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Le elezioni di mid-term negli USA Leonardo Guzzo

Le recenti elezioni di mid-term negli Stati Uniti confermano al mondo l’immagine di un Paese diviso. La Camera va ai repubblicani, i democratici tengono il Senato. Ma qualche novità rende ancora più avvincente la corsa alle presidenziali del 2024

di Leonardo Guzzo

«A biamo vinto». All’indomani delle elezioni di mid-term, che lo scorso 8 novembre hanno cambiato il volto del Congresso degli Stati Uniti, il presidente Joe Biden non ha avuto esitazioni. «Abbiamo preso le decisioni giuste per il popolo americano: la gigantesca onda rossa del partito repubblicano, annunciata dai sondaggi, non c’è stata». Un entusiasmo forse eccessivo per una tornata elettorale che, dati alla mano, decreta l’inversione della maggioranza alla Camera dei Rappresentanti: dopo il rinnovamento di tutti i 435 seggi, dalla prevalenza del blu democratico si passa a quella del rosso repubblicano. Il Senato, invece, rinnovato per 35 seggi su 100, è nelle mani del partito di Biden, che ha già conquistato 50 seggi. Il ballottaggio in Georgia, fissato per il 6 dicembre, diventa a questo punto ininfluente. Se anche i repubblicani dovessero vincere e pareggiare il numero dei seggi, i democratici controllerebbero l’assemblea in virtù della regola per cui, in caso di stallo, il vice presidente degli Stati Uniti (la democratica Kamala Harris) interviene nelle votazioni dell’assemblea. Il professor Gregory Alegi, docente di Storia e Politica degli Stati Uniti alla Luiss di Roma, sottolinea la solita difficile prevedibilità dei risultati delle elezioni di mid-term: «L’esito del voto ha smentito i sondaggi della vigilia, che annunciavano una vittoria travolgente dei repubblicani. La vittoria c’è stata - tutt’altro che schiacciante - solo alla Camera. È la conferma di quanto sia arduo per i sondaggi esprimere effettivamente le tendenze elettorali degli Stati Uniti. La base dei votanti è troppo ampia, difficile da raggiungere (soprattutto nelle periferie rurali) e da rappresentare nella sua complessità. Una cosa però appare chiara: gli sforzi economici dei repubblicani per assicurarsi una vittoria di larga misura sono falliti. Così come quelli mirati a cambiare la mappa dei collegi e a rendere più difficile l’accesso al voto a fasce sociali o gruppi etnici tradizionalmente vicini ai democratici attraverso interventi regolatori a livello locale o statale. Questo dice, per fortuna, una parola positiva sulla tenuta della democrazia negli Stati Uniti». La vittoria dei repubblicani, spiega il professore, può semmai considerarsi ottenuta “ai punti”, per usare una metafora sportiva. «I democratici - aggiunge - arretrano alla Camera ma tengono al Senato, subendo dagli elettori un trattamento più benevolo di quello solitamente riservato al partito di governo. Le elezioni del Congresso sono considerate meno d’impatto rispetto a quelle del presidente e vengono spesso utilizzate dall’elettorato per sfogare eventuali malesseri. Storicamente il partito del presidente è penalizzato nel voto di metà mandato, con pochissime eccezioni. Stavolta non è stato esattamente così, anche se Biden ha rice-

