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poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

mensile - anno 2 numero 4 - aprile 2008

3 euro

Colombia Alla sorgente della rivolta Paesi Baschi Stati Uniti Italia Nepal Mondo

Radici consapevoli Body of War Stranieri in banca di Marco Marcocci Morire di lavoro Voto all’ombra dell’Himalaya Afghanistan, Algeria, Kenya, Paraguay

Gino Strada

Le mie elezioni

Il settimo fascicolo dell’atlante: Sri Lanka



Certo, la gente comune non vuole la guerra: né in Russia, né in Inghilterra e neanche in Germania. È scontato. Ma, dopo tutto, sono i capi che decidono la politica dei vari stati e, sia che si tratti di democrazie, di dittature fasciste, di parlamenti o di dittature comuniste, è sempre facile trascinarsi dietro il popolo. Che abbia voce o no, il popolo può essere sempre assoggettato al volere dei potenti. È facile. Basta dirgli che sta per essere attaccato e accusare i pacifisti di essere privi di spirito patriottico e di voler esporre il proprio paese al pericolo. Funziona sempre, in qualsiasi paese Hermann Göring

aprile 2008

mensile - anno 2, numero 4

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Matteo Fagotto Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Stella Spinelli Vauro Senesi Naoki Tomasini Alessandro Ursic

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Giorgio Gabbi Paolo Lezziero Sergio Lotti Marco Marcocci Claudio Sabelli Fioretti Rocco Santangelo Gino Strada Gianluca Ursini

Progetto grafico Guido Scarabottolo Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Relazioni esterne Marco Formigoni

Hanno collaborato per le foto Cristiano Bendinelli Andrea Pagliarulo/Prospekt Samuele Pellecchia/Prospekt Rocco Santangelo Matt Shonfeld Ellen Spiro/Body of War

Redazione e amministrazione Via Meravigli 12 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Amministrazione Fax: (+39) 02 80581999 Annalisa Braga peacereporter@peacereporter.net Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 31 marzo 2008

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Meravigli 12 - 20123 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Pubblicità esclusiva Sisifo Italia s.r.l. Via Don Luigi Soldà 8 36061 Bassano del Grappa Tel: (+39) 0424 505218 Fax: (+39) 0424 505136

Foto di copertina: Guerrigliera delle Farc Cordigliera delle Ande colombiane, 2007. ©Matt Shonfeld

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gni giorno i bollettini della Nato, o dell’Isaf, o di Enduring Freedom ci raccontano di azioni militari di terra e di aria. Cioè rastrellamenti o bombardamenti su villaggi afgani. Ogni giorno ci raccontano la favola dei nemici colpiti, dei talebani sconfitti, dei pericolosi terroristi snidati. E ogni giorno i nostri giornali e le nostre televisioni ignorano che in quel Paese, dove l’Esercito Italiano ha la sua bella parte di responsabilità, vengono massacrati bambini, donne, vecchi e uomini innocenti. O meglio, colpevoli. Colpevoli di essere afgani, magari del sud, magari di pelle e di pelo più scuri degli altri. E allora meglio ammazzarli da piccoli, o meglio ammazzarne le donne. Sai mai che quei piccoli crescano, sai mai che quelle donne mettano al mondo altri futuri pericolosi nemici. Come faceva Erode, come abbiamo già fatto con i pellerossa, con gli indios, con gli ebrei. Isaf, Nato, Enduring Freedom sono esattamente la stessa cosa: una banda di assassini che vanno a sterminare una popolazione solo perché non ha nessuna intenzione di farsi rapinare del suo uranio, delle sue preziose gemme, dei suoi metalli rari, della sua terra, preziosa perché vicina alla Cina, preziosa perché scorciatoia nel trasporto della nostra benzina. Noi siamo parte di questa banda di assassini, e solo questo fatto ci dovrebbe garantire - a tutti, sia chi agisce sia chi sta zitto a vedere o a fingere di non vedere - una tremenda maledizione, se le maledizioni fossero cosa reale. Ci stiamo comportando esattamente come si comportavano i tedeschi durante il terzo reich. Intorno a loro l’orrore, ma meglio fare finta di nulla. Che ci potremmo fare del resto? Stiamo combattendo i talebani, ci spiegano, perché sono oscurantisti, pericolosi, terroristi. Non fini e colti come quelli che da noi, lo vedi?, alla fine si convertono pure. Menzogne. Maledetto chi le racconta, maledetto anche chi ci crede. La Nato, l’Isaf, Enduring Freedom, i Paesi che compongono questa santa alleanza, fanno affari ogni giorno con regimi che in confronto quello dei talebani era un faro di progressismo. Proteggono e armano dittatori di ogni specie. Addestrano e organizzano bande di assassini pari loro. Basta, basta prenderci per i fondelli. Noi sappiamo. E abbiamo le prove delle vostre menzogne, della vostra ipocrisia grondante di sangue e assetata di danaro sporco. Non crediamo nelle maledizioni: se fosse, vi malediremmo, voi e i vostri complici. Quel che possiamo fare è prendere l’impegno di non darvi respiro. E di segare le gambe alle vostre menzogne come voi segate quelle delle donne, degli uomini, dei bambini che state sterminando in nostro nome. Paesi Baschi a pagina 10

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Colombia a pagina 4

Migranti a pagina 24

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Usa a pagina 14

Italia a pagina 18, 22 3


Il reportage Colombia

Alla sorgente della rivolta Dalla nostra inviata Stella Spinelli

Quarantasei anni, magrissimo, folti baffi neri e sguardo vigile. Schivo e sospettoso, sembra di poche parole, ma se decide di aprir bocca ha un’oratoria che incanta. Si chiama Jairo*.

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l suo castigliano è corretto e fluente, fatto di pause e ricco di metafore, infarcito di dogmatismo, ma anche di esperienze di vita nell’Amazzonia colombiana. Siamo nel cuore del verde Caquetà, la regione meridionale da sempre confine ultimo di civiltà e sicurezza. Da qui in poi, hic sunt leones e guerriglia. Perché è in questa immensa foresta che le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) hanno preso vita, plasmando pensieri e azioni da rivoluzionari al ritmo placido e insistente dei grandi fiumi, le arterie navigabili di una selva meta e rifugio dei fuorilegge, scrigno inespugnabile. È questa, da oltre quarant’anni, la sorgente di quella rivolta armata che mira a sovvertire il potere costituito, considerato causa imperdonabile delle ataviche ingiustizie sociali che costringono la maggior parte dei colombiani a vivere di stenti. È qui la matrice di una rivoluzione che sembra destinata a durare ancora a lungo, nonostante i tentativi veri o presunti di trovare un accordo di pace. “Pace? - chiede divertito Jairo – vi sembriamo vicini alla pace? Guardatevi attorno”. Le piccole strade sterrate che formano le vie di questo agglomerato di case in mezzo al nulla assolato e umido sono zeppe di uomini in mimetica: soldati del battaglione anti-guerriglia che da quattro anni presidiano l’area. Con un blitz militare alla Rambo, nel 2004 invasero la zona, spinsero alla ritirata le Farc e costrinsero intere comunità a sfollare. Da allora, in questo centro urbano per decenni amministrato dal marxismo dei guerriglieri si respira un’atmosfera di estrema contraddizione. “La guerriglia sembra non esserci più, ma che non si illudano, è ovunque e comunque”, ripete metodicamente Jairo, sussurrando. Siamo in zona di guerra, dunque, ma i combattimenti non si vedono. I corpo a corpo fra soldati e guerriglieri avvengono all’ombra viscida della selva, a pochi chilometri da qui, ma lontani abbastanza perché la giungla assorba rumori, odori e morte. Fra le colorate casette in legno del caserío, invece, la battaglia è d’altro tipo: è psicologica, fatta di paziente resistenza alle costanti violazioni dei più basilari diritti civili. È il braccio di ferro fra i militari governativi piombati nella vita di centinaia di famiglie contadine nate e cresciute in territorio Farc. “Hanno militarizzato le nostre vite. È dal 2004 che sopportiamo questa violenza. Ma non è così che conquisteranno le nostre menti. Non è così che espugneranno la zona. Si comportano da occupanti stranieri ed è così che li percepiamo, quindi non ci avranno mai. Solo con innovazioni sociali, coltivazioni alternative a quella della coca, che qui da sempre regna sovrana, le cose cambierebbero. Ma a nessuno dei potenti interessa che le nostre vite migliorino e quindi ci puntano addosso mitra e sguardi di odio. La nostra unica speranza continua a restare la guerriglia”, sbotta ancora il piccolo uomo tutto d’un pezzo. Ragionamenti lampanti, che la dicono lunga: Jairo si è rivelato, è un uomo delle Farc. Non indossa mimetica e tanto meno il kalashnikov. La sua arma è la parola, il suo ruolo mantenere attivi appoggio, con4

