Celestino sospeso

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CELESTINO

SOSPESO VINCENZO GAMBARDELLA


Capitolo primo

Non è vero che san Vincenzo non è mai stato a Napoli, c’è stato c’è stato, e camminava tutto contento per la città che si spandeva nelle piazze grandi, antistanti il mare, o si restringeva nei budelli dei vicoli, così stretti che uno da una finestra all’altra si poteva passare un cuscino, o un paio di mele, o uno sguardo, o semplicemente una luce, sì, una luce! La luz, come diceva san Vincenzo Ferrer che era spagnolo. A proposito della luce, là, in Vicolo Cupo, il sole non ci arrivava mai, oppure se ci arrivava, ci arrivava per traverso, grazie al riflesso di un vetro, di uno specchio (visto che la luce elettrica non esisteva al tempo di san Vincenzo), o di un oggetto luccicante. – Volete un po’ di luce? – chiedeva Casimiro rivolto al palazzo di fronte. – Mi serve un po’ di luce – diceva la buonanima di Teodoro, che si perdeva gli occhi dietro a un vestito di raso. – Eccovi la luce! – diceva Casimiro D’Addio, che sentiva il sarto che si lamentava, persino quando respirava. Fuori c’era un sole accecante ma dentro a Vicolo Cupo 7


non si vedeva che penombra, penombra fitta e densa, quasi fosse una polvere cosparsa. – Anch’io ci avrei bisogno – diceva il signor Eugenio che nel basso della sua casa trafficava per aggiustare una bambola rotta. – Ve la do io la luce – rispondeva la suora Gelmina dalla parte del convento, e illuminava quel laboratorio buio e sacrificato. In conseguenza di questo accostare e orientare stipiti e battenti, il vicolo era tutto un ruotare di cardini e spalancamento di finestre, dal lato dei palazzi e dentro le case, sui ballatoi, i tetti e i campanili. Gli occhi di san Vincenzo, al loro passaggio, registravano miriadi di riflessi, sequele di lampi, varietà di bagliori, accompagnati dalle puntuali grida dei richiami. – Rezamos – disse san Vincenzo, che in italiano significa “preghiamo”, e s’inginocchiò davanti all’edicola della Vergine, perché per ogni chiesa o nicchia che incontrava, si fermava a pregare, o a recitare un Gloria al Padre. – Ooohh. – Chi è? Stavolta era la contessina Carlotta che sospirava dall’interno della sua casa, e Celestino Minutolo, operaio e vetraio, la vedeva, mentre lavorava sull’impalcatura di un palazzo all’ultimo piano della costruzione. Non gli pareva 8


vero di vederla e di stare in mezzo a quel balletto di spostamenti e segnali luminosi, perciò non se lo fece ripetere due volte quel sospiro, quindi pigliò il sole nel vetro, lo catturò proprio nel centro, tenendolo ben inquadrato e calibrandolo sulla facciata del palazzo. La luce dorata saltellava, si muoveva a sobbalzi, incontrava una colonna e la scavalcava, una bifora e la superava, un davanzale e lo aggirava. La luce scorreva sulla superficie muraria e segnava un percorso rettilineo, in cerca della sua meta. – Colpito! – gridavano due ragazzini dal fondo del vicolo, due scugnizzi che facevano a gara a chi centrava meglio un bersaglio col sistema degli specchi, e della luce riflessa. – Mo’ fallo tu. – Dai! – Ho vinto io! Celestino si sporse un po’ a guardarli, poi ricominciò nel suo intento, ma quella distrazione gli costò cara perché i battenti della finestra di Carlotta si erano chiusi e sigillati, e non c’era verso di vederci niente. – Ma che caspita! – disse Celestino e si rammaricò. – La solita sfortuna. – Prueba prueba – cioè “prova prova”, disse san Vincenzo da basso, che aveva seguito la scena stando fermo nei pressi dell’edicola benedetta. 9


– Coraje coraje – che significa “coraggio coraggio”, disse ancora, ma più sbracciandosi e a gesti che facendosi sentire. Celestino non capiva. – Insisti! – gridò il Santo in italiano, e indicò la finestra della graziosa, accompagnando il gesto con un sorriso. Incoraggiò di più quel sorriso che le parole di san Vincenzo, e così il nostro operaio-vetraio non si perse d’animo: prese qualche pietruzza, qualche scheggia d’intonaco e incominciò a tirarle sulle imposte della contessina. Toc e poi toc. I colpi andavano a segno ed echeggiavano leggermente nell’atmosfera del budello. Toc, poi di nuovo toc. Tutto il tempo questo toc toc. – Ma chi è? – venne fuori una donna, una megera, che si chiamava Saturnia. – E chi deve essere – rispose un vecchio affacciato. – Ancora quello dei vetri? – chiese Saturnia. – Sì, sì. – Ma non si stanca mai? – continuava a chiedere quella. – Che volete farci, è innamorato. – Meglio una canzone – disse lei. – Blem blem blem, l’innamorato spera – disse l’uomo, ironico. – Don come-vi-chiamate, parlate voi che siete vecchio. 10


