31 minute read

Tecnologia e dintorni Valerio Maria Urru

Focus

UN LIBRO E UNA PENNA POSSONO CAMBIARE IL MONDO

di Giovanna Vecchiotti

«(…) Cari fratelli e sorelle, ci rendiamo conto dell’importanza della luce quando vediamo le tenebre. Ci rendiamo conto dell’importanza della nostra voce quando ci mettono a tacere. Allo stesso modo, quando eravamo in Swat, nel Nord del Pakistan, abbiamo capito l’importanza delle penne e dei libri quando abbiamo visto le armi. Il saggio proverbio “La penna è più potente della spada” dice la verità. Gli estremisti hanno paura dei libri e delle penne. Il potere dell’educazione li spaventa. (…) Questo è il motivo per cui ogni giorno fanno saltare le scuole: perché hanno paura del cambiamento e dell’uguaglianza che porteremo nella nostra società (…) ». Queste parole Malala Yousafzai, pachistana, le ha pronunciate all’Assemblea delle Nazioni Unite il 12 luglio 2013, giorno del suo sedicesimo compleanno. L’anno successivo, a soli 17 anni, le fu assegnato il Premio Nobel per la Pace. Malala è stata fin da giovanissima strenua sostenitrice del diritto all’istruzione gratuita ed obbligatoria per tutti i bambini, convinta che solo attraverso di essa sia possibile “favorire la pace e la prosperità” delle persone e dei popoli. Perché chi studia non soltanto migliora le proprie competenze, ma modella la propria personalità, accresce il suo giudizio critico, acquisisce la capacità di dialogare, raffrontarsi con gli altri, valutare opinioni e impara a conoscere quali siano i propri diritti e responsabilità. Chi studia ha maggiori possibilità di inserirsi nella realtà lavorativa, di avere un reddito migliore ed essere in grado di cambiare la vita adulta. Per questo è necessario pretendere dai governi una scuola migliore, che formi le menti e le personalità delle future generazioni, come è combattere la dispersione scolastica, nuova piaga di questi tempi moderni. È necessario, come disse Malala: «Imbracciare i libri e le penne, perché sono le armi più potenti. Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo».

È STUDIANDO CHE SI COSTRUISCE UN FUTURO DI PACE E PROSPERITÀ

Il 24 gennaio si celebra la Giornata internazionale dell’istruzione, una ricorrenza con cui si intende ricordare il ruolo dell’educazione quale fondamento della pace e dello sviluppo.

di Francesco Andreani U n ponte della metropolitana come tetto, dei pilastri di cemento a cui appoggiarsi quando si è stanchi, la nuda terra su cui sedersi o sdraiarsi quando si cerca di scrivere qualcosa su fogli racimolati grazie alla generosità di qualcuno. In questo spazio battuto dalle intemperie non ci sono banchi né sedie, eppure ci sono tanti bambini che sperano di riuscire, imparando a leggere e a scrivere tra quei pilastri, a cambiare la strada che il destino sembrerebbe aver già segnato per il loro futuro. La “Scuola libera sotto i ponti” si trova in una delle baraccopoli di Nuova Delhi, capitale dell’India, ed è frequentata da decine di bambini i

cui genitori non hanno le risorse per istruire i loro figli e strapparli così ad una vita di miseria e disperazione; Rajesh Kumar Sharma, fondatore di questa scuola all’aperto, ha vissuto sulla propria pelle la delusione di non poter compiere gli studi che avrebbe voluto fare a causa della povertà in cui versava la propria famiglia. Ed è per questo che si adopera affinché i duecento bambini che ogni giorno si avvicendano sotto i pilastri che reggono il ponte, possano avere almeno i rudimenti di un’istruzione che ogni bambino dovrebbe avere ma che a troppi manca. Il diritto all’istruzione, infatti, è sancito dall’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il cui primo paragrafo recita: “Ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione elementare deve essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito”; un diritto che viene rafforzato dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 20 novembre 1989, nella quale è stato stabilito che i Paesi “riconoscono il diritto del fanciullo all’educazione”, “rendono l’insegnamento primario obbligatorio e gratuito per tutti”, con il fine di contribuire ad eliminare l’ignoranza e l’analfabetismo nel mondo. Ma è veramente così? I numeri, purtroppo, mostrano una realtà molto diversa. Nel mondo sono 258 milioni i bambini che non vanno a scuola e 771 milioni gli adulti analfabeti. A ciò si devono aggiungere una difficoltà nell’apprendimento di base e nella capacità di calcolo tra tutti gli impegni e le iniziative che ogni Paese ha assunto nel corso degli anni. L’istruzione deve, infatti, diventare il volano che accelera il cammino verso il raggiungimento degli obiettivi di Sviluppo sostenibile del 2030, oggi minacciati da una recessione globale, dalle crescenti disuguaglianze sociali e di genere e da una crisi climatica che non si può più ignorare. «Solo l’istruzione permanente a partire dai primi anni di vita – si legge nel documento che accompagna la scelta del tema - possono spezzare il ciclo della povertà, migliorare la salute, preparare le persone per posti di lavoro dignitosi con opportunità di riqualificazione, miglioramento delle competenze che siano in grado di affrontare la crisi climatica in atto. Ora tutti i governi devono essere ritenuti responsabili dei loro impegni». Su quest’ottica viaggia anche l’iniziativa Unesco Futures of Education, che mira a ripensare l’istruzione e plasmare il futuro. Conoscere e imparare sono le più grandi opportunità di cui l’uomo è in possesso e con cui è in grado di rispondere alle sfide e progettare le alternative. Con questa iniziativa, l’Unesco mira a mobilitare i Paesi più ricchi affinché mettano a disposizione “l’intelligenza collettiva” di giovani, educatori, governi e imprese in un processo di co-costruzione che possa portare ad una trasformazione del mondo. “Pensare insieme in modo da poter agire insieme per creare il futuro che vogliamo”. E il futuro che vogliamo riguarda non soltanto noi ma anche i nostri figli e nipoti. Ed è per loro che tutti dobbiamo metterci in gioco.

Nel mondo sono 258 milioni i bambini che non vanno a scuola e 771 milioni gli adulti analfabeti

gli studenti, tanto che 617 milioni di bambini e adolescenti non riescono a leggere e a fare i calcoli aritmetici basilari. A questi dati si affiancano quelli riguardanti la discriminazione di genere e le difficoltà che si trovano ad affrontare coloro che per eventi bellici o per altre cause sociali sono costretti ad abbandonare il proprio Paese. Si pensi, per esempio, che meno del 40% delle ragazze nell’Africa sub-sahariana riesce a completare la scuola secondaria inferiore mentre sono circa 4 milioni i bambini e i giovani rifugiati che non frequentano più la scuola. Una chiara violazione del loro diritto all’istruzione che rende questa situazione inaccettabile. E proprio per sottolineare l’importanza dell’istruzione, considerata uno dei pilastri alla base della libertà individuale, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2018 ha proclamato il 24 gennaio Giornata internazionale dell’istruzione, una ricorrenza con cui si intende celebrare il ruolo dell’educazione quale fondamento della pace e dello sviluppo. Infatti, senza un’istruzione adeguata e di qualità, che sia anche inclusiva ed equa, così da offrire un’opportunità di sviluppo e di cambiamento per tutti i bambini, i Paesi non saranno in grado di raggiungere l’uguaglianza sociale e di spezzare la povertà che attanaglia milioni di persone nel mondo. Ed è proprio per sottolineare questa necessità, che il tema scelto per la quinta Giornata dell’Educazione che si celebra nel 2023 ha il titolo “Investire nelle persone, dare priorità all’istruzione”; la forte connotazione politica data al tema è ritenuta necessaria a trasformare in azioni

IL SOGNO DI UN’ISTRUZIONE EQUA E INCLUSIVA: LE ESPERIENZE INTERNAZIONALI

Quanto è importante e come si struttura il percorso formativo dei giovani che vivono in Paesi in via di sviluppo? Ne abbiamo parlato con Fra Biagio Graziano, Vicario Generale dei “Piccoli Fratelli dell’Accoglienza”, e con la dottoressa Alice Toschi, psicologa clinica dello sviluppo e psicoterapeuta transculturale in formazione

di Linda Russo

Quante volte, in questi anni, abbiamo sentito parlare dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, quel programma d’azione diretto alle persone, al pianeta e alla prosperità sottoscritto dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU? I suoi 17 obiettivi dal settembre 2015 determinano i traguardi da raggiungere entro il 2030. Tra questi troviamo l’obiettivo 5 “Raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze”, l’8 “Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti” e il 10 “Ridurre l’ineguaglianza all’interno di e fra le Nazioni”. Tre punti strettamente collegati e riconducibili all’obiettivo numero 4 “Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti” che, nel 2018, ha spinto l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a proclamare il 24 gennaio come Giornata Internazionale dell’Educazione. Un tema importante, soprattutto in quei Paesi considerati del “Terzo Mondo” in cui le opportunità di apprendimento e formazione sono ancora limitate e spesso precluse a molti bambini. Tra questi Stati ci sono anche Egitto e Kenya che non solo fanno parte dei 193 Paesi membri dell’ONU, ma sono anche le realtà socioeconomiche che abbiamo esplorato intervistando chi supporta e ha supportato i giovani studenti dei sistemi educativi egiziani e kenioti. A raccontare dell’Egitto è Fra Biagio Graziano, Vicario Generale dei “Piccoli Fratelli dell’Accoglienza”, un’Asso-

ciazione Pubblica di Fedeli fondata dal Diacono Giuseppe Spampinato a Catania nel 1967. La realtà di Fra Biagio si è diffusa in breve tempo sull’intero territorio nazionale e successivamente ha portato la sua opera anche in diversi territori di missione, come Brasile, Filippine ed Egitto, dove tutt’oggi opera sostenendo un orfanotrofio femminile. «Dal 2004 la Domus Juventutis è presente sul territorio egiziano dove, in collaborazione con il Patriarcato Copto-cattolico, ha svolto numerose attività di apostolato; ha contribuito alla realizzazione di un ospedale nella città di Beni Suef con l’acquisto delle attrezzature mediche; ha realizzato una piccolo centro di accoglienza per pellegrini nella città di Zaitoun; ha restaurato e messo in funzione una struttura di accoglienza residenziale per minori (orfanotrofio femminile, n.d.r.) nella città di Ismailia, grazie ai benefattori presenti in tutta Italia e all’opera dei Cavalieri dell’Ordine Ospitaliero della Campana della Mater Juventutis - racconta Fra Biagio -. Da allora, l’Associazione impegna risorse per garantire una presenza costante e un servizio alla comunità di Ismailia, con uno o più fratelli missionari che affiancano il lavoro di tre sorelle consacrate residenti nel luogo. Sono loro ad occuparsi della cura e dell’istruzione delle 17 bambine e ragazze di età compresa tra i 9 e i 19 anni». Un compito arduo se si tiene conto delle difficoltà socioeconomiche presenti nello Stato: «Il sistema scolastico egiziano è costantemente minacciato dalle difficoltà economiche del Paese e dalle politiche di contenimento della spesa pubblica. Una diffusa disoccupazione intellettuale - dovuta a una radicale svalutazione dei salari degli insegnanti - e infrastrutture insufficienti a fronte di masse sempre crescenti rendono difficoltoso, soprattutto nelle zone rurali, l’accesso alla scuola pubblica per i soggetti più svantaggiati. Inoltre, il tasso di scolarizzazione elementare dei bambini supera di 13 punti quello delle bambine. È presente anche un sistema di scuole religiose: fanno parte di questa categoria le scuole coraniche come le scuole Azhar (istituto riconosciuto nel mondo arabo, n.d.r.) e altre scuole religiose cristiane, per la maggior parte cattoliche. Inoltre, una maggioranza delle scuole materne è privata. La nostra Associazione si occupa di garantire l’accesso all’istruzione pubblica e di colmare le eventuali lacune del sistema educativo con dei corsi di lingua e di religione, oltre a provvedere a tutte le necessità primarie delle bambine e delle ragazze». Un’altra voce, quella della dottoressa Alice Toschi, psicologa clinica dello sviluppo e psicoterapeuta transculturale in formazione, racconta la realtà di alcune zone del Kenya. «Per quattro anni mi sono recata in Kenya come volontaria, a 250 km da Nairobi, presso la missione di Nairutia-Mugunda. Lì sono stata volontaria in un asilo privato in cui seguivamo circa 30 bambini: una classe numerosa ma comunque in misura minore rispetto a quanto non avvenga nelle scuole pubbliche. Le classi in quei casi possono essere composte anche da 50 bambini». Il sistema educativo keniota, infatti, è diverso da quello italiano, i bambini devono obbligatoriamente frequentare la scuola materna (all’età di 4/5 anni, n.d.r.) e prima di iniziare la scuola primaria devono sostenere un esame di idoneità. La scuola primaria dura otto anni, alla fine della quale il bambino deve sostenere un esame obbligatorio per accedere alle scuole superiori, che durano altri quattro anni e si concludono con

«Una diffusa disoccupazione intellettuale e infrastrutture insufficienti a fronte di masse sempre crescenti rendono difficoltoso l’accesso alla scuola pubblica per i soggetti più svantaggiati»

Atarib (Siria): alcuni bambini del villaggio di Basratun a lezione in un’aula improvvisata, priva di banchi e sedie.

l’esame finale. La valutazione degli studenti avviene trimestralmente, a differenza di quanto accade in Italia. «Quando mi sono recata negli asili mi sono occupata dell’insegnamento della lingua inglese ai bambini che normalmente lo parlano insieme alla loro lingua madre: lo swahili. Mentre nelle scuole superiori, durante l’ora di religione ed educazione civica, ho tenuto alcuni incontri rivolti ai giovani kenioti in cui veniva data loro la possibilità di fare domande sul sistema scolastico italiano, sullo sviluppo delle relazioni sentimentali in età adolescenziale, sugli usi e i costumi di un’altra società, ed è stato molto arricchente. Si stupivano, ad esempio, quando raccontavo loro che nel nostro Paese accade frequentemente che un ragazzo o una ragazza portino a casa propria il partner per presentarlo ai genitori anche prima del matrimonio». Una conoscenza dell’altro che aiuta a capirsi e a comprendersi, e cerca di accorciare le distanze proprio perseguendo quegli obiettivi tracciati dall’Agenda 2030. Eppure, alcune delle caratteristiche sociali e geografiche del Kenya rendono complicati alcuni passaggi. «Quando si parla di percorso formativo e quindi di ampliamento delle conoscenze, bisogna tenere conto di alcune difficoltà che dipendono anche dalla posizione geografica del Paese. Trovandosi sulla linea dell’equatore, infatti, i kenioti vivono dodici ore di luce e dodici di buio: quest’ultime sono ore in cui non c’è elettricità quindi non esistono computer o strumenti tecnologici che per noi sono la quotidianità. Inoltre, spesso i costi per lo studio sono elevati e completamente a carico delle famiglie. In alcuni casi possono aiutare le adozioni a distanza che, però, sono indirizzate solo a bambini che frequentano le scuole pubbliche e possono utilizzare quelle somme per comprare divise e materiali per l’apprendimento come libri o quaderni. Comunemente si pensa, invece, che i bambini delle scuole private non ne abbiano bisogno, ma spesso frequentano scuole costruite con lamiere e materiali di recupero in cui ogni aiuto, economico o materiale, è altrettanto importante». D’altronde, secondo alcune stime risalenti al 2017, una scuola privata in Kenya costa 45mila scellini all’anno (circa 400 euro), con una quota d’iscrizione per il primo anno di 3.000 scellini e una quota libri di 5.000. Inoltre, ogni anno il costo sale di 3.000 scellini circa, facendo dedurre che per far studiare un alunno keniota per 4 anni e portarlo verso un lavoro di un certo livello può costare più o meno 2.000 euro. Una cifra enorme se pensiamo che uno stipendio medio in Kenya equivale a 360 euro al mese e ogni famiglia ha in media 3 figli da sostenere a livello educativo. Ma i problemi legati all’istruzione, a livello internazionale, diventano ancora più impegnativi quando si parla di migranti e minori non accompagnati. «Quest’anno mi sono occupata di supporto psicosociale a minori stranieri non accompagnati, organizzando anche laboratori psicoeducativi mirati ad una migliore conoscenza di sé e dell’altro che si sono svolti con gli ospiti dei centri di accoglienza - ha raccontato la dottoressa Toschi -. I ragazzi che arrivano in Italia dalla Siria, dalla Libia o da altre parti del mondo, infatti, spesso sono analfabeti e viaggiano da soli o con famiglie svantaggiate. Parliamo di numeri importanti se pensiamo che nel 2021 i minori migranti erano circa 10.000 e di questi 5.000 avevano 17 anni. Questo costituisce un problema nel momento in cui arrivano nel nostro Paese poiché la scuola dell’obbligo prevede la frequenza fino ai 16 anni e dopo quell’età ogni istituto può scegliere se ammettere studenti più grandi o meno. Il risultato è che questi ragazzi spesso frequentano corsi in cui imparano la lingua, ma non seguono alcun programma che insegni loro una professione o li instradi verso il mondo del lavoro, lasciandoli a fare i conti con un futuro difficile da affrontare».

DA MILANO A PALERMO, VIAGGIO NELLE PERIFERIE DOVE SI COMBATTE LA DISPERSIONE

Dall’impegno delle amministrazioni pubbliche al supporto del privato sociale con l’obiettivo di arginare il fenomeno e favorire l’inclusione di Anna Grazia Concilio

“L a scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Recita così l’articolo 34 della Costituzione italiana, la legge fondamentale dello Stato: una bussola, dal 1948, per garantire il rispetto dei diritti e dei doveri di ogni cittadino. Eppure, soprattutto negli ultimi anni – e anche a seguito della pandemia – il tasso sulla dispersione scolastica e sull’abbandono continua a risultare molto alto. Sono i dati a dirlo. Save the Children, tra le più grandi organizzazioni internazionali indipendenti impegnate nella tutela dei diritti delle bambine e dei bambini, racconta che “Solo nel 2021, la povertà assoluta riguardava un milione e 382mila minori nel nostro Paese, il 14,2%, in crescita rispetto al 2020 (13,5%), una condizione che ha colpito più duramente proprio bambine, bambini e adolescenti […]. A causa del Covid-19, 876 mila bambini della scuola dell’infanzia hanno dovuto fare i conti con la discontinuità. Nelle province italiane più svantaggiate, solo il 5% dei bambini accede ad un asilo nido pubblico, rispetto al 24,5% di quelle con il più alto numero di studenti di livello socioeconomico elevato”. Un divario che si acuisce in maniera importante quando dal centro città l’interesse si sposta verso la periferia, spesso priva di servizi, di luoghi di aggregazione e anche di alternative per bambini e ragazzi che vivono un’età vulnerabile per antonomasia. È in queste maglie del tessuto sociale precario e – non di rado compromesso – che le organizzazioni criminali fanno incetta di nuove leve. Dunque, se da un lato è importante garantire il diritto all’istruzione, dall’altro lato è fondamentale che le

scuole diventino presidi culturali e di legalità. Da Milano a Palermo, passando per Roma e Napoli, un viaggio nelle periferie delle grandi città italiane per raccontare gli strumenti che le scuole di ‘frontiera’ adoperano per contrastare il fenomeno della dispersione scolastica che apre la strada - il più delle volte - a una carriera ‘facile’, lontana dal faro della responsabilità e del buon senso. Un concetto di inclusione, dunque, che passa anche attraverso l’integrazione.

Milano contrasta la dispersione scolastica

Il Comune di Milano da anni fa la sua parte per contrastare la dispersione scolastica e avviare processi di inclusione, soprattutto per bambini e ragazzi stranieri. Intendendo la dispersione scolastica come “effetto del disagio”, l’amministrazione ha attivato tre ambiti progettuali. Si tratta dei servizi: Cerco-Offro Scuola, Orientamento scolastico e Poli Start. Cerco-Offro Scuola è uno sportello di orientamento scolastico rivolto ai giovani stranieri di età compresa tra i 14 e i 21 anni, arrivati in Italia da massimo tre anni. Attraverso colloqui individuali fornisce accoglienza, consiglio orientativo e accompagnamento all’iscrizione scolastica. “L’obiettivo è arrivare a una scelta consapevole del percorso scolastico formativo con il coinvolgimento delle famiglie”, si legge sulla pagina del Comune. L’orientamento scolastico si rivolge agli studenti delle scuole secondarie, alle loro famiglie e ai docenti: per loro il Comune realizza interventi di formazione, aggiornamento e consulenza sull’orientamento scolastico. Poli Start comprende quattro poli territoriali in rete e ha l’obiettivo di promuovere l’accoglienza delle famiglie straniere.

Roma: le scuole di periferia diventano presidio culturale

Lontano dalle luci del centro, dalle sfarzose vetrine delle più importanti griffe e dall’imponenza del Colosseo, c’è una Roma che vanta un triste primato: quello di essere tra le piazze di spaccio più grandi del Paese. E in quelle stesse strade dove le vedette e i pusher incrementano il business della “mala vita” esistono scuole di frontiera. Le scuole di Tor Bella Monaca, di San Basilio ne sono un esempio virtuoso. Annarita Leobruni è assessora alla Scuola nel Municipio IV di Roma, un territorio di periferia. È lei a raccontare i progetti - anche comunali - introdotti per contrastare la dispersione scolastica e favorire l’inclusione, che prevedono l’apertura delle scuole anche di pomeriggio, di sera e nei week end. «Roma scuola aperta è un’iniziativa importantissima che ci ha aiutato a tenere aperti otto dei nostri istituti comprensivi, ubicati in zone dove la tendenza all’abbandono scolastico è molto forte, parliamo di San Basilio, Rebibbia, Pietralata, Casal Bruciato. In questi quartieri il tasso di dispersione scolastica è altissimo. Per contrastare questo fenomeno e supportare gli istituti con l’offerta formativa, stiamo tracciando - insieme alle scuole e alle realtà associative - linee guida per riconoscere le comunità educanti capaci di creare reti educative a sostegno dei ragazzi che concepiscono la scuola “solo” come luogo di istruzione. Le comunità educanti metteranno insieme esperienze fuori e dentro la scuola attraverso la rete». E ancora: «Da quest’anno abbiamo attuato una serie di progetti municipali a favore delle scuole e dei servizi educativi, con l’obiettivo di educare alle emozioni: viaggi di istruzione gratuiti, centri di aggregazione giovanile, attenzione alle materie stem (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica n.d.r.), centro famiglia per il sostegno alla genitorialità», aggiunge. E conclude: «Credo molto che la scuola salvi i bambini e i ragazzi, ma la scuola da sola non basta più. Sarà la rete che si crea tra istituzioni, scuole, servizi educativi e associazioni, a salvare i ragazzi portando la scuola “fuori dalla scuola”, invertendo quella ten-

denza che vuole la scuola “estranea” nella vita dei ragazzi provenienti da contesti più disagiati».

Direzione Napoli, passando per Scampia

Nell’elenco delle “scuole di trincea” figura sicuramente l’Istituto comprensivo di Scampia Ilaria Alpi-Carlo Levi. A dirigere la scuola di uno dei quartieri più difficili della periferia di Napoli è Rosalba Rotondo, arrivata alle luci della ribalta nazionale anche per essere stata insignita di un’importante onorificenza dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nel 2019, è stata nominata Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Nella motivazione, pubblicata sul sito del Quirinale, si legge: “In un territorio difficile, Rotondo è in prima linea nel contrasto alla devianza giovanile e nella fattiva costruzione di un percorso di reale inclusione sociale. La scuola è conosciuta per la sua esperienza di piani etno-didattici ed educativi per gli studenti Rom. È stata anche riconosciuta dalla Comunità europea e dal Consiglio d’Europa quale sede di una “Legal Clinic JustRom”, servizio legale volto a tutelare la popolazione Rom, ed in particolare le donne, in un’ottica di antidiscriminazione razziale”.

A Palermo entra in gioco anche il privato sociale

Come in molte città italiane, anche a Palermo il lavoro dell’amministrazione comunale è supportato dal privato sociale. Con l’utilizzo dei fondi del “5x1000” messi a disposizione dal Comune, l’Osservatorio contro la dispersione scolastica ha attivato una serie di progettualità per arginare il fenomeno. “Tutti a bordo per prendere il largo dalla dispersione scolastica” è una iniziativa attuata dall’associazione Lisca bianca: decine di bambini sono saliti a bordo di una storica barca a vela - ristrutturata coinvolgendo i minori del circuito penale (ex Malaspina), tossicodipendenti residenti in comunità di recupero, minori a rischio ed extracomunitari ospiti di case famiglia - per imparare i rudimenti della navigazione e i termini marinareschi, conoscere la costa palermitana, sviluppare sensibilità sui temi ambientali e partecipare ad un laboratorio di invito alla lettura. Tra gli altri progetti anche “Estate intorno al mondo, in viaggio verso i cinque continenti”; “Fuori la scuola…il bene comune”; “L’estate al centro”. Il viaggio in alcune delle tante periferie dove si combatte la dispersione scolastica con pochi mezzi ma tanta volontà finisce qui, con la consapevolezza che, come disse Nelson Mandela, «L’istruzione è il grande motore dello sviluppo personale. È attraverso l’istruzione che la figlia di un contadino può diventare medico, che il figlio di un minatore può diventare dirigente della miniera, che il figlio di un bracciante può diventare presidente di una grande nazione».

LE GENERAZIONI PERDUTE DEL POST-COVID

Impreparati e inattivi, gli under 30 italiani sono i più penalizzati in Europa a causa degli alti tassi di abbandono scolastico precoce e di inattività nel mercato del lavoro: un divario ancora enorme da colmare

di Annarita D’Agostino

Centoventitré. È il numero di volte in cui le parole “giovani” e “giovanile” compaiono nelle 273 pagine del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. “Investire nelle nuove generazioni per garantire l’accesso ai servizi di assistenza all’infanzia, migliorare il sistema scolastico e invertire il declino di natalità del Paese” sono temi trasversali a tutte le Missioni del Piano. Non solo quella dedicata specificamente a “Istruzione e Ricerca”, ma anche la digitalizzazione e innovazione della PA per favorire il reclutamento, la formazione e la partecipazione dei giovani; le opportunità di occupazione giovanile offerte dalla transizione ecologica, dalla mobilità sostenibile, dal potenziamento del sistema sanitario, dell’apprendistato e del Servizio Civile Universale. Eppure, qualcosa - più di qualcosa -, ha continuato a non funzionare nel post pandemia. Tanto che il Long Covid ipoteca il futuro dei giovani non solo aggredendo il fisico e la mente, ma anche le opportunità di inclusione e partecipazione. Proprio su questi effetti si è concentrata Nicoletta Scutifero, ricercatrice dell’Osservatorio Conti Pubblici Italiani (OCPI) dell’Università Cattolica di Milano e autrice, insieme a Francesco Bortolamai, di un’indagine sugli effetti della pandemia su due distorsioni ormai strutturali del nostro sistema economico-sociale. Sono l’abbandono scolastico e l’inattività dei giovani nel mercato del lavoro.

A dispetto di quanto si possa pensare - segnala la ricercatrice -, il Covid 19 non ha avuto apparentemente effetti negativi sul tasso di abbandono precoce degli studi, la cui percentuale si è addirittura ridotta dal 13,1% nel 2020 al 12,7% nel 2021. Ma non si tratta di un fatto positivo, quanto piuttosto della conferma che nel nostro Paese non è per nulla nuovo il fenomeno dei cosiddetti ELET, Early Leavers from Education and Training. L’acronimo anglosassone indica i giovani fra 18 e 24 anni che abbandonano presto gli studi, conseguendo al massimo un diploma di scuola media. L’Unione Europea ha inserito da tempo la riduzione del tasso di abbandono scolastico precoce fra i grandi obiettivi di ripresa economica, fissando a meno del 9% la percentuale da raggiungere entro il 2030. In questo scenario, il tasso medio europeo di abbandono scolastico si è effettivamente abbassato dal 13,8% nel 2010 al 9,7% nel 2021. Ma non nei Paesi del Sud Europa. In Italia, in particolare, secondo i dati Istat, il tasso di abbandono scolastico è un tratto praticamente “ereditario”, ovvero profondamente influenzato dalle condizioni socioeconomiche delle famiglie. L’OCPI evidenzia infatti come l’abbandono precoce degli studi coinvolga ben il 22,7% dei giovani con genitori che hanno conseguito al massimo la licenza media e solo il 2,3% dei giovani con genitori laureati. A questo aspetto si sommano poi i tradizionali divari territoriali di un’Italia a più velocità. Si va dal picco di quasi il 20% nelle Isole al 16,3% in tutte le regioni del Mezzogiorno. Seguono Nord-Ovest (11,8%), Centro (11,5%), Nord-Est (9,9%). «Ad essere stato segnato negativamente dalla pandemia - sottolinea Scutifero - è invece il tasso di occupazione degli ELET: a livello europeo, infatti, è diminuito dal 45,1% nel 2019 al 42,3% nel 2021. Per l’Italia, che già presentava un tasso di occupazione inferiore, la pandemia ha annullato i miglioramenti raggiunti nel 2019, portandosi nel 2021 a livelli simili al 2018, cioè al di sotto del 35%». Questo perché «in tempi di crisi economiche, così come è accaduto durante la pandemia, vi è maggiore difficoltà nel trovare un’occupazione. È semplice capire come questa difficoltà sia tanto maggiore quanto minore sia il livello del titolo di studio conseguito. Ed ecco che gli ELET - prosegue la ricercatrice -, essendo in possesso al massimo di un titolo di istruzione secondaria inferiore, sono i primi ad essere tagliati fuori dal mondo del lavoro in un momento di forte precarietà sul fronte dell’occupazione». A causa di livelli di istruzione inadeguati e carenza di competenze, gli ELET finiscono per allungare la fila dei NEET, Not in Education, Employment or Training: i giovani inattivi fra 15 e 29 anni che non studiano, non lavorano, non partecipano attivamente ad alcun percorso formativo finalizzato all’inserimento nel mercato del lavoro. Quelli che, già nel 2016, l’allora presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, definì “lost generation”, la generazione perduta a causa dell’allarmante disoccupazione giovanile. Con una percentuale pari al 23,1%, l’Italia è tristemente prima in classifica per tasso di inattività fra i giovani in Europa, dove la media è del 13,1%. Anche i NEET si concentrano, inoltre, nelle zone tradizionalmente più svantaggiate del Paese. Sono infatti oltre il 35% nel Sud Italia, mentre nelle aree del Centro-Nord sono meno del 20%, con il minimo del 13,3% nella Provincia Autonoma di Bolzano. «Maggiori sono le opportunità che un territorio è in grado di offrire - spiega

Scutifero -, minore sarà il tasso di inattività. Tuttavia, bisogna anche sottolineare la necessità di valutare con cautela questi numeri, data l’elevata presenza del lavoro nero nelle regioni del Sud Italia». Per i Paesi europei con percentuali di disoccupazione giovanile superiori al 25%, la Commissione europea ha lanciato l’iniziativa Garanzia Giovani, che l’Italia ha implementato a partire dal 2014. Il programma è dedicato ai giovani di età tra i 15 e i 29 anni residenti in Italia o di età inferiore ai 34 anni residenti nelle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Sardegna o Sicilia. A chi aderisce vengono offerte opportunità personalizzate di lavoro, istruzione o formazione. Nel 2020 gli Stati membri dell’UE si sono impegnati a rafforzare il programma per garantire che tutti gli under 30 possano avere una valida occasione di formazione o lavoro entro 4 mesi dalla fine degli studi o dall’inizio del periodo di disoccupazione (Garanzia Giovani Rafforzata). Secondo l’Anpal, Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro, che gestisce il programma italiano Garanzia Giovani, al 30 settembre 2022 sono stati oltre 1,6 milioni i giovani che hanno aderito. Il tasso di inserimento occupazionale dei quasi 800mila che hanno concluso il percorso è del 67,3%; nel 76% dei casi, con un lavoro stabile. L’attuale governo ha ereditato anche il Piano “NEET Working”, lanciato nei primi mesi del 2022. Il progetto ha l’ambizioso obiettivo di ridurre di oltre 3 milioni i giovani NEET attraverso una serie di interventi da realizzare tramite il rafforzamento del programma Garanzia Giovani, l’estensione del Servizio Civile e la creazione di sportelli dedicati nei centri per l’impiego. Tuttavia, per l’economista dell’Università Cattolica di Milano la quota di investimenti dedicata all’istruzione nel nostro Paese è ancora bassa, «e questo spiega perché l’Italia occupa il primo posto tra i maggiori Paesi europei sia per il numero di NEET che di ELET. Alla scarsità di investimenti si associa l’assenza di una strategia precisa. Anche lo stesso PNRR - precisa - è in parte insoddisfacente sul tema delle proposte di nuovi ed efficaci investimenti per i giovani, tema considerato trasversale e non una priorità. Sarebbe invece opportuno iniziare a definire delle politiche precise dietro la consapevolezza della rilevanza del tema, il quale dovrebbe occupare un posto centrale e non trasversale». Intanto, il fenomeno dei NEET è destinato ad avere effetti negativi di lungo periodo non solo a livello individuale, ma anche per l’economia del Paese. L’agenzia europea Eurofound ha stimato che il costo economico dei NEET - si sottolinea nella ricerca OCPI - è molto elevato non solo a causa dei mancati guadagni per i giovani inattivi, ma anche per le spese assistenziali che generano, come quelle per sussidi di disoccupazione. Alle gravi conseguenze economiche si affiancano quelle sociali: restare un NEET, e dunque improduttivo a lungo, significa perdere qualsiasi occasione di migliorare il proprio capitale umano. Quindi, mettere un’ipoteca incancellabile non solo sul proprio futuro, ma su quello di tutti noi. «Tutto questo - aggiunge Nicoletta Scutifero - richiede politiche realistiche che siano in grado di superare il senso di scoraggiamento dei giovani nei confronti delle istituzioni e di garantire loro un’attiva partecipazione».

MITI E LEGGENDE DELL’EPIFANIA

La festa che tutte le altre porta via ha una storia antichissima, connessa al ritmo delle stagioni e ai riti di fertilità del mondo pagano

di Anna Costalunga

L’Epifania è una festa cristiana che ricorda l’incontro dei Magi con Gesù appena nato e giunge, secondo il calendario gregoriano, 12 giorni dopo Natale, sancendo di fatto la fine dell’inverno. Nella liturgia rappresenta il momento in cui Dio, nel Bambino Gesù, si manifesta ai popoli (la parola stessa epifania in greco significa apparizione) rappresentati dai tre misteriosi sapienti venuti dall’Oriente. Anche i loro doni sono ricchi di significato: la mirra allude alla Passione di Cristo, l’oro alla regalità e l’incenso alla divinità. Di queste misteriose figure peraltro si racconta solo nel Vangelo di Matteo, che si limita a riportare che “giunsero da Oriente”, senza specificare né il numero né il colore della pelle né tantomeno il nome. Solo nel corso dei secoli la loro identificazione è stata arricchita da una lunga e variegata tradizione giunta ai giorni nostri. E cosa c’entra allora la Befana con il giorno dei Magi? Sicuramente molto, a cominciare dal nome, una evidente storpiatura della parola epifania.

La leggenda della Befana

Un’antica leggenda, diffusa nel Basso Medioevo, racconta che i Magi, non trovando la strada per Betlemme, si ri-

volsero ad una vecchina per chiedere lumi. Lei diede le giuste indicazioni ma si rifiutò di accompagnarli a far visita al Bambino. Pentitasi poi del suo comportamento, preparò in fretta un cesto di dolciumi per raggiungerli, senza però trovare più né loro né Gesù. A quel punto decise di lasciare i doni a tutti i piccoli incontrati lungo la strada, nella speranza che uno di loro fosse il Figlio di Dio. E così continua a fare ancora oggi. Il racconto, nato nel XII secolo, aveva una grande valenza per la Chiesa di allora: conciliava, infatti, la figura femminile volante e i riti della rinascita delle culture precristiane con la nuova fede. Ma dove nasce esattamente l’immagine della Befana?

La festa del “Sol Invictus” e il culto della rinascita

A questo punto è necessaria una premessa: nei giorni intorno al solstizio d’inverno (21 dicembre), il Sole sembra precipitare nell’oscurità per poi tornare a mostrarsi più forte e vitale dai giorni successivi in poi. Un momento delicato per la sopravvivenza delle comunità arcaiche, dipendenti in tutto dalla buona riuscita dei raccolti: cosa sarebbe accaduto se il Sole non fosse risorto? Ecco perché gli antichi romani il 25 dicembre celebravano la festa del “Sol Invictus”, considerata dagli storici l’origine “pagana” del Natale. Il culto, che veniva dalla Persia ed era legato a Mitra, attraverso riti e sacrifici restituiva forza al Sole per assicurarne la rinascita.

Secondo un’antica leggenda, la Befana era una vecchina a cui i Magi chiesero indicazioni per arrivare a Betlemme. Lei si rifutò di accompagnarli ma poi, pentita, preparò dei dolci da portare al Bambino Gesù.

La dodicesima notte

Ma i Romani credevano anche che nelle dodici notti successive al solstizio d’inverno alcune figure femminili - la dea Diana e le sue ancelle - volassero sui campi appena seminati per propiziare la fertilità dei futuri raccolti (una credenza peraltro sopravvissuta per secoli all’avvento del Cristianesimo). Il rimando è ancora presente in Gran Bretagna, dove si festeggia la notte tra il 5 e il 6 gennaio (la dodicesima notte dopo il Natale, che dà il titolo alla celebre commedia di Shakespeare), culmine delle celebrazioni invernali, anticamente caratterizzata dal capovolgimento della realtà come gli antichi Saturnalia. Un’altra ipotesi collega la Befana con l’antica festa romana del primo dell’anno in onore di Giano - ecco spiegato il nome gennaio - e Strenia (da cui deriva il

Dolce vecchina o strega?

Complici le contaminazioni con la festa di Halloween, ultimamente la Befana viene rappresentata a cavallo di una scopa, con stivali e cappello a punta nero: la classica immagine delle streghe. Però le differenze sono molte: la nostra vecchina vola su una scopa come loro, ma la cavalca al contrario. Sul capo porta un fazzoletto annodato sotto al mento. La calza dei doni non è altro che un vecchio sacco di iuta che allungato sembra un calzettone. termine strenna), durante la quale si scambiavano doni.

La Befana, un esempio di sincretismo

Nel Nord e nel Centro Europa la Befana richiama la figura celtica di Perchta, della scandinava Frigg, di Holda in Nord Europa, di Bertha in Gran Bretagna e Berchta nelle tradizioni alpine pre-cristiane. Divinità protettrici degli animali e dei campi, raffigurate come un’anziana signora, personificazione della spoglia natura invernale: una vecchia gobba dai piedi enormi, col naso adunco e capelli bianchi spettinati, vestita di stracci che, volando sui campi di notte, ne propizia la fertilità. La cristianizzazione di queste antiche divinità, inglobate e assimilate alla nuova religione, rappresenta dunque un chiaro esempio di sincretismo che peraltro ritroviamo anche in un altro aspetto. Il carbone lasciato nelle calze dei bambini “cattivi”, infatti, altro non è che il ricordo della cenere lasciata dai falò, antichi simboli di purificazione, accesi per scacciare l’anno vecchio con il suo carico di negatività. Un altro simbolo ancestrale legato alla simbologia del rinnovamento.

This article is from: