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Slow flowers, fiori a km zero Manola Irroia
from Marzo 2022
by pay50epiu
SLOW FLOWERS, FIORI A KM ZERO
Nate negli Stati Uniti, le aziende agricole che si occupano della coltivazione locale di fiori di stagione si stanno facendo conoscere anche in Italia, lavorando in armonia con la natura
di Manola Irroia
L’ impatto ambientale delle filiere agroalimentari è ormai un tema diffuso, ma negli ultimi anni si è cominciato a parlare anche dell’industria globalizzata dei fiori e di quello che comporta in termini di pratiche inquinanti e condizioni di lavoro non eque. La prima ad occuparsene, nel 2007, è stata la scrittrice americana Amy Stewart, che nel suo libro, Flower confidential: the good, the bad and the beautiful, mette in evidenza i lati oscuri del settore. Da allora si è aperta una riflessione che nel 2013 ha dato vita al movimento “Slow flowers”, promotore della sostenibilità dei fiori a chilometro zero, coltivati seguendo il ritmo delle stagioni nel rispetto del territorio. L’ideatrice del progetto è stata l’americana Debra Prinzing, che comincia a lavorare per mettere in contatto coltivatori, fioristi e clienti con l’obiettivo di cambiare le pratiche di approvvigionamento dei fiori da parte di consumatori e professionisti, attraverso azioni di sensibilizzazione ed educazione. Negli Stati Uniti la filosofia “Slow flowers” è ormai affermata, ma anche in Italia cominciano a essere presenti realtà che si ispirano agli stessi principi. Nel Nord-Ovest, fra Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna, è nato un collettivo di sei diverse realtà, tutte ideate e gestite da donne, che producono fiori da taglio nel rispetto dell’ambiente e della biodiversità. E anche se il mercato nazionale è ancora nuovo, l’attenzione da parte dei consumatori è in crescita. «Avevo uno studio di architettura e il lavoro mi piaceva molto, anche se nell’ultimo periodo sentivo il bisogno di un’attività che rispettasse i tempi della natura, oltre che i miei - racconta Alessandra Milici (nella pagina successiva, in basso a destra), titolare di Victoria’s Urban Flower Garden, in provincia di Varese -. Poi, durante un viaggio a New York, ho scoperto le flower farms che producono intorno a Manhattan e ho capito che quel modello si poteva esportare anche qui».
Come ha cominciato?
Era il 2016 e, appena tornata in Italia, ho iniziato a sperimentare la coltivazione dei fiori, a studiarne le tecniche, a ricercarne nuove varietà. Due anni dopo ho messo in piedi la farm in un piccolo terreno ereditato dalla nonna. Inizialmente eravamo sei realtà diverse, qui al Nord; poi ci siamo unite in un collettivo, poiché condividiamo la stessa filosofia produttiva, e abbiamo deciso di aprirci anche ad altre realtà.
Quanto è importante comunicare questo nuovo modo di coltivare?
Molti di noi, come successo in passato con il cibo, non hanno coscienza
di quello che è il prodotto che arriva nelle nostre case. E anche il fiore, così come viene coltivato e commercializzato, normalmente non è sostenibile, perché proviene da posti molto lontani come il Kenya e l’Ecuador, viaggia per giorni nelle celle frigorifere e deve essere necessariamente trattato con prodotti chimici per mantenersi così come lo vediamo al momento dell’acquisto. Invece, credo si debba ritornare a qualcosa che sia concretamente bello, non solo da vedere.
Cosa coltiva qui?
L’anno scorso ho deciso di introdurre una sezione di piante perenni, poi ho una zona di rose, peonie, l’area delle bulbose e delle annuali. Durante l’autunno e l’inverno mettiamo a dimora quella che diventa la fioritura dall’inizio della primavera in poi. Per questo, se nei mesi più rigidi si trovano in commercio queste tipologie di fiori, vuole dire che sono d’importazione. Una volta che finisce la stagione della fioritura i campi sono completamente ripuliti e viene tutto compostato, perché questo è l’altro aspetto importante della sostenibilità. Il compost diventerà terriccio per le stagioni future. E si riparte poi con nuove semine.
È difficile comunicare con i fioristi e i clienti?
A volte sì, perché ci sono delle convinzioni radicate su certi tipi di prodotti consolidati. È più semplice rapportarsi col privato, soprattutto se arriva qui, perché c’è già una conoscenza di ciò che è la flower farm. «Ho sempre avuto una grande passione per i fiori, sin da bambina - racconta Martina Pagani (sopra, nella foto), titolare di Mirta Flower Farm, a due passi dal lago d’Iseo -, ma non conoscevo tutte le varietà particolari che poi ho scoperto appassionandomi alle realtà delle farm americane. Oggi, nella mia azienda, coltivo fiori recisi che vendo ai privati e ai fioristi, e organizzo anche eventi».
Quando ha deciso che la flower farm poteva essere il suo futuro?
Ho cominciato tre anni fa, prima sperimentando con le dalie e i bulbi dei tulipani che ordinavo dall’Olanda; pian piano ho deciso che volevo far conoscere fiori nuovi qui sul mio territorio e da un anno ho aperto l’attività vera e propria.
Quali sono le particolarità di questo tipo di coltivazioni?
Innanzitutto il rispetto della stagionalità: qui non troverete i tulipani fioriti a dicembre, per fare un esempio. Durante l’inverno sono poche le specie che fioriscono, e quindi ci dedichiamo alle composizioni con fiori secchi, pigne e bacche.
Come vi fate conoscere?
Oltre ad essere presenti sui social network, organizziamo workshop in sede, in modo che le persone possano venire a conoscere i fiori, sceglierli e magari creare le loro composizioni, oppure imparare le tecniche di coltivazione. Un’altra iniziativa che sta avendo un ottimo riscontro è l’abbonamento, una sorta di pacchetto per ricevere a casa - con cadenza settimanale o quindicinale - il proprio mazzo di fiori. Un’esigenza di tanti, soprattutto nell’ultimo periodo, quella di portare fra le mura domestiche un po’ di natura e di colore.
LA FILIERA L’industria globalizzata
Nel 90% dei casi i fiori che acquistiamo nei normali circuiti commerciali hanno viaggiato fino a 36 ore, sono stati conservati in celle frigorifere per giorni e trattati con agenti chimici per bloccarne lo sviluppo. I principali Paesi di provenienza sono Kenya, Tanzania, Etiopia e Colombia, dove non di rado il basso costo della manodopera influisce sui prezzi del prodotto. Per proteggere i diritti dei produttori locali nei Paesi in via di sviluppo sono nate organizzazioni come Fairtrade, che cercano di migliorare gli standard delle condizioni lavorative e le pratiche per la riduzione dell’impatto ambientale. Tra i fiori recisi richiesti dal mercato europeo, al primo posto ci sono le rose, che rappresentano fra il 30 e il 50% del totale dei fiori importati. Circa la metà delle rose che arrivano in Europa proviene dal Kenya.
LA NATURA È ARTE
A Bruno Petretto e al suo parco è stata dedicata anche una tesi di laurea, “Arte e natura nella magia di Molineddu”, di Francesca Iurato, una ricerca etno-antropologica sull’artista e sul suo spazio
di Winda Casula
Il suo parco si chiama Molineddu, si trova nelle campagne di Ossi, a pochi chilometri da Sassari, e negli anni è diventato il simbolo di una realtà artistica e sociale in cui la natura è protagonista indiscussa, e costringe gli artisti che accettano la sfida a confrontarsi con le stagioni, il clima, il continuo mutamento di uno spazio vivo. Per Bruno Petretto quello spazio di terra, rocce, piante, animali e arte è prima di tutto la casa dove ha scelto di vivere, ormai da oltre quarant’anni, con la porta sempre aperta agli altri, che si tratti di artisti, amici, o semplici curiosi. Classe 1941, Petretto è uno degli artisti più noti e stimati del panorama sardo, che negli anni ha saputo portare avanti una ricerca sui materiali vegetali sempre originale, in cui cortecce, pellame, frammenti di roccia, trame di foglie di palma e fichi d’India dialogano fra loro. «Ho cominciato nel 1970, poi nel 1975 ho fatto le prime mostre personali a Roma, in Via Margutta, alla Galleria il Saggiatore, al Trittico. E poi a Bologna, Ferrara, La Spezia. Ho sempre preferito le esposizioni personali, perché portare in giro un singolo quadro e metterlo in mostra in mezzo ad altri diecimila non dà la possibilità di far conoscere quello che si fa. Fosse pure che arriva a New York. Da quando ho cominciato a dedicarmi a questo spazio, mi sono mosso di meno, ma il mio sogno era proprio questo, che la gente arrivasse qui a vedere, e si sta avverando».
Quando ha capito di avere un rapporto speciale con la natura che poteva trasformarsi in opera d’arte?
Il mio contatto con la natura è stato sempre molto forte, sin da bambino, e prima di avere questo spazio lavoravo nelle campagne degli altri. Ho sempre sentito una grande attrazione nei confronti della terra, degli animali, delle piante, della pietra. Gli elementi naturali sono fonte d’ispirazione continua, e la bellezza sta proprio in questa crescita che apre a potenzialità infinite. All’inizio è stata una specie di provocazione, perché nella mia ignoranza iniziale consideravo banali tanti dei quadri che vedevo; già allora avevo in mente di fare qualcosa di diverso. La prima opera è stata un paesaggio di casette realizzate con la corteccia. Prima ho iniziato a lavorare materie vegetali, poi col tempo ho inserito la pietra, la pelle di animali. Agli inizi coloravo lo sfondo dove poi mettevo la trama di fico d’india, ma poi mi sono reso conto che colorare questa materia era come ucciderla. Col tempo ho imparato a dare ad ogni materia il valore e l’importanza che merita.
Come è nato Molineddu?
Da quando ho acquistato questo terreno fra le rocce, negli anni Ottanta, la mia casa è stata sempre un luogo di incontro, ma inizialmente qui arrivavano più che altro scrittori, come Gavino Ledda o Ignazio Delogu, e insieme di discuteva, si parlava. Le arti visive sono arrivate in un secondo momento, e la spinta decisiva è stata la frana del 1995, che ha lasciato degli enormi massi in questa campagna. Anziché spostarli, ho pensato di chiamare degli artisti per farli scolpire esattamente lì dove erano precipitati. Così è nato anche un appuntamento che si ripete da 24 anni, “Arte Evento Creazione”.
Qual è la risposta degli artisti coinvolti?
Qui hanno creato ed esposto artisti provenienti dall’Accademia di Belle Arti di Urbino, di Palermo, e da ogni parte del mondo. Oltre alle arti visive continuiamo anche a presentare libri, abbiamo compagnie di danza che vengono ad esibirsi, proiettiamo film. Sono l’unico a lavorare le materie naturali che vi dicevo, gli altri intervengono nello spazio ognuno con la propria arte, in modo diverso.
Come vive un artista immerso nella natura? Ogni mattina, oltre ad accudire gli animali, mi dedico alle piante, a creare sempre qualcosa di nuovo. Interrare una pianta per me è come fare un quadro perché la vedo inserita nell’ambiente e la guardo per le sue potenzialità in prospettiva. Le piante seguono il loro corso e noi possiamo usufruirne perché gli diamo la possibilità di svilupparsi e produrre, senza prevaricare la natura ma trattandola, come l’arte, con tutto il rispetto che merita.
Focus
ALLA RICERCA DELL’EQUITÀ
di Giovanna Vecchiotti
Una lunga fila si snoda davanti ad un portone ancora chiuso. In attesa ci sono anche tante donne, molte con una grande borsa in mano, che sperano di riempire. Sanno che quando il portone si aprirà un nugolo di volontari offrirà, a chi è in strada, beni alimentari di prima necessità per sfamare la propria famiglia. Da quando il Covid-19 ha colpito persone e Paesi, la vita di troppi è radicalmente cambiata. In peggio. Lo dicono le statistiche che snocciolano numeri impietosi: in due anni di pandemia si ritiene che 163 milioni di persone nel mondo siano entrate in stato di indigenza; 163 milioni di individui che si sono aggiunti ai 3,2 miliardi, che già nel periodo pre-emergenza sanitaria vivevano sotto la soglia di povertà. La crisi ha colpito in modo particolare le donne, il cui calo reddituale, solo nel 2020, è stato di 800 miliardi di dollari. E mentre i poveri sono diventati più poveri, i ricchi sono diventati più ricchi. Non a caso questa è stata definita “la pandemia delle disuguaglianze”; infatti, negli ultimi due anni, i 10 miliardari in cima alle classifiche mondiali dei “Paperoni”, hanno visto accrescere i loro patrimoni da 700 a 1.500 miliardi di dollari. Anche in Italia. Il numero dei miliardari italiani è cresciuto di 13 unità e il valore complessivo del loro patrimonio è aumentato del 56%, arrivando a quota 185 miliardi di euro alla fine dello scorso anno. Una povertà economica che si trasforma in povertà sociale, educativa, culturale; una povertà che la politica ha il dovere di contrastare, facendo sì che tra gli obiettivi primari dell’agenda di Governo vi sia l’equità sociale. Perché la dignità dell’uomo passa anche attraverso di essa.
Inchiesta 50&Più
ANZIANI O GIOVANI, CHI SONO I NUOVI POVERI
In Italia cresce il numero di persone che vivono in stato di indigenza. Il Covid, poi, ha accentuato questo status di diseguaglianza sociale ed economica che colpisce tutti, senza distinzione anagrafica
di Ilaria Romano L a crisi globale degli ultimi due anni, legata alla pandemia, ha avuto un fortissimo impatto sull’aumento della povertà in Italia. Nel 2019, fino a pochi mesi prima della diffusione del Sars Cov-2, il nostro Paese registrava un miglioramento della situazione economica dei soggetti più fragili, dopo quattro anni di costante perdita di reddito. Secondo i dati Istat di tre anni fa, le famiglie in condizioni di povertà assoluta erano 1,7 milioni, con un’incidenza pari al 6,4% del totale, rispetto al 7% del 2018, per un numero complessivo di 4,6 milioni di individui. La situazione non si presentava omogenea sul territorio nazionale, perché il Mezzogiorno scontava, come anche oggi, una percentuale più alta di popolazione povera con l’8,5% nel Sud e l’8,7% nelle Isole, rispetto al 5,8% del Nord-Ovest, il 6% del Nord-Est e il 4,5% del Centro. Nel 2019 la povertà assoluta colpiva un milione e 137mila minori, e accentuava le differenze di provenienza geografica, con il 26,9% di poveri fra i cittadini stranieri, contro il 5,9% di quelli italiani. Oggi questi dati includono un milione di persone in più, poiché i poveri assoluti sono passati da 4,6 a 5,6 milioni, con il 29,3% di incidenza fra la popolazione straniera e il 7,5% fra quella italiana. Numeri preoccupanti, che hanno raggiunto e superato quelli della crisi economica del 2005, evidenziando ancora una volta differenze territoriali fra Nord e Sud e le fragilità dei nuclei familiari con minori e over 75. Fra i senior, su una popolazione di circa 6,9 milioni di persone, oltre 2,7 presentano difficoltà motorie o patologie che non consentono una piena autonomia e, fra questi, 1,2 milioni non dispongono di un reddito ade-
guato a ricevere un aiuto per le attività quotidiane. Oltre 638mila anziani vivono da soli e più di 372mila convivono con altri coetanei. «Oltre ai tradizionali profili di povertà, nei quali rientrano anche gli anziani a bassissimo reddito, la pandemia ha messo in luce una nuova categoria di poveri, che già si stava delineando prima del Covid e che ora è emersa in maniera dirompente: quella delle giovani coppie con figli, sempre più spesso occupate ma con reddito insufficiente». Così Matteo Luppi, sociologo e collaboratore di Caritas Italiana, spiega a 50&Più la situazione attuale: «Da un lato c’è il tradizionale modello di povertà, con una popolazione marginalizzata, anziana, senza redditi da lavoro e con nuclei ridotti o monocomponente; ma si è verificato anche l’ingresso, non recentissimo, di nuovi profili, con situazioni acuite dalla pandemia, che riguarda giovani con figli minori, che hanno visto peggiorare le proprie condizioni di vita. In diversi casi si tratta di persone che lavorano, in modo regolare o irregolare, e questo la dice lunga sull’attuale modello italiano di contrasto alla povertà, che vede come principale strategia di uscita da questa condizione il mercato del lavoro, con tutte le complicazioni a esso connesse. Esiste dunque un duplice movimento, la sedimentazione dei profili classici della povertà, con la popolazione senior vulnerabile che combatte con risorse - non solo economiche - scarse, dall’altra un profilo emergente, con un’età media di 40 anni e un impiego».
