creazione artistica e distruzione "artistica". Siamo liberi di pensarla come vogliamo, ma la soddisfazione che quest'opera trasmette ha il sapore dei vecchi valori e il "nostro prodotto interno lordo" cresce inesorabilmente di fronte a tanta seduzione.
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MADE MY BEES IGNAZIO LUCENTI Made by Bees vases fa parte del progetto di tesi di Tomas Gabzdil Libertiny. (Design Academy Eindhoven). Il progetto nasce da una riflessione critica nei confronti della società dei consumi. Al valore economico-funzionale e a quello metaforico che si cela dietro il desiderio di possesso di beni materiali, in un contesto fatto di eccessi (di disponibilità, di lusso, di tecnologia) e obsolescenza programmata, viene contrapposta una visione primordiale e archetipa.
La rozza cultura del tutto ha un prezzo, contrapposta alla natura esile, transitoria e preziosa di prodotti effimeri il cui valore è il risultato del tempo necessario per crearli e dall'impegno laborioso di migliaia di organismi che vi contribuiscono. Il tentativo è quello di ribaltare valori negativi per una società industriale, quali il primitivo, la fragilità e la caducità in valori positivi, creando oggetti inusabili.
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Gabzdil Libertiny. (Design AcaLibertiny, con questo progetto, si pone in continuitĂ con un utilizzo fortemente metaforico dei materiali naturali, tipico di alcune correnti dell'arte contemporanea quali ad esempio l'arte povera (Penone su tutti) e in particolare con il lavoro di Joseph Beuys. Attraverso l'uso di sostanze prodotte
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direttamente da organismi animali e in seguito alla non riproducibilità meccanica del processo di costruzione, l'oggetto assume una valenza quasi sacra. Libertiny da l'avvio ad un processo di produzione che è anche un processo di crescita spontaneo, ma non lo con-
trolla, esso va avanti in modo autonomo seguendo dei meccanismi naturali prevedibili solo in piccola parte. Honeycomb vases sono realizzati collocando all'interno di un alverare una struttura in cera d'api ottenuta tramite stampo. Attorno a questa impalcatura le api iniziano a costruire una serie di minute
architetture. Ogni vaso per essere prodotto ha bisogno di una settimana e del lavoro senza sosta di 40 mila minuscole operaie. Ogni vaso inoltre è diverso all'altro in base ad un progetto che sta solo nella mente delle api.
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DALLA CANTINA
un vecchio articolo riportato alla luce
BRANCUSI VS PHILIPPE STARCK ROBERTO MARONE
Spesso su questo sito ci siamo occupati dell'eco che alcune immagini riverberano nella storia dell'estetica. O comunque alcune similitudini che segnano la storia del nostro guardare. E così, rigirandomi fra le dita un po' le opere di Brancusi, mi continuava a venire in mente Starck. E non è normale. E così continuavo a ripassare quel romanticismo francese, quell'aspirazione all'immateriale, quella fissazione (si fissazione) per la "sembianza", e continuavo a pensare a quel richiamo sempre innato verso una sorta di grembo aurorale della forma. E facendolo, sono finito per cercarne, e forse trovarne, il filo rosso del loro linguaggio.