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La cura del prossimo, anche oltreconfine Giada Valdannini
from Marzo 2022
by pay50epiu
di Giada Valdannini
SE L’IMPEGNO VERSO L’ALTRO NON HA CONFINI
La storia di “Cittadinanza”, la Onlus che dalla fine degli Anni ’90 si occupa delle persone con gravi disturbi psichici - e non solo - in Paesi a basso reddito, “per togliere al malato mentale la maschera della vergogna, per restituirgli il volto di cittadino”
Arrivano spesso con i figli caricati sulle spalle facendosi largo per le strade degli slum, inaccessibili a chi si muove con una sedia a rotelle. Sono donne, madri di bambini e ragazzi con disabilità: fisica, molto spesso, talvolta anche psichica. È a loro - ma non solo - che si rivolge l’attività di una Onlus che abbiamo imparato a conoscere: si chiama “Cittadinanza” ed è un’associazione italiana fondata a Rimini nel 1999 da Maurizio Focchi, 68 anni, che per mestiere è alla guida di un gruppo che realizza infissi in giro per i grattacieli di tutto il mondo. Ha a cuore i temi della salute mentale con una laurea in Medicina che, però, non lo ha mai portato a esercitare il mestiere di medico. «Si crede che questi malati debbano espiare una colpa», ci dice parlando delle persone con disturbo psichico e, proprio in loro aiuto, è nata l’attività di Cittadinanza Onlus. La scintilla è nata da un incontro avvenuto a fine Anni ’90: «Con uno psichiatra di grande valore, Benedetto Saraceno, che per anni è stato direttore del Dipartimento di Salute mentale dell’Oms». Un uomo di chiara formazione “basagliana”, impegnato già allora in percorsi di superamento dei vecchi ospedali psichiatrici - i manicomi
Tra i progetti portati avanti, quello dedicato all’Etiopia nel 2020 ha portato a raddoppiare gli spazi del nuovo ambulatorio di psichiatria, di cui hanno potuto usufruire 1.742 pazienti. (Fonte: Annual Report 2020 Cittadinanza Onlus) - in Paesi come quelli del Sud America. È allora che Focchi ha realizzato l’esigenza di lavorare sui temi della salute mentale in Paesi dove la priorità è sicuramente la fame, ma il disagio psichico è uno stigma tale che si fatica a superare. Forse più ancora che qui, nel nostro Occidente. Perciò, con Cittadinanza Onlus, ha sviluppato e sostenuto progetti di riabilitazione psichiatrica e di intervento psicosociale in Paesi a basso reddito quali India, Serbia, Albania, Kenya e Panama. «Ci interessiamo - racconta - di persone con malattia mentale grave e di bambini con disturbi mentali, ritardi di sviluppo fisico, nel movimento, nella parola. Il nostro obiettivo sono i Paesi a più basso reddito, dove questi malati si collocano purtroppo molto in basso nella lista delle priorità sanitarie». E, mentre prosegue, non tace una certa perplessità iniziale: «Mi domandavo come potessimo essere utili in Paesi dove la priorità è la fame». E invece si sono rivelati presto essenziali. «Lavoran-
do in questi contesti mi sono convinto che adoperarsi sui temi della salute mentale in Paesi con forti problemi economici ha un’utilità chiara, perché si può consentire a tanti di vivere una vita dignitosa. Ma ha anche un significato civile proprio per la società stessa: farsi carico di loro penso sia doveroso». Fiocchi continua, ricordando il primo progetto: «È stato in India, con malati mentali adulti. La zona era quella di Tamil Nadu, a sud, a destra del Kerala. Abbiamo prima individuato - collaborando con un’associazione molto valida che si chiama “ScaRF” - coloro che ne avevano bisogno e poi, assieme, ci siamo presi cura di queste persone. Si trattava di psicotici, schizofrenici, depressi gravi: tutta gente che, vivendo in aree rurali, difficilmente sarebbe stata raggiunta da cure adeguate». La prima questione che però si sono doverosamente posti è stata: «Come riuscire a fare psichiatria in Paesi nei quali non ci sono psichiatri, non ci sono strutture. Il primo passaggio, perciò, è stato iniziare col fare delle diagnosi. I maestri volontari che andavano nei villaggi a insegnare, venivano educati a capire quali fossero i malati, a identificare quelli gravi e, grazie a loro, li abbiamo potuti prendere in carico e intervenire. Uno psichiatra li visitava una volta al mese in una grande stanza nella quale non c’era la privacy che consideriamo noi europei perché, anzi, lì c’è la partecipazione sociale di tutti i parenti». Ma individuato il problema e iniziato il percorso di cura, il lavoro non è che all’inizio. Lo scoglio più grande - comprendiamo da ciò che ci racconta l’ideatore di Cittadinanza Onlus - è cercare di trovare un posto alla persona con disagio mentale che evidentemente è stata esclusa dal contesto sociale. «Tra gli obiettivi, infatti, c’è sempre stato quello di trovare loro un’attività che li facesse tornare parte della comunità in cui vivevano. Gesti semplici ma che, agli occhi degli altri, possono rendere la persona presa in cura utile nel contesto sociale. Ad uno di loro, ad esempio, fu dato il compito di occuparsi della mungitura della capra: un’azione comune ma che gli ha restituito un ruolo nella società. O, a una donna, il compito di raccogliere soldi per ristrutturare un piccolo tempio indù: si impegnò a tale scopo senza sottrarsi mai». Ma è in Serbia - nei primi Anni 2000 - che hanno iniziato a lavorare con bambini con disturbi dello sviluppo, anche cognitivo, e con deficit nella deambulazione. Lì, all’epoca, ci racconta come esistessero ancora strutture molto simili ai manicomi: «Sessanta centri, allora, da un capo all’altro del Paese». Strutture nelle quali i bambini venivano pressoché abbandonati, coi genitori che, il più delle volte, non sarebbero mai più ritornati a prenderli. «Per vincere quell’isolamento, quell’assenza di speranza, il nostro sforzo è stato quello di dare cittadinanza - come dice il nostro nome - a queste persone: il che è sempre valso sia per adulti sia per bambini». Tra le tante storie - ognuna meriterebbe un racconto a sé - ci colpisce quella di Jayden, preso in cura nel gennaio del 2017, all’età di due anni. Lui e il gemello Adrian presentavano un ritardo nello sviluppo. A Jayden, che durante il parto aveva sofferto di più, era stata diagnosticata anche una paralisi cerebrale. Dopo qualche mese di assistenza, Adrian e Jayden sono stati seguiti - assieme ad altri bambini - nel centro diurno promosso da Cittadinanza Onlus, all’interno di un percorso individualizzato che ha previsto per loro sessioni di fisioterapia, logopedia, visite mediche, per imparare a camminare, parlare, mangiare da soli, andare in bagno. Autonomia necessaria a poter poi spiccare il volo
verso l’inserimento a scuola. «Che gioia per la madre - ci dice Focchi - vedere i progressi che, giorno dopo giorno, i due fratelli cominciavano a raggiungere». E se Adrian ha ottenuto molto presto maggiore autonomia riuscendo quasi subito a camminare da solo e ad essere incluso a scuola, per Jayden il cammino è stato più lungo e difficile. Ma anche per lui il giorno è poi arrivato: tra le grida di gioia e le risate delle insegnanti, Jayden ha mosso i primi passi emozionando tutti. Ci racconta ancora Focchi: «La mamma di Jayden è ancora un po’ incredula quando oggi il figlio le chiede il permesso per uscire per strada a giocare. Eppure è proprio così, da quel fatidico giorno, Jayden è libero di giocare, ballare e muoversi a suo piacimento». Ma intorno al tema della disabilità, specie se mentale, c’è ancora tanto pregiudizio. «A Nairobi - continua Focchi nel suo racconto - abbiamo un progetto nello slum di Kibeira. Lì, c’è un prete comboniano che raccoglie bambini di strada e già da tempo dava ospitalità a piccoli con disabilità. Assieme