Professor Luppi, è corretto parlare di nuovi poveri?
Quella di “nuovi poveri” è una definizione ridondante, perché nella letteratura internazionale se ne parla già da un po’. Si definiscono comunque i new social risks come contraltare agli old social risks, che riguardano l’evoluzione dei nuovi bisogni sociali, compreso il supporto al reddito lavorativo che sempre più spesso non basta, soprattutto se si considerano le famiglie monoreddito. La definizione sancisce il duplice binario della povertà.
La pandemia ha avuto un impatto sull’occupazione sotto diversi aspetti: le chiusure dovute ai periodi di lockdown, o il cambiamento apportato dallo smart working, hanno accentuato ulteriormente alcune disuguaglianze?
Ci sono lavori che si prestano allo smart working, e di norma sono quelli caratterizzati da qualifiche più elevate; altri, invece, non si possono svolgere da remoto e solitamente coincidono con quelli meno retribuiti. Interi settori, poi, non hanno potuto beneficiare di questo tipo di soluzione perché impossibile da realizzarsi: penso alla ristorazione o ai servizi, che sono stati quelli maggiormente penalizzati durante il lockdown. In ogni singolo ambito bisogna poi differenziare le situazioni occupazionali in base alla tipo-
pologia contrattuale, perché i più penalizzati sono stati gli occupati a termine, non vincolati dal blocco dei licenziamenti e quindi più soggetti alla perdita del posto di lavoro. Anche se è vero che il forte calo di dipendenti a tempo determinato, verificatosi durante la prima ondata, è stato in parte compensato dalla ripresa dell’estate 2020, la nuova fase di chiusure autunnali non ha poi consentito una ripresa costante degli impieghi.
Caritas ha attivato un monitoraggio sul Reddito di cittadinanza, allo scopo di analizzare non solo i dati sulla povertà, ma anche le risposte che sono state messe in campo per fronteggiarla. Quali sono innanzitutto le differenze fra Reddito di cittadinanza e il precedente Reddito di inclusione?
Le differenze principali fra le due misure sono il disegno e la filosofia con la quale ci si approccia alla povertà: il Reddito di inclusione è stato più marginale in termini di risorse impiegate, e si occupava della fascia più povera ed emarginata. Aveva quindi una forte integrazione socio-assistenziale, verteva principalmente sui servizi sociali comunali e sui bisogni dei nuclei familiari che fanno afferenza a questi servizi. Le risorse erano infinitesimali rispetto a quelle destinate al Reddito di cittadinanza, e così pure il numero dei beneficiari e gli importi che ricevevano. Col Reddito di cittadinanza si è assistito a un triplo aumento in termini di risorse destinate, di platea e di beneficio economico.
Il Reddito di cittadinanza è una misura utile a fronteggiare la povertà assoluta? Quali sono i punti di forza e gli aspetti da migliorare?
Il pregio del Reddito di cittadinanza è che, per la prima volta in Italia, sono state destinate così tante risorse a servizio della popolazione povera, cosa che in precedenza mai accaduta. Si tratta di una misura universalistica alla quale si accede su base Isee. Il suo limite, a mio avviso, è la filosofia di base con cui si affronta la povertà, così orientata verso il mercato del lavoro, a prescindere che questo possa essere recettivo o meno ai bisogni e alla domanda, e possa consentire l’uscita dalla povertà. Perché sappiamo che il working poor è un soggetto emergente, non solo in Italia ma in tutta l’Unione europea, dove aumentano coloro che, pur avendo un lavoro, restano al di sotto della soglia di povertà. Un altro difetto è la scala di equivalenza che viene usata per definire l’accesso e l’importo, che si definisce piatta perché, a differenza di altre, ha una crescita progressiva molto più orizzontale all’aumentare del numero dei familiari, e quindi avvantaggia in termini relativi i nuclei a bassi componenti, rispetto a quelli più numerosi. E nel contesto italiano sono le famiglie numerose le più esposte. Un elemento importante e recente in questa direzione è stato l’introduzione dell’assegno unico cumulabile con il Rdc, che ha permesso una maggior tutela a chi ha figli under 21. Un ulteriore elemento da modificare è il vincolo dei dieci anni di residenza in Italia, sul quale si è espressa anche la Cassazione. Un vincolo altissimo rispetto alle caratteristiche della popolazione povera, che esclude una fetta importante di bisognosi.
Collegare l’uscita dalla povertà assoluta solo all’offerta di lavoro non rischia di creare nuove disuguaglianze?
Un problema connesso a questa misura è l’impatto che ha avuto in termini di implementazione dei centri per l’impiego, che sono stati investiti di un ruolo fuori dalla loro competenza e di un enorme carico di domande di assistenza; in più, è stato richiesto un coordinamento tra i vari enti territoriali. Il Reddito di inclusione aveva aperto la strada in questo senso, ma
«La pandemia ha messo in luce una nuova categoria di poveri: quella delle giovani coppie con figli, sempre più spesso occupate ma con reddito insufficiente»
in quel caso, con numeri inferiori, c’era stata tutta la sperimentazione portata avanti da operatori e associazioni del sociale. Il Rdc, con numeri altissimi, è stato invece “calato dall’alto”, e accade che più della metà dei beneficiari non siano idonei all’impiego e debbano essere rinviati ai servizi sociali.
Riguardo alla popolazione senior, negli ultimi anni i dati hanno registrato una diminuzione di over 65 in condizioni di indigenza sul totale per fascia d’età. La pandemia ha modificato l’andamento?
Paradossalmente la popolazione over 65, per una questione puramente demografica, è in controtendenza rispetto all’aumento collettivo della popolazione in condizioni di povertà, e lo è almeno dal 2015. Questo accade perché fra i senior stanno entrando ora i baby boomers, nati dopo la Seconda Guerra Mondiale e fino agli Anni ’60, che hanno beneficiato - durante la fase di vita lavorativa - di una costante crescita economica, e che quindi hanno maturato contributi pensionistici rilevanti. Fino ad allora, parliamo di cinque, sette anni fa, la componente anziana era quella che pesava maggiormente sulla povertà assoluta, mentre oggi ha un’incidenza minore sul totale. Ovviamente questo non vuol dire che i senior non siano esposti, dato che circa la metà delle pensioni erogate non raggiunge i mille euro. Durante la pandemia hanno comunque resistito meglio di altre categorie e fasce d’età perché il loro reddito non era legato alle oscillazioni del mercato del lavoro. Ma, come abbiamo premesso, rientrano nei profili tradizionali di povertà che conosciamo meglio e che possiamo affrontare. Il problema più recente, in Italia, sono i nuovi profili dei giovani poveri, in un Paese secondo solo al Giappone per anzianità degli abitanti e con una previsione di crescita degli ultraottantenni da qui al 2070 del 280%, a fronte di un aumento di popolazione in età lavorativa di solo il 20%. La povertà non si affronta solo per fasce di età o in relazione all’occupazione, ma va trattata anche in termini di dinamiche intergenerazionali, con uno sguardo al lungo periodo.
Inchiesta 50&Più
UNA PANDEMIA CHE ACCRESCE LE DISUGUAGLIANZE
Per capire la reale situazione della povertà nel nostro Paese - e non solo - ci vengono incontro i dati di numerosi studi, documenti e rapporti. E il quadro che ne esce non è confortante
di Ilaria Romano
Idati e gli indicatori degli ultimi due anni, raccolti in numerosi e dettagliati rapporti, hanno evidenziato come la crescita della povertà in Italia sia stata accompagnata anche dall’acuirsi di tante forme di disparità sociale. Secondo le stime Istat, ad oggi sono quattro milioni le famiglie in condizioni di povertà assoluta, per un totale di 5,6 milioni di individui e, in termini di tipologie familiari, lo stato di disagio economico è strettamente associato al numero dei componenti: l’incidenza della povertà assoluta è del 20,5% tra i nuclei con cinque e più componenti, dell’11,2% tra quelli con quattro componenti e dell’8,5% tra quelli con tre. Le famiglie monogenitoriali povere raggiungono l’11,7% del totale. Si collocano sotto la media nazionale i livelli di povertà registrati nelle famiglie con almeno un anziano (5,6%) o tra le coppie over 64 (3,7%). L’istruzione continua a rappresentare, ancora più di prima della pandemia, un fattore che influisce sullo stato di deprivazione: dal 2020 a oggi, infatti, si sono aggravate in particolare le condizioni delle famiglie la cui persona di riferimento ha conseguito la licenza elementare o media inferiore. Il Rapporto Caritas Oltre l’ostacolo, su povertà ed esclusione sociale in Italia, mette in luce l’elemento educativo come fattore chiave per la ripresa, e conferma come il 2020 abbia segnato un netto peggioramento delle condizioni di vita degli occupati in posti lavorativi non specializzati. Un altro aspetto sul quale si sofferma è il dato della cittadinanza, che denota forti disuguaglianze fra italiani e stranieri residenti, ulteriormente aumentate. I dati nazionali rispecchiano l’andamento della situazione globale, come riporta un altro documento, il Sustainable development Goals, pubblicato nel luglio scorso, che rappresenta la fonte più autorevole per approfondire lo stato di attuazione dell’Agenda 2030 e dei suoi 17 obiettivi di sviluppo sostenibile. La pandemia ha abbondantemente accentuato le disuguaglianze, non solo economiche, rendendo più difficoltoso l’accesso al welfare. La crisi sanitaria ha peggiorato i divari sociali all’interno dei singoli Paesi e l’Italia non ha fatto eccezione. Nello studio di Francesco Armillei e Francesco Filippucci The heterogenous impact of Covid-19 from italian municipalities, uscito nell’agosto scorso, si evidenzia come la maggiore mortalità per il virus si sia registrata in quei comuni associati a livelli di reddito e di istruzione più bassi, e a una quota maggiore di occupazione nell’ambito dei lavori industriali, rispetto al commercio e ai servizi. Lo stesso smart working,
di cui si parla anche nel Rapporto Caritas, ha amplificato le disparità sociali, in primo luogo fra quelle categorie che ne hanno o meno beneficiato. In modalità “agile” ha potuto operare il 42,5% dei laureati, il 17,6% dei diplomati e solo il 3,4% di chi ha completato l’istruzione obbligatoria. Un altro elemento discriminatorio, anche a parità di accesso, è legato agli spazi abitativi, oltre che alla dotazione informatica, perché i nuclei più poveri sono caratterizzati da una più elevata incidenza di condizioni di sovraffollamento. Vedere il proprio reddito in calo e rientrare in una condizione di povertà per molti ha significato anche dover cancellare servizi essenziali, come le prestazioni sanitarie. A dirlo è il Rapporto Cerved 2022, sul Bilancio di welfare delle famiglie italiane, che ha rilevato come nel 2021 più della metà dei nuclei, il 56,8%, abbia rinunciato a servizi di assistenza agli anziani, e
il 58,4% ai servizi di cura dei bambini e all’educazione prescolare. Tre le motivazioni principali: la restrizione nella disponibilità dei servizi provocata dalla pandemia e il timore del contagio da parte dei cittadini, che hanno preferito rinviare visite ed esami specialistici; l’impoverimento economico, che ha comportato la necessità di fare scelte drastiche nel bilancio familiare; l’offerta giudicata inadeguata, soprattutto nel settore dell’assistenza agli anziani, ritenuto insufficiente da più del 60% delle famiglie. Chi non ha trovato risposte nel sistema di welfare si è dovuto adattare ad un nuovo assetto domestico, per prestare assistenza personalmente al familiare anziano o che necessiti di cure costanti, indipendentemente dall’età. Ad oggi, sono quattro milioni i senior che vivono da soli o con altri anziani, e rappresentano il 28,9% del totale. Nel 67,3% di questi nuclei familiari, l’assistenza è prestata esclusivamente dai parenti, senza l’ausilio di servizi. L’ultimo Rapporto Oxfam, La pandemia della disuguaglianza, rilasciato lo scorso gennaio, dedica un capitolo all’Italia e al mercato del lavoro alla prova del Covid-19, e mette in evidenza come il sistema occupazionale nazionale fosse già estremamente disuguale prima del 2020. Nel 2019, infatti, l’11,8% dei lavoratori occupati per almeno sette mesi l’anno era già povero, e quasi un terzo fra dipendenti privati, lavoratori domestici e professionisti presenti negli ar-
chivi Inps risultavano working poor. A contribuire a questa povertà lavorativa, che si stima in un reddito annuo che non supera i 10.800 euro, è la diffusione del part time, spesso involontario, la cui incidenza è triplicata dall’inizio degli Anni 2000. Inoltre, il ricorso al lavoro precario ha assunto un carattere strutturale, dato riscontrato anche nell’ultima “ripresa” del 2021, che si è contraddistinta per assunzioni con contratti a termine, la cui incidenza è fra le più alte d’Europa. Nel biennio della pandemia si è acuito anche il divario di genere, e le donne sono state più penalizzate nel mercato del lavoro, per la maggiore presenza in settori definiti “non essenziali” e quindi soggetti a chiusure e maggiori restrizioni, e per una più marcata carenza di rinnovi contrattuali, oltre che per un discorso legato alla cura familiare, dei minori e degli anziani, e dunque, a chiusura del cerchio, alla carenza di servizi di welfare. Il Rapporto Censis-Tendercapital, Inclusione ed esclusione sociale: cosa ci lascerà la pandemia, ha raccolto le opinioni dei cittadini alla fine del 2021. Il 24,7% del campione si è detto confuso, il 39% ottimista e il 36,3% pessimista. I più scettici sulla ripresa sono proprio i bassi redditi (40,3%), gli operai ed esecutivi (42,1%) e le donne (42,2%). Nel milione di nuovi poveri generato dal Covid (+21,9% rispetto al 2019) ci sono 532mila donne e 222mila giovani. Ad alto rischio povertà, nel protrarsi dell’emergenza, sono le persone senza risparmi: il 23,1%, che non dispongono di un fondo da cui attingere in caso di necessità. La povertà economica e culturale si riflette anche sulla connettività: il 16,5% degli italiani non è un utente internet, l’11,1% possiede una connessione poco performante e 27 milioni di persone hanno difficoltà a svolgere attività da remoto tramite i loro dispositivi, perché inadeguati. In generale, se c’è stata una “tenuta” delle famiglie, si deve non solo ai trasferimenti statali di denaro, circa 60 miliardi di euro dei quasi 93 che si calcola siano stati persi, ma anche alla redistribuzione del reddito avvenuta all’interno dei nuclei, soprattutto grazie ai 9 milioni di pensionati che hanno dato sostegno economico a figli e nipoti. Fra gli intervistati, il 92,8% ha dichiarato che per combattere la povertà vorrebbe comunque una politica più orientata alla creazione del lavoro e non alla moltiplicazione dei sussidi.
ASSOLUTA O RELATIVA. I PARAMETRI DELLA POVERTÀ
La soglia di povertà assoluta è la somma delle spese mensili per un paniere di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia, definita in base all’età e al numero dei suoi componenti, alla ripartizione geografica e al comune di residenza. Ad esempio, nel 2020, la soglia di povertà assoluta per un individuo singolo fra i 18 e i 59 anni, residente nella periferia di una grande città con più di 250mila abitanti o in un comune con più di 50mila abitanti nel Centro Italia, era di 761,02 euro. L’incidenza della povertà assoluta espressa in percentuale è il rapporto tra il numero di famiglie, anche monocomponente, considerate povere, e il numero totale di famiglie residenti. La povertà relativa, invece, è definita in base alla spesa media mensile per consumi pro-capite, dunque è unica per tutto il Paese. Nel 2020 il valore di riferimento per una famiglia di due persone era di 1.001,86 euro.