vuto qualche avvertimento». La storica complessità delle elezioni di mid-term è stata questa volta esasperata dalla discussione sul diritto di aborto (dopo che la Corte Suprema a maggioranza conservatrice ha abolito la sentenza che lo tutelava) e dall’interferenza di altri temi di scottante attualità. «Nessuno ha prevalso in modo netto - spiega Alegi -, probabilmente per la difficoltà di elaborare una proposta che concili le tendenze di fondo dell’elettorato americano: moderazione negli aspetti più tecnici della politica ma progressismo sul piano dei diritti, e un geloso attaccamento alle proprie libertà. Per il resto le elezioni di midterm si sono confermate un intricato groviglio di posizioni storiche e legami personali, di affetto e fiducia verso singoli candidati considerati capaci o rappresentativi». Il partito democratico, secondo tradizione, ha portato la torcia dell’innovazione sociale: Maura Healey è la prima donna gay a governare il Massachusetts, Wes Moore è il primo governatore afroamericano del Maryland, il venticinquenne Maxwell Frost il primo rappresentante della cosiddetta “generazione Z” ad entrare in Congresso. All’interno del partito repubblicano la posizione di Donald Trump e dei suoi sostenitori appare ridimensionata soprattutto dalla straripante vittoria dell’astro nascente Ron DeSantis nella corsa a governatore della Florida. «L’ascesa del quarantaquattrenne DeSantis, ex militare e docente universitario, è certo un segnale, ma non si può ancora dire con esattezza quanto peserà negli equilibri interni del partito repubblicano. Allo stesso modo è presto per stabilire quanto il nuovo equilibrio interno alla Camera dei Rappresentanti influirà sulla politica presidenziale. La Camera ha un ruolo importante, ad esempio, per quanto riguarda gli stanziamenti di bilancio: la sua perdita ha un prezzo per i democratici. Il Senato, invece, ratifica i trattati internazionali e le nomine dei più alti funzionari statali, come i giudici della Corte Suprema. Continuare a controllare l’assemblea evita a Biden parecchi problemi e non lo obbliga a cercare forzature. La vera domanda adesso è: come si comporterà in futuro il presidente? Continuerà a tenere l’atteggiamento moderato di chi mira alla pacificazione interna o mostrerà maggiore spregiudicatezza? Come proverà a motivare i suoi elettori e a trasformare un sostanziale pareggio in una chiara vittoria alle elezioni presidenziali del 2024?».

LA FAMIGLIA È...

di Giovanna Vecchiotti

«Senza regali, questo Natale non sembrerà neppure Natale», borbottò Jo stendendosi sul tappeto davanti al fuoco. «Com’è brutto esser poveri!», sospirò Meg guardando il suo vecchio abito. «Non è giusto che alcune ragazze abbiano ciò che desiderano ed altre niente», aggiunse Amy con un po’ di amarezza nella voce. «Abbiamo babbo e mamma e tra noi sorelle ci vogliamo tanto bene», disse Beth dolcemente. I quattro visetti illuminati dalla fiamma si rasserenarono per rabbuiarsi poi subito quando Jo osservò tristemente: «Il babbo non c’è e chissà quando lo vedremo!». Essa non disse “forse non lo vedremo mai più”, ma tutte lo pensarono, mentre il loro cuore correva al babbo lontano, là dove infuriava la guerra. Sembra un dialogo dei giorni nostri, lo sfogo sommesso di quattro adolescenti che si accingono a vivere un Natale difficile del terzo millennio, con la povertà che le avvolge e le attanaglia causata da una guerra alle porte, che arreca dolore e distruzione. Invece è lo stralcio di un’opera famosissima, Little Women, da noi conosciuta come Piccole donne, scritto da Louisa May Alcott nel lontano 1868. Ambientato durante la guerra civile americana, il romanzo narra la storia di quattro sorelle, Meg, Jo, Beth ed Amy, che vivono con la madre mentre il padre cappellano è al fronte. La famiglia March è diventata quella che oggi definiremmo “una famiglia indigente” e le ragazze, pur essendo adolescenti, si adoperano per sbarcare il lunario ed affrontare al meglio i giorni bui che stanno attraversando. Sono periodi duri e cupi, certamente, ma le quattro sorelle hanno dalla loro un’arma vincente: la famiglia. «Abbiamo babbo e mamma e tra noi sorelle ci vogliamo tanto bene», dice Beth. Perché è questo che fa una famiglia: aiuta nei momenti di difficoltà, consiglia la strada da percorrere, ti fa sentire protetto, sicuro, quasi invincibile. La famiglia educa, insegna l’amore, il rispetto reciproco, le regole per poter stare al mondo, si prende cura dei più piccoli e di chi è troppo grande e per questo “non ce la fa più”; crea un legame speciale di affetti che va oltre i semplici rapporti di parentela che si esplicano dentro la stessa abitazione.