abbiamo realizzato il centro Paolo Sommi, in cui facciamo fisioterapia e, dal 2013, abbiamo potuto accogliere e curare un migliaio di bambini». La svolta, secondo Focchi, è stata proprio lavorare con le mamme dei piccoli. Un risultato tanto più prezioso se si pensa che viene in soccorso di donne che, per la disabilità dei loro figli, vengono relegate ai margini della società. «Le mamme erano distrutte, depresse, perché di fronte alla disabilità - in molti di questi Paesi - scatta un meccanismo culturale secondo il quale se hai avuto un bambino disabile è per una punizione divina: devi aver commesso qualcosa. E allora, sono tanti i mariti che si insospettiscono, che si chiedono il perché di una simile punizione divina, che dubitano della fedeltà delle mogli e più spesso le abbandonano. Così le donne restano fondamentalmente sole». Ed è proprio in Etiopia che, assieme a Medici con l’Africa Cuamm, Cittadinanza Onlus ha un obiettivo ambizioso: «Vogliamo aiutare le madri mentre i loro figli fanno la necessaria terapia. L’idea è permettere loro di coltivare del terreno: potranno trascorrere il tempo di attesa in maniera utile, portare del cibo coltivato a casa e magari trarne un piccolo aiuto economico».
DA SIMBOLO DI SPERANZA A STRUMENTO DI RISCATTO
In Grecia, sull’isola di Lesbo, punto cruciale della rotta migratoria orientale, i giubbotti di salvataggio lasciati sulle coste sono stati recuperati e riciclati, dando loro una nuova vita
Sono zaini, borse, astucci, portamonete, trousse, borse per il pc: oggetti di uso quotidiano, ma che hanno una valenza speciale. Sono stati ricavati, infatti, dai giubbotti salvagente usati dai migranti dalle coste turche per raggiungere l’isola di Lesbo, in Grecia. Il simbolo del rischioso viaggio prende così una nuova vita, trasformandosi in uno strumento di riscatto. Tutto questo è il progetto “Safe Passage”, realizzato dall’associazione Lesvos Solidarity, una Ong che opera sull’isola greca da un decennio. È stata Nicolien Kegels, coordinatrice del progetto, a raccontarci la storia di come tutto è nato, quasi dieci anni fa.
UNO SPAZIO SICURO
«L’idea era quella di avere uno spa-
zio lontano dal centro di accoglienza. Uno spazio sicuro, dove le persone potevano venire e distrarsi, incontrarsi. Si tenevano lezioni di inglese, di greco, di informatica, di chitarra, di yoga. Tanti tipi di attività», esordisce Nicolien. La sede dell’associazione si trova al centro di Mitilene, la città più grande dell’isola. Non è un caso. «Era un modo per far uscire le persone, fargli prendere l’autobus, dargli la possibilità di passare una giornata diversa e poi tornare al campo», racconta la referente. L’idea dei giubbotti nasce quasi per caso. «Era il momento dei grandi arrivi, erano sbarcati tanti migranti. Tutte le spiagge erano coperte dai loro giubbotti di salvataggio. E così decidiamo di recuperare quei giubbotti, di tagliarli e usarli per fare qualcos’altro. Dare loro una nuova vita. La prima linea di borse nasce quasi senza accorgercene. C’è una designer greca che conduce i lavori, Matina Kontoleontos, e poi ci sono le persone del campo. Per loro è anche un modo per guadagnare qualcosa». Partono così i workshop, e sono sempre più i migranti che sposano l’idea e decidono di dare una mano. Il progetto nasce e si concretizza con una doppia valenza: da una parte riciclare questo materiale per non farlo finire nella spazzatura, e dall’altro fornire un reddito, un piccolo lavoro affinché queste persone abbiano una vita normale. L’associazione nasce con uno stampo internazionale, è completamente autofinanziata, ma ci sono anche gli isolani che sposano il progetto. Matina Kontoleontos, la designer a capo della linea di borse, è originaria di Lesbo. E anche altri cittadini decidono di mettersi in gioco e perorare la causa.
NUOVI MATERIALI
Passa il tempo, cambiano le situazioni. Il 18 marzo 2016, l’Unione europea stringe un accordo con la Turchia; quest’ultima si impegna a chiudere la rotta del Mediterraneo orientale (dalla Turchia alla Grecia appunto) in cambio di una cospicua somma di denaro da parte dell’Ue. Iniziano ad esserci meno arrivi, meno giubbotti sulle spiagge. E così l’associazione inizia a guardare altrove. A cercare altro tipo di materiale da poter riutilizzare. Si pensa alle barche, in particolare ai gommoni. «La plastica dei gommoni è molto resistente e si presta bene alla realizzazione dei nostri prodotti. È vero che c’erano meno arrivi e il vento tendeva a coprire con la sabbia i gommoni; così ci siamo messi a setacciare le spiagge, e ne abbiamo trovati tanti. È stata un’impresa anche solo trasportarli fino al nostro laboratorio - ricorda Nicolien sorridendo -. Abbiamo iniziato anche ad utilizzare alcuni dei vestiti che venivano donati. Spesso si trattava di capi impossibili da indossare, o perché danneggiati e deteriorati o perché magari andavano di moda vent’anni fa. E così abbiamo recuperato quelle stoffe e le abbiamo integrate alle nostre linee». Viene poi aggiunto un nuovo materiale alla lista. Ha a che fare con un altro “prodotto” delle migrazioni: le tende. «Abbiamo iniziato una collaborazione con la Croce Rossa Tedesca. Molte tende avevano iniziato a riportare ammaccature, strappi, cerniere rotte, e non potevano essere utilizzate come dimore. Così, quando loro hanno eliminato le tende malconce, le abbiamo prese noi».
INDOSSARE UN’IDEA
Nessun materiale è scelto a caso dunque, non si ricicla ogni cosa, tutto ha un senso. «Avevamo ricevuto varie offerte di partnership; un’associazione di Atene, ad esempio, ci offriva delle capsule di caffè, ma abbiamo declinato l’invito, perché non c’era connessione con il significato del nostro progetto». Il valore aggiunto di “Safe Passage” è proprio nella sua idea. A partire dal nome. «Abbiamo scelto questo nome, “Passaggio Sicuro”, per richiamare proprio l’attenzione su questa situazione. Sul fatto che le persone sono qui bloccate. Sul fatto che queste persone hanno dovuto prendere una barca e indossare dei giubbotti di salvataggio per salvare la propria vita. E anche sul fatto che, ancora oggi, vivono nelle tende, e anche le tende non sono dei posti sicuri. Con la nostra linea di prodotti vogliamo portare in giro un’idea, vogliamo ribadire questo messaggio.
Perché poi quando indossi la nostra borsa, quando qualcuno rimane a guardarla, ecco che lì tu puoi agire, puoi spiegare, puoi raccontare il senso che c’è dietro quello che non è solo un semplice zaino, un astuccio o una borsa per fare la spesa». Al momento, al progetto lavorano quattro sarti e due persone che si occupano delle vendite e delle spedizioni. Ma l’associazione porta avanti anche dei laboratori di upcycling ed uno di artigianato. «E in questi - precisa - c’è largo spazio alla creatività, all’immaginazione. Si può usare qualsiasi tipo di materiale per dar vita a qualcosa, possono essere degli orecchini, dei portaceneri o anche un oggetto da appendere al muro». La distribuzione e la promozione di questi prodotti avviene online anche se, ammette Nicolien: «Vendiamo soprattutto in Germania».
IL LIMBO D’EUROPA
Nicolien conosce Lesbo come le sue tasche, è qui da più di cinque anni. Ha iniziato facendo volontariato con Medici Senza Frontiere e poi è passata a Lesvos Solidarity. Ha visto cambiare il volto di quest’Isola. Era qui quando Lesbo era al collasso perché il campo di Moria ospitava più di ventimila persone, in attesa di un lasciapassare per la terraferma. «È stato il campo profughi più grande d’Europa, e lo è stato per anni. Peggiorando di mese in mese. Era diventata una giungla, priva di regole. A volte, quando ci ripenso, mi dico: “Ma davvero è esistito”? Davvero è stato possibile che ventimila persone potessero vivere in minuscole tende nel fango, tutte stipate su una collina?».Quel campo è stato dato alle fiamme nel settembre del 2020 e ha rappresentato, per certi versi, la fine di un’epoca. «Perché poi la tendenza è stata quella di trasferire i migranti, in modo massiccio, ad Atene e Salonicco. Non preoccupandosi più tanto delle loro sorti, non badando al fatto che molti di loro, piuttosto che rientrare in un campo, avrebbero preferito diventare dei senzatetto. Perché la prerogativa, in quel momento, era quella di liberare Lesbo. E così è stato», afferma sospirando.
IL NUOVO VOLTO DI LESBO
Oggi sull’Isola sono rimasti meno di duemila migranti, in attesa di conoscere il loro destino. Vivono in un campo che è stato allestito ad una manciata di chilometri a nord del centro della città. Kara Tepe, Mavrovouni o Moria2. Lo chiamano in vari modi. «Non direi che questo campo è più bello, ma sicuramente la situazione è più gestibile. Adesso almeno non rischi di venire pugnalato anche solo per andare in bagno. C’è sicurezza». Ma quale sarà il destino di quest’isola? Nicolien risponde in base alla sua esperienza, quella di una donna che da vent’anni lavora nel mondo delle migrazioni. «Quando una rotta viene bloccata, le persone ne trovano una nuova. Lesbo ormai è impenetrabile, hanno messo in atto una serie di respingimenti massivi e c’è una massiccia presenza di navi della missione Frontex che pattugliano il nostro mare e che rispediscono indietro le persone. Ecco perché, adesso, la strada più percorsa è quella tra la Bielorussia e la Polonia». Si possono chiudere le rotte, ma non fermare la migrazione. «Le persone difficilmente torneranno a percorrere una strada vecchia, a intraprendere una rotta che sanno ormai chiusa - afferma -, ma non smetteranno mai di cercare una nuova strada per raggiungere il loro obiettivo. Mai».
Isabella Bossi Fedrigotti: “Gli uomini (e le donne)non cambiano”
di Raffaello Carabini A oltre quarant’anni dal debutto letterario, la scrittrice e giornalista trentina propone una gustosa raccolta di racconti dedicati a vari tipi di uomini, con vizi e vezzi, pochi pregi e molti difetti. Ma anche le donne che li amano...
La giornalista del Corriere della Sera, Isabella Bossi Fedrigotti esordì come scrittrice nel 1980 con Amore mio, uccidi Garibaldi, che raggiunse subito i primi posti delle classifiche di vendita. Con i successivi romanzi, raccolte di racconti e saggi - in totale una trentina di libri - ha ottenuto il Premio Selezione Campiello (con Casa di guerra del 1983, finalista anche dello Strega), il Campiello (con Di buona famiglia del 1991), il Basilicata (con Magazzino vita del 1996) e il Settembrini (con i racconti di La valigia del signor Budischowsky del 2003). È di poche settimane fa il suo ritorno in libreria con Tutti i miei uomini.
I dieci capitoli sono tutti scritti in prima persona e il titolo dice “i miei uomini”. Come mai questa scelta, che suggerirebbe quasi una lettura autobiografica?
Ho sempre amato scrivere in prima persona. Vari miei libri lo sono, perché riesco a esprimermi meglio, più direttamente, con più forza, con più sincerità. I “miei” del titolo, una parola che ha turbato diverse mie conoscenze, sono diventati miei perché ne scrivo. Tre sono più vicini alla realtà, più autentici, altri sono storie di amiche mie, me ne sono impadronita. Sono tutti dei piccoli puzzle, lo scrittore ha il dovere di inventare. Non posso fare dei ritratti come sono realmente, devo creare dei personaggi. Nell’insieme direi che sono tutti “inventati dal vero”, una formula che ho rubato al poeta Attilio Bertolucci.
Quando scrisse il suo ultimo libro, un romanzo in versi intitolato La camera da letto, il giornale mi mandò a intervistarlo sull’Appennino Tosco-Emiliano, in un paesino di villeggiatura montana estremamente semplice. Arrivo nella sua casa, trovo lui, la moglie, i mobili, le stanze, il paesaggio, esattamente come li aveva descritti nel libro. Allora gli ho posto la domanda che si fanno sempre i lettori: “Ma è tutto vero?” Lui mi ha risposto con un bel sorriso. “No, è inventato dal vero”. Una definizione che mi porto dietro da allora, perché si adatta anche ai miei libri.
Lei scrisse Il catalogo delle amiche poco più di venti anni fa, un libro dedicato a dieci tipologie di donne. Cosa le ha fatto decidere di analizzare l’altro lato della barricata?
Un po’ le letture, un po’ perché ci pensavo da tempo. Gli amici mi dicevano: “Perché non scrivi anche di uomini?”. Ricordavo che “le amiche” le avevo scritte in poco tempo, ero più giovane e un poco più svelta. Invece con gli uomini è stato un avanzare nella tundra con la neve, perché le donne le conosco, le guardo, ci parlo. Gli uomini, invece, sono rimasti un grande mistero: non è bastato arrivare alla mia veneranda età per capirli. Ogni volta che chiedevo agli uomini che si interessavano al mio lavoro mi dicevano: “Ma noi siamo molto più semplici di voi donne”. Lo direbbe anche lei immagino...
Ho proprio pronta la domanda. Noi uomini pensiamo spesso che sia più semplice capire cosa si nasconde dentro un buco nero della Via Lattea che l’universo femminile. Invece i suoi uomini sembrano quasi tutti dei fini psicologi, che conoscono e approfittano delle debolezze della controparte femminile, soprattutto la paziente voglia di assistere, proteggere, curare...
Dite sempre così: “Gli uomini sono molto più semplici delle donne, è tutto qui, è tutto sul tavolo, non c’è niente da nascondere, vogliamo questo, vogliamo quello”. Questa è la classica descrizione che gli uomini mi fanno di sé, anche quelli dotati di intelletto e profondità. In questo libro ogni uomo ha delle controparti femminili, alcune sono proprio sceme e si fanno imbrogliare dai loro partner. È un tratto però che ancora resiste, penso alle famose fidanzate degli uomini sposati che stanno da sole durante le feste, che nei fine settimana non possono telefonare; sono stranamente ancora numerose. Invece, di uomini così praticamente non ce ne sono: un uomo che si fidanza con una donna sposata resiste per un po’, ma poi, giustamente, desiste.
Lei dice di essere molto lenta a scrivere...
Sì, perché sono pigra. Metto ordine nell’armadio della biancheria piuttosto che scrivere. Devo chiamare a raccolta tutte le lezioni di disciplina per mettermi a farlo. E non ho mai scritto più di una pagina al giorno in vita mia. Per il giornale invece sì, ho scritto anche tre cartelle al giorno, per i libri mai. In più, oggi, avendo dei nipoti piccoli mi piace stare con loro, molto più che mettermi lì a covare un libro. Ogni volta che ne comincio uno ho la sensazione di dover scavare un tunnel con un cucchiaino da caffè, anche grazie ai miei ritmi lenti. Mi dico sempre: “Non ce la faccio, non ce la faccio”. Il fatto che ci sia riuscita una decina di volte non mi dà alcuna sicurezza. Non mi dice: “Tranquilla, anche se piano pia-
piano, ce la farai”, ogni volta mi prende lo sconforto.
Lei dice spesso: “È molto più divertente e facile fare il giornalista piuttosto che lo scrittore”. Quali sono le principali differenze e difficoltà dei due modi di scrivere?
Lo scrittore ha bisogno di silenzio e solitudine, che sono condizioni che non a tutti stanno bene. Io detesto la solitudine e il silenzio, mi piacciono, non dico il rumore, ma le voci, la presenza, la vivacità. Al giornale queste due condizioni non sono necessarie, anzi, al contrario, devi parlare con i tuoi colleghi per avere delle idee buone, per avere delle informazioni. E
poi c’è che la responsabilità, se scrivi per un quotidiano come è toccato a me, finisce il giorno dopo, invece con il libro non dico duri anni, però sta lì molto più a lungo. È più lieve il giornalismo, però l’allenamento quotidiano che offre - perché nei giornali devi scrivere tutti i giorni - è la palestra preziosa per la grande corsa che è la scrittura di un libro. Ti facilita il linguaggio, lo distende, lo migliora. Io non ho mai avuto paura della pagina bianca, dell’incipit, perché al giornale non puoi stare lì a cincischiare in cerca dell’attacco fulminante, ti devi tuffare. Non ho mai avuto questo problema grazie alla mia attività principale, che è stata quella che mi pagava lo stipendio, non certo la letteratura.
Per citare una canzone famosa le chiedo quali sono secondo lei “le stagioni dell’amore”? Cambiando l’età e il modo di essere delle persone cambia anche il modo di affrontarlo, oppure l’amore è l’amore sempre e comunque?
No, penso che l’amore in età, che viene oggi molto decantato, sia diverso, se non altro perché, come dice il coro dei miei amici:
“Andare a vivere insieme certamente no”, almeno potendoselo permettere. Si fanno viaggi per stare insieme ogni tanto. Ognuno ha i suoi figli e i suoi nipoti, e il tempo da trascorrere insieme è necessariamente ridotto.
Per cui il passo delle storie è più lento, più rilassato.
Ma può essere altrettanto profondo?
Forse sì, però c’è troppo vissuto, c’è troppa esperienza per farsi fregare, scusi il termine.
Come dice un’altra canzone e anche lei spesso “gli uomini non cambiano”. E le donne?
Anche le donne non cambiano. Forse un cicinin, come dicono a Milano, in più, se si mettono d’impegno. Gli uomini certamente non cambiano.
Le donne sono più coraggiose?
Penso di sì, lo sento dire spesso. Però, nel fuoco si buttano più facilmente gli uomini. In fondo io non sono un’esperta di uomini o di donne. Sono una scrittrice che inventa delle storie.
IL LIBRO
I racconti di Tutti i miei uomini (Longanesi, 160 pagine) sono una risposta a Il catalogo delle amiche, che Bossi Fedrigotti scrisse nel 1998. La scrittrice si rivolge in prima persona a dieci tipi maschili: il macho, il trasformista, il narciso, il salutista, il rubacuori e così via. Li tratta con ironia e nostalgia oppure con tenerezza e indulgenza, anche perché questi uomini conoscono a fondo la psicologia femminile e ne approfittano. Dice Fedrigotti, che nel 2019 ha ricevuto anche il Premio Fondazione Campiello alla Carriera: «Scrivere Il catalogo delle amiche è stata una passeggiata, mentre per questo “catalogo degli amici” ho spesso avuto la sensazione di trovarmi in un terreno aspro e ombroso, difficile da esplorare». A dimostrazione che non sempre è vero che gli uomini sono meno complicati delle donne.