LE MISURE CONTRO L’INDIGENZA? TANTE, MA SENZA REGIA
Per contrastare disuguaglianze plurali, sempre più complesse e interconnesse, le istituzioni hanno programmato numerosi interventi, ma manca una strategia univoca di approccio al problema. L’economista Andrea Garnero (OCSE): cinque proposte da attuare subito per sconfiggere la sempre più diffusa povertà lavorativa
di Annarita D’Agostino P overi di lavoro. Poveri di educazione. Poveri di energia. Poveri estremi. Sono plurali, e sempre più complesse, le povertà che le istituzioni sono chiamate a contrastare e sulle quali la pandemia ha purtroppo agito da amplificatore. Se guardiamo al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, la lotta alla povertà è annoverata fra gli obiettivi prioritari ma non trova una definizione univoca, è piuttosto demandata a singoli investimenti. Fra questi, c’è il rafforzamento dei servizi sociali di prossimità, delle politiche abitative e di rigenerazione delle periferie per affrontare povertà materiale e degrado sociale; i bandi per il contrasto alla povertà educativa nel Mezzogiorno; le misure di riqualificazione energetica degli edifici per contribuire alla soluzione del problema del caro bollette. Anche la Legge di Bilancio 2022 (Legge n.234/2021) interviene a più riprese sul contrasto alle disuguaglianze: fra le misure, potenziamento dei bonus per pagare luce e gas; rifinanziamento del Fondo per la distribuzione di derrate alimentari agli indigenti e del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile; risorse per l’integrazione delle donne vittime di violenza che versano anche in condizioni di povertà. Riflettendo la mancanza di una regia unica che, negli anni, ha generato ritardi e vuoti nelle politiche sociali. Basti pensare che solo dal 1° gennaio di quest’anno, con l’entrata in vigore proprio della nuova Legge di Bilancio, sono stati definiti per la prima volta i livelli essenziali delle prestazioni sociali (LEPS) che lo Stato è tenuto a garantire a tutti i cittadini in condizioni di parità. In sanità, i livelli essenziali di assistenza esistono dal 2001. La Legge n. 234 si pone anche l’obiettivo di arrivare, entro il 2026, a
garantire l’assistente sociale ogni 6.500 abitanti ovunque in Italia. Un intervento a carico del Fondo nazionale per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale, che rappresenta il principale “salvadanaio” cui attingere per finanziare le misure programmate nel Piano nazionale per gli interventi e i servizi sociali di contrasto alla povertà. Attualmente in vigore per il triennio 2021-2023, il Piano destina 622 milioni di euro l’anno a servizi sociali professionali sul territorio, residenze temporanee e pronto intervento per i senzatetto, integrazione dei care leaver che, al compimento dei 18 anni, vivono fuori dalla famiglia di origine per un provvedimento giudiziario. In ogni ambito di lotta alla povertà, enti locali e Terzo Settore giocano un ruolo chiave. Ne rende l’idea il recente accordo siglato fra Inps, ANCI, Caritas e Comunità di Sant’Egidio nell’ambito del progetto “INPS per tutti”. L’iniziativa punta a rendere accessibili i servizi e le prestazioni assistenziali gestite dall’INPS anche alle persone in stato di povertà assoluta o senzatetto, attraverso le reti territoriali delle organizzazioni coinvolte. La fetta più grande delle risorse del Fondo povertà - fra i 400 e i 500 milioni all’anno - è destinata ai beneficiari di Reddito di cittadinanza per realizzare gli interventi dei Patti per l’inclusione sociale. D’altra parte, il Reddito o Pensione di cittadinanza è attualmente la misura unica, a livello nazionale, di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale. Gli altri sussidi nazionali tuttora in vigore sono o legati alla pandemia, come il Reddito di Emergenza (REM), oppure destinati a categorie particolari: è il caso della Carta Acquisti ordinaria per anziani dai 65 anni in su e bambini fino ai 3 anni. Con una dote di circa 1 miliardo di euro all’anno fino al 2029, la Legge di Bilancio 2022 rifinanzia anche il Reddito di cittadinanza, con alcuni correttivi per rendere più efficaci la partecipazione ai percorsi di emancipazione, i controlli, l’individuazione di una nuova occupazione. Ma oggi non sempre il lavoro basta per sconfiggere la povertà. Lo dimostrano i dati elaborati dal Gruppo di lavoro sulla povertà lavorativa in Italia, istituito dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, che di recente ha presentato una relazione dettagliata sul fenomeno e cinque proposte per contrastarlo. Quando parliamo di “lavoratori poveri”, parliamo di un quarto dei lavoratori italiani, che percepisce uno stipendio individuale inferiore al 60% degli importi mediani lordi, e di più di un lavoratore su dieci, che vive in una famiglia con un reddito disponibile inferiore al 60% della mediana. «La povertà lavorativa è il risultato di una catena di fattori», ci spiega Andrea Garnero, economista dell’OCSE attualmente in sabbatico di ricerca, che ha coordinato il Gruppo di lavoro. «Spesso nel dibattito pubblico si fa riferimento solo alla questione salariale - evidenzia -, ma non è l’unico né il più importante fattore da cui dipende la povertà lavorativa. Conta anche quanto si lavora, e infatti i lavoratori poveri sono soprattutto quelli con contratti a tempo parziale o a termine. Poi c’è la dimensione familiare, che ha rilievo sia per il numero dei componenti del nucleo sia per il reddito complessivo. E infine c’è il ruolo del sistema fiscale e di redistribuzione. Dunque, qualunque strategia di contrasto alla povertà lavorativa deve prendere in
«La questione salariale non è l’unico fattore da cui dipende la povertà lavorativa. Conta anche quanto si lavora. Infatti, i lavoratori poveri sono soprattutto quelli con contratto a tempo parziale o a termine»
considerazione tutti gli “anelli” della catena che genera disuguaglianze». Come si può intervenire concretamente per contrastare il fenomeno? «Il Gruppo di lavoro ha presentato cinque proposte, tutte immediatamente attuabili. A partire dalla sperimentazione di livelli minimi salariali - precisa l’economista - nei settori dove il rischio di povertà lavorativa è più elevato, prendendo come riferimento i minimi retributivi già fissati dalla contrattazione collettiva. Alla definizione di un salario minimo - prosegue - dovrebbe accompagnarsi un rafforzamento della vigilanza sul rispetto delle regole. Che non vuol dire solo incrementare l’invio degli ispettori del lavoro nelle imprese, ma deve essere documentale: basterebbe riorganizzare i dati disponibili e migliorare l’accesso alle informazioni in possesso delle amministrazioni». Per il team di esperti è da valutare poi l’introduzione di un in-work benefit, un sostegno economico per i lavoratori poveri. «Anche in questo caso - sottolinea - occorrerebbe partire dal razionalizzare i trasferimenti che già esistono, come il “bonus 80 euro” per i lavoratori dipendenti, il Reddito di cittadinanza, l’assegno unico universale per le famiglie, per disegnare un sostegno economico che vada ad integrare i redditi di chi lavora ma è povero, che oggi non esiste». Secondo i dati contenuti nella Relazione del Gruppo di lavoro, infatti, in Italia solo il 50% dei lavoratori poveri percepisce una qualche prestazione di sostegno al reddito rispetto al 65% dei working poor europei, anche se nel nostro Paese il fenomeno supera la media UE. Per l’esperto «la lotta alla povertà lavorativa non può poi prescindere da una maggiore consapevolezza e informazione di imprese e lavoratori. Un obiettivo che può essere raggiunto sia ideando dei “bollini di qualità” per le imprese che garantiscono salari dignitosi - come fa ad esempio il Regno Unito con il Living wage - sia aiutando i lavoratori a conoscere i propri diritti, facilitando la lettura e comprensione di buste paga e contratti collettivi e la conoscenza degli strumenti di sostegno al reddito disponibili. Ma anche - evidenzia - prestando maggior attenzione alle pensioni future. Questo vuol dire informare di più e meglio sulle prospettive pensionistiche, per far crescere anche una domanda in tale direzione da parte dei giovani che oggi si trovano a contare troppo sul sostegno delle famiglie. Il welfare familiare - per fare un esempio concreto, i “50 euro” che donano genitori e nonni - non può essere una soluzione sul lungo periodo». Da rivedere, infine, l’indicatore europeo della povertà lavorativa, che attualmente sottostima il fenomeno perché esclude dalle rilevazioni chi lavora per meno di 7 mesi all’anno e guarda alla dimensione familiare senza incrociarla con i redditi individuali. «Queste proposte - sottolinea Garnero - sono tutte interconnesse fra loro e non possono essere risolutive se considerate singolarmente». Alla stregua del problema della povertà in Italia: «Non può essere un singolo ministero ad occuparsi della povertà, perché quella lavorativa è legata a istruzione e formazione, alla famiglia, ai problemi macroeconomici di un Paese che è cresciuto molto poco negli anni. Come Gruppo di lavoro tecnico sulla povertà lavorativa, siamo partiti da cinque proposte concrete, ma è evidente che affrontare la povertà richiede una strategia più ampia, perché tutto è connesso. La povertà educativa di oggi è la povertà lavorativa di domani. E la povertà lavorativa di oggi è la povertà pensionistica di domani».