vinzione e fede nella rivoluzione. È grazie a uomini come lui che la guerriglia continua a fare proseliti nelle aree rurali di tutto il Paese: “Gli infiltrati sono l’asso nella manica dell’esercito rivoluzionario più longevo del mondo”, gongola il campesino tutto d’un pezzo, parlando in terza persona, quale estremo tentativo di non far saltare la sua labile copertura. “In realtà gli assi sono due, miliziani e narcotraffico”. Una voce arriva improvvisa e blocca lo sfogo del piccolo miliziano. Il fiume in piena di Jairo è deviato bruscamente dall’arrivo del giovane maggiore del battaglione antiguerriglia, che da un mese ha il comando di tutte le operazioni dell’area. Spunta da dietro l’angolo della monumentale chiesa, scortato da un gruppo di uomini armati e composti. Due passi verso di noi e l’uomo Farc cade nel silenzio, poi con una scusa si congeda. Sguardo basso, saluta cordialmente e se ne va. Il maggiore non pare sorpreso. È così che la gente accoglie i militari: con fredda cortesia di facciata. “Lo so che qui ci odiano”, spiega con tono pacato. Vengono da anni e anni di convivenza con gli altri. Per loro siamo occupanti”. Ha una faccia pulita dalla pelle olivastra, occhi e capelli scuri. Il suo sguardo impostato tradisce una non naturale attitudine al comando. È amante dei libri di storia e dei film di Hollywood. A casa ha moglie e una figlia di tre anni. Cerca di tenere in mano le redini dell’assurdo villaggio, sospetta di tutto e di tutti, ha individuato infiltrati e simpatizzanti dei rivoluzionari, compreso il baffuto oratore, ma non ha nessuna prova, quindi fa buon viso a cattivo gioco. Almeno alla luce del sole.

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ome Jairo non ha perso occasione per elencare le malefatte dell’esercito, così il maggiore Edgar ne approfitta per snocciolare la propaganda anti-rivoluzionaria degna del Presidente Uribe. “Terroristi, ecco cosa sono. Hanno fatto cose che hanno macchiato per sempre la loro stessa natura di esercito del popolo. Ed è solo grazie al controllo sul mercato della coca che sono riusciti a racimolare montagne di soldi per finanziarsi. Qui fino a pochi anni fa era un mercato di pasta di coca a cielo aperto”, precisa scandendo le parole con lenta gestualità della mano destra. “La marea di denaro facile che hanno amministrato ha inquinato le loro menti. Sono tanti i capi Farc che hanno tradito la causa dandosi alla macchia con sacchi pieni di plata revolucionaria, la tassa che le Farc fanno pagare. Sono un branco di corrotti, ormai”. Un monologo che nessuno ha il coraggio di interrompere e che il maggiore osa pronunciare solo perché tutt’intorno non c’è più anima viva, se non i suoi uomini, posizionati in mucchi sparsi. La gente si tiene alla larga. “Non ci mischieremo mai con quelli là”, è la frase che spiega un atteggiamento diffuso, dettato non solo dalla fedeltà alla Guerriglieri delle Farc. Selva colombiana 2006. ©Matt Shonfeld