– Embè? – Voi state sempre a guardare, cosa v’impicciate? – Ci ho le mie ragioni. – Sarebbe a dire? – Vi dico che oggi succede qualcosa, me lo sento, ad esempio guardate quel monacone. La donna guardò accigliata. – Monaco’ – gridò l’uomo. San Vincenzo fece un gesto di saluto. – E che ve ne importa? – disse la donna. – Qualcosa ci deve fare là – disse l’uomo, – sennò che ci sta a fare, ognuno sta al mondo per un motivo. – Ah, voi siete troppo filosofo per me... Meglio una serenata. La donna si mise a cantare come cantavano le lavandaie del Vomero. – Non ci fate niente, piuttosto ci vorrebbe il canto di un’allodola, chessò di un fringuello. – Ah, ho capito – disse la donna e si mise a cinguettare. – Ma che avete capito? Un fringuello vero – fece l’uomo. – Un passero, va bene? – disse lei. La donna prese una gabbietta, ed espose gabbietta e passero fuori dal balcone. – Canta, canta pe’ lo innamorato – disse lei. L’uccellino non cantava. 11


– Avete visto? Gli avete fatto mettere paura. – Mo’ è colpa mia... Vi dico che oggi succede qualcosa, me lo sento! – disse lo spettatore. – I vostri metodi non funzionano. – Io dico che ci vorrebbe qualcosa di artistico, di poetico, insomma. La donna entrò in casa e ne uscì con il suono vibrante di un liuto di quelli dei cantastorie, che però era scordato. Tra-tra-tra... – Voi siete pazza – disse l’uomo affacciato. – Vedete che quella giovane si dà una mossa. – Ci vuole qualcosa di forte, di forte, che colpisce i sentimenti – disse lui. Per tutta risposta la donna posò il liuto e uscì con pentole e piatti che faceva percuotere fra loro. – Ci manca solo questo strazio – disse il vecchio. – Ci avete delle altre idee? – Forse con dei versi poetici. – Ah, sì? L’uomo cominciò a recitare: – Zeza, nenna mia, che stai ridenno a fare, sul cuore mio tutto squagliato, e dirimpetto all’ammore mio... – Guardate che lo vedo instabile quel giovane sull’im12


palcatura – lo interruppe Saturnia. – Sei un poco tondolella, liscia, morbida e gentile, hai un occhio che è ’na stella... – Non vorrei insistere ma... – intervenne di nuovo la donna. – Sprofilato hai lo nasillo e la voccuccia di cerasa da dove esce ’no risillo, che te fa consolà... – Sentite che vi dico, serenata, fringuello, liuto, pentole o piatti, non vorrei che voi mentre recitate la poesia quello intanto si ammazza – disse la donna. – E perché? – Ve lo dico io, ce l’ha scritto in faccia. – Non vi preoccupate che lo tengo sotto controllo. – Guardate che vi dico, che quello si sporge troppo per cercare la sua amata. – Ve l’ho detto che è innamorato. – Ma che fa? Attenzione! All’improvviso aaaaaaaaahhhhhhhh... Celestino piombava giù di un metro, ma che dico, di due metri, e più sotto: tre metri, quattro... più in basso, più giù, con un volo a capofitto nel vicolo più alto e più stretto di Napoli, oltre che più cupo, che era talmente profondo che diventò un 13


precipizio per Celestino. Giù di un altro metro, giù ancora, più in basso, verso il fondo. Lo videro che cadeva Saturnia, l’uomo affacciato, la buonanima di Teodoro, Casimiro, il signor Eugenio, suor Gelmina, i due scugnizzi, e la contessina Carlotta che spalancò le finestre per il troppo clamore. – Dio mio salvatelo! – gridò lei. San Vincenzo non credeva ai suoi occhi e con la mano aperta, scagliò il suo grido di salvezza contro la caduta del giovane. – Uuuuuuuuuuhhhhhhh... – fece la folla per la sorpresa. Celestino era immobilizzato nel cielo, come se delle corde lo tenessero legato mani e piedi, e stesse appeso con quelle... Sì, ma dov’erano? Chi le aveva inventate? Di che materiale erano fatte? E da dove erano arrivate? Nessuno le vedeva. Quello che si sapeva era che Celestino stava là sospeso, anche lui spalancato come il balcone della sua amata, e si girava intorno strabiliato, lui più strabiliato della stessa gente che lo guardava, che lo fissava da sotto e che aveva gridato: “Facite qualcosa!... Salvatelo!... Uh puveriello!”. E via di questo passo. – Eeeehh, ma chi mi tiene? – diceva lui. – Ma che sto in paradiso? E dopo: – Faciteme scendere! E dopo: – Io so’ disgraziato! 14


E di seguito: – Salvatemi, salvatemi! – Ma tu sei salvato! – gli dicevano in coro. – E allora fatemi scendere – rispondeva lui. Insomma ci voleva un nuovo intervento per liberare il giovane dall’aria, e farlo scendere moderatamente per terra, sano e salvo. – Facitelo scendere! – si rivolgevano tutti a san Vincenzo. – Completatelo sto miracolo! – Quello sta là! E là rimaneva, salvato, sì, ma appeso.

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un vicolo cupo dove non passa un filo di luce, una graziosa contessina che sospira alla finestra, un ragazzo innamorato sospeso nel vuoto e una compagnia di matti pronta a risolvere il mistero.

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9 788899 103279

Vincenzo Gambardella (Napoli, 1955) vive a Milano e insegna materie artistiche alle scuole medie. Ha pubblicato tre romanzi: Seduto sulla tempesta (Marietti, 2006), Il cappotto istriano (Marietti, 2008) e Vinicio Sparafuoco detto Toccacielo (Ad est dell’equatore, 2014). Celestino sospeso è il suo primo libro per ragazzi. 9 788899 103248

Euro 10,00 ISBN 978-88-99103-25-5

9 788899 103255

www.piccolacasaeditrice.it


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