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Denatalità, le contromisure da adottare Annarita D’Agostino

Demografia

PER “RINASCERE”, CI SERVE UN SENSO NUOVO

Dai numeri (negativi) alle misure (positive) che possono condurci oltre l’inverno demografico, reso ancor più rigido dalla pandemia. Purché ognuno faccia la sua parte. L’intervista a Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat

di Annarita D’Agostino

«L a famiglia è la storia da cui proveniamo», ha detto Papa Francesco affacciandosi dal balcone di Piazza San Pietro per l’ultimo Angelus del 2021. Ma quella del nostro Paese, raccontata dai numeri Istat, è tutta un’altra storia. È una storia di bambini che non nascono, madri e padri mancati, anziani sempre più numerosi dimenticati nel limbo dei ritardi delle politiche di invecchiamento attivo. Una storia che analizziamo con il presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, al quale abbiamo chiesto come siamo arrivati a vivere quello che è stato ufficialmente ribattezzato come l’“inverno demografico” del nostro Paese, e se c’è ancora una via d’uscita da questa stagione ostile. Partiamo dai numeri. Complice il Covid-19, l’Italia continua purtroppo a collezionare record di denatalità. Secondo i primi dati provvisori 2021 su natalità e fecondità diffusi dall’Istat, nel periodo che va da gennaio a settembre 2021 sono nati già 12.500 bambini in meno, il doppio rispetto a quanto rilevato nel 2020. Nel solo mese di gennaio 2021, il maggiore calo di sempre: quasi 5mila nati in meno, -13,6%. Continua dunque la caduta libera delle nascite che, nel primo anno di pandemia, sono state solo 404.892, 15mila in meno rispetto al 2019. Un calo che, dal -2,5% dei primi 10 mesi dell’anno, è arrivato a segnare -8,3% a novembre e -10,7% a dicembre 2020, mesi in cui sono venuti al mondo i bambini concepiti in concomitanza con la prima ondata epidemica. Il Covid-19 ha dato un pericoloso colpo d’acceleratore a un fenomeno che si ripercuote sul Paese almeno dal 2008. Da allora, l’Istat conta un calo delle nascite pari a circa il 30% (171.767 in meno), attribuibile per la quasi totalità alle coppie in cui i genitori sono entrambi italiani. Anche se, dal 2012 al 2020, diminuiscono pure i nati con almeno un genitore straniero: ne mancano all’appello 19mila, di cui 4mila solo nell’ultimo anno, pari al 21,8% del totale dei nati. Sempre di meno, dunque, e sempre più anziani. Secondo le recenti previsioni sul futuro demografico dell’Istituto Nazionale di Statistica, la popolazione residente italiana passerà da 59,6 milioni al 1° gennaio 2020 a 58 milioni nel 2030; a 54,1 milioni nel 2050 e a 47,6 milioni nel 2070. Se il censimento Istat 2020 ha rilevato un’età media in crescita da 45 a 45,4 anni, nel 2050 questa arriverà a 50,7 anni. Sempre nel 2050,

È fondamentale la disponibilità di adeguate strutture per l’infanzia armonizzate con i tempi del lavoro

il rapporto tra giovani e anziani sarà di 1 a 3, ma se si considerano solo i bambini sotto i 6 anni di età, nel 2020 il censimento ha già contato 1 bambino ogni 5,1 over 65. A metà secolo, la popolazione in età lavorativa scenderà in 30 anni dal 63,8% al 53,3% del totale. Il 2048 potrebbe inoltre essere l’anno in cui i decessi doppieranno le nascite (784mila contro 391mila). Entro il 2040, 1 famiglia su 4 avrà figli, più di 1 su 5 sarà senza figli. Da 8,6 milioni nel 2020, saranno 10,3 milioni le persone destinate a vivere sole. Sul rilevante calo delle nascite influiscono effetti ormai “strutturali” - spiega l’Istat - dovuti ai significativi cambiamenti relativi alla popolazione femminile in età feconda, ovvero fra i 15 e i 29 anni. Mentre le “baby boomer” nate fra gli Anni ’60 e ’70 stanno invecchiando e dunque escono dalla fase feconda, le donne che oggi dovrebbero diventare madri sono la generazione che sconta a sua volta il cosiddetto “baby bust”, la fase di forte calo della fecondità del ventennio 1976-1995, che ha portato al minimo storico di 1,19 figli per donna nel 1995. Minimo