“Siamo tutti una grande famiglia” si sente dire spesso in un luogo di lavoro, e quando ci si sente a proprio agio in un gruppo viene naturale dire che

“sembra di stare in famiglia”. Oggi la famiglia è cambiata così com’è mutata la società che la contiene, ma il legame che unisce i suoi componenti resta indissolubilmente lo stesso dalla notte dei tempi, perché, come dice papa Francesco: «Ogni famiglia è sempre una luce, per quanto fioca, nel buio del mondo».

Inchiesta 50&Più

VIVA LA FAMIGLIA, MA L’ITALIA RISCHIA DI ESSERE UN PAESE PER SINGLE

Nel nostro Paese cambia il concetto e la composizione dei nuclei familiari. E nonostante i numeri dicano siano in crescita - dato che varia di regione in regione - preoccupa il fatto che siano sempre più piccoli

di Giada Valdannini

Se chiedi a chiunque, in Italia, quale sia l’architrave sociale del nostro Paese, la risposta indubitabilmente sarà: la famiglia. Quel nocciolo duro che, in momenti di tensione, raggiunge i cento milioni di gradi Celsius, ma che è più spesso porto e riparo da ogni tempesta. Un nucleo sociale che, almeno nella sua composizione, ha subìto grandi trasformazioni negli ultimi trent’anni ma conserva in sé qualcosa di indissolubile: arcaico, quasi tribale. Secondo le rilevazioni più recenti - e comunque anche sotto gli occhi di tutti -, la famiglia italiana oggi è sicuramente più composita, spesso allargata: senza dubbio, però, più precaria; o meglio, esposta agli scossoni dovuti a una vita economica meno solida. Ciò che colpisce, però, è che in un Paese sempre più vecchio - ci sono 14 milioni di ultrasessantacinquenni - le famiglie con un unico componente non facciano che aumentare, arrivando, oggi, al 33,2%. Ma andiamo con ordine. Al 1° gennaio 2022, in Italia, si contano quasi 59 milioni di persone, si fanno figli sempre più tardi e ci si sposa sempre meno, mentre crescono le separazioni. Nel nostro Paese, il 48,7% è uomo, il 51,3% è donna. Appena l’8,8% è di cittadinanza straniera. E se le famiglie sono 25,6 milioni - in crescita, questo sì - non si può, appunto, non notare come esse siano sempre più piccole. Lo dicevamo, secondo l’Istat, il 33,2% di esse ha un solo componente; il 27,7% ne ha due e il 18,9%, tre. Per risalire la curva discendente si deve però ricorrere a numeri percentuali più bassi: il 15,2% delle famiglie ha quattro componenti; il 3,9%, cinque e appena l’1,2% ha sei o più membri. Il che vale a dire che, per la prima volta in Italia, il totale delle famiglie single supera numericamente quello delle coppie con figli che si attestano, ormai, al 31,2%. Dati che, se visti in prospettiva nel tempo, rischiano - le stime parlano del 2045 - di portare a un ulteriore superamento, anch’esso storico, ossia che le coppie senza figli saranno più di quelle con bambini. Ad ogni modo, il numero delle famiglie è cresciuto e lo ha fatto indistintamente in ogni regione del nostro Paese, ma con un ritmo di crescita che varia da zona a zona. L’incremento più elevato - pari al 6,8% -, è stato registrato nelle Regioni centrali, mentre quello più basso (+3,5%) nelle due Isole maggiori. Quel che è certo è che la struttura della famiglia è estremamente mutata. Se un tempo quella agricola, patriarcale - dunque, tradizionale - era numerosa, accoglieva genitori, figli, nipoti sotto uno stesso tetto, oggi conta sulla presenza dei genitori e generalmente su un massimo di due figli. Inoltre, se un tempo vedeva le donne occuparsi della casa e dei figli, adesso si compone spesso di genitori che lavorano entrambi fuori casa. Si tratta di una mutazione che è avvenuta in modo piuttosto graduale ed è figlia della conversione della nostra economia da rurale a industriale, con una forte propensione, almeno nelle Regioni centrali, al lavoro in ambito impiegatizio. Ecco così che anche i costumi di questi nuclei hanno assunto forme del tutto diverse: i genitori sempre più spesso delegano ad altri adulti - che siano nonni o collaboratori familiari (baby sitter) - parte del lavoro di cura dei propri figli. E se un tempo si riunivano, ad esempio, per tutti i pasti della giornata - col padre che magari rincasava per la pausa pranzo -, oggi ci si ritrova assieme attorno a

