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Centri urbani più vivibili con “Città 30” Ilaria Romano

MANIFESTO PER CITTÀ 30: RIPENSARE LE STRADE A MISURA DI PERSONA

La proposta della Fondazione Luigi Guccione, insieme ad altre associazioni, è quella di creare quartieri con traffico moderato, recuperando intere zone, trasformandole in orti e parchi per restituirle ai cittadini. Ma per realizzare il progetto serve una revisione del Codice della Strada

di Ilaria Romano Gli ultimi dati dell’Associazione Sostenitori e amici della Polizia Stradale parlano chiaro: la media delle vittime di incidenti stradali nei fine settimana estivi è stata di 34 persone, per un totale di episodi gravi su strada, da giugno ad agosto, pari a 414. Di questi, 173 sono avvenuti senza il coinvolgimento di altri veicoli, circa il 42% del totale. Fra i motivi più comuni, la distrazione, la stanchezza, l’uso di alcol e droghe, la velocità inadeguata. Secondo l’Istat, nel 2021 le vittime della strada sono state 2.875, un numero che è cresciuto del 20% rispetto all’anno precedente, anche se in diminuzione rispetto al 2019. L’obiettivo di rendere le strade più sicure e portare a zero il numero degli incidenti gravi è ancora lontano, e per questo la Fondazione Luigi Guccione, insieme ad altre associazioni come Rete Vivinstrada e Legambiente, ha lanciato il “Manifesto per Città 30 e strade sicure e vitali”. «Le zone 30 (dove i limiti di velocità sono di 30 km/h NdR) non sono risolutive, e infatti il nostro obiettivo è di cambiare il sistema della mobilità nelle aree urbane, dove si produce oltre il 50% delle vittime totali delle strade, soprattutto fra i soggetti più fragili, che siano pedoni o ciclisti - ha spiegato a 50&Più Giuseppe Guccione, presidente della Fondazione nata 25 anni fa, dopo la morte per incidente stradale di suo fratello Luigi -. In Italia abbiamo un tasso di occupazione del suolo pubblico spropositato, in termini di presenza delle automobili, spesso in sosta vietata, in seconde e terze file, con grave intralcio alla visibilità sugli attraversamenti pedonali».

Il “Manifesto per Città 30” quindi promuove anche nuovi stili di vita, non solo limiti di velocità: quali sono gli obiettivi?

Oggi le strade delle nostre città non sono sicure per due motivi: il rischio di incidenti anche gravi e il tasso di inquinamento che nel lungo termine incide comunque sulla salute e sulla mortalità. Gli obiettivi sono quelli di lavorare su entrambi gli aspetti, liberando alcune aree urbane dalla presenza massiccia delle macchine e, allo stesso tempo, avviare una riforma di queste zone con l’intento di restituirle ai cittadini, creando più verde pubblico, boschi, orti civici. Il modello è quello dell’urbanismo tattico, proposto dall’architetto Matteo Dondè, che ha già lavorato a Milano e in altre città italiane. L’intervento di sperimentazione di una zona 30 prevede di individuare un quartiere residenziale e realizzare un progetto su misura di moderazione del traffico, coinvolgendo i residenti nel percorso e mostrando loro come potrebbe cambiare in meglio la qualità della vita.

Come si stanno muovendo gli altri Paesi in proposito?

In Germania 270 comuni hanno realizzato proprie delibere per ripensare gli spazi, le strade e i limiti e creare le proprie Città 30, mentre la Spagna ha istituito le Città 30 nel 2021 con un disegno di legge. L’esempio spagnolo più interessante, che personalmente ho avuto modo di conoscere, è quello di Pontevetra, dove il sindaco ha ideato un sistema che poi è stato applicato anche a Bogotà: si chiama “metro minuto” ed è un indicatore di distanza e tempi di percorrenza di alcuni itinerari della città con mezzi diversi. Così ha dimostrato che spesso l’auto non serve, e soprattutto non velocizza gli spostamenti. Poi ha costruito parcheggi a basso costo, resi gratuiti per i residenti, ai quali è comunque consentito il transito e la sosta breve nelle aree senza auto per le urgenze, il carico e scarico, il trasporto di anziani e disabili. Questa città ha azzerato il numero delle vittime di incidenti e ha acquisito anche 12mila abitanti in più negli ultimi anni. Insomma, il sistema funziona benissimo.

Cosa potrebbe fare l’Italia per seguire questi modelli virtuosi?

Il nostro Governo potrebbe fare come quello spagnolo, ma anche gli enti locali possono utilizzare per progetti nuovi i fondi del Piano Nazionale per la Sicurezza Stradale,

«Obiettivo

del Manifesto

è combattere la violenza stradale affinché le persone possano essere di nuovo al centro

dello spazio

pubblico»

da poco rifinanziato. Si potrebbe partire liberando alcune aree di sosta: pensate che nelle grandi città la maggior parte delle auto che occupano un parcheggio è ferma per il 95% del tempo, quindi prende uno spazio pubblico diventando, anche involontariamente, un pericolo. Serve poi una revisione del Codice della Strada, dove per leggere di tutela dei pedoni bisogna arrivare all’articolo 191. Potrebbe essere snellito per ricavarne 50, al massimo 60 articoli. Non basta l’inasprimento delle pene per i reati stradali, dobbiamo cambiare il modello di sviluppo della mobilità nel nostro Paese, mettendo al centro le persone, i più fragili, come i bambini che vanno a piedi e in bicicletta. Non si tratta di essere contro gli automobilisti, ma di avviare una trasformazione dei nostri spazi urbani in senso più democratico. Assistiamo quasi quotidianamente a tragedie sulla strada, basta guardare i dati degli incidenti nei fine settimana, diffusi puntualmente dall’Asaps: i giovani fino a 22 anni sono un terzo del totale dei feriti gravi, e in media ogni anno ci sono circa 270 vittime solo in questa fascia d’età. Ci sono zone come quelle intorno alle scuole che vanno necessariamente messe in sicurezza, per evitare che si ripetano le tragedie dovute alle auto che arrivano sin dentro agli istituti, e che a volte si sono spostate per tratte inferiori al chilometro. Cosa stiamo aspettando?

Un tema che avete ripreso nel “Manifesto per Città 30” è quello della tutela delle vittime: a che punto siamo su questo fronte, da quando come Fondazione vi eravate mossi con una raccolta firme per chiedere una legge in merito?

Dopo cinque anni gli invalidi permanenti non vengono più assistiti dal Servizio Sanitario Nazionale, eppure dovrebbe essere un dovere morale e civile farsene carico con la messa in cantiere di una legge per l’assistenza alle vittime. Anche perché i fondi ci sono, dato che ogni anno vengono versati circa 2mila milioni di euro con il contributo della RCAuto allo Stato, poi trasferito alle Regioni. Lo abbiamo scoperto quando nel 2012 abbiamo richiesto al Ministero della Salute, al Ministero dell’Economia e Finanza e alle Regioni i dati delle entrate e delle uscite delle assicurazioni automobilistiche. Abbiamo dovuto fare un accesso agli atti per capire che ogni anno entravano nelle casse dello Stato 1.850 milioni di euro, ripartiti alle Regioni per la sanità, che è di loro competenza. L’emendamento per destinare una percentuale della RCAuto alle spese sanitarie risale al 1982, fu presentato alla Camera dall’allora deputata Rossana Rossanda, e venne approvato. Quindi da 40 anni abbiamo un fondo che potrebbe essere impiegato per l’assistenza alle vittime, ma di fatto questo non avviene. Nel 2016 abbiamo anche organizzato una raccolta firme per la proposta di legge a riguardo, diffusa attraverso la piattaforma Change.org, raccogliendo più di 16mila adesioni, ma anche questo finora non è servito.

Quali sono le iniziative che state portando avanti per promuovere il Manifesto?

Nel settembre scorso, in occasione della Settimana Europea della Mobilità, abbiamo presentato la rete “Cammina città Italia”, e attivato i contatti con le prime 14 città italiane, fra Nord e Sud, interessate a promuovere il “Manifesto per Città 30” e ad attuare un nuovo modello di sviluppo. L’idea è quella di mettere insieme realtà molto diverse fra loro che però abbiano questo obiettivo comune, e realizzare delle iniziative insieme per educare a un modello urbano differente, cercando di mediare fra le esigenze di tutti.

ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO

Dopo dodici anni e due turni elettorali, Lula torna presidente del Brasile. Trova un Paese più povero, più isolato e più diviso. La sua prima missione sarà ritrovare la rotta

«Il Brasile è tornato». Con queste parole Luiz Inacio Lula da Silva ha celebrato la vittoria elettorale che gli ha fatto guadagnare il terzo mandato da presidente del Brasile. Ci sono voluti due turni: nel primo, lo scorso 2 ottobre, nessuno dei candidati era riuscito a raggiungere la maggioranza assoluta dei voti; al ballottaggio, il 30 ottobre, Lula ha bruciato sul filo di lana il presidente uscente, Jair Messias Bolsonaro, guadagnando il 50,9% dei consensi contro il 49,1% dell’avversario. «Le elezioni sono state uno snodo fondamentale per la politica brasiliana - spiega Patricia Cavalcanti, già funzionario del Mercosur e oggi vicepresidente dell’organizzazione ambientalista Raiz Nova -. La scelta era tra la sopravvivenza della democrazia e la pericolosa deriva autoritaria avviata da Bolsonaro. L’ex presidente, lungi dall’essere un semplice conservatore, ha incarnato le idee e la prassi politica di una destra estrema. A questo estremismo ha cercato di contrapporre l’immagine di un Lula comunista e per giunta corrotto: lo stesso Lula che il direttore della London School of Economics ha descritto come un candidato di centro-sinistra. Un moderato, insomma, che col tempo e l’esperienza ha raffinato la sua posizione politica di partenza, certamente più estrema. Malgrado la propaganda e la forte polarizzazione emersa in campagna elettorale, però, Lula è riuscito a spuntarla». La vera sorpresa è stata la tenuta di Bolsonaro, che pur subissato di critiche per l’aumento della povertà e delle sperequazioni sociali e per l’odiosa aggressione al polmone verde dell’Amazzonia, è riuscito ad aggregare il consenso di quasi la metà dei brasiliani. «L’elettorato di Bolsonaro ha una composizione variegata - chiarisce Patricia Cavalcanti - con uno zoccolo duro di elettori che strizza l’occhio all’autoritarismo e comprende gli strati più razzisti della società brasiliana. Il razzismo in Brasile è un problema sottostimato: neri e indigeni, il 58% della popolazione, sono ancora soggetti a discriminazioni ed

di Leonardo Guzzo

esclusi di fatto dai posti di comando. Durante i suoi primi due mandati Lula aveva cercato di ovviare al problema istituendo un sistema di quote di rappresentanza, mentre Bolsonaro ha sostanzialmente assecondato il razzismo latente di una parte della popolazione bianca, così come la latente misoginia di una società ancora molto legata al mito del “macho”. Ma, al di là delle posizioni ideologiche, buona parte degli elettori di Bolsonaro è costituita semplicemente da conservatori spaventati dal presunto estremismo di Lula e dalla campagna diffamatoria che l’ha presentato come colpevole di corruzione nonostante sia stato prosciolto da ogni accusa». Anche molti elettori di Lula, del resto, lo hanno scelto per impedire il bis di Bolsonaro e un’ulteriore involuzione autoritaria del Paese. «Il destino del Brasile, il quarto Stato più popoloso del mondo con i suoi 220 milioni di abitanti, non è irrilevante - riflette Cavalcanti -. E d’altronde il timore per le sorti della democrazia sotto Bolsonaro non era campato in aria. Anche dopo le elezioni il passaggio del potere a Lula non si è svolto in modo indolore. Militanti e ricchi imprenditori, fedelissimi del presidente e coalizzati intorno al figlio Edoardo Bolsonaro, membro del Congresso, hanno opposto resistenza all’esito elettorale (frutto, in Brasile, di un sistema di voto tra i più rigorosi e trasparenti al mondo). Ma la Corte Suprema ha stroncato sul nascere ogni tentativo di insubordinazione, congelando i conti bancari di molti magnati ribelli e contenendo le proteste». Dal 31 ottobre, team incaricati dal presidente Lula hanno preso contatti con i tecnocrati in ogni ambito della politica governativa per programmare il nuovo corso. Secondo Patricia Cavalcanti, «la prima sfida di Lula riguarda la povertà. Trentadue milioni di brasiliani non riescono a nutrirsi in maniera soddisfacente, centoventi milioni nel complesso gravitano intorno alla soglia della miseria. Lula ha annunciato che rafforzerà l’Auxilio Brasil, il sostegno di 600 reais mensili (circa 100 euro) a favore dei meno abbienti istituito da Bolsonaro, ricostituirà il Consiglio nazionale per la sicurezza alimentare e la nutrizione, l’organo deputato al confronto tra i rappresentanti dei diversi settori della società e del governo soppresso nel 2019, e cercherà di restituire finanziamenti alla scuola pubblica e al sistema sanitario nazionale, gravemente compromesso da Bolsonaro. Per attuare i suoi piani il nuovo presidente deve necessariamente mediare con il Congresso, vero fulcro della politica brasiliana, in cui la coalizione progressista che lo sostiene è minoritaria. L’ago della bilancia, dentro l’assemblea, è costituito dai partiti centristi, privi di una precisa ideologia politica e per lo più orientati a un atteggiamento pratico, talvolta opportunistico. Lula dovrà convincerli, come Bolsonaro prima di lui, attraverso un negoziato spinoso e probabilmente costoso». Un altro terreno insidioso è quello della politica estera, anche se la vittoria di Lula è stata salutata con messaggi calorosi dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden, dal presidente francese Emmanuel Macron e da tutti i vertici dell’Unione Europea. «La sensazione - dice Patricia Cavalcanti - è che il Brasile tornerà ad essere parte attiva della comunità internazionale, come ha confermato, a novembre, la partecipazione alla conferenza sul clima di Sharm-el-Sheik. Il ritorno di Lula favorirà certamente il dialogo con gli altri Paesi dell’America Latina, anche se la retorica dell’onda rossa che avanza inesorabile nel continente è esagerata. Il più delle volte si tratta di un rosa pallido indossato da partiti moderatamente progressisti. Lula fa parte del club e deve sciogliere, proprio in politica estera, nodi importanti come quelli dei rapporti con Russia e Cina. Ma un punto è chiaro: il tempo della spocchiosa solitudine del Brasile è finito».

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