storico superato solo nel 2020. Se si guarda dunque alle generazioni, il tasso di fecondità, ovvero il numero medio di figli per donna, continua a decrescere nel nostro Paese “senza soluzione di continuità”, osserva l’Istat. Si va dai 2,5 figli delle donne nate nei primissimi Anni ’20, all’indomani della Prima Guerra Mondiale, ai 2 figli per donna delle generazioni dell’immediato secondo dopoguerra (anni 1945-’49), fino a raggiungere il livello di 1,44 figli per quelle della generazione del 1980. Oggi, sono soprattutto le donne più giovani a decidere di rinviare la maternità. Rispetto al 1995, l’età media al parto aumenta di oltre due anni, raggiungendo i 32,2 anni. Ancora più marcata per l’Istat la crescita dell’età media alla nascita del primo figlio: nel 2020 è 31,4 anni, oltre 3 anni in più rispetto alla metà degli Anni ’90. Così, si arriva all’ennesimo record al ribasso. Il tasso di fecondità delle cittadine italiane tocca infatti nel 2020 il punto più basso di sempre: 1,17 figli per madre. E nel Paese dei figli unici (il 47,5% dei nati), anche i primogeniti diminuiscono: 8mila in meno in un solo anno, pari al -4,1% rispetto al 2019. Impossibile non ravvisare in questa drammatica spirale ragioni anche - se non soprattutto - economiche. Ed altrettanto difficile non ricollegare alla difficile emancipazione di giovani e donne sul mercato del lavoro quanto sta accadendo. A confermarlo, il professor Gian Carlo Blangiardo, statistico di lungo corso, studioso di demografia e statistiche sociali, dal 2019 alla guida dell’Istat.

Presidente Blangiardo, perché nel nostro Paese è così difficile fare figli?

Perché decidere di fare un figlio significa spesso modificare l’organizzazione della propria esistenza. In quanto subentra l’aspetto economico, l’esigenza di conciliazione con i tempi e le modalità del lavoro, il bisogno di avere condizioni e strutture per poter dare a quel figlio tutto ciò che si ritiene necessario, secondo gli standard del nostro tempo e della nostra cultura. Tutto questo, oggigiorno, è per lo più sulle spalle dei potenziali genitori, i quali, se non si sentono in grado - o non ancora in grado - di trovare adeguate risposte ai numerosi problemi che incontrerebbero, preferiscono rinviare la decisione di maternità/paternità. Va da sé che, se poi tale decisione si protrae eccessivamente e viene riconsiderata in età “matura”, può anche accadere che insorgano difficoltà anche di tipo fisiologico nella coppia. E questo diventa un ulteriore fattore che debilita il livello di fecondità della popolazione.

Quali sono gli interventi prioritari, secondo lei, per ripensare il sistema di welfare a sostegno di donne e famiglie?

Certamente occorrerebbe operare, oltre che sul fronte di una qualche forma di intervento che valga a compensare i costi dei figli (l’Assegno universale è un buon inizio), anche su misure che consentano di accettare, senza traumi, le inevitabili trasformazioni dell’organizzazione degli impegni esterni e della vita familiare. È fondamentale la disponibilità di adeguate strutture per la cura dell’infanzia, che siano armonizzate rispetto ai tempi del la-

voro, e serve altresì un sistema normativo che sappia introdurre forme di flessibilità e di lavoro a distanza, mirate a seguire le esigenze che insorgono durante le prime fasi di vita del bambino. Sono anche opportuni adeguati riconoscimenti - ad esempio, nel conteggio dei contributi pensionistici - che siano diretti a gratificare chi è genitore, in quanto impegnato a portare avanti un investimento nella produzione di quel capitale umano che è essenziale per garantire il futuro del Paese.

Nel 2020 l’Italia conta 5 nonni per ogni nipote. Valorizzare gli anziani, nel mercato del lavoro così come nelle relazioni sociali, è un’esigenza prioritaria. Si può fare? E come?

Si può e si deve fare. I confini dell’età anziana si innalzano e la qualità stessa degli anziani, in termini di loro formazione ed esperienza, è una ricchezza che non possiamo permetterci di perdere. Questo sia sul piano produttivo che relazionale. A tale proposito, è necessario “personalizzare” il percorso di uscita dal mercato del lavoro, introducendo elementi di flessibilità e di incentivazione con regole che consentano valutazioni soggettive da parte degli interessati.