Inchiesta 50&Più
BOLLETTE SEMPRE PIÙ SALATE: È ORA DI CAMBIARE ROTTA
I rincari energetici mettono sempre più in difficoltà coloro che percepiscono una pensione minima e non solo. Così, si fa sempre più spazio una nuova disuguaglianza sociale: la povertà energetica
di Linda Russo R inunciare a farmaci salvavita o al riscaldamento? Pagare la bolletta della luce o l’occorrente per preparare un pasto? Sono interrogativi forti che alcuni cittadini italiani, purtroppo, devono porsi ogni giorno. Interrogativi che nell’ultimo anno si sono accentuati per tutti coloro che percepivano un reddito minimo e si sono trovati a fronteggiare l’aumento delle bollette di gas e luce. Cifre pari a 1.118 euro annui in più che, se comparate all’importo medio della pensione percepita nel nostro Paese (1.039 euro), evidenziano come alcuni pensionati debbano contare effettivamente su una mensilità in meno all’anno. Una situazione ancora più drammatica se prendiamo in esame gli oltre 5,3 milioni di pensionati che negli ultimi anni hanno avuto un reddito inferiore ai 1.000 euro mensili. Secondo i dati ufficiali ARERA (Autorità di Regolazione per Energia Reti Ambiente), negli ultimi 12 mesi per la famiglia media italiana si parla di 701 euro di rincaro per l’energia elettrica e 417 euro per il gas.
Il problema sociale della “povertà energetica”
Un problema che non riguarda solo i pensionati. Sempre più spesso, infatti, si sente parlare di povertà energetica, una questione complessa che colpisce milioni di persone in Italia e nel mondo. Il tema occupa un posto centrale all’interno dell’Agenda Europea (dove si parla di poverty energy o fuel poverty), ma è ancora difficile trovare una definizione comunemente riconosciuta. Il termine indica solitamente l’impossibilità da parte di famiglie o individui di procurarsi un paniere minimo di beni e servizi energetici, con conseguenze negative sul livello di benessere e di inclusione sociale. Chi vive in situazioni di po-
vertà energetica, infatti, spesso deve rinunciare a servizi di riscaldamento, raffreddamento, illuminazione e gas, con un forte impatto sulla sfera sociopsicologica. Non avere accesso ai servizi energetici molto spesso coincide con la difficoltà ad accedere ad altri servizi di base, rendendo i cittadini sempre più vulnerabili. Non poter usufruire di energia elettrica, ad esempio, può voler dire non possedere gli elettrodomestici per raffreddare o scaldare il cibo e quindi dover limitare molto la propria alimentazione. Senza considerare che la mancanza di gas o di sistemi di riscaldamento significa essere esposti più facilmente alle intemperie e al rischio di sviluppare malattie respiratorie o osteoarticolari.
La povertà energetica in Italia e in Europa
Nei Paesi in via di sviluppo si stima che la cifra di coloro che non hanno accesso all’elettricità si aggiri intorno a ottocento milioni. Le cause sono spesso una combinazione di redditi bassi, spese elevate per l’energia e una scarsa efficienza energetica delle abitazioni. In Europa, invece, secondo un sondaggio effettuato da Eurostat, l’8% della popolazione sarebbe in condizione di povertà energetica. Lo Stato che soffre di più è la Bulgaria, con il 27,5% dei rispondenti impossibilitati a mantenere le abitazioni adeguatamente riscaldate in inverno. Seguono poi Lituania (23,1%), Cipro (20,9%), Portogallo (17,5%), Grecia (16,7%) e Italia (11%). Va meglio, invece, in Austria (1,5%), Finlandia (1,8%), Repubblica Ceca (2,2%) e Olanda (2,4%). C’è da notare, però, che la maggior parte dei Paesi dell’Unione europea non ha saputo individuare o quantificare il numero di consumatori energetici vulnerabili e non ha adottato misuDal 24 al 28 gennaio si è tenuto Right to Energy Coalition, il forum europeo organizzato da Right to Energy che dal 2017 unisce sindacati, gruppi contro la povertà, fornitori di alloggi sociali, ONG, attivisti ambientali, organizzazioni sanitarie e cooperative energetiche in tutta Europa. Una coalizione che promuove una vera e propria campagna per affrontare la povertà energetica a livello locale e internazionale. L’obiettivo principale è proprio quello di raggiungere un sistema energetico che metta le persone e il pianeta prima del profitto, sostenendo così la lotta alla povertà energetica quale obiettivo del piano “Energia pulita” dell’Unione europea. Da cinque anni a questa parte, i membri di Right to Energy Coalition hanno anche attuato ristrutturazioni gratuite per le famiglie povere di energia e incluso i cosiddetti “poveri energetici” come attori chiave nel Green Deal dell’UE. Per maggiori informazioni: www.righttoenergy.org
re mirate alla lotta contro la povertà energetica. Per ovviare al problema, dal 2018 la Commissione europea ha dato vita all’Osservatorio della povertà energetica, in modo da analizzare e fronteggiare questa difficoltà nei vari Paesi. Il suo scopo è valutare, rilevare e diffondere le conoscenze e le buone pratiche per affrontare il problema. E proprio secondo nuove stime dell’Osservatorio, la percentuale di popolazione europea che convi-
ve con una situazione di povertà energetica sarebbe più alta di quanto dichiarato dall’Eurostat: di circa il 10%. Risulta, infatti, che in Europa 57 milioni di persone non riescano a riscaldare le proprie abitazioni durante l’inverno, 104 milioni di persone non possano rendere la propria casa accogliente durante l’estate e 52 milioni di persone paghino le bollette energetiche e le utenze domestiche in ritardo.
Le possibili misure di contrasto
Per questi motivi il contrasto alla povertà energetica è entrato di diritto tra gli obiettivi presenti nell’Agenda 2030 dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Una serie di azioni mirate dovrebbe garantire a tutti l’accesso a sistemi di energia convenienti, sicuri, sostenibili e moderni entro i prossimi otto anni. Tra gli interventi più significativi registrati a livello europeo in questo campo figurano alcune misure di sostegno al reddito delle persone e delle famiglie. Inoltre, sono previsti opere per il potenziamento e l’efficienza energetica di edifici e abitazioni tramite l’installazione di sistemi di riscaldamento, raffreddamento o impianti elettrici più efficienti. E in Italia? Secondo quanto dichiarato dal Presidente del Consiglio, Mario Draghi, i primi aiuti dovrebbero arrivare dal PNRR che, almeno inizialmente, servirà a sostenere crescita e stabilità. Sarà poi compito dell’Esecutivo lavorare a un nuovo provvedimento per calmierare gli aumenti di luce e gas. I nuovi interventi dovrebbero valere tra i 5 e i 7 miliardi e dovrebbero servire anche a rafforzare i cosiddetti “bonus sociali”. Nel frattempo, però, molti Comuni italiani hanno messo in atto una protesta simbolica dal titolo #Lucispente. Il 10 febbraio scorso, infatti, molti monumenti e uffici pub-
UN AIUTO DALL’OSSERVATORIO EPAH
Nel 2018 la Commissione europea ha lanciato il suo Osservatorio sulla povertà energetica. Si chiama EPAH (Energy Poverty Advisory Hub) e mira ad essere un punto di riferimento per i decisori politici. Proprio nel mese di febbraio, ad esempio, EPAH ha dato la possibilità ai Governi e alle organizzazioni dei 27 Stati Membri dell’UE di presentare una richiesta di assistenza tecnica qualora sentissero la necessità di ricevere supporto nel processo di lotta alla povertà energetica. I candidati scelti riceveranno fino a 9 mesi di supporto su misura da parte di esperti del team EPAH, per sviluppare un piano mirato contro la povertà energetica. Per maggiori informazioni: www.energy-poverty.ec.europa.eu/index_it
blici lungo la Penisola sono rimasti al buio. «Le risposte del Governo alle nostre richieste non sono sufficienti” - ha spiegato il presidente Anci (Associazione Nazionale dei Comuni) e sindaco di Bari, Antonio Decaro -. Per questo motivo molti Comuni del Paese spegneranno simbolicamente l’illuminazione di un edificio rappresentativo o di un luogo significativo per la comunità. Speriamo che in questo modo si possa comprendere a quali rischi si va incontro se non si interverrà presto con un sostegno adeguato a coprire almeno tutti gli aumenti previsti in questi mesi».