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causa rivoluzionaria, ancora molto radicata nel Caquetà, ma anche dalla necessità di evitare problemi. Chiunque sia sospettato dalla guerriglia di vicinanza con l’esercito rischia grosso. E i miliziani, che tutto sanno, non esitano a denunciare gli “infami”. L’accusa di essere un informatore equivale a una condanna: una volta pronunciata, o scappi o sei morto. “Noi siamo semplici contadini, ma abbiamo le nostre idee politiche – raccontava poco prima un anziano, tenendo banco in un capannello di concittadini riuniti sotto il porticato della sua vecchia casa – siamo comunisti, che male c’è? Questo non fa di noi dei terroristi”. La situazione è profondamente complessa, nessuno spazio per schematiche conclusioni. “Siamo tutti colombiani – spiega il maggiore, gambe larghe, mitra in spalla – eppure sembriamo provenire da pianeti differenti. Questa è la Colombia, un’accozzaglia di gruppi armati, idee divergenti, voglia di riscatto, sete di vendetta. Vivendo a contatto con questa gente provo a solidarizzare con le loro condizioni di vita misere, difficili, ma non capisco come possano pensare che un branco di delinquenti come le Farc siano la via d’uscita a tutto questo. Solo lo Stato può portare cambiamenti sostenibili per mezzo degli investimenti sociali che ha promesso. Le Farc non sono una speranza. E che faccia tosta! Cercare il riconoscimento politico internazionale!” incalza il maggiore rassicurato dalla musica assordante sparata dagli altoparlanti della piazza che isolano la conversazione. “Come possono pretendere lo status di belligeranti quando tengono sequestrati dei civili? Ah, quanto sono lontani ormai dalla loro ideologia. In queste condizioni non possono resistere, perché la gente non li appoggia più come una volta. E la manifestazione del 4 febbraio a Bogotà lo dimostra: in massa per dire basta alle Farc. Una svolta. Politicamente sono tagliati fuori e, dopo il colpo al cuore del loro stato maggiore, anche militarmente traballano”.

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l militare non usa toni trionfalistici, ma è soddisfatto mentre racconta l’attacco che il suo esercito ha sferrato il primo marzo all’accampamento guerrigliero, uccidendo Raul Reyes, il numero due, la faccia più nota del gruppo rivoluzionario, il loro portavoce. Pondera bene le parole: “Individuarlo e ucciderlo è stata un’impresa eccezionale. Era l’ideologo più intransigente che le Farc abbiano avuto. Cercava uno scambio fra gli ostaggi e i loro camaradas prigionieri nelle carceri di Stato, ma non cedeva di un passo sulle condizioni. Uccidere lui equivale a sbloccare la situazione. Nel bene o nel male. Può anche essere che reagiranno militarmente abbandonando ogni idea di accordo, ma dubito abbiano la forza per farlo. É più probabile, invece, che a lui succeda una persona più aperta. E comunque, dal punto di vista militare, non ha senso analizzare il blitz contro Reyes alla luce della liberazione degli ostaggi. Aver liberato sei civili da anni prigionieri è stato un gesto unilaterale delle Farc che non ha coinvolto il governo. Li hanno sequestrati loro e liberati loro. Militarmente è irrilevante: nessuna strategia distensiva, nessun cessate-il-fuoco” spiega, ascoltato a bocca aperta dal fedele scudiero, un sergente medico affabile e sorridente. “Quello contro Reyes è un grande colpo. E per noi un grande successo. Ma adesso si va avanti”. Poi un accenno alla scottante questione della violazione dei confini ecuadoriani, che ha scatenato una grave crisi internazionale ora rientrata. “I primi a violarli sono i guerriglieri – glissa, mentre il sergente accenna una smorfia di approvazione, guardandosi attorno - Si rifugiano da tempo lungo il rio San Miguel, frontiera naturale con il Putumayo, ma nessuno ha gridato allo scandalo per questo. A me interessa solo il lato pratico, ossia che mai più potranno dire che non abbiamo la forza sufficiente per infliggere gravi colpi al loro Stato maggiore. Le valutazioni politiche le lascio a palazzo Narino. E se dovesse accadere che il Venezuela ci dichiarasse guerra, sarebbe peggio per i venezuelani. Noi siamo abituati da sempre a combattere, loro no. Durerebbero al massimo quattro anni”. È molto convinto della sua analisi, della forza inarrestabile del suo esercito, della fine vicina delle Farc, ma i giovani volti dei soldatini che perlustrano la zona, i loro sguardi ingenui, i sorrisi accennati abbracciati a fucili di ultima generazione, sembrano suggerire un’altra verità. Quell’apparecchiatura sofisticata, il loro addestramento made in Usa (fedele e prezioso partner di Bogotà in questa guerra colombiana), il training psicologico a cui sono stati severamente sottoposti li rendono capaci di sostenere una guerra simile? Qui non ci sono regole. E se la selva amazzonica è un vero incubo: campo 6

visivo ridotto a un metro e mezzo, terreno sconnesso, condizioni meteorologiche pessime. Se fra la fitta vegetazione ogni combattimento si trasforma in un corpo a corpo da togliere il fiato, avere la meglio nella selva urbana è anche peggio. Il sospetto è alimentato dall’incertezza, la tensione è nutrita di disagio. In questa terra, la convivenza fra soldato e contadino è improbabile, forzata e non porta a nulla. La gente non è libera in casa propria, sopporta perquisizioni e controlli ogni volta che entra e esce dal villaggio. Deve render conto di quanto riso compra e di quanto platano. Tutto quel che arriva da fuori è ispezionato. Il blocco economico è totale. Senza sgarri. E poi interrogatori continui, inseguimenti.

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uesta è la percezione dello Stato che si ha negli agglomerati urbani sul rio Caguán. Le poche infrastrutture che ci sono le ha pagate e costruite la guerriglia. Dal governo solo soldati e prepotenza. Nei primi sedici mesi dell’operativo militare, che rientra nel famigerato Plan Patriota adesso passato alla fase Victoria, l’esercito ha assassinato dodici persone, dato alle fiamme ventitré case e minacciato molte famiglie. Bastava il sospetto per scatenare reazioni incontrollate. Adesso, grazie alle denunce fatte dai contadini a associazioni internazionali e alla chiesa cattolica, molto presente nella regione, l’esercito ha scelto un altro modus operandi: più rispetto e qualche investimento economico nel campo di educazione e salute. Che per adesso restano sulla carta, però. “Gli investimenti sociali? Stanno arrivando”, assicura il maggiore. Ma la gente resta scettica. Jairo, nel suo monologo, aveva puntato il dito anche contro questa questione: “Noi diamo un sincero benvenuto a tutto quello che è investimento sociale da parte dello Stato, perché anche questa è Colombia, anche noi paghiamo le tasse, anche noi siamo cittadini colombiani. Però, se c’è una struttura civile come il Comune messa lì per amministrare e coordinare, perché questi progetti statali stanno arrivando solo per mezzo dei militari? Qual è il vero scopo? Forse ripulire la loro reputazione? Trasformare i carnefici in benefattori?”. Incalzato su questo tema, il giovane maggiore mostra un po’ di imbarazzo, ma non si tira indietro: “In effetti abbiamo fatto molti sbagli, lo ammetto. Molti miei commilitoni si sono comportati male con la gente. Hanno usato violenza, mostrato aggressività. Ma stiamo cambiando e teniamo più in conto i diritti umani. O per lo meno sappiamo cosa sono. Prima c’era molta ignoranza anche fra i militari”. Poi il rumore di un elicottero spegne le sue parole. È in zona per consegnare i rifornimenti alla miriade di soldati sparsi nell’area. Il maggiore sente il richiamo del dovere. Sparisce in una nuvola di afa e mimetiche. E torniamo a essere circondati da bambini curiosi, in mutande e canottiera, e gente perplessa. “Correte correte! È arrivata la pappa”, grida ridendo sonoramente Jairo, tenendo in braccio un bambino spettinato e sorridente. Paziente, ha atteso a dovuta distanza la partenza dei militari e ora si avvicina, passo sicuro: “Li vedo molto più tronfi da quando hanno ucciso Raul. Non si rendono conto che cambierà molto poco” afferma, serio, posando a terra il piccolo Luis. “A livello nazionale e internazionale si crede che le Farc siano un movimento comandato da un gruppo ristretto di persone: fatte fuori quelle, fatte fuori le Farc. Ma non è così. La forza della guerriglia sta nella base e nell’obiettivo: la presa del potere per una Colombia più giusta. La lotta prosegue, nonostante la perdita di un grande capo”. Abbassa lo sguardo, sospira, riprende: “Bogotà finge di non sapere che l’unica via certa per la pace è una seria politica di investimenti sociali, che pongano fine alle disuguaglianze disumane che piagano il nostro Paese. Se il diritto alla salute, all’educazione, alla dignità civile di ogni colombiano venisse finalmente garantito verrebbe meno la ragion d’essere della guerriglia. Ma è una politica che non lascia spazio alle avidità e agli interessi personali, quindi mai verrà perseguita. E la guerra continuerà”. Il sole amazzonico acceca, martella e impedisce di andare oltre. Le verità restano plurime, quaggiù più che mai: non rimane che ascoltare e percepire. Impossibile capire. Unica certezza, l’incerto. Unica regola, fare attenzione a come si parla e con chi: ésta es Colombia. * Per motivi di sicurezza tutti i nomi usati in questo reportage sono di fantasia. La divisione antiguerriglia dell’esercito colombiano in azione nella Selva amazzonica. Colombia 2008. ©Cristiano Bendinelli


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I cinque sensi della Colombia

Udito Il ronzio prepotente degli elicotteri militari che regolarmente sorvolano fattorie, caseríos, veredas e campi coltivati lungo il rio Caguán, spingendosi fino al rio Sunsiya, e poi giù dove la selva si fa fitta. La guerra rompe l’atmosfera ovattata dell’Amazzonia, riportando, bruscamente, alla realtà colombiana. Il rumore della motoretta, implacabile e puntuale: sono le 23, l’orario prefissato per spegnere il generatore e l’addetto passa nel paese silenzioso a bordo di una due ruote malandata. Quello è il segnale: tutti a letto o si dovrà cercarlo a tentoni. Qui la luce è concessa per cinque ore al giorno. Non si sgarra. L’impatto ovattato dei suoni della selva, che tutto assorbe, ingoia, divora.

Vista Le sfumature delle mimetiche dei militari, che tentano di confondersi con i mille colori della selva. Ma il sole, che filtra faticosamente nella vegetazione, tradisce ogni loro sforzo, facendo brillare le armi pesanti e ingombranti che indossano a tracolla.

Il verde brillante e unico della pianta di coca, che nonostante la famigerata guerra al coltivo lanciata da Bogotà e Washington continua a essere coltivata, rigogliosa. La luce del suo colore è inconfondibile.

Gusto Il delicato sapore del cacao, mischiato alla cannella, made in