Qual è il suo auspicio per l’Italia della “nuova normalità” che dovremo costruire dopo la pandemia?

Quello di saper fare tesoro di una esperienza drammatica e al tempo stesso unica. Abbiamo preso atto dell’esistenza di forti legami di interconnessione e (forse) riscoperto il valore del saper fare scelte personali con senso di responsabilità verso gli altri. Abbiamo sperimentato comportamenti nuovi e dimostrato di essere assai meno “anarchici” di quanto ci aspettavamo. La mia speranza è che la normalità verso cui dovremmo andare sia non solo priva di qualche antico difetto, ma sia soprattutto alimentata dall’entusiasmo di rinascere in modo “nuovo”. Vorrei una normalità in cui ognuno abbia consapevolezza di dover fare la propria parte e sia messo in condizione di poterlo fare con un sistema di regole chiare, di cui si comprendono e si condividono procedure e obiettivi.

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IL FALSO CHE PESA SULL’ECONOMIA ITALIANA

L’Italia è uno dei Paesi più ricchi a livello di varietà e qualità del patrimonio agroalimentare. Purtroppo, però, il sempre più diffuso fenomeno della contraffazione dei prodotti - spacciati per originali - genera ingenti danni alla nostra economia e alla salute dei consumatori

Pensate di entrare in un bar e ordinare un “Consecco”, un “Persecco”, del “Perisecco” o un “Meer-secco”. Suona strano? È naturale. In comune col Prosecco hanno soltanto il tentativo di imitarne il nome ma, ovviamente, sono prodotti di tutt’altra natura. Si tratta, infatti, di imitazioni confezionate spesso fuori dai confini nazionali e spacciate per italiane, destinate a un pubblico sempre più vasto. L’Italia è leader mondiale nella gastronomia col maggior numero di

specialità Dop/Igp/Stg riconosciute (316) e 526 vini Dop/Igp lungo tutta la Penisola, tutelate da generazioni di agricoltori. Eppure un prodotto su tre delle nostre eccellenze alimentari, a livello globale, è autentico, mentre gli altri due sono contraffatti. Un fenomeno, quello della contraffazione alimentare, diffuso ed estremamente variegato ma che, spesso, punta proprio sull’italian sounding, ossia sulla tecnica di riprodurre sonorità appartenenti alla nostra lingua per veicolare prodotti che tutto hanno a che fare fuorché col nostro Paese. Il Made in Italy resta un marchio di qualità ambito ovunque, ma sono tante le aziende che, soprattutto all’estero, creano riproduzioni volte a usare una garanzia di qualità che, però, non è loro. Stando alle stime dei tecnici del comparto agricolo, si tratta di un fenomeno diffuso al punto che, se l’Italia raggiunge i 52 miliardi l’anno di esportazioni, l’agropirateria vale 100 miliardi di volume d’affari: il doppio delle esportazioni italiane nel mondo. Parliamo dunque di un mercato dell’illecito fatto di falsi che utilizza impropriamente parole, colori, località, immagini, denominazioni e ricette che richiamano all’Italia per produzioni che non hanno nulla a che fare con il sistema produttivo nazionale. Come dicevamo, la contraffazione può essere esplicitata in varie forme. Un classico è quello dei nomi storpiati. Anche il tricolore, la bandiera del nostro Paese, è usata frequentemente sui prodotti per lasciare intendere che si tratti di prodotti italiani. C’è poi la falsificazione legata ai nomi geografici inerenti territori, regioni, città italiane; oppure l’utilizzo di nomi di prodotti tipici nazionali utilizzati parzialmente o modificati, storpiati a seconda della lingua del Paese a cui sono destinati. Certamente il Prosecco - essendo il vino più venduto all’estero - è anche il più imitato. In generale, i prodotti più copiati sono proprio i vini, che rappresentano l’eccellenza dell’agroalimentare italiano. Poi, i formaggi; quindi, i prodotti a base di carne ma anche la stessa conserva di pomodoro e la pasta. Non stupisce che anche in Italia esistano produttori che spacciano per italiani prodotti realizzati con materie prime non locali; di certo non hanno vita facile a causa dei controlli stringenti, che invece all’estero non sempre avvengono. Tra i falsi più incredibili, il pecorino prodotto a Hong Kong e confezionato con latte vaccino. Con latte, perciò, di animale diverso dalla pecora. Uno degli strumenti per contrastare questo fenomeno è la registrazione del marchio, spesso frutto di accordi bilaterali. Talvolta, però, stando a quanto rilevano gli esperti del settore, ci sarebbero degli aspetti non condivisibili. Ad esempio, secondo il Ceta (accordo commerciale tra l’UE e il Canada), si consente al Canada di continuare a utilizzare nomi con riferimenti a prodotti italiani. Cosa che crea confusione nell’acquirente finale. Un altro esempio pratico, sempre all’estero? Il “Reggianito” - che somiglia ma non è Parmigiano Reggiano - e che viene prodotto in Argentina. Secondo l’Eurostat, l’Italia è la ter-