OLTRE LA PANDEMIA: PRONTI A RIPARTIRE
L’Europa sta rispondendo ai danni causati dalla pandemia con una serie di misure per ripristinare la stabilità economica e cancellare le diseguaglianze. Perché i ricchi sono sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri
di Anna Grazia Concilio
«N on possiamo dire che tutto sia finito, ma voglio evidenziare che la Regione europea ha la straordinaria opportunità di prendere il controllo della trasmissione (del virus, ndr). Abbiamo la possibilità di un lungo periodo di tranquillità». Sono le parole di Hans Kluge, direttore dell’Oms Europa, pronunciate in conferenza stampa a febbraio di quest’anno, per comunicare l’inizio di un lungo periodo di tranquillità grazie ai vaccini, soprattutto. L’Europa può, dunque, tirare un sospiro di sollievo a due anni da quell’annuncio che ha cambiato per sempre il volto del pianeta: era il 28 febbraio del 2020 quando l’OMS ha dichiarato “mondiale” l’epidemia da Coronavirus scoppiata in Cina nelle settimane precedenti. Da quel momento il Covid-19 è entrato nella vita di miliardi di persone, lo ha fatto stravolgendo la quotidianità di ognuno, minando la solidità delle famiglie, la stabilità del lavoro, costringendo uomini e donne a convivere con l’incubo di ammalarsi e morire. Lo ha fatto, soprattutto, dilatando incredibilmente il divario sociale: ricchi e poveri mai più lontani di così. Un dato su scala planetaria racconta un aumento del numero di miliardari registrato dalla Banca Mondiale e fornisce una fotografia puntuale delle disuguaglianze e delle nuove povertà: da 2.095 a marzo 2020, i miliardari sono diventati 2.660 nel mese di novembre 2021. Un esempio da oltreoceano: a Jeff Bezos (fondatore di Amazon) nei primi 21 mesi della pandemia si attribuisce un incremento patrimoniale di circa 81,5 miliardi di dollari. Di contro, leggendo i dati della Banca Mondiale a fine pandemia, sono 163 milioni i nuovi poveri con riferimento alla soglia di povertà di 5,50 dollari al giorno. Ma c’è di più. Come riporta il lavoro di ricerca condotto da Oxfam Italia, redatto a gennaio di quest’anno, dal titolo La pandemia della disuguaglianza, le stime recenti della Banca Mondiale proiettano il numero di nuovi poveri da Covid (con capacità reddituale o di consumo giornaliera sotto la soglia di 1,90 dollari) a 97 milioni nel 2021. Marzo 2020 è la data che ha cambiato per sempre la storia dell’Europa e del resto del mondo. Seppure non in maniera contestuale, esattamente due anni fa, gli Stati Membri dell’Unione europea hanno
avviato misure di contenimento per fronteggiare la pandemia. Questo è avvenuto anche nel resto del mondo, salvo alcune eccezioni: Bermuda, Botswana, Eritrea, Israele, Giamaica, Oman, Singapore, Turchia e Illinois, che hanno posticipato le chiusure al mese successivo. Invece, Bielorussia, Indonesia, Giappone, Malawi, Nicaragua, Corea del Sud, Svezia, Taiwan e alcuni Stati Usa non hanno dichiarato il confinamento. Il cosiddetto “lockdown” - termine anglosassone che indica il confinadei “nuovi poveri”, principalmente lavoratori precari che per la prima volta si sono visti costretti a chiedere aiuti economici. Dai dati forniti da Eurostat, nel 2020, nell’Unione europea si sono registrati 96,5 milioni di persone a rischio di povertà o esclusione sociale, pari al 21,9% della popolazione. L’Europa ha risposto all’emergenza adottando una serie di misure. Tra queste, “SURE”. Nel settembre 2020 è stato istituito lo strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccu-
pazione nello stato di emergenza, per sostenere gli sforzi degli Stati Membri atti a fronteggiare la pandemia. Corrisponde a 89,6 miliardi di euro l’ammontare del sostegno finanziario erogato ai 19 Stati che ne hanno fatto richiesta. Nel febbraio 2021, inoltre, è stato istituito il dispositivo per la ripresa e la resilienza, con l’obiettivo di fornire fino a 723,8 miliardi di euro di finanziamenti entro la fine del 2026 per attenuare l’impatto economico e sociale della crisi pandemica. Tra gli aiuti, anche “Next Generation EU”: uno strumento temporaneo per la ripresa da oltre 800 miliardi di euro, necessario a riparare i danni economici e sociali immediati causati dalla pandemia, e per creare un’Europa post Covid-19 più verde, digitale e resiliente. La pandemia, in Europa e nel mondo, non ha solo creato disuguaglianze economiche e quindi, inevitabilmente, sociali. Ha creato anche disuguaglianze di genere. Ancora un dato emerge dalle pagine della ricerca di
Oxfam Italia: le donne hanno subito gli impatti economici più duri dalla pandemia e perso complessivamente 800 miliardi di dollari di entrate nel 2020. Si stima che nel mondo siano 740 milioni le donne che lavorano nell’economia informale; il loro reddito è crollato del 60%. E non è tutto. La pandemia sta portando le donne fuori dal lavoro: il lockdown e il distanziamento sociale hanno avuto impatti devastanti.
mento - ha messo in ginocchio fette di popolazione e, va da sé, ha colpito le fasce più vulnerabili, compromettendo l’equilibrio economico degli Stati e consegnando alla povertà milioni di individui. Il digital divide, l’accesso ai servizi, la posizione geografica hanno esacerbato le differenze. E in uno scenario emergenziale si sono delineati i contorni Il dispositivo per la ripresa e la resilienza è stato istituito con l’obiettivo di fornire fino a 723,8 miliardi di euro di finanziamenti entro la fine del 2026, per attenuare l’impatto socioeconomico della crisi pandemica
MARIAPIA VELADIANO: LA VITA CON “IL TEDESCO”
“Il tedesco” è il morbo più temuto, quello che si annuncia con un iter sempre più drammatico per chi ne soffre e per coloro che gli stanno accanto: l’Alzheimer. Ne soffre la coprotagonista dell’ultimo romanzo della scrittrice trentina
di Ersilia Rozza
Mariapia Veladiano debuttò come scrittrice nel 2011 con il bel romanzo La vita accanto, premio Campiello e secondo classificato allo Strega. Da allora ha scritto saggi - il più recente è Oggi c’è scuola. Un pensiero per tornare, ricostruire, cambiare -, un giallo per ragazzi, una raccolta di riflessioni e altri quattro romanzi. Il più recente è Adesso che sei qui.
Ci racconti in poche battute i suoi precedenti romanzi, a cominciare dal pluripremiato debutto del 2011, La vita accanto...
La vita accanto ha inaugurato il mio filone narrativo, che è quello delle vite nascoste, problematiche, in un mondo che macina tutto. È la storia di una bambina brutta, o che si percepisce tale perché il mondo la vede così, che impara un poco alla volta a capire il suo valore. I passaggi sono la scuola, con la maestra Albertina - in quasi tutti i miei romanzi c’è una maestra o un maestro buoni, perché possono fare la differenza - e l’arte, perché scoprirà di saper suonare il pianoforte, pur senza diventare una concertista. Sceglierà una vita normale, possibile grazie al-
le relazioni. È un altro mio argomento, quello per cui la vita è degna di essere vissuta se costruita insieme agli altri. Il successivo romanzo è tutto diverso: Il tempo è un dio breve sviluppa il tema del male, del dolore innocente, partendo da quella che sembra la malattia gravissima di un bambino. Una storia quasi perfetta, invece, è la storia di un seduttore e di una sedotta che troverà la sua strada. Racconta la fragilità legata ai rapporti seduttivi di cui il mondo è pieno, con personaggi che brillano nel cielo del potere, della tv, dell’economia. Poi è venuto Lei, che è il diario di Maria, la madre di Gesù. È il punto di vista di una bambina che impara a capire che suo figlio è molto, molto diverso da come lo ha desiderato, perché nessuna madre vorrebbe che suo figlio morisse in croce. Una lettura umana di Maria, che, come succede spesso a noi, non riesce a capire cosa vuole suo figlio.
L’ultimo romanzo, invece, affronta un tema molto presente nella vita degli italiani, quello di avere un parente affetto dalla malattia di Alzheimer, “il tedesco”, come lo chiama la protagonista. Come mai ha scelto questo argomento?
Adesso che sei qui non è un romanzo autobiografico. Quando ho cominciato a scriverlo avevo appena perso la mamma in una residenza, e malamente. Per puro caso una giovane donna, sapendo che scrivo, mi ha raccontato una bella storia d’amore tra lei e la zia, che aveva curato in modo originale e intelligente, senza eroismi. Da quel rapporto possibile, bello perché vissuto, è nato il romanzo, che ha le sue regole e le sue invenzioni, quindi tutti i personaggi, le situazioni, l’evolversi della malattia, non sono quelli. Ho mantenuto il cuore di quel racconto, che era trovare un approccio alternativo a una malattia gravissima, che non ha una prospettiva di guarigione. Rispetto a come viene affrontata di solito, c’era questa possibilità di liberare il pensiero creativo, che io ho trovato bellissima e che ho cercato di rispettare in tutti i modi. Il rapporto tra la protagonista e la zia, il loro non voler rinunciare alla relazione, è stato mantenuto. La società ci sta abituando a pensare, poiché non c’è una guarigione, che l’unica soluzione sia l’allontanamento, per le difficoltà che abbiamo a stare con loro. Ma è oggettivamente così oppure la società non è attrezzata a far fronte a una situazione come questa? Non è un caso eccezionale: sono un milione e 400mila le persone che soffrono di malattie degenerative delle possibilità cognitive in età anziana, di cui almeno 800mila sono malate di Alzheimer. La società non offre spazi a persone che non siano standard, in buona salute, iperattive e che vivono fuori casa. Non per nulla il Covid, che ci ha costretti in casa, ha visto scoppiare moltissime relazioni, perché la casa non è pensata per vivere, ma solo per dormire e mangiare.
La scelta di Andreina è quella di far vivere a zia Camilla, nella maniera più piena, la sua “diversa normalità, perché comunque c’è una vita possibile per chi è malato”, che può essere “bella e piena, anche se diversa”. Una scelta coraggiosa e impegnativa...
Questa malattia non è un momento, presenta sempre una serie di sintomi. Sintomi che noi tendiamo a sottovalutare, perché ne abbiamo paura. Finché c’è un momento in cui succede una cosa devastante e allora non si può più ignorarne l’esistenza dell’Alzheimer. Da quel momento, accettare la fragilità permette di mettere in atto numerose strategie di aiuto. I malati perdono la memoria ordinata, non la memoria affettiva. Ricordano non chi sono le persone ma la loro bontà, ricordano i canti, le preghiere, la professione, certe abilità. Il tempo di questi malati deve essere il più possibile significativo, non possiamo lasciarli a non fare nulla o quasi. Dovremmo cercare un pensiero creativo, che ci permetta di uscire dalla logica del metterle su una sedia da sole oppure del lasciarle in una struttura. Le RSA sono concentrazioni di fragilità e, in quanto tali, moltiplicano quella individuale, non la risolvono. Lo abbiamo visto anche con il Covid.
Quanto è difficile, da parte del
malato e di chi gli vuole bene, accettare l’incontro progressivamente più forte con una malattia così devastante?
Chi si sta ammalando se ne accorge: è una delle crudeltà maggiori di questa malattia. È una tragedia. Non arriva mai tutto d’un colpo. Forse per gli altri è così, ma individualmente ce ne accorgiamo perché perdiamo la memoria, non sappiamo dove sono le chiavi, versiamo lo zucchero nella saliera e così via. E ci spaventa molto. C’è un’espressione americana che definisce l’Alzheimer “la morte che si è dimenticata indietro il corpo”. Terribile. È un po’ il terrore che suscita l’idea di esserci ancora senza esserci più. Il romanzo contesta questa convinzione. Lo spavento individuale è enorme, perché si sa che non c’è cura ed è progressiva, però Andreina fa capire che quello che resta della zia è zia, è una diversa normalità. Non ricorda i nomi, ma possiede una memoria intatta sul piano affettivo e sulle relazioni buone che può intraprendere. Anche se ci sono i vari livelli di gravità, da questo possono partire diverse strategie di cura, specie se c’è una rete di accudimento organizzata. Chi sta vicino al malato ha paura quasi allo stesso modo, ma è impensabile far fronte a questa malattia da soli. Nel romanzo faccio riferimento al Progetto Alzheimer. Nel Trentino esiste dal 2012 e permette, a chi tiene un disabile a casa, di avere a domicilio delle persone che possono offrire varie competenze per tre pomeriggi alla settimana.
Perché ha scelto delle badanti africane per zia Camilla?
È una scelta di realtà. Oggi le donne della cura o vengono da lì oppure dall’Est. Le badanti le scegliamo con criteri molto particolari. Devono essere donne che non danno problemi. Se sono sposate no, se hanno figli no, se hanno figli lontani no perché poi devono andare via uno o due mesi all’an-
ADESSO CHE SEI QUI
Zia Camilla, che ha fatto da mamma alla narratrice Andreina, convive con un ospite ineludibile, “il signor Alzheimer”. Adesso che sei qui racconta, in maniera affettuosa e comunicativa, una vita vissuta nonostante questa presenza, sempre più offensiva e offuscante. Un percorso condiviso con due governanti africane prima e poi con le “ragazze” del Progetto Alzheimer, che aiutano la zia a rimanere “sveglia, non lucida, ma sveglia, e si potevano fare le cose. Tutte le cose che lei era ancora in grado di fare”. Innanzitutto a ricordare, momenti, congiunti, emozioni, che aprono il romanzo a una coralità viva e amabile, e poi a regalare a tutti, lettori compresi, il senso di vivere la vita nel tempo presente - come dovrebbe essere - per tutto quello che può dare.
no, se sono troppo anziane no perché non sono forti, se sono giovani no perché non sono esperte. È un processo di selezione, ma anche di sfruttamento, perché si prende quella che serve e non ci facciamo carico delle loro vite. Andreina, invece, sceglie quasi casualmente: per la prima è colpita dal fatto che è piena di vita, può dare gioia ed energia alla zia; per la seconda è invece il fatto che sia una ragazza madre con due bambini al seguito, che vengono ospitati anche loro e che aiutano con la loro vivacità e disponibilità la zia. In Italia viene considerato normale che, quando c’è una malattia grave in casa, sia un problema di famiglia e ci deve essere un altro che si sacrifica, quasi sempre la donna. Una vita problematica chiede il sacrificio di un’altra vita. Ma dove sta scritto? Ci dev’essere una dinamica di responsabilità sociale, collettiva. Non può essere quella la risposta istituzionale. Che invece dovrebbe essere di corrispondenza, di condivisione. Siamo un po’ schizofrenici oggi. Da un lato e giustamente consideriamo uno scandalo la morte giovane e quindi auspichiamo di arrivare nell’età anziana, ma quando poi si arriva alla fragilità dell’età anziana non sappiamo come reagire, come supportarla.
Il suo ultimo libro, però, è Oggi c’è scuola, un saggio sulla realtà scolastica attuale. La situazione non è proprio rosea...
La guardiamo tutti con un po’ di preoccupazione. Credo ci sia ancora molta difficoltà, però è veramente importante rifuggire da due retoriche. La prima è dire “sono giovani, ce la faranno”. È sbagliato perché non tiene conto del fatto che siamo di fronte a due generazioni che non hanno conosciuto limiti nella loro vita e la pandemia li ha scaraventati giù da questa inconsapevolezza. Non è facile scendere dal trono, anche se ce li abbiamo messi noi. L’altra è rifuggire dal dire “adesso vi diciamo noi cosa fare”, perché in realtà molto va fatto insieme, ascoltando veramente ciò di cui hanno bisogno. Potrebbe essere un momento di grande crescita, ma anche una tragedia se li lasciamo soli. Loro ce la possono fare se noi, genitori e nonni, siamo con loro».
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