un tavolo giusto la sera con una oggettiva difficoltà nel trovare tempo da trascorrere insieme. Va da sé che i tempi della conciliazione casa-lavoro attendano ormai da anni forme strutturate e più congeniali allo sviluppo familiare e se la pandemia ha aggiunto all’arco la freccia dello smart working, in molti casi si è trasformato in un ulteriore sforamento dei tempi del lavoro in quello domestico e familiare. Per non parlare di quando il lavoro di cura prevede anche il compito di assistenza a un familiare anziano non più autonomo: lì si ha un surplus di impegno spesso non sufficientemente riconosciuto dal mondo lavorativo e ancor più spesso a carico delle donne. Ciò che è rimasto immutato è lo stretto legame con le figure dei nonni che, tanto più se non in coppia - perché superstiti a un coniuge morto -, vivono talvolta in casa con figli e nipoti o comunque nelle loro vicinanze in modo da poter prestare supporto, specie se entrambi i genitori sono impiegati, magari a tempo pieno. Ma succede anche che, e non di rado, in caso di scarsa autonomia di un familiare anziano si ricorra alle cosiddette case di riposo, nell’impossibilita di occuparsene, visti, appunto, i problemi di conciliazione della vita tra casa e lavoro. Un cambiamento significativo se si pensa che, invece, un tempo la cura di un anziano fragile avveniva appunto in casa. Ora c’è da domandarsi che genere di Paese vogliamo e se siamo pronti a una brusca inversione di tendenza. Quel che è certo è che se quello che vogliamo è un Paese per single senza figli, beh… allora siamo sulla buona strada.

Le famiglie sono sempre più piccole. Secondo l’Istat, il 33,2% di esse ha un solo componente; il 27,7% ne ha due e il 18,9%, tre

POLITICHE FAMILIARI: A CHE PUNTO SIAMO?

La famiglia è da sempre oggetto di attenzione delle politiche pubbliche, dimostratesi nel tempo più o meno funzionali. Cosa prevedono, oggi, Assegno Unico, Family Act e PNRR

di Mariella Pagliuca

La famiglia, descritta con i più vari aggettivi, declinata al singolare o al plurale, contestualizzata in una visione conservatrice o progressista, è da sempre oggetto di attenzione pubblica, senza distinzione di colore politico. L’articolo 31 della nostra Costituzione afferma che «la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi […]», evidenziando dunque la necessaria attenzione che il legislatore deve porre ai temi ed alle politiche familiari. Con il decreto legislativo 230/2021 il governo Draghi ha istituito, a partire da marzo 2022, l’Assegno Unico e Universale. Si tratta di una misura di sostegno economico destinato alle famiglie con figli a carico - a partire dal settimo mese di gravidanza e fino al compimento del ventunesimo anno, limite che decade per i figli con disabilità - che ha sistematizzato in un unico strumento i diversi contributi economici esistenti dedicati al welfare familiare e al supporto alla natalità. L’importo, erogato mensilmente per un anno, varia da un minimo di 50 euro a figlio con un ISEE pari o superiore a 40mila euro fino a un massimo di 175 euro a figlio con un ISEE inferiore a 15mila euro. Il 12 maggio 2022 è entrata in vigore la Legge delega 32/2022, più comunemente conosciuta con l’evocativo nome di Family Act, con cui si è inteso strutturare una riforma organica delle politiche familiari del nostro Paese, considerando cinque aree di intervento prioritario. Più nello specifico, la Legge contiene indicazioni per cui il governo - entro tempistiche stabilite - dovrà attivarsi per: assicurare l’applicazione universale di benefici economici ai nuclei familiari con figli a carico; supportare le famiglie nelle spese

