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Professione reporter
from Maggio 2021
by pay50epiu
Una formazione da biologa, un brevetto da pilota e decine di missioni internazionali per raccontare il lavoro delle Forze armate: una reporter classe 1944 e il sogno di tornare in Iraq
L’INFORMAZIONE IN PRIMA LINEA
di Ilaria Romano
DA 18 ANNI IL SUO GIORNALE ONLINE È UN PUNTO DI RIFERIMENTO PER L’INFORMAZIONE SPECIALIZZATA NEL MONDO DELLA DIFESA, DELLE FORZE ARMATE E DEI TEATRI OPERATIVI PIÙ CALDI IN GIRO PER IL MONDO. Maria Clara Mussa (nella foto sopra) ha seguito e raccontato i militari italiani in Afghanistan, Kosovo, Libano, Gibuti, Iraq, Somalia, documentandone il lavoro quotidiano, e oggi, a 76 anni, guarda alla prossima missione, pandemia permettendo. Come è arrivata al giornalismo e quando ha deciso di specializzarsi in questo settore? Ho cominciato con la cronaca regionale e gli articoli sullo sport, l’alimentazione - data la mia formazione di biologa nutrizionista -, i diritti delle donne. Poi ho condotto per anni programmi di informazione per Videolina ed Europa TV; ho fondato una radio privata e ho diretto giornali locali e riviste specializzate, come Arte e vino. Nel 2003, dopo aver acquisito il brevetto di pilota privato, ho fondato Cybernaua InformAction Magazine, testata giornalistica dedicata ini- »


zialmente al volo, data la mia passione per gli aerei, e poi a tutto il settore della Difesa. Come è nata l’idea di Cybernaua e come la porta avanti? Dalla constatazione che, essendo le attività militari considerate riservate, nell’opinione pubblica mancava una conoscenza della Difesa. Il giornale nasce anche dall’incontro nel cielo di Sabaudia e Nettuno con un paracadutista della Folgore, Daniel Papagni, ottimo fotografo, diventato il mio braccio destro. Tra me pilota e lui paracadutista - mi spinse pure a provare l’ebbrezza dei lanci con il paracadute - nacque immediatamente un’intesa che ha fatto crescere il progetto. Portiamo avanti il giornale con le nostre forze, senza finanziamenti, con il sostegno di amici e di alcuni sponsor. Ed è una soddisfazione sentirsi dire: «Apprezziamo il tuo giornale perché è autorevole, coraggioso; lo leggiamo per avere informazioni equilibrate e prendere spunti...». Non siamo legati a cordate, poveri ma liberi. Lei ha avuto la possibilità di conoscere il lavoro degli italiani impegnati nelle missioni internazionali: come sono cambiate nel corso degli anni? Lo Stato Maggiore della Difesa ha offerto l’opportunità di partecipare come giornalisti “embedded” alle attività dei contingenti italiani impegnati nelle missioni di pace. Abbiamo vissuto tante volte spalla a spalla con uomini e donne delle Forze armate: stare nel compound insieme a loro, condividerne le sistemazioni logistiche, la mensa, i piccoli momenti di relax davanti ad un caffè, pregare con loro, ci mette in condizioni di poter raccontare ai lettori come realmente vivono i nostri soldati. Li abbiamo seguiti in perlustrazione a cercare gli ordigni improvvisati, a sminare terreni infestati dalle cluster bomb; mentre donavano un sorriso alle popolazioni bisognose portando loro viveri e materiali sanitari; li abbiamo ammirati in situazioni stressanti da cui tornavano infangati o pieni della polvere sottile dell’Afghanistan, dopo aver raggiunto e arrestato talebani. Nel corso degli anni le missioni sono cambiate in base agli accordi internazionali relativi ai Paesi in cui la coalizione, di cui l’Italia è parte attiva, opera. Ora, con la pandemia, non ci è permesso affiancare le Forze armate come negli anni passati e ne sentiamo la mancanza, perché un conto è scrivere delle missioni in base ai comunicati stampa, un altro è testimoniare