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Il difficile “mestiere” dei nonni Sanzia Milesi

Attualità

IL DIFFICILE “MESTIERE” DEI NONNI di Sanzia Milesi

Fare i nonni significa ricoprire un ruolo molto importante nella famiglia ma spesso ci si può confondere nel tipo di relazione che si instaura coi nipoti. La pedagogista Emily Mignanelli, ha provato a fare chiarezza, insegnando ai nonni a fare bene il loro “lavoro”

Per lei, Emily Mignanelli, sarebbe necessario istituire un vero e proprio “Sindacato dei Nonni”, in grado di tutelare il loro diritto al tempo libero, senza sensi di colpa e obblighi al perpetuo accudimento della “prole della prole”. Ma è altresì convinta che i nonni debbano comprendere il proprio ruolo e i “confini” del loro agire, molto chiaramente. È così che i suoi corsi per “Nonni efficaci” (l’ultimo in gennaio) sono autentici “corsi di sopravvivenza ai figli cresciuti e ai nipoti in crescita”. Perché, chiarisce introducendo le lezioni online: «Quello che non viene spiegato bene ai genitori quando nasce loro un figlio è che dovranno gestire anche i loro genitori diventati nonni. Daranno consigli non richiesti, daranno cioccolate di nascosto ai nipoti, compreranno loro giochi che finiranno rapidamente nel dimenticatoio. Ma sapete cosa? Tutto questo lo faranno per amore, per puro amore verso i figli dei loro figli. Certo che per crescere un bambino l’amore non basta, servirebbe anche una buona dose di informazioni, buonsenso, consapevolezza e strumenti». Emily Mignanelli (nella pagina successiva, foto in basso), vive a Osimo, nelle Marche, la patria di Maria Montessori. È una giovane pedagogista e maestra, una ricercatrice e una madre, molto preparata. A 34 anni, ha due lauree - una in Scienze della Formazione Primaria e una in Scienze Pedagogiche - e ora sta studiando per prendere la terza, in Psicologia, mentre lavora all’Università di Macerata come assistente in Pedagogia Generale ed è consulente e formatrice al sostegno familiare presso il centro Corallo, che ha inaugurato nel 2019. Nel 2020, l’editore Feltrinelli l’ha chiamata per scrivere un saggio - che ha avuto un buon successo - dal titolo Non basta diventare grandi per essere adulti, in cui spiega “come smetterla di essere figli e prendere in mano la nostra vita”. Sempre nello stesso anno, con l’editore Lindau ha pubblicato Hundreds of Buddhas - Viaggio intorno al mondo alla ricerca di nuovi paradigmi educativi, che ha preso vita dall’omonimo blog e dalle sue esperienze, dall’India alla California, passando per New York. E ora sta ultimando nuovi volumi, di prossima uscita. Tutto questo, mentre si prende cura dei suoi due figli - Vittorio di 14 anni e Amedeo di 4 - nonché dei tanti bambini, da 0 a 14 anni, che frequentano la sua scuola “Serendipità” e i progetti educativi dell’Associazione Lilliput, che ha fondato quando aveva appena vent’anni. Un modello educativo in cui i bambini vivono nella Libera Repubblica dell’Infanzia, con una loro moneta e un negozio interno; scelgono a quali lezioni partecipare e possono licenziare un maestro, se portano sufficienti prove

che non è un buon esempio per loro; gestiscono un’agenzia di viaggi che organizza le gite e vendono i manufatti del loro negozio di ceramiche, e poi cucinano e puliscono la scuola, perché di bidelli non ce n’è l’ombra. Un luogo dove, soprattutto, viene rimesso al centro il bambino nella sua relazione con l’adulto che lo cresce, evitando automatismi tossici e favorendo la giusta narrazione di sé come “forma terapeutica per eccellenza”. Riconoscendo in queste nuove leve il più potente meccanismo di rinnovamento sociale.

Iniziamo da un aneddoto sui luoghi familiari. Ci racconti del centro Corallo?

È stata una meravigliosa scoperta. Anni fa cercavo una sede a Osimo per il mio centro di pedagogia. Chi affittava lo spazio mi ha fatto vedere il posto e l’ho subito percepito come un luogo familiare, in cui mi sentivo a mio agio, ma ho scoperto che questa era la vecchia camiceria del mio bisnonno, solo quando ho firmato il contratto e ne ho parlato con i miei familiari. A loro non avevo ancora detto nulla, per evitare le paure che solitamente suscitano le mie idee: “Apro una scuola”, “Lascio tutto e vado nove mesi in giro per il mondo...”. Di solito, racconto tutto a cose fatte. Così, ho scoperto che mia nonna (da bambina) viveva proprio lì sopra; i miei genitori abitano in un palazzo a 50 metri da qui e in questa strada c’è sempre stato “tutto” il mio mondo finora. C’è il mio solco: è la via che ho percorso da piccola per frequentare le scuole e che percorro per andare al lavoro e riprendere i miei figli dai nonni.

I tuoi nonni come erano, come li hai vissuti?

I nonni hanno un valore enorme nella vita di una persona. Io sono la nipote di un angelo e devo a mia nonna Rossana, la mamma di mio padre, enorme affetto e gratitudine per ciò che sono. Nella mia infanzia l’ho spesso idealizzata. È stata una bimba tolta ai genitori e affidata alle cure delle zie. Il dolore dell’infanzia per alcuni è una trappola, mentre per altri è la promessa di una grande umanità. Questa è stata lei con i nipoti e questa cerco di essere io, in una dimensione allargata, nel mio “fare con i bambini”. I miei nonni non erano consapevoli di alcune dinamiche e mi hanno tenuta distante da alcune verità, ma mi hanno affiancata in tutto. Cucinavamo con spensieratezza, cantavamo, ballavamo... Ricordo solo la gioia e l’essere presente. Questa è una dimensione a cui attingo anche nel mio lavoro. La realtà della mia infanzia è stata una realtà fatta di magia. Questa nonna popola tutto il mio mondo.

Quale “funzione” hanno i nonni?

I nonni sono una risorsa e una ricchezza importantissima. Ma è fondamentale che sappiano stare al loro posto per mantenere una natura armonica nelle interazioni familiari, in cui ciascuno ricopre un ruolo assegnato. I nonni sono un’enorme eredità affettiva e relazionale, ma devono accettare che il loro figlio (o figlia) è oramai un adulto. Senza esercitare il proprio potere su di lui e sul nipote. E senza vivere con nostalgia la genitorialità ormai perduta o facendo ricadere sui nipoti le tensioni che hanno coi loro figli. Credo che debbano sapersi cogliere come capostipiti. Loro sono un monte vicino alla sorgente, da loro tutto parte. E possono sciogliere molte catene, smorzare molte dinamiche, se imparano a porsi nella giusta posizione che compete loro. Hanno un grande potere e grandi responsabilità (non colpe), ma devono saper riconoscere che “prima” di loro ci sono i genitori. Per poter fare tutto questo in modo sano, devono “risolvere” la loro genitorialità. Poter raccontare i propri errori e le proprie fragilità è liberatorio, libera intere generazioni. Come scriveva Jung:

«La mia vita è la storia di una autorealizzazione dell’inconscio». Per questo è importante “ripulire” le dinamiche familiari. Se taci una verità, non è vero che proteggi l’altro come pensi; mentre se la liberi, liberi te e gli altri che ti stanno attorno.

Nello stereotipo, i nonni viziano...

Il nonno non deve essere quello che vizia. È semmai colui che può avere più tempo a disposizione e quindi magari anche più pazienza, favorendo attività lente, altrimenti improbabili per tante coppie che conducono una vita frenetica. Ma non devono esserci contrasti con le scelte dei genitori. Il lusso del nonno pensionato è aver tempo a disposizione e deve essere questo il di più, il tempo trascorso, non la complicità: “ti compro...”, “facciamo questa cosa senza dire niente…”. Altrimenti è depistante per l’educazione del bambino. E per giunta non fonda una relazione, ma opportunismo.

Come porsi correttamente nella relazione?

I nonni - ma così anche i genitori - devono percepire il bambino non come un diritto acquisito per legame di sangue, ma come un individuo. Non si tratta del “figlio due”, i nonni devono elaborare il lutto: è finito il loro tempo di essere genitori. E questo, in un certo senso, dona loro più libertà nella relazione. Diventano la figura vicina, che capisce il bambino, ma in un confine di rispetto con i genitori. Se non mi sento realizzato nel mio lavoro o nel matrimonio, e sposto tutte le mie aspettative sulla dimensione genitoriale, nell’affermarmi come madre (o come padre), non permetto all’altra persona di crescere, perché altrimenti mi sento persa. “Ti stiro”, “ti porto fuori il cane”, “faccio tutto io” perché ho bisogno di fare ancora il genitore: non è sano, bisogna lavorare sul lasciar andare. La condizione dei nonni è perfetta. Hanno la saggezza dell’età, sanno per quali battaglie vale la pena impegnarsi e quali lasciar perdere, hanno avuto modo di poter comprendere se stessi, perché il passare del tempo ha eroso i loro scogli più appuntiti e ora possono prendersi cura di sé.

Questi nonni “moderni” ce l’avranno davvero del tempo per sé?

Bisogna assolutamente istituire un Sindacato dei Nonni! Devono imparare a dire di no. A rispondere che non possono occuparsi dei nipoti, perché se ne vanno in crociera o perché vogliono fare le parole crociate, senza sentirsi in colpa. Non si “devono” prendere cura dei nipoti, lo fanno se vogliono. Non si insegna scegliendo sempre la rinuncia. Alcune rinunce sono eccessive, una forma di deprezzamento personale e un ostacolo allo sviluppo dei figli. È il genitore l’adulto responsabile di tenere il bambino, non il nonno in pensione. Un conto è una tantum, altro conto è darlo per scontato come fosse un loro lavoro.

Quali esperienze hai avuto ai tuoi corsi con i nonni?

Ho iniziato a far corsi con i nonni una manciata di anni fa. Una quindicina di partecipanti a lezione. Mentre i genitori, di solito sono tutti concentrati nella fascia dai 30 ai 45 anni, per i nonni è diverso: si va dai 55 agli 85 anni. Anche visivamente, sono completamente diversi. Hanno la loro vita scritta addosso: dall’operaio al primario. Ma mi ha colpito che quando si siedono a parlare dei nipoti, ogni differenza si annulla. Hanno tutti una lucidità e un’apertura mentale incredibile nel parlare dei propri errori tra loro (cosa che, invece, non hanno davanti ai loro figli), come ad esempio, quello di aver imposto l’aspettativa della laurea. Quando poi ho iniziato a fare i corsi anche online, è stato bellissimo. Vedevi dalla nonna delle Dolomiti con le treccine e la mantellina di lana, ai colori sgargianti del nonno siciliano. Sono veramente aperti. “Io non capisco ma sono disposto/a ad ascoltare”: è la posizione più frequente. Com’è capitato, ad esempio, parlando di relazioni omosessuali dei nipoti. Interagiscono, si consigliano tra di loro, sono spigliati. Sono nell’atteggiamento del non aver nulla da perdere, anzi, proprio per non perdere il loro rapporto con figli e nipoti, sono disposti a rimettersi in gioco. Ma va considerato che spesso purtroppo i nonni non hanno uno spazio per parlare tra loro, così come non c’è un luogo per il loro sostegno educativo.

DARE PIÙ VITA AGLI ANNI. È POSSIBILE ?

di Giovanna Vecchiotti

Gli ultimi dati Istat riguardo al numero di centenari presenti nel nostro Paese ci regalano una fotografia sorprendente perché, nonostante l’imperversare della pandemia, coloro che hanno superato le cento primavere sono aumentati rispetto all’anno precedente. I centenari italiani viventi al 1° gennaio 2021, infatti, erano 17.156 mentre nel 2020 risultavano 14.804; quindi, oltre 2mila persone in più. L’Italia, dunque, si conferma ancora una volta tra le Nazioni più longeve del pianeta e tra quelle con l’aspettativa di vita più alta. Da decenni, l’intento di numerosi studi scientifici è quello di carpire il segreto della longevità, ma anche di comprendere se sia possibile rallentare l’invecchiamento e aumentare, nel contempo, la qualità e la salute degli anni di vita guadagnati. Qualche risposta c’è. Sembra che, in primis, la longevità sia merito della genetica - che pare tracci il solco della nostra possibilità di raggiungere o meno il secolo di vita -, e poi della messa in pratica di stili di vita salutari, senza dimenticare, comunque, che non si vive a lungo senza il progresso della Medicina e l’accesso alle cure su vasta scala. Una certezza, però, esiste già: la vecchiaia è una parte essenziale dell’esperienza umana, ma raggiungerla è ancora un privilegio. L’estensione di questo privilegio al maggior numero di persone dovrebbe essere, quindi, l’obiettivo principe di ognuno di noi, e anche delle Istituzioni, a cui spetta il compito di attuare politiche adeguate. Raggiungere la vecchiaia in buone condizioni di salute, invece, un imperativo per tutti.

STEREOTIPI, IL NEMICO NUMERO UNO

Vivere in una società in cui i canoni di bellezza e prestanza fisica sono tenuti in estrema considerazione induce spesso a “rinnegare” la propria anzianità per paura di essere giudicati inadeguati

di Ilaria Romano

Con l’aumento dell’aspettativa di vita, il processo di invecchiamento è diventato un fenomeno di massa; eppure, nonostante gli studi e l’interesse sul tema, la vecchiaia è ancora oggetto di pregiudizi, stereotipi e paure. Uno dei paradossi della società contemporanea è che nonostante - o forse proprio per questo - una crescente fetta di popolazione sia composta di anziani, i canoni di bellezza, giovinezza, prestanza fisica ed efficienza siano dominanti e sovrarappresentati, e tutto ciò che non rientri in uno schema “socialmente rassicurante” sia spesso rinnegato, o relegato a uno spazio intimo. Non a caso uno dei fenomeni in crescita in questi ultimi anni è la cosiddetta gerascofobia, ossia la persistente paura di invecchiare, associata a una fase naturale della vita che spaventa per i cambiamenti fisici, psichici e sociali che può comportare. Spesso ci si riferisce al celebre personaggio del romanzo di Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, per introdurre il tema del rapporto con la propria immagine e i cambiamenti che in modo naturale la vita ci mette di fronte. Il Dorian Gray contemporaneo rappresenta l’emblema di una società nella quale la necessità di apparire porta all’ostentazione di un’immagine pubblica di sé che quasi mai coincide con quella reale. Nel libro In pensione con il dottor Faust, la ricercatrice Rita Cavallaro parla di un patto faustiano tra anziani e società: «L’uno si impegna a disconoscere la sua condizione, a vivere attivamente come se nulla dovesse succedere, l’altra si impegna a non riconoscerlo per quello che è. La vecchiaia non è tanto emarginata, non esiste. Si parla di anziani, terza, quarta età, ma si usa raramente la parola vecchio». Come testimonia anche l’antropologo Marc Augé nel suo Il tempo senza età, l’esperienza comune a tante persone in età avanzata è quella di ritrovarsi giudicati secondo luoghi comuni scontati e superficiali, dove il termine “vecchio” assume solo connotazioni negative, come se gli anziani dovessero solo subire un’età carica di difficoltà e decadimento, quando invece non è affatto così. Eppure, in un contesto sociale dove la morte e di conseguenza la vecchiaia restano un tabù, non meraviglia il tentativo di rimuoverne i segni, quanto e più a lungo possibile. La paura di invecchiare negli ultimi decenni è decisamente aumentata - spiega a 50&Più il sociologo Antonio Censi, a lungo dirigente di una Rsa e autore del libro Vita da vecchi. L’umanità negata delle persone non autosufficienti -, la nostra società si rifiuta di prendere in considerazione l’idea stessa del decadimento fisico. Tutto quello che si sta facendo sul piano “educativo” è finalizzato alla negazione, all’allontanamento dalla condizione di decadimento fisico e dipendenza dagli altri. Di conseguenza questi problemi tendono a essere esclusivamente assegnati ai servizi, e la società fatica a riconoscersi nelle persone che stanno attraversando questa fase della loro esistenza. La conseguenza è una grande incomprensione, perché anche gli anziani si aspettano di essere riconosciuti come persone.

Cosa significa per un anziano essere riconosciuto in quanto persona?

Ricevere quegli aiuti che gli consentano di condurre la vita che ha sempre fatto, che è cosa ben diversa dall’offerta di una serie di prestazioni d’assistenza erogate in modo standardizzato e possibilmente a costi contenuti. Io ho lavorato a lungo nell’ambito delle Rsa e ho potuto verificare da vicino i limiti di un approccio esclusivamente medicalizzante, incen-

trato sulla gestione dei costi dell’assistenza, secondo un modello aziendalistico che considera le persone solo dal punto di vista dei bisogni assistenziali. Dovremmo ribaltare questo paradigma e preoccuparci di riconoscere la persona nella sua complessità, cercando di stabilire una continuità con la vita che conduceva. Ad esempio, se si andassero a visitare le case delle persone che vivono nelle residenze sanitarie, si scattassero delle foto degli ambienti, si facessero delle riprese, si capirebbe molto della loro storia e sarebbe più facile riconoscere l’identità di quel singolo individuo. A volte i ricoveri avvengono in maniera sbrigativa, o arrivano troppo tardi, quando la situazione si è deteriorata, i problemi si sono acuiti e la persona fatica ancora di più ad adattarsi.

Si contrasta la paura con la conoscenza? Anche di ambienti come le Rsa, apparentemente chiusi e “altro” rispetto al resto della società?

Pensiamo alla pandemia, che ha avuto l’effetto di richiamare l’attenzione pubblica sui servizi di queste realtà e sulle fragilità che esistevano già prima del Covid; ma anche sull’impegno e la dedizione di tanti singoli operatori che hanno dato prova di resistenza, anche davanti ai fallimenti organizzativi. Sul fronte umano abbiamo avuto numerosi segnali di attenzione, ascolto e dedizione, ed è da questo che si deve ripartire per un rilancio dei servizi che mettano al centro le persone. Il problema non è rendere più efficiente l’assistenza, ma restituire umanità a questi luoghi. Con le nostre paure, noi cerchiamo di difenderci, di tenere lontane queste realtà, ma bisognerebbe invece avere il coraggio di far emergere i problemi, discuterne, piuttosto che coltivare l’idea che esista una formula calata dall’alto che elimini ogni forma di sofferenza e di disagio associate a questa fase della vita. Siamo di fronte a realtà difficilmente programmabili, perché ogni giorno comportano degli imprevisti, e dunque la scelta deve essere fra il rilancio di un modello organizzativo che ha mostrato dei limiti nell’approccio alla vecchiaia, oppure cercare di fare tesoro delle testimonianze umane. Ma per questo ci deve essere una mobilitazione morale della società, che parta da tutti, perché gli anziani di domani siamo noi.

Come si contrasta lo stereotipo dell’anzianità come età fragile e decadente?

Innanzitutto dobbiamo pensare che tante delle forme di disagio legate all’età anziana non nascono dalla pur naturale e presente decadenza fisica, ma dalle relazioni con gli altri e dai cambiamenti che intercorrono ad alimentare una sensazione di allontanamento dal mondo e di riduzione dello spazio fisico e sociale. In fondo la fragilità dell’età anziana e la sua rappresentazione ci servono a mascherare altre fragilità, presenti in ogni fase della vita, fra i giovani e fra gli adulti, e che dovrebbero al contrario creare una comunanza umana, farci fare un passo in avanti sul piano della comprensione e dell’arricchimento.

Inchiesta 50&Più

QUANDO LA PAURA DI INVECCHIARE DIVENTA FOBIA

Quella sensazione preoccupante e costante che il tempo comprometta le nostre capacità fisiche e cognitive in psicologia è definita gerascofobia, la paura di invecchiare, e compare anche in giovane età

di Ilaria Romano L’ invecchiamento è un fatto naturale, ma le reazioni all’avanzare dell’età possono essere molto differenti, come pure le paure legate ai cambiamenti fisici e di stile di vita. Come spiega Lucia Montesi, psicologa e psicoterapeuta, bisogna distinguere la fisiologica paura di invecchiare che tutti possiamo sperimentare in alcuni momenti, da quella patologica che rientra nelle fobie specifiche e che può compromettere la qualità della vita.

Dottoressa Montesi, come si manifesta la gerascofobia e quali sono i fattori che la scatenano?

La vera e propria fobia dell’invecchiamento può comparire a qualsiasi età, anche a vent’anni, ma è più frequente dopo i cinquant’anni: si manifesta con ansia che può arrivare fino all’attacco di panico di fronte ai segni di cambiamento fisico, con pensieri negativi sul futuro, su quella che potrebbe essere la vita nella vecchiaia. Può assumere aspetti molto diversi a seconda delle persone: per alcuni la paura è quella di perdere bellezza, prestazione fisica, capacità fisiche e cognitive, sviluppare una demenza. Per altri il timore è la perdita del ruolo sociale, del prestigio legato al proprio lavoro, oppure della perdita dei mezzi di sostentamento, del rischio di avere bisogno di assistenza e di non poterla avere. La gerascofobia si manifesta attraverso comportamenti che si mettono in atto per cercare di arrestare o negare l’invecchiamento, ossia il ricorso alla chirurgia estetica, all’esercizio fisico esagerato, al mantenimento di ritmi di lavoro eccessivi, alle relazioni con persone molto più giovani.

Quanto influiscono i modelli sociali dominanti in questo tipo di paure?

Forse la principale influenza su questo tipo di paure deriva proprio dalla

cultura e dalla società in cui viviamo, che ci propone continuamente modelli di bellezza e di immagine secondo determinati standard: bisogna essere belli, giovani, attivi, efficienti. Ed è difficile resistere a questa follia collettiva in cui tutti corrono verso un ideale irraggiungibile, per poi sentirsi inadeguati rispetto a modelli lontani dalla normalità, ma che comunque influenzano il nostro modo di vivere e percepire noi stessi. Basti pensare che anche nello scegliere una fotografia da pubblicare sui social cerchiamo sempre di privilegiare quella in cui si vedono meno i segni del tempo, e nella quale sembriamo più efficienti. Questa è poi l’immagine che rimandiamo agli altri, e che influenza moltissimo.

La pandemia ha influito sulle paure legate all’avanzare dell’età?

Purtroppo la pandemia ha amplificato ancora di più le paure, perché ha messo in luce la fragilità legata all’età anziana, per le conseguenze stesse del Covid che si accentuano all’aumentare dell’età. E poi ci ha portato a riflettere su tutte le tematiche legate alla solitudine e al bisogno di assistenza. Inoltre, questo periodo caratterizzato da restrizioni e lockdown ci ha fatto sentire un po’ tutti derubati del nostro tempo, come se fossimo invecchiati di due anni senza averli vissuti pienamente.

Perché la vecchiaia è ancora legata a una narrazione per stereotipi, nonostante l’aumento della vita media e la possibilità di preservare a lungo condizioni di benessere psicofisico?

Perché sono le persone più giovani che spesso si esprimono sugli anziani, ma raramente sentiamo la voce dei settantenni, degli ottantenni, che si esprimono su loro stessi; perché magari lo spot pubblicitario è creato per loro ma non da loro, come pure la comunicazione sui social, ma la realtà è molto diversa anche se emerge poco. C’è una discrepanza tra quelle che sono le paure e le proiezioni su come ci si immagina l’età anziana e la realtà, poiché dalle ricerche emerge che più della metà degli ultraottantenni è più che soddisfatta della vita che conduce. In realtà, quello che temiamo sono delle fantasie che proiettiamo sull’anzianità, che di solito è meglio di come viene immaginata.

Ci sono dei comportamenti o degli atteggiamenti che possono essere considerati campanelli d’allarme per capire quando una paura fisiologica sta diventando una fobia?

In psicologia non c’è un comportamento giusto o sbagliato di per sé, quindi ricorrere alla chirurgia estetica o al fitness diventa un problema solo se si supera la linea di confine della perdita di controllo, e della creazione di una dipendenza. Sentirsi in ansia o in colpa se non si fa una determinata cosa non è sano, come pure fare esercizio fisico tanto da compromettere la propria salute anziché apportare dei benefici, oppure spendere in cosmetici e chirurgia estetica tanto da compromettere le proprie finanze, o sacrificare i propri affetti.

Come si può contrastare la gerascofobia?

Parlando di più tra fasce di età diverse, perché ci si ascolta poco e c’è poco scambio. Se un giovane potesse ascoltare da una persona anziana com’è la sua vita, molti dei timori si ridimensionerebbero. Conoscere ciò che fa paura tranquillizza e aiuta a vivere meglio. Poi è importante chiedersi che cosa faccia paura nello specifico, perché magari è possibile adottare delle soluzioni e prepararsi a riguardo. Documentarsi su cosa significa invecchiare è fondamentale perché consente di mettere in luce anche gli aspetti positivi: l’età che avanza comporta dei cambiamenti, non necessariamente negativi, perché porta ad una maggiore consapevolezza di sé, e spesso significa riuscire a fare finalmente la vita che si vuole. Non c’è una ricetta unica per tutti, ma ognuno deve riconnettersi prima con se stesso, riflettere su quello che vuole e cercare di vivere nel presente. Cercare continuamente di sfuggire ai segni del tempo porta a non trovare mai una soddisfazione, ma a spostare sul piano fisico ciò che non soddisfa della propria vita.

Come terapeuta si è trovata di fronte a casi di paure di questo tipo?

I casi capitano e il ventaglio delle cause è estremamente variegato: c’è la persona che è ossessionata dal diventare demente, per la quale tutto ruota attorno al controllo delle prestazioni cognitive; quella terrorizzata dal fatto di rimanere sola, o di non valere più niente agli occhi degli altri perché non lavora più. In realtà, moltissime delle problematiche si ricollegano alla paura dell’invecchiamento, e anche della morte che questo richiama, un altro tema che ancora ci turba. Questi temi sono ancora poco studiati e tendono ad essere rimossi dalla nostra coscienza, ma rimuovere completamente l’argomento non consente di metterne in luce anche gli aspetti positivi.

Inchiesta 50&Più

LA LONGEVITÀ DIPENDE IN GRAN PARTE DA NOI

Vivere più a lungo si può, ma a certe condizioni. Innanzitutto modificando il proprio stile di vita, con una sana alimentazione e attività fisica costante. Così possiamo favorire una vecchiaia serena e in salute

di Giovanna Dall’Ongaro S uperati i cinquant’anni, prima o poi, c’è da scommetterci, ci si ritrova a pronunciare la fatidica frase: “oramai non ho più l’età per…”. C’è chi lo dice con rammarico perché avrebbe una gran voglia di fare molte delle cose considerate “sconvenienti” per gli over 50, come andare a ballare, vestirsi con colori sgargianti, cantare a squarciagola al concerto del cantante preferito insieme agli altri fan di trent’anni più giovani. Ma c’è anche chi “ci marcia” e ricorre alla scusa dell’età avanzata per evitare di fare sport o di portare i nipoti al parco. Sbagliano gli uni e gli altri. Perché da un po’ di tempo a questa parte la scienza ci invita a smettere di considerare l’età come un ostacolo o come un alibi, a seconda dei punti di vista. Sembra infatti che l’età indicata sui documenti valga solo per calcolare quanti anni sono trascorsi dalla nascita, nulla di più. I veri conti in tasca li fa l’età biologica, il parametro che misura quanto ci siamo effettivamente allontanati dalla gioventù in base a determinate condizioni dell’organismo e non al dato anagrafico. Per questo motivo l’espressione “non ho l’età” perde di significato: l’età anagrafica (che è quella a cui ci si riferisce in questo contesto), infatti, può dirci solo quanto siamo invecchiati ma non come. È quanto ci ha spiegato con estrema chiarezza Licia Iacoviello, professoressa di Igiene e Salute Pubblica all’Università dell’Insubria di Varese, capo del Laboratorio di Epidemiologia Molecolare e Nutrizionale del Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione dell’IRCCS Neuromed di Pozzilli, che ha studiato a lungo i fattori che incidono sulla salute e sull’invecchiamento.

Professoressa Iacoviello, è vero che l’età biologica conta più di quella anagrafica?

L’età biologica è un indicatore diverso da quello dell’età anagrafica. Non si

basa come quest’ultimo sugli anni trascorsi dalla nascita, ma sulla funzionalità del nostro organismo. Può succedere che una persona di 80 anni abbia un organismo funzionale come quello di una di 50 anni e viceversa. E tutto ciò è indipendente dall’aspetto fisico. Ossia, avere un’età biologica inferiore a quella anagrafica è qualcosa di diverso dal semplice “sembrare più giovani”.

Quindi, avere un aspetto esteriore “giovanile” non significa avere un’età biologica inferiore a quella anagrafica?

Le due cose possono andare di pari passo, ma non necessariamente. I parametri in base ai quali si calcola l’età biologica sono altri. Per conoscere l’età biologica si valutano la funzione epatica, renale, il metabolismo lipidico, le condizioni delle cellule del sangue. Poi ci sono altri biomarcatori specifici dell’invecchiamento, ossia misurazioni che indicano come e a che velocità si sta invecchiando. Tra questi c’è, per esempio, la lunghezza dei telomeri, le parti terminali dei cromosomi che accorciandosi accelerano l’invecchiamento. Le dimensioni dei telomeri sono quindi indicative dell’età dell’organismo. Poi ci sono i marcatori epigenetici che, semplificando al massimo, sono quelle molecole che indicano se i geni agiscono favorendo o ostacolando la salute. Il nostro stile di vita può infatti influenzare la funzione del Dna in senso positivo o negativo, anche se non può intervenire sulla sequenza. Mettendo insieme tutti questi parametri si ottiene un punteggio associato all’età biologica. Sono già disponibili diversi test per fare il calcolo.

Perché è importante conoscere l’età biologica di un individuo?

Le ricerche condotte dal nostro gruppo hanno dimostrato che l’età biologica è correlata alla longevità. Chi ha un’età biologica inferiore a quella anagrafica ha meno probabilità di ammalarsi e quindi di morire prematuramente. Conoscere l’età biologica è importante perché, a differenza di quella anagrafica, questa è modificabile.

Sta dicendo che è possibile ringiovanire o per lo meno rallentare l’invecchiamento abbassando l’età biologica?

Da qualche tempo a questa parte è stato superato il paradigma secondo il quale l’età è un dato di fatto non modificabile. Si è scoperto infatti che si possono portare indietro le lancette dell’orologio biologico intervenendo sullo stile di vita. Un’alimentazione salutare, come la dieta mediterranea, l’attività fisica regolare, una vita serena priva di stress, sono fattori che possono abbassare l’età biologica.

Quindi non è già tutto scritto nel Dna…

La nostra salute e il nostro modo di invecchiare dipendono non solo dalla componente genetica ma anche da quella epigenetica, che è legata allo stile di vita. Uno stile di vita salutare può modificare la funzione del Dna in senso positivo. Chi ha avuto in dotazione con la nascita dei geni sfavorevoli che predispongono a determinate malattie può controbilanciare la cattiva sorte adottando buone abitudini alimentari, praticando regolarmente attività fisica, rinunciando al fumo, allontanando lo stress e mantenendo un peso forma.

Secondo lei ci sarà mai un elisir di lunga vita capace di abbassare l’età biologica? Una pillola che rallenta l’invecchiamento?

Esistono già molti farmaci che intervengono sui fattori di rischio, migliorando la salute generale e allungando la vita. Però sono convinta che sarebbe meglio puntare sullo stile di vita più che su una pillola miracolosa. I benefici della dieta mediterranea ba«Per conoscere l’età biologica si valutano la funzione epatica, renale, il metabolismo lipidico e le condizioni delle cellule del sangue»

sata su cereali preferibilmente integrali, frutta, verdura, basso consumo di prodotti animali, alimenti di produzione agricola e non industriale sono oramai assodati. Allora perché non cominciare a cambiare le abitudini a tavola piuttosto che sperare in un elisir di lunga vita?

Inchiesta 50&Più

VIVERE CENT’ANNI? SI PUÒ. MA, PER ANDARE OLTRE, SERVE UNA MARCIA GENETICA IN PIÙ

Per alcune specie animali, superare il secolo di vita non è un fatto eccezionale. Qual è il segreto? Possedere un maggior numero di copie di alcuni geni protettivi che rallentano l’invecchiamento

di Adelaide Vallardi

Loro ci sono riuscite. E non sono le uniche. Gli fanno compagnia gli elefanti, tanto per fare un per esempio. Oltre alle dimensioni gigantesche, le tartarughe delle Galapagos condividono con i pachidermi la caratteristica più ambita di ogni specie, Homo sapiens in primis: vivere a lungo, molto a lungo, e in salute. Sì, perché la natura ha deciso che ad alcuni animali la longevità spetti di diritto, come un bonus premio consegnato all’intera categoria e non solo a singoli individui. Insomma, nel caso delle tartarughe e degli elefanti, centenari si nasce e non ci si deve sforzare più di tanto per diventarlo. In assenza di imprevisti, per questi animali superare il traguardo di un secolo di vita è la regola e non l’eccezione. Da che dipende questa fortuna? Ammettiamolo onestamente: la domanda non è per nulla disinteressata. E se ci sta così tanto a cuore scoprirlo è perché speriamo di poter rubare alla natura il segreto della longevità e di servircene poi per allungare la vita della nostra specie. Gli studi sulle tartarughe delle Galapagos e sugli elefanti invitano a rivolgere l’attenzione ad alcune specifiche caratteristiche genetiche tipiche di questi animali e non di altri. Si è scoperto, infatti, che le testuggini e gli elefanti posseggono, in numero superiore rispetto ad altre specie, le copie di alcuni geni protettivi che rallentano l’invecchiamento e allontano il rischio delle malattie legate all’avanzamento dell’età, come il cancro. Questi geni, cercheremo di spiegarlo in maniera semplice, innescano un processo di riparazione del Dna dai danni dell’invecchiamento o dei tumori. Per questa ragione il cancro è una malattia rarissima sia tra le tartarughe delle Galapagos che tra gli elefanti. Fortunati loro. Noi che apparteniamo alla specie Homo sapiens non siamo stati così tanto premiati dalla natura. Non possiamo lamentarci se ci confrontiamo ai nostri “cugini” scimpanzé, che raramente superano i 50 anni di età. Secondo alcune stime recenti, alcuni

di noi potrebbero arrivare entro il 2100 a vivere fino a 130 anni. Ma si tratterà comunque di casi eccezionali perché i geni della longevità non vengono assegnati di default a tutti gli esseri umani, non sono il marchio di fabbrica di ogni esemplare messo al mondo. Per la maggior parte di noi, la longevità è una conquista più che un destino e per ottenerla si punta sullo stile di vita, l’alimentazione sana, l’attività fisica regolare, niente fumo ecc… È questa la via umana per campare cent’anni. Ma le persone estremamente longeve, quelle che arrivano a spegnere in salute 105, 110, 115 candeline (il record attuale è di 122 anni), hanno una marcia genetica in più, la stessa delle tartarughe giganti e degli elefanti. Anche loro posseggono un meccanismo di riparazione del Dna grazie al quale la salute viene preservata a lungo. Lo ha dimostrato uno studio recente dell’Università di Bologna condotto su 81 supercentenari italiani il cui genoma è stato analizzato in ogni minimo dettaglio, in cerca del “trucco” che permette di tenere alla larga le malattie dell’invecchiamento. «L’invecchiamento è un fattore di rischio comune per diverse malattie e condizioni croniche. Abbiamo scelto di studiare la genetica di un gruppo di persone che vivevano oltre i 105 anni e di confrontarle con un gruppo di giovani adulti della stessa area in Italia», ha spiegato Paolo Garagnani, professore associato presso il Dipartimento di Medicina Sperimentale, Diagnostica e Specialistica dell’Università di Bologna e primo autore dello studio. Il genoma degli 81 supercentenari è stato messo a confronto con quello di 36 persone in salute di circa 60 anni, per individuare le differenze nei geni tra i più anziani e i più giovani. Dal confronto è emerso che gli ultracentenari posseggono alcune specifiche caratteristiche genetiche simili a quelle delle specie animali più longeve. Chi possiede questi particolari tratti genetici può, per dirla in maniere semplice, fare affidamento costantemente su una squadra di pronto intervento all’interno delle cellule, che ripara i danni del Dna ogni volta che se ne verifica uno. Non solo: il fortunato corredo genetico degli ultracentenari consente all’organismo di eliminare le cellule danneggiate (spingendole al suicidio, apoptosi) e di contrastare il cosiddetto stress ossidativo, responsabile della formazione dei famigerati radicali liberi associati all’invecchiamento. Tutti questi processi sono coinvolti nell’insorgenza e nello sviluppo di molte malattie, come il cancro. Ma il genoma degli ultracentenari si distingue anche per un altro aspetto che sembrerebbe cruciale per allungare la vita: il Dna delle persone estremamente longeve presenta un numero basso di quelle mutazioni che naturalmente si accumulano nell’arco della vita. Lo studio suggerisce quindi che il segreto della longevità estrema è scritto nei geni e che dipenda dalla combinazione di due fattori: l’abilità di riparare i danni del Dna e la possibilità di ridurre al minimo le mutazioni naturali. «Precedenti studi hanno dimostrato che la riparazione del Dna è uno dei meccanismi che consentono una maggiore durata della vita tra le specie. Abbiamo dimostrato che questo è vero anche per gli esseri umani e i dati suggeriscono che la diversità naturale nelle persone che raggiungono gli ultimi decenni di vita è, in parte, legata alla variabilità genetica che conferisce ai semi-supercentenari la peculiare capacità di gestire effiIl corredo genetico degli ultracentenari consente all’organismo di eliminare le cellule danneggiate e di contrastare lo stress ossidativo, responsabile della formazione dei famigerati radicali liberi

cacemente il danno cellulare durante il loro corso di vita», commenta Cristina Giuliani, professore associato presso il Laboratorio di Antropologia Molecolare, Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali, Università di Bologna, coautrice dello studio. Con tanta buona volontà e un po’ di fortuna, molti di noi potrebbero diventare centenari. Ma senza i geni giusti ci si ferma lì.

A CACCIA DELL’ELISIR DI GIOVINEZZA

Dai laboratori più avanzati, le nuove molecole e le infusioni di plasma che promettono di rallentare l’invecchiamento cellulare

di Anna Costalunga

Dalla leggendaria Ambrosia degli antichi Greci alla pietra filosofale degli alchimisti medioevali, la ricerca dell’immortalità affascina l’uomo fin dai tempi antichi. Una speranza rimasta ovviamente disattesa. Ma se la morte resta l’unica certezza, si può sempre sperare di “lavorare” sulla vecchiaia, cercando di rimanere giovani e in buona salute il più a lungo possibile. L’aspettativa di vita è aumentata vertiginosamente ma non sempre è possibile fare un buon uso degli anni in più a disposizione, poiché spesso l’anzianità è associata a condizioni di malattie e fragilità che conducono ad un rapido declino fisico. Se è vero che la vecchiaia si prepara da giovani, rispettando salutari regole di vita, l’elisir di giovinezza oggi ha il nome di una serie di farmaci noti come geroprotettori e senolitici. Obiettivo di entrambi sono le cellule senescenti, invecchiate e non più in grado di svolgere le loro funzioni, che tuttavia - prima di morire - rimangono a lungo nell’organismo secernendo alcune sostanze dannose, causa di infiammazioni. Sono chiamate anche cellule zombie, perché in grado di “contaminare” le cellule vicine, diffondendo l’infiammazione a tutto il corpo con un effetto domino. L’idea degli scienziati oggi è trovare - se non l’elisir di lunga vita - quanto meno una cura universale contro le malattie neurodegenerative e vascolari, il cancro e il diabete. L’assunto della ricerca sui farmaci geroprotettori, infatti, è impedire il deterioramento del fisico non appena inizino a svilupparsi i sintomi di queste patologie, che normalmente insorgono con l’età. Scopo delle ricerche, dunque, non è la longevità in

sé, ma piuttosto la promessa di una “durata della salute” (healthspan), intesa come una vecchiaia libera da malattie. Tra le centinaia di sostanze allo studio figura la rapamicina, promossa da immunodepressore a supporto di trapianti a farmaco in grado di correggere i meccanismi cellulari danneggiati dal trascorrere dell’età. Un altro composto in grado di ritardare i processi di comorbidità è la metformina, oggetto di sperimentazioni su pazienti over 60 alla Mayo Clinic di Rochester (Stati Uniti), che ne evidenziano la capacità di agire sui meccanismi dell’insulina per ridurre lo stress infiammatorio causato dalle cellule zombie. Tuttavia, un solo principio di per sé non è sufficiente a bloccare il processo di senescenza. Sempre i ricercatori della Mayo Clinic hanno scoperto che la somministrazione di un cocktail di farmaci - composto da un Oggi, l’idea degli scienziati è trovare - se non l’elisir di lunga vita - quanto meno una cura universale contro le malattie neurodegenerative e vascolari, il cancro e il diabete

antitumorale e da un flavonoide, la quercetina - impedisce l’insorgere di aterosclerosi e osteoartrite. Ma l’aspetto più intrigante della nuova frontiera dell’antiaging è la cura con il plasma prelevato da soggetti giovani. Una pratica “vampiresca”, sostenuta da diverse società, tra le quali la californiana Ambrosia e da milioni di dollari di investimento. L’ultima ricerca volta a dimostrare l’utilità delle trasfusioni di plasma giovane come possibile trattamento anti-Alzheimer risale al marzo 2021. Quinfeng Qiang, autore principale dello studio, sostiene infatti di aver documentato il ruolo centrale di un recettore dei globuli rossi nell’ostacolare il declino cognitivo, collegando la sua perdita nel tempo all’insorgere della senescenza. Il settore dell’anti-invecchiamento smuove anche enormi interessi economici. Secondo un rapporto dell’agenzia P&S Intelligence - esperta in ricerche di marketing -, il comparto passerà dagli attuali 191,5 miliardi di dollari a 421,4 miliardi entro il 2030. Di conseguenza si moltiplicano nel mondo i cacciatori dell’eterna giovinezza, all’inseguimento della formula ideale, e il settore dell’anti-invecchiamento, dunque, attira sempre più risorse. Nel Regno Unito sono al lavoro

più di 260 aziende, 250 investitori, 10 non profit e 10 laboratori di ricerca. Nella Silicon Valley, in California, ricchi e misteriosi investitori finanziano l’industria dell’eterna giovinezza a tutti i costi. Una delle ultime start up è Altos Labs, tra i cui facoltosi sovvenzionatori figurano il fondatore di Amazon, Jeff Bezos e Yuri Milner, il miliardario che ha fatto la sua fortuna con Facebook. Milner ha 59 anni e Bezos 57. Forse il raggiungimento della mezza età li ha spinti ad indagare sulla questione. Di certo entrambi possono contrapporre alla paura di invecchiare la disponibilità economica necessaria per un investimento di tale portata. Bezos del resto non è nuovo a questi interessi: insieme al fondatore di PayPal, Peter Thiel, ha scommesso sulla Unity Biotechnology, altra società californiana, la cui missione è “estendere la durata della salute umana, garantendo un’esistenza non gravata dalle malattie dell’invecchiamento”. L’ultimo progetto dell’azienda, partita con un finanziamento base di 300 milioni di dollari, riguarda un farmaco senolitico per l’osteoartrite, che promette - tramite infiltrazioni al ginocchio - di contrastare la malattia distruggendo le cellule senescenti. In futuro lo stesso farmaco potrebbe essere impiegato nel trattamento del dolore in altre parti del corpo. Un’altra start up ad operare nella Silicon Valley è Calico (California Life Company), lanciata da Google nel 2013 con 1,5 miliardi di dollari per studiare le cause dell’invecchiamento e come contrastarlo. Tra le aziende del settore (BioAge, BioViva, The Longevity Fund…), una - la Cellular Longevity Inc. - sta sviluppando nuovi trattamenti per garantire ai cani una vita più lunga e una vecchiaia più attiva. E possibilmente estendere in futuro i risultati della ricerca anche alle persone. È dunque arrivato il tempo in cui le conoscenze nel campo della biologia e le tecnologie sempre più raffinate permettono di individuare e ostacolare efficacemente alcune delle cause del processo di senescenza. Ma restano alcuni interrogativi etici. A partire dagli esperimenti di parabiosi (la pratica chirurgica che unisce due organismi simili connettendo i rispettivi sistemi circolatori) alla base delle terapie plasmatiche, fino ad un interrogativo di fondo: come coniugare tutto questo con il sovrappopolamento e lo sfruttamento del pianeta? E infine: siamo consapevoli che respingere la vecchiaia non significhi in realtà negare la condizione stessa della nostra umanità? Certo un mondo di ultra centenari, in cui tornare sui banchi di scuola a 60 anni o cambiare vita a 80, è oggi un traguardo sempre meno fantascientifico. Un successo dovuto anche alla medicina, il cui fine ultimo è mantenere le persone in buona salute, non importa quale sia la loro età.

AYRTON SENNA, EROE NEL VENTO

Bello, vincente e sfortunato, Senna era molto più di un campione di Formula 1. A quasi trent’anni dalla tragica morte in gara, il suo mito di mago della velocità, uomo ardente e malinconico, implacabile “esploratore del limite” è più vivo che mai

di Giulio Zinno di Leonardo Guzzo

Nella gerarchia dello sport esistono i campioni, i fenomeni e gli eroi. Quelli che sovrastano la maggioranza in abilità, quelli che per talento e carisma travalicano lo sport e poi quelli che spostano un limite, che dello sport ha solo la veste e riguarda in realtà tutta la “famiglia umana”. Ayrton Senna appartiene a quest’ultima cerchia: eroe per l’impulso di correre più veloce di tutti, per la sfida a essere se stesso senza compromessi, a vivere la sua originalità e a plasmare le circostanze. Nato a Sao Paulo il 21 marzo del 1960, Senna è il rampollo di una famiglia agiata, il successore designato alla guida dell’impresa creata dal padre Milton Da Silva. Traballa sulle gambe e i genitori lo ri-

battezzano “Beco”, il boccale di birra in brasiliano, assimilando la sua camminata instabile a quella di un ubriaco. I medici non sanno trovare la causa del disturbo, confidano nel tempo e il tempo alla fine guarisce il piccolo Ayrton; il senso del bilico gli resta impresso e si trasferisce in un’attrazione irresistibile per le macchine e i motori. A quattro anni il padre gli lascia il volante della sua auto, poi gli costruisce una macchinina su misura per esercitare la sua passione. Ayrton si cimenta giovanissimo coi kart, impara a smontarli e rimontarli pezzo per pezzo, a conoscerne ogni bullone. A 13 anni è affidato alle cure del “Tché”, leggendario addestratore di piloti di San Paolo, e il suo responso è lapidario: non ha mai visto un altro correre come quel ragazzino. Senna s’impone come kartista in Brasile e poi in

Europa. In Italia e in Inghilterra si cimenta con le macchine da corsa: mette a frutto l’abilità affinata nell’apprendistato sui kart, ma scopre solo allora il brivido della “vera” velocità, e non può più farne a meno. Nel 1981 sposa l’amica d’infanzia Lilian de Vasconcelos, l’anno dopo il padre lo richiama al dovere in Brasile e Ayrton obbedisce. Passa sei mesi fuori da se stesso, come un morto in vita, il suo sogno sembra compromesso e il matrimonio va a rotoli. Poi finalmente il padre si convince a “lasciarlo libero”: può diventare a tutti gli effetti un pilota professionista e conquista un posto in Formula Uno al volante della Toleman. È il 1984. Non vince nemmeno una gara ma, il 3 giugno, nel Principato di Monaco dà lezioni di guida sul bagnato. In testa c’è il francese Alain Prost, che avanza accorto su una macchina molto più potente: Senna va quasi in parata e sta per superarlo quando la corsa viene interrotta per via della pioggia battente. Da quel momento Prost, il bassotto col naso da silfo, il “professore” che calcola ogni vittoria, diventa il suo nemico giurato, colpevole di un furto e di essere il più bravo, a parte lui. L’anno dopo Ayrton passa alla Lotus, vince il suo primo Gran Premio in Portogallo e bissa in Belgio. Ottiene due vittorie anche nel 1986 e nel 1987 e si consacra tra i migliori piloti del circuito. Nel 1988 Prost lo vuole come compagno nella scuderia McLaren, avallando l’inizio di una tra le più formidabili rivalità della Formula Uno. Quell’anno Senna vince otto gare su sedici e conquista il titolo mondiale dei piloti. Nel 1989 il rapporto con Prost s’incrina per uno screzio in gara a Imola e la tensione culmina in un clamoroso incidente a Suzuka, in Giappone. Il francese è davanti, Senna insegue nel campionato del mondo e in gara: vede uno spiraglio in curva e cerca di sorpassare il compagno di squadra, che lo chiude. Per l’impatto entrambe le vetture finiscono fuori pista: Prost si arrende, ma Senna riparte con una manovra contestata e vince. Dopo il traguardo, la doccia fredda: la direzione di gara lo squalifica, togliendogli la vittoria e ritirandogli la licenza di pilota per sei mesi. Ayrton sbraita, perde il campionato dietro a Prost e patisce una ferita destinata a non guarire mai. Nel 1990, a Suzuka, le parti si invertono: Senna è primo nel campionato e parte in pole position, Prost è passato alla Ferrari e insegue.

Alla prima curva del tracciato, la stessa dell’anno precedente, il pilota francese prova a sorpassarlo, Ayrton chiude la traiettoria e i due finiscono di nuovo fuori pista. Gara terminata, nessuna squalifica e stavolta è Senna a trionfare nel campionato piloti. L’anno successivo, quasi a farsi perdonare quella scorrettezza, Ayrton rivince il campionato con una stupefacente dimostrazione di classe. Vince per la prima volta nel Gran Premio del Brasile, sul circuito di Interlagos a San Paolo, compiendo gli ultimi giri senza poter cambiare marcia e finendo stremato, tanto da non riuscire a tirarsi fuori dall’abitacolo della sua McLaren. Intorno è il tripudio, dentro è la sensazione di aver adempiuto a una missione: come tre anni prima, quando ha vinto il suo primo titolo e Dio gli è apparso per “riscaldargli il cuore”. Ha fede, Ayrton, legge un passo della Bibbia alla vigilia di ogni gara, si fa benedire la maglia ignifuga che indossa sotto la tuta, si estranea in una sorta di meditazione prima della partenza. Dice le sue preghiere e si sente eletto, anche quando la sorte gli volta le spalle e per due anni annaspa, penalizzato da una macchina non più all’avanguardia e tenuto a galla soltanto dal suo inarrivabile talento. Nel 1993, nel Gran Premio d’Europa, compie la sua impresa forse più leggendaria: cinque sorpassi nel primo giro sulla pista bagnata, quando le differenze meccaniche si appianano e conta solo la bravura del pilota. A fine anno, però, a vincere il campionato mondiale è Prost, che annuncia il ritiro dalle corse. Ayrton perde il rivale per eccellenza e forse anche un po’ di mordente. Il teatro della sua pantomima - la lotta eroica tra bene e male, la crociata per affermare il suo diritto ad essere l’eletto - traballa. Non gli basta trasferirsi alla Williams, la scuderia più forte del momento: una modifica del regolamento riscrive le gerarchie e Senna fatica a trovare il giusto assetto della vettura. Nel 1994 è costretto a ritirarsi durante le prime due gare e chiede una modifica meccanica per essere più competitivo a Imola, nel Gran Premio di San Marino. Il piantone dello sterzo è allungato con l’innesto di un tubo saldato a mano, in modo da garantirgli maggiore spazio nell’abitacolo strettissimo. La vettura perde in aderenza: al sesto giro del GP, già funestato da una morte in pista nelle qualifiche, va dritta alla curva del Tamburello e si schianta velocissima contro il muretto di recinzione. Senna è immobile, ha la testa piegata di lato. Lo tirano fuori dalla macchina, non risponde. Un pezzo saltato della sospensione gli è entrato nel casco sotto la visiera, qualcuno lo vede esalare l’ultimo respiro, o ne ha l’impressione. La corsa in elicottero all’ospedale di Bologna e le cure successive sono inutili: alle 18.40 la dottoressa Maria Teresa Fiandri annuncia al mondo che Senna è morto. Il 5 maggio, in Brasile, si svolgono i funerali di Stato ma Ayrton non è nella bara. Non è nella tomba, nelle statue o nei cimeli dei musei, ma nei luoghi, nelle cose e nelle persone che ha lasciato dietro di sé in tutto il mondo. Nella curva del Tamburello ha chiuso i conti col mito: ha sorpassato verso l’alto, per lanciarsi nel luogo invisibile che appartiene più propriamente agli eroi.

Della magia di Senna mi piace sapere che non voglio sapere il perché. Il libro di Guzzo fornisce al mio non sapere una forte dose di parole, come un lungo mantra, una formula esoterica di cui non è obbligatorio conoscere pignolescamente il significato. Basta offrire mente e cuore alla prima pagina per rimanere presi, bloccati – divorati direi – da una scrittura davvero eccezionale: piena ma non barocca, ricca ma non proterva, cesellata ma non narcisistica. Nelle pieghe di questa scrittura corre l’eroismo solitario di Senna, la sua umanità sdrucita, lo sguardo vivo, guizzante e a volte perfino triste, il che vuol quasi sempre dire intelligente. Non c’è Devo sempre vincere. Questo è.modo più efficace di un’evocazione ma- Se non vinco non mi sento soddisfatto. gica per riportarlo in vita. La magia letteraria di Beco ha rinforzato la mia fantasia e la mia “sottomissione” nel rapporto con Ayrton Senna: è come Fa parte della mia personalità: ci ho messo una vita a chiarirlo, a rendermene conto, e l’ho sempre applicato alle corse. La cosa più importante, l’unica che conta, è essere te stesso. Non quando uno è innamorato e scopre che permettere agli altri di cambiarti perché vogliono cambiarti. quella certa musica, quel certo quadro gli La mia motivazione è vincere sempre. Mi rifiuto di fuggire servono per non capire bene il suo amore, dalla lotta. È la mia natura, andare dritto fino alla fine. e dunque per goderselo di più. Gian Paolo Ormezzano Leonardo Guzzo (Napoli, 1979) è scrittore e giornalista. Scrive per «Il Mattino» e «L’Osservatore Romano». Per Pequod ha già pubblicato Le radici del mare (2015) e Terre emerse (2019). E 15,00 Q

Beco Leonardo Guzzo

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Leonardo Guzzo Beco

Vita in romanzo di Ayrton Senna

BECO. VITA IN ROMANZO DI AYRTON SENNA

Una biografia letteraria: così si può definire Beco, l’omaggio di Leonardo Guzzo al mito di Ayrton Senna. Non una raccolta di fatti memorabili, ma una storia sul talento e la determinazione di Senna, sul suo temperamento di pilota e il suo calmo furore di uomo. Un ritratto prismatico del campione brasiliano alternato a testimonianze in prima persona di parenti, amici, amanti, compagni e avversari, e alle confessioni dello stesso Ayrton. Beco è un libro originale fin dal titolo, che allude al soprannome di Senna bambino, incerto nella camminata. Queste pagine parlano di un uomo diventato eroe attraverso il suo sogno: Senna uomo che ha continuato a traballare nella velocità, che ha vissuto e vinto traballando e che traballando è scomparso. Ma non è caduto. Ha volato nella realtà e oltre, per proiettarsi nel mito. «Cantare un eroe è forse il modo più giusto per raccontarlo», sostiene l’autore, e Gianpaolo Ormezzano - storico direttore di Tuttosport - lo ribadisce nella prefazione: «ll libro di Guzzo fornisce al mio ricordo di Senna una forte dose di parole, come un lungo mantra, una formula esoterica di cui non è obbligatorio conoscere pignolescamente il significato. Basta offrire mente e cuore alla prima pagina per rimanere presi, bloccati da una scrittura davvero eccezionale».

SULLE ALI DELLA CREATIVITÀ

Dopo le Farfalle, al Concorso 50&Più arrivano le Libellule. Un ulteriore riconoscimento al talento e alla voglia di mettersi in gioco

di Stefano Leoni

Quando si crea un’opera non si spende solo tempo o magari denaro, ma si investono aspirazioni, pensieri, speranze. E proprio per questo essere premiati per ciò che si è creato è senz’altro entusiasmante. Figuriamoci, poi, quando si riceve più di un premio per il proprio talento. L’emozione è la stessa che provano i partecipanti al Concorso 50&Più quando vincono una Farfalla d’Oro e, magari, successivamente ricevono il premio Libellula. Dopo aver vinto in una delle quattro discipline del Concorso, infatti, i partecipanti possono mettersi di nuovo in gioco in quella stessa disciplina artistica gareggiando per aggiudicarsi la Libellula d’Argento. Ma non è tutto. La giuria, infatti, ha il potere di scegliere quattro ulteriori opere tra quelle in lizza (una per sezione) a cui andrà la Libellula d’Oro. Un momento che vuole ripagare di tutto l’impegno dimostrato dai partecipanti durante questo Concorso artistico. Per vedere le opere che si sono aggiudicate la Libellula basta visitare il sito www.spazio50.org/concorso50epiu. Sezione Prosa

Laureata in Scienze Naturali e in Scienze Biologiche, ha insegnato presso le scuole medie e superiori. Da 14 anni è la coordinatrice della 50&PiùUniversità di di Lucca. Partecipa al Concorso 50&Più per la seconda volta; nel 2020 ha vinto la Farfalla d’Oro per la Prosa e la Superfarfalla. Vive a Lucca.

Il cuore in mano

di Rosa CONTE

Prego, signora”. L’inappuntabile cameriere posa sul tavolino il mio succo di frutta, lo ringrazio con un sorriso. Mi piace tanto questo hotel di Abano, dove spesso veniamo a rilassarci. Adoro questa aria antica, nobile ed elegante. Arredi, quadri, preziose porcellane, lampadari di Murano fanno rivivere la scintillante atmosfera della Belle Époque. Qui il generale Diaz ha firmato il Bollettino della Vittoria che nel 1918 chiude la Grande Guerra. Al Grand Hotel Trieste & Victoria mi sento coccolata e viziata, sentieri profumati di fiori invitano a rilassanti passeggiate all’ombra di alberi esotici e le acque calde delle piscine termali mi avvolgono e mi accarezzano in un abbraccio morbido e rassicurante. Purtroppo tu non vuoi più viaggiare, dici che siamo troppo “vecchi”. Ovviamente hai torto marcio ed entrambi sappiamo bene che si tratta di un alibi per mascherare la tua riluttanza al solo pensiero di prendere un aereo, o un treno o un’auto per scoprire bellezze che non conosciamo. Eppure sei ancora molto energico e sportivo, per non parlare di quanto alacremente svolgi ancora la tua attività. Non ho mai conosciuto nessuno che ami il suo lavoro con tale passione e dedizione, ancora oggi continui ad aggiornarti per poter offrire ai pazienti il massimo della professionalità. Sfogli distrattamente un giornale ed io inizio a dipanare il filo dei ricordi. Avevo quasi 29 anni. Mia madre era un po’ preoccupata perché mi vedeva già avviata sulla strada dello “zitel-

laggio” ed io non facevo niente per non farglielo credere. Non avevo avuto fidanzati fino ad allora, tanti aspiranti candidati, questo sì, ma niente di più. Era martedì grasso e fui invitata ad una festa privata. Ancora oggi io detesto sia il Carnevale che le maschere, per cui mi limitai ad indossare una camicetta bianca con una lunga gonna colorata ed un paio di orecchini vistosi e portavo sciolti i miei lunghi capelli scuri. L’appartamento si trovava in un palazzo storico nel centro della città, risalente al 1300 e impreziosito da trifore e quadrifore. Saloni, caminetti antichi, tappeti ed arredi eleganti mi intimidirono un po’. A festa inoltrata il padrone di casa mi invitò a ballare. Nonostante insegnassi da sei anni ed avessi appreso l’arte di domare torme di esuberanti ragazzini dagli 11 ai 14 anni, non avevo perso la mia naturale riservatezza. Fui pertanto titubante, ma accettai per educazione anche perché, oltre al Carnevale e alle maschere, detesto anche il ballo del mattone. Per sciogliere il ghiaccio lui fece un apprezzamento sul mio orologio e mi chiese se era un Baume&Mercier. Che imperdonabile sbadata! Un prezioso orologio d’oro, regalo dei miei genitori, al polso di una già improbabile zingara! Guardai meglio l’autore del complimento e… mi persi nei suoi occhi “color di foglia”. Parlammo del più e del meno, ma il mio cuore già perdeva qualche battito. Sei una sciocca, mi dicevo, lui balla con te come ha ballato con le altre ragazze, per dovere di ospitalità. Figurati se ti considera, adesso vedrò spuntare da qualche parte una moglie oppure una statuaria fidanzata che si avvicinerà a noi con sorrisetto sardonico e… «Mi dai il tuo numero di telefono?», mi chiese. Sei mesi dopo eravamo sposati. Fu un viaggio di nozze da sogno. Cinque giorni nel più esclusivo hotel di Portofino e poi via, verso il Paradiso Terrestre. Sabbia di borotalco, l’aria odorosa, un mare dai colori incredibili e la barriera corallina delle Isole Seychelles mi fecero capire che quello era il posto dove avrei voluto vivere per sempre. Fino ad allora non mi ero mai avventurata nel mare profondo, ma lì non potei rinunciare allo snorkeling in acque calde e cristalline ed incontrare i pesci multicolori come in uno straordinario acquario. La prima notte camminammo a lungo sulla spiaggia, percorsa continuamente da granchi mostruosamente grandi e rumorosi, ma ciò che mi incantò fu lo spettacolo mozzafiato del cielo, che sembrava non poter contenere le stelle. Non avevo mai visto un cielo così traboccante di luci palpitanti, il solo pensiero ancora oggi mi emoziona. Il nostro matrimonio fu un salto nel buio per entrambi, due sconosciuti che hanno unito le loro vite ed intrapreso un cammino insieme. Allora ti piaceva viaggiare; abbiamo visitato quasi tutte le capitali europee e siamo ritornati in Africa, negli Stati Uniti ed in Brasile ed ovviamente abbiamo percorso in lungo e in largo il nostro meraviglioso Paese. Ti ricordi quanto abbiamo riso quando il tuo collega ti disse: “Ma che fai, porti tua moglie a Rio de Janeiro? È come andare in un ristorante stellato e portarsi dietro il panino!” Mi ha assai divertito essere paragonata ad un sandwich!!! Certamente non sono mancati, come in ogni coppia, i momenti di contrasto. Non è stato facile starti accanto e cercare di smussare gli angoli acuti di un carattere a volte spigoloso e spesso ho dovuto attingere al Pozzo di San Patrizio della mia pazienza. Sei testardo, distratto ed impaziente, talora maschilista e molto diretto e non sai cosa significa la parola diplomazia. Ho imparato a conoscere i tuoi occhi quando, grigie lame d’argento, emettono bagliori scintillanti oppure quando, placidi laghetti alpini pieni di tenerezza, cangiano con la luce catturando le sfumature del cielo o degli alberi. Ho imparato ad ammirare la professionalità, l’umanità e competenza nel tuo lavoro, la tua passione infinita che ti faceva dimenticare gli orari, magnifica ed inebriante droga che ancora oggi, dopo 52 anni, non ti abbandona. Turni massacranti quando lavoravi all’Ospedale, anche di 36 ore, non ti hanno mai fatto perdere quel desiderio stupendo e meraviglioso di aiutare gli altri a combattere la battaglia contro la malattia. Non sentivi stanchezza ed hai sempre affrontato i problemi, anche nell’ambiente di lavoro, con estremo coraggio e franchezza, senza mai scendere a compromessi o cercare facili guadagni. Scrupoloso e preparato, hai sempre perseguito il bene dei malati seguendo il tuo istinto e senso clinico, a volte disattendendo le linee guida e rischiando in prima persona, forte anche dell’enorme esperienza accumulata in tanti anni di trincea. Ricordi quella fredda mattina invernale quando il suono del telefono ci svegliò bruscamente? Laura, nostra amica, ti chiedeva di recarti da loro perché il marito, di soli 35 anni, non si sentiva bene. Mentre scorreva l’elettrocardiogramma improvvisamente il pennino impazzì e riconoscesti con grande preoccupazione i terribili segni della fibrillazione ventricolare. Afferrasti Marco, che aveva perso conoscenza, e senza tanti complimenti lo depositasti sul pavimento iniziando immediatamente le manovre rianimatorie. Passarono 20 lunghissimi minuti prima che l’ambulanza arrivasse. In seguito mi dicesti che stavi per smettere, avendo la netta impressione di massaggiare un cadavere, ma la vista del ventre turgido di Laura ti dette la forza di continuare. Non potevi tollerare che quel bambino dovesse nascere già orfano di padre. Le manovre continuarono anche a bordo dell’ambulanza e poi al pronto soccorso, finalmente con l’aiuto del defibrillatore. Eri assistito dal collega cardiologo di turno e dall’anestesista, i quali, vista la mancata ripresa del paziente, ti chiesero di constatarne il decesso. Tu non li hai ascoltati ed hai continuato fino a quando Marco non iniziò a respirare autonomamente. A distanza di pochi giorni Laura dette alla luce la sua bambina ed un mese dopo nacque anche il nostro cucciolo. Era il 1982, l’anno dei favolosi mondiali di calcio e con i nostri amici e i due piccoli in culla trepidavamo davanti alla tv a tifare Italia. Ricordo che avevamo un rituale scara-

mantico, ad ogni partita della nostra Nazionale dovevamo tutti mantenere la stessa postazione davanti allo schermo. Direi che ha funzionato! E la nostra amica Grazia? Ti riferì con noncuranza di un “dolorino” al torace. La tua immediata diagnosi di aneurisma dissecante dell’aorta, che le lasciava poche ore di vita, fece sì che in tempi record fosse sottoposta ad un lungo e delicato intervento da parte del più abile cardiochirurgo, che fortunatamente operava a Firenze. Oggi, a distanza di 25 anni, Grazia può godersi con gioia i tre vispi nipotini. Ed ancora altri pazienti da te estratti dalle tenebre dell’arresto cardiaco, uno perfino in palestra, mentre ti allenavi. Salvati dalle tue mani esperte, dalla tua caparbietà nel volerli strappare alla morte. Per te, mio eroe silenzioso, nessun clamore ma il riconoscimento più importante, l’affettuosa gratitudine dei tanti a cui hai regalato una seconda vita. Il filo dei miei pensieri continua a svolgersi, ma ora diventano dolorosi. Sollevi lo sguardo dal giornale e forse noti che i miei occhi sono appannati da un velo di tristezza perché mi chiedi: «A cosa stai pensando?». No, non te lo dirò che sto rivivendo il dolore per la perdita dei miei genitori e del mio unico fratello, quando ti bagnavo la camicia di lacrime e tu mi stringevi forte tra le braccia mormorandomi tenere parole di conforto. Non ti dirò di quante volte ti importunavo con mille problemi di salute o di quando andavo in ansia per una linea di febbre di nostro figlio e tu riuscivi sempre a rassicurarmi. Non ti racconterò dell’angoscia provata quando, colpita da un grave ipertiroidismo gravidico, mi dicesti che sarebbe stato opportuno non avere altri figli. Anche in quella occasione hai saputo curarmi con perizia ed affetto. La luce calda e morbida del tramonto estivo fa brillare le pagliuzze dorate nei tuoi occhi, gli stessi che tanti anni fa mi hanno stregato. Allontano i pensieri tristi e sorrido mentre ti rispondo. «Pensavo che è quasi ora di cena. Vogliamo andare?». Sezione Poesia

La passione per la poesia e l’arte in genere la porta a frequentare laboratori di scrittura, lettura e teatro. Ha partecipato a diversi concorsi. Partecipa al Concorso 50&Più per la dodicesima volta; nel 2009, 2011 e 2014 ha ricevuto la Menzione speciale della Giuria per la Poesia; nel 2017 ha vinto la Farfalla d’Oro e, nel 2018, la Libellula d’Oro sempre per la Poesia. Vive a Salgareda (Tv).

Nelle piccole stazioni albergano i sogni

di Bianca Maria RORATO La vita come un treno veloce, salta l’appuntamento desiderato quando non rispetta l’orario. Perdersi alle fermate importanti, sono luoghi sconosciuti, vorresti avere qualcuno accanto. Nelle piccole stazioni albergano i sogni, previste soste troppo brevi. Il fischio lungo, acuto, per dire sono qui, ci sono anch’io. Viaggi di notte, trampolino di pensieri autistici che tolgono il sonno. Manca l’entusiasmo per nuove conoscenze. La fretta è inutile, fermiamo le corse senza fine, con chi vuol sempre aver ragione. Scendere dalle consuetudini non è facile, la mente non favorisce i cambiamenti. Arrivare al capolinea con un bagaglio consistente, felici di non aver sprecato il viaggio inutilmente.

Sezione Pittura

Sponda sul fiume Sile

di Antonietta PILLA

È amante dell’arte in tutte le sue forme: la pittura, la fotografia, la grafica, il ricamo e l’arte culinaria. Al Concorso 50&Più, nel 2003 e nel 2005, ha ricevuto la Menzione speciale della Giuria per la Pittura; nel 2007 ha vinto la Farfalla d’Oro; nel 2008, 2013 e 2016, la Segnalazione della Giuria e, nel 2011, la Libellula d’Oro, sempre per la Pittura. Vive a Villorba (Tv).

Sezione Fotografia

Giocando alla pesca

di Cesarina RIGO

SCHEDA DI VOTAZIONE PER IL CONCORSO PROSA, POESIA, PITTURA, FOTOGRAFIA

È questo il momento più atteso dai finalisti: superare la selezione. I cinque candidati al premio finale per le sezioni Prosa, Poesia, Pittura e Fotografia, attendono ora il giudizio inappellabile dei lettori. Come ogni anno, con la scheda di votazione qui proposta, sarà scelto il vincitore per ogni disciplina. Dunque, votate secondo le vostre preferenze: quella crocetta che traccerete sul quadratino posto a lato di ogni nome, sarà decisiva.

Da ritagliare e inviare in originale a 50&Più - Via del Melangolo 26 - 00186 Roma entro il 30/04/2022 (eventuali schede fotocopiate/scansionate saranno ritenute nulle). La votazione può essere effettuata anche online, all’indirizzo www.spazio50.org

Cognome

Via Nome

Cap. Città Telefono

Acconsento al trattamento da parte di Editoriale 50&Più S.r.l. dei dati personali da me forniti. Tale trattamento avverrà nel rispetto di quanto previsto dal Regolamento (UE) 2016/679 e delle disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale, ed ai soli fini della registrazione del voto da me espresso.

Firma

PROSA

La guerra e i miei occhi di bambina - Maria GOGATO

Della Libertà e dell’Amore Maria Pia CORTELLESSA

Rosso, giallo, arancio

e… azzurro - Evelina MAYER

Il pianoforte delle stelle

Luciana SALVUCCI

Occhi

Gabriele VALENTE

POESIA

Sfogo palindromo

Simonetta CALIGARA

Acqua sui fondali

Francesca D’ERRICO

Le sue mani

Gemma FERRO

Nascere all’epoca del

Coronavirus - Marco LENCI

Il bosco

Luigina MARAN

PITTURA FOTOGRAFIA

Vortice Covid

Carmine RAIOLA

Le mani che sanno…

Armando FESTINI

Il silenzio del mondo Giuliana CAPOCCHIA

Tra il profumo dei fiori

Marco LENCI

Castelluccio di Norcia e la sua

fioritura - Marcella SABBA

Campo di grano

Claudia Alessandra TENANI

Il contatto negato

Annalisa GATTI

Il volto del coronavirus Giulio Rocco CASTELLO

Schizzi di nuvole sul Tevere

Salvatore SCARPINO

Frutti in vendita al mercato di Nishiki nel centro di Kyoto

Lucia Stefania D’EGIDIO

Libellula d’Oro per la Prosa: Rosa CONTE, di Lucca, con l’opera Il cuore in mano. Libellula d’Oro per la Poesia: Bianca Maria RORATO, di Salgareda (Tv), con l’opera Nelle piccole stazioni albergano i sogni. Libellula d’Oro per la Pittura: Antonietta PILLA, di Treviso, con l’opera Sponda sul fiume Sile. Libellula d’Oro per la Fotografia: Cesarina RIGO, di Monticello Conte Otto (Vi), con l’opera Giocando alla pesca.

MENZIONI SPECIALI

Marinella BONGIOLATTI, Giuseppina GATTI, Giuseppe GESANO, Caterina LORENZETTI, Giuliano MARROCCO, Stefano PENDOLA, Massimo ZUBBOLI. POESIA: Maria Luisa ANDRIGHETTO, Gabriella BATIGNANI, Patrizio BELEGGIA, Isabella CUNSOLO, Luigi DAVOLI, Gianfranco EPIFANI, Anna Lisa GRITTI, Giuseppe ORLANDI, Ideale PIANTONI, Antonino TROVATO. PITTURA: Franca AMBROSI, Maria Teresa FIORATO, Angela GRECO, Mauro OTTAVIANI, Arnaldo PAUSELLI, Santuccia PETRETTI, Deniz TUNCER. FOTOGRAFIA: Marina CAPOVILLA, Luigi DAVOLI, Roberta MARCONI, Antonietta PIANA, Rossana PIANIGIANI.

SEGNALAZIONI Prosa: Ilde ROSATI, Tiziana MICHELINI. Poesia: Giovanni Mario MELOSU, Luciano ZONI. Pittura: Maria BUSATO. Fotografia: Giuseppina RIGHETTI.

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