destinate a scuola, educazione, attività sportive e culturali; ripensare e riformare il sistema dei congedi parentali; incentivare l’occupazione femminile e l’armonizzazione dei tempi di vita e lavoro, promuovendo anche la condivisione familiare delle responsabilità di cura; sostenere l’autonomia finanziaria dei giovani. Certamente quanto previsto nel Family Act si allinea con la più ampia visione di rinnovamento del nostro Paese contenuta nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che intende anche supportare, migliorare e aggiornare il sistema di welfare sociale. Ne è un esempio il Piano Asili, con il quale si intende aumentare l’offerta di strutture per l’infanzia attraverso la loro costruzione, ristrutturazione e messa in sicurezza perché si possa finalmente raggiungere un numero di posti per almeno il 33% dei bimbi sotto i 3 anni, in linea con i cosiddetti obiettivi europei di Barcellona. Una misura a supporto anche della parità di genere, che incentiva le mamme a riprendere pienamente la propria vita professionale. Oltre a misure puntuali e specifiche, il PNRR è caratterizzato dalla presenza di tre priorità trasversali: una di queste è dedicata a colmare i divari di cittadinanza, intesi come i gap esistenti sul territorio del nostro Paese in termini di disponibilità ed accesso ai servizi. Si strizza l’occhio alla gestione della cura in ambito familiare: rafforzare i servizi sociali territoriali e di prossimità per le persone disabili e anziane, anche provando ad assicurare loro - per quanto possibile - la massima autonomia e indipendenza, significa alleggerire il carico di cura che pesa su molte famiglie. È stato inoltre previsto il potenziamento dell’assistenza sanitaria e della rete

Lo scorso maggio è entrata in vigore la Legge delega 32/2022 - conosciuta come Family Act - con cui si è inteso strutturare una riforma organica delle politiche familiari del nostro Paese

sanitaria territoriale, anche attraverso l’attivazione entro il 2026 di 1.350 “Case Comunità della salute”, ossia luoghi fisici di prossimità, pensati per la progettazione e l’erogazione di interventi sanitari e di integrazione sociale, dove le persone possono entrare a diretto contatto con il sistema di assistenza sanitaria e sociosanitaria. Una visione lungimirante e necessaria, tenendo a mente che solo poche settimane fa una decisione del Comitato delle Nazioni Unite per i diritti delle persone con disabilità ha evidenziato l’assenza in Italia di un sistema normativo capace di tutelare e valorizzare adeguatamente la figura del caregiver familiare. In stretta connessione con le specifiche previsioni del PNRR, è intervenuto uno degli ultimi atti approvati in Consiglio dei Ministri dal governo Draghi. Il disegno di legge recante deleghe in materia di politica in favore delle persone anziane si configura come uno strumento normativo dedicato alla promozione di politiche pubbliche per valorizzare l’invecchiamento attivo, per semplificare l’accesso ai servizi sanitari e sociali, per promuovere la trasformazione dei piccoli centri perché possano rispondere più efficacemente alle esigenze di abitazione, mobilità, socializzazione e accesso a forme di assistenza domiciliare e di prossimità, promuovendo contemporaneamente una visione di equità intergenerazionale.