di persona. Quale viaggio le è rimasto nel cuore, come professionista e come donna? Uno dei luoghi che mi è rimasto nel cuore è l’Afghanistan, dove siamo stati sia con i nostri soldati sia in modo autonomo. Amo quel grande Paese sconvolto da sempre e soffro al pensiero delle donne afghane che non riescono ad acquisire il diritto alla propria vita. Abbiamo più volte incontrato Maria Bashir, sostenitrice dei diritti delle donne, che fu anche procuratrice al Tribunale di Herat quando era presidente Karzai; visitato più volte il carcere femminile di Herat, in cui le donne sono rinchiuse per anni con l’unica colpa di essersi opposte ad un sopruso; ho avuto scambi di e-mail con donne prigioniere di una situazione familiare violenta, pericolosa, senza via di scampo. Un momento indimenticabile fu quando il maggiore Asghur, braccio destro di Massoud, il leone del Panjshir, con fierezza e orgoglio dopo l’intervista concessa a noi giornalisti, tra i quali ero l’unica donna, fece dono solo a me del “pakol”, il berretto che Massoud usava portare e che rappresenta l’emblema della volontà di risorgere e dare stabilità al Paese. Immaginate la mia emozione e il senso di onore che provai... Anche le nostre “avventure’’ in Iraq hanno lasciato il segno: in Kurdistan abbiamo trascorso molto tempo con i militari iracheni e curdi e anche con le donne Peshmerga, le ragazze del Sole, impegnate nella sanguinosa lotta contro il Daesh. Con i curdi abbiamo vissuto i momenti entusiasmanti della vittoria al Referendum nel 2017 per la proclamazione dell’autonomia, anche se l’entusiasmo durò poco perché il Governo iracheno rivendicò i suoi diritti sull’area del Nord e ci ritrovammo con
+«LO SMART WORKING NON È UN SISTEMA DI LAVORO ADATTO AL GIORNALISMO, CHE FONDA LE PROPRIE ESPERIENZE SUL CAMPO. DOBBIAMO RICOMINCIARE A VIAGGIARE, A VEDERE CON I NOSTRI OCCHI»

Vicini al tuo benessere, noi.

gli aeroporti internazionali chiusi. Riuscimmo a uscire dal Paese, in un viaggio di notte, con un autobus delle linee curde in cui ero l’unica donna, passando da Mosul e attraversando i confini di Siria e Turchia, per raggiungere, dopo 12 ore di viaggio, Djarbakir. Fu un’avventura: numerose volte il pullman dovette fermarsi e far scendere tutti, bagagli compresi; e noi a spiegare il perché nelle nostre valigie erano collocati giubbotti antiproiettile ed elmetti... Specializzarsi e andare sul campo può essere ancora l’antidoto alla crisi dell’informazione, in un mestiere che sempre di più - purtroppo si svolge da remoto? Lo smart working non è un sistema di lavoro adatto al giornalismo che fonda le proprie esperienze sul campo. Anche nel rispetto dei nostri lettori, è una situazione che mi auguro abbia un termine. Dobbiamo ricominciare a viaggiare, a vedere con i nostri occhi. Cosa direbbe ad una giovane reporter all’inizio del suo percorso? Attualmente siamo in ‘’viruscrazia’’; nel mondo dominato dal virus e dalla paura che esso ha diffuso, non ho consigli da offrire. Però, una giovane aspirante reporter si può addestrare nel seguire quanto comunque accade nei Paesi in guerra e, in Italia, nel seguire le attività delle Forze armate che comunque restano impegnate, con o senza virus. Avvicinandosi al mondo militare si impara molto. Come ha riadattato la professione durante la pandemia? Mantenendo attivi i contatti con le persone conosciute nei Paesi in cui siamo stati e continuando a scrivere della situazione dei loro Paesi, per mantenere viva la memoria, per non far cadere nel nulla tutto il lavoro svolto. Prossimi progetti? Attività giornalistiche insieme a reparti operativi che si esercitano, mentre prendiamo in considerazione un viaggio in Iraq. Gli amici Peshmerga ci aspettano.

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Il personale sanitario italiano è candidato al Premio Nobel per la Pace 2021, quale riconoscimento degli sforzi fatti nell’ultimo anno. Si parla di circa 350.000 infermieri che si sono spesi per combattere contro il Covid-19. In occasione della Giornata Internazionale a loro dedicata, abbiamo intervistato quattro infermiere over 50 per conoscere le storie di questo periodo difficile


INFERMIERI, EROI DEL NOSTRO TEMPO
di Linda Russo
«IO MI SENTO FORTUNATA PERCHÉ CREDO DI FARE IL LAVORO PIÙ BELLO DEL MONDO», MI DICE GRAZIELLA MENTRE LE CHIEDO DI RACCONTARMI QUEST’ULTIMO ANNO. Lei, 56 anni, è una delle quattro infermiere con cui abbiamo ricostruito le tappe di questi ultimi dodici mesi. Lavora al Pronto Soccorso del Sandro Pertini di Roma e sentirla raccontare della battaglia contro il Covid lascia senza parole. «Noi abbiamo avuto un piccolo vantaggio. Milano è stata una delle prime grandi città a vivere l’emergenza dentro gli ospedali. Qui a Roma, invece, sapevamo dei due turisti ricoverati allo Spallanzani, ma abbiamo avuto qualche giorno per abituarci all’idea che sarebbe arrivato in tutte le strutture», racconta. Lei, “di persone
LA GIORNATA INTERNAZIONALE DELL’INFERMIERE SI CELEBRA IL 12 MAGGIO, GIORNO DI NASCITA DI FLORENCE NIGHTINGALE, CONSIDERATA LA FONDATRICE DELL’ASSISTENZA INFERMIERISTICA
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in Pronto Soccorso ne ha viste tante in quest’ultimo anno”. «Sa qual è la cosa più brutta di questa malattia? - mi dice a un certo punto -. È vedere arrivare una persona completamente lucida che ti comunica che ha febbre e difficoltà respiratorie. Ti racconta esattamente ciò che sente. E due minuti dopo ti ritrovi accanto all’anestesista che la informa che dovrà intubarla perché i suoi livelli di ossigeno sono troppo bassi. Io sono sempre stata abituata ad assistere l’anestesista mentre intuba un paziente incosciente, ma doverlo fare su una persona che fino a poco prima può parlarti è un’immagine che lascia il segno». Graziella, come molti suoi colleghi, quest’anno ha dovuto tirare fuori energie che forse non sapeva nemmeno di avere. «Ho lavorato tantissimo. Praticamente uscivo di casa la mattina e tornavo la sera, ma ogni volta che attaccavo pensavo solo a dare il meglio di me stessa, a fare tutto il possibile finché non finiva il turno». Il racconto di Graziella si mescola a quello di una collega a 600 chilometri di distanza. Si chiama Patrizia, 53 anni, infermiera all’ospedale San Leopoldo Mandic, e durante l’emergenza sanitaria è stata spostata in rianimazione, un reparto in cui aveva già lavorato per quindici anni. «Ho passato quasi due mesi e mezzo in rianimazione e la situazione era davvero drammatica.Avevamo a disposizione 6 posti letto che sono stati aumentati a 9; poi ci siamo dovuti appoggiare ad altri reparti che potessero gestire i respiratori», mi dice. È lei la prima a raccontarmi le difficoltà degli infermieri over 50 in questa pandemia. «Da quattro anni lavoro nel reparto di psichiatria, ma per l’esperienza pregressa mi hanno chiesto di prestare servizio dove c’era più bisogno. Tornare a mobilitare dei pazienti intubati, in una situazione così stressante e con lunghi turni, ha richiesto un enorme tasso di energie fisiche e mentali». Anche Claudia, 57 anni, infermiera all’ospedale Morgagni-Pierantoni di Forlì, racconta le fatiche degli infermieri e soprattutto i rischi per la loro salute. «Nel nostro ambulatorio (di urologia, ndr) c’è stato un momento di grande criticità quando siamo stati tutti infettati dal virus. Il nostro team è composto da circa venti persone, tra medici e infermieri, e solo quattro sono rimasti in servizio, sobbarcati da un carico di lavoro espo- »
nenziale. Quando siamo tornati al lavoro, dopo essere risultati negativi ai test, abbiamo dovuto riprendere le nostre mansioni, ma eravamo stanchi: fisicamente provati e mentalmente preoccupati». Lei, come le altre, mi espone il suo pensiero in merito alla nuova generazione di infermieri, a quelli che, appena laureati, sono stati impiegati dove c’era più bisogno. «Da ciò che ho potuto osservare, i ragazzi sono stati inseriti in prima linea dove il loro supporto era necessario. Essendo più giovani, hanno più energie e resistono meglio alla fatica». Una situazione che Graziella analizza da un altro punto di vista: «La scelta di assumere ragazzi giovani e “buttarli” nel Covid, mi ha lasciato perplessa. I giovani hanno bisogno di un approccio diverso al lavoro. Li ho visti spaventati: il contesto era troppo teso, troppo difficile». Eppure, in molti casi, gli infermieri non erano abbastanza per fronteggiare l’emergenza e assistere i pazienti che si rivolgevano a loro. Una conseguenza della difficile situazione dovuta ai tagli sui fondi destinati alla sanità, come mi racconta Patrizia. «Ci sono reparti di medicina dove un infermiere e un OSS (Operatore Socio-Sanitario, ndr) devono prendersi cura di quindici pazienti per turno. Questo vuol dire dedicarsi alla somministrazione di farmaci, ma anche alla cura e all’assistenza della persona e, a volte, non c’è nemmeno tempo per lavare i capelli a chi ne avrebbe biso-
5,8
è il numero degli infermieri in Italia ogni mille abitanti. Un numero molto basso se si confronta con la media Ocse dell’8,8.
74%
è la percentuale di infermieri donne in Italia. Eppure, secondo i dati Eurostat, esse percepiscono uno stipendio più basso del 10% rispetto ai colleghi uomini.
33.034euro
è lo stipendio
medio annuo degli infermieri in Italia, contro i 40.000euro circa percepiti mediamente dai colleghi dei Paesi Ocse. gno». È proprio l’assistenza al malato, infatti, a risentire di più di questo sottodimensionamento. Un’assistenza che, come dicono queste infermiere, è costretta a diventare sempre più tecnica e rischia di perdere le sue preziose caratteristiche di empatia e umanità. «I tagli alla sanità hanno pesato molto sugli esiti di questa pandemia. I posti letto nei piccoli paesi, come quello dove lavoro io, non sono sufficienti, così come non lo sono gli infermieri. Se questa pandemia fosse avvenuta dieci anni fa, avremmo avuto più risorse», mi dice Maria Grazia. Lei ha 57 anni e lavora in una clinica privata in provincia di Messina, fa l’infermiera da quasi trent’anni e quando le chiedo cosa ne pensa della candidatura al Premio Nobel per la Pace, mi risponde così: «È sicuramente un grande riconoscimento, ma non credo sia ciò che vogliamo. Vogliamo uno stipendio adeguato ai nostri sforzi e alle nostre responsabilità, e un’organizzazione che cambi le cose, aumentando i posti letto e il personale a disposizione. Lo scorso anno, nei mesi della prima ondata, quando incontravi qualcuno che sapeva del tuo mestiere ti ringraziava, ma già durante la seconda ondata è stato diverso.Ci hanno chiamato “eroi”, ma per tanto tempo siamo stati anche quelli che nei Pronto Soccorso hanno ricevuto insulti o, nei casi più gravi, sono stati aggrediti». Le parole di queste quattro donne, che non si conoscono neppure, si fondono tra loro come a formare un unico racconto. Quello di chi negli ultimi dodici mesi ha faticato tanto, spendendosi per la comunità, così come ha fatto in tutti questi anni di carriera. Quando le saluto, al telefono, chiedo a ognuna di loro quale sia l’augurio per il futuro e nelle parole di Graziella si racchiude il pensiero di tutte: «Io non so come ne usciremo. A volte penso che ne usciremo peggio di come siamo entrati. Altre volte, invece, penso che forse qualcosa di buono possa venire fuori. Io spero solo che chi ha il potere di farlo possa rivalutare tutta la sanità, non solo la nostra figura».