za potenza agricola dell’Ue e sono proprio le nostre aziende agricole a pagare lo scotto peggiore in ambito di contraffazione alimentare. A poco vale l’idea che, se ci imitano, è per l’eccellenza dei nostri prodotti: l’agropirateria crea un contraccolpo pesantissimo anche sull’occupazione nel Belpaese. Non ruba solo ricchezza, ma trecentomila posti di lavoro. Tradotto, se noi riuscissimo a contrastare questo tipo di imitazione, l’Italia offrirebbe trecentomila posti di lavoro in più. A novembre dello scorso anno il Ministro dell’Agricoltura, Stefano Patuanelli, aveva presentato un ricorso alla Commissione Europea sul “Prosek” croato, ma si attendono ancora gli esiti e le controdeduzioni. Il cruccio maggiore per gli imprenditori agricoli che hanno investito risorse e infinito impegno nel lavoro, resta quello di essere sempre al passo coi tempi, vista l’evoluzione tecnologica. Ce lo confermano i titolari di due aziende: una storica, a conduzione familiare, e l’altra da poco nata su iniziativa di un giovane con alle spalle una laurea in Economia e un master in Agribusiness. «Confrontarsi col tema della contraffazione è davvero drammatico per chi, come me, ha scelto di fare agricoltura e quindi di restare». A dircelo è Veronica Barbati, dell’Azienda Agricola Barbati, che aggiunge: «Ho ereditato un’azienda di famiglia, e vedere prodotti di agropirateria mentre tenti di comunicare il valore dell’agricoltura nel nostro Paese, delle tradizioni, del patrimonio culturale che c’è dietro il cibo, ti fa sentire un po’ sconfitta». La pensa allo stesso modo Francesco Paltoni della Società Agricola H.Q.F. che sottolinea anche come: «Vedere prodotti che prendono il marchio o indicano nostre denominazioni poi smentite dalla lettura delle etichette, è un’immagine che ci rattrista. Per contro, ci rende carichi di orgoglio perché se c’è così tanta richiesta di prodotto italiano, allora vuol dire che facciamo molto bene quello che i nostri nonni e le generazioni passate ci hanno insegnato». E nel caso di Veronica Barbati, come detto, si tratta proprio di una tradizione familiare: «La mia è un’azienda agrituristica, allevamento ma anche produzione di vini e prodotti ortofrutticoli. Per me che la vivo molto anche in relazione al consumatore finale, il tema della contraffazione è ancora più forte e ancora più sentito. Molto spesso, confrontandomi con i clienti che scelgono la nostra azienda, mi rendo conto di quanto sia difficile sterzare rispetto ad una comunicazione sbagliata. Arrivano turisti che hanno assaggiato il prodotto contraffatto ancor prima di quello originale italiano. Accade ed è piuttosto assurdo doversi quasi giustificare». Riesce comunque a far conoscere e apprezzare facilmente le nostre produzioni autoctone, ma afferma: «Che fatica trovarsi davanti del San Marzano - magari prodotto negli Usa - che invece è un prodotto tipico della mia terra. Quando ti trovi di fronte imitazioni che hanno costi di produzione assolutamente non paragonabili ai nostri, sul prezzo noi ci andiamo a perdere». È la qualità la carta vincente della produzione nostrana. «Il falso - ci dice Francesco Paltoni - è un affronto al nostro territorio». Ci racconta di aver avviato la sua attività due anni fa sulla base della tesi fatta per il master, forte di un amore per la terra nato anche grazie ai racconti dei suoi nonni e col supporto dei genitori. Produce carne bovina da un incrocio tipico del suo territorio - il viterbese - di cui è originaria la razza maremmana, che ha valorizzato attraverso la sua azienda.

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