FARE RETE PER SUPERARE I MOMENTI DI CRISI

Possiamo chiamarla “resilienza familiare”, ed è quella capacità di fronteggiare e superare, insieme, le grandi difficoltà della vita. Attingendo anche all’educazione di ciascuno, alle credenze religiose e alle capacità di adattamento

di Ilaria Romano

Sempre più spesso oggi si parla di resilienza come capacità delle persone di affrontare sfide, traumi, eventi stressanti, recuperando un equilibrio e arricchendo il proprio percorso di vita. In questo processo il supporto della famiglia può essere determinante, perché le modalità del nucleo familiare di affrontare le crisi hanno ripercussioni importanti su ogni singolo membro che ne faccia parte. «Il termine deriva dal latino resalio, che significa saltare, rimbalzare, e nella fisica dei materiali è usato per indicare la resistenza a una rottura dinamica - spiega a 50&Più Lucia Fiesoli, psicologa e psicoterapeuta familiare - ossia la proprietà con cui alcuni materiali conservano la propria struttura o riacquistano la forma originaria dopo essere stati sottoposti a schiacciamento o deformazione. In psicologia si riferisce alla capacità delle persone di riorganizzare la vita in maniera positiva di fronte alle difficoltà. La morte di una persona cara, la perdita del lavoro, una malattia, un fallimento lavorativo sono esperienze di vita che mettono a dura prova l’equilibrio psicologico di una persona e implicano conseguenze diverse: c’è chi è sopraffatto dalla sofferenza e chi riesce ad adattarsi alle intemperie della vita».

Si può parlare di resilienza familiare facendo riferimento a questa capacità nell’intero nucleo e non nel singolo individuo?

Con il termine resilienza familiare si intendono un insieme di strategie e processi di adattamento impiegati dalla famiglia intesa come unità funzionale. Per fronteggiare una crisi, è fondamentale la modalità con la quale la famiglia riesce a contenere i livelli di stress, tenendo conto delle risorse e non del deficit. Le famiglie con migliori strategie cooperative, flessibilità di funzioni e ruoli e bassa conflittualità manifestano un migliore adattamento e modesti livelli di stress.

Quali sono le risorse alle quali possono attingere i membri della famiglia?

Le risorse sono rappresentate da tutte le personali capacità, ma anche da oggetti, relazioni e servizi che facilitano l’auto-regolazione e l’etero-regolazione. Oltre alla rete familiare, pensiamo al supporto della rete sociale, e al ruolo delle proprie passioni (spirituali, artistiche, sportive). Sicuramente i comportamenti adattivi (coping) di una famiglia dipendono anche dal livello di resilienza di ciascun membro, da come la famiglia ha affrontato in passato altre difficoltà e dal sistema di credenze del nucleo familiare.

Se pensiamo alle famiglie monogenitoriali o agli anziani che vivono da soli, possiamo estendere il concetto di resilienza familiare anche alle relazioni amicali, di vicinato, pure se non si tratta di “famiglia” in senso stretto?

Certo, il concetto di resilienza deve essere considerato come relazionale, piuttosto che una qualità individuale: attraverso la relazione con l’altro, lo scambio sociale, la fiducia e la cooperazione, si moltiplicano le risorse.

Quanto incidono i modelli educativi ricevuti e le credenze religiose nello sviluppo della resilienza familiare? E quanto invece possono influenzare gli stereotipi nei quali siamo immersi (di genere, di ruolo)?

I sistemi di credenze incidono in modo considerevole sul modo in cui si affrontano le avversità, perché appartengono ai nostri vissuti e determinano le nostre risorse. È importante sviluppare e accogliere un punto di vista pervaso da ottimismo e fiducia nel poter superare le difficoltà, con la consapevolezza che subiremo grandi trasformazioni e cambiamenti e la capacità di accettare quello che non si può cambiare. Il locus of control, interno o esterno, determina il modo di valutare in maniera soggettiva i fattori a cui si attribuisce la causa di eventi, intesi come conseguenza delle nostre azioni o influenzati da cause esterne. Questa modalità dipende dal tipo di educazione che abbiamo ricevuto, dalla cultura familiare di appartenenza, dove sin da piccoli impariamo cosa è giusto e cosa è sbagliato, come si affrontano i problemi e cosa si fa quando le cose non vanno come ci aspettavamo. La religione offre un importante supporto interno, come nel processo di elaborazione del lutto, ma per alcune difficoltà rappresenta un grosso ostacolo, per esempio nei processi separativi: sancire una separazione permette di accettare l’irreversibilità del legame affettivo e andare avanti, ma se la credenza religiosa è solida e rigida può contribuire a mantenere tale disagio. Anche per quanto riguarda il genere, la rigidità dei ruoli connessi è un ostacolo a favorire l’adattamento necessario ad affrontare quelle situazioni che implicano un cambiamento. Ad esempio, dopo la perdita di una persona cara, i ruoli e le funzioni di chi è venuto a mancare dovranno essere sostituiti da altri membri, e questo richiede una vera revisione. La flessibilità è la qualità che ci permette di sopravvivere alle avversità trovando un senso nel cambiamento, come il granello di sabbia che infastidisce l’ostrica ma dal quale si genera la perla.

Come sostiene Froma Walsh, autrice de La resilienza familiare, esiste una tendenza a patologizzare le persone e le famiglie che vivono difficoltà quotidiane o hanno avuto esperienze drammatiche. Quali sono i rischi?

Sicuramente c’è la tendenza a etichettare le persone e le famiglie che hanno avuto, nel corso della vita, difficoltà importanti, come le persone che hanno subìto un torto, una violenza, un grosso dolore, come se un evento non previsto nel ciclo di vita diventasse qualcosa che disturba, perché attiva le paure personali (se fosse capitato a me?), ma che fa supporre che quella persona/famiglia sia segnata per sempre. Il rischio è di creare una situazione di stallo che impedisce a chi è coinvolto di reagire ed elaborare l’accaduto, per ripartire con una visione di sé e del mondo differente rispetto al passato.

Si può potenziare la resilienza familiare?

Si può con lo sviluppo di una modalità comunicativa chiara, che accolga il punto di vista di ogni membro, e con l’accoglimento dei bisogni affettivi, in modo da condividere i sentimenti e creare empatia reciproca. Bisogna poi evitare le colpevolizzazioni perché in famiglia si appartiene alla stessa squadra, non si è l’uno contro l’altro, tutti vincono o tutti perdono.

Inchiesta 50&Più

I MODELLI EDUCATIVI ALLA SFIDA DEL DIGITALE

La comunicazione tra membri della stessa famiglia, oggi, passa molto attraverso cellulari o tablet. Ponendo inediti interrogativi sull’incontro tra relazioni e digitale

di Ilaria Romano

Sempre più spesso, nella quotidianità delle famiglie, le relazioni interpersonali vissute fianco a fianco si mescolano con la comunicazione online che avviene tramite dispositivi digitali. Questa tendenza all’ibridazione, con i suoi aspetti positivi e negativi, influenza i rapporti familiari, li modifica, e pone nuovi interrogativi sui modelli educativi e sui rapporti intergenerazionali. «Il processo di digitalizzazione della vita quotidiana è ormai avviato da tempo - ha spiegato a 50&Più Francesco Belletti, direttore del Cisf, Centro Internazionale Studi Famiglia - e il punto di svolta è stato il 2007, quando lo smartphone è diventato uno strumento personale in mano ad ogni componente della famiglia. Nel corso di questi ultimi anni, le famiglie italiane hanno fatto i conti con una nuova modalità di vivere le relazioni, i rapporti a distanza, le comunicazioni e, nel complesso - a livello europeo -, sono state più prudenti nei processi di digitalizzazione; altrove sono stati molto più radicali».

Cosa comporta la digitalizzazione nell’ambito della comunicazione familiare?

Spesso oggi si parla di vita “onlife”, facendo riferimento alle esperienze vissute ogni giorno mentre si resta connessi a dispositivi e ambienti digitali. Si tratta di un processo a doppio risvolto, con manifestazioni positive in alcuni casi, negative in altre. Per esempio, durante la pandemia, quando non ci si poteva incontrare di persona, tantissimi anziani ospiti delle RSA o chiusi in casa per il lockdown sono riusciti a restare in contatto con i familiari tramite telefoni e tablet. Questo ha dimostrato che anche la generazione anziana, se adeguatamente accompagnata, è capace di usare il digitale. In negativo, per qualcuno il digitale è un’occasione di reclusione, soprattutto fra gli adolescenti: pensiamo al fenomeno degli “hikikomori” in Giappone, riguarda più di un milione di persone che restano chiuse per giorni, anche settimane in casa, per rimanere ininterrottamente connessi, ed uscire solo per le necessità più strette. La digitalizzazione delle relazioni è stata un passaggio importante, è un fenomeno ormai inarrestabile, che presenta delle grandi opportunità ma anche dei rischi, sui quali ragionare nel quotidiano familiare.

Come comportarsi con i minori, rispetto all’uso delle nuove tecnologie e alla comunicazione mediata dai dispositivi?

L’esposizione ai media digitali va accompagnata da chi è responsabile educativo, non si può affidare uno strumento così potente all’autonomia dei minori. Si tratta di un compito davanti al quale molti genitori fanno fatica, perché la soluzione non è proibire, ma insegnare un uso adeguato e intelligente, perché ci sono dei rischi anche solo nell’eccesso di uso, non solo rispetto agli incontri che si possono fare, alle scene che si possono vedere, ai fenomeni di sexting o di cyberbullismo. Quindi è una priorità aiutare i genitori a parlarne, a formarsi su come accompagnare i figli, per il benessere delle famiglie.

Come comunicano in famiglia le giovani generazioni di nativi digitali con i più adulti?

Questo è un punto interessante perché rivoluzionario rispetto a tutta la storia dell’umanità finora vissuta: fino a pochi decenni fa, le generazioni più adulte ne sapevano sempre di più rispetto ai giovani. Oggi, invece, gli adulti fanno spesso la figura dei non competenti rispetto alle modalità di utilizzo di questi strumenti, che sono complessi da apprendere ma molto intuitivi e quindi gestibili in maniera semplice dai più piccoli che hanno una maggiore acculturazione digitale. Il digitale sfida i modelli educativi, perché l’autorevolezza dei genitori viene messa in discussione.

Possiamo stilare un identikit delle famiglie più “tecnologiche”?

Più il livello di istruzione è elevato, più cresce l’esposizione al digitale; anche il livello di reddito ha una sua correlazione, come pure l’età dei genitori, perché cominciano ad esserci fra i genitori non ancora i nativi digitali, ma comunque persone che passano in rete molto tempo. L’area geografica conta, ma con differenze non tanto fra Nord e Sud, quanto piuttosto piccoli centri e aree metropolitane, dove chi vive nelle grandi città è più esposto alle nuove tecnologie. Un aspetto interessante è che la spesa per il digitale è uguale per tutti i livelli di reddito, e chi ne ha uno basso tende a sacrificare altri consumi, ma ritiene un bene indispensabile quello tecnologico. Qui entra in gioco anche il tema dello status, e non è solo una questione di regole, ma anche di cultura del consumo: quando si tratta di acquistare un device digitale non si bada a spese. Nella nostra indagine abbiamo rilevato che ci sono famiglie in condizioni di marginalità, economicamente svantaggiate anche dal punto di vista informatico, ma mediamente anche i nuclei con reddito basso sono molto attenti a questo tipo di consumi. L’ingresso del digitale nella vita quotidiana delle famiglie è un fattore unico, che offre possibilità e creatività di gestione di questi strumenti dentro le relazioni familiari, il punto è non trasformare tutta la rete di relazioni interpersonali in una rete digitale, perché c’è una bella differenza fra essere connessi e essere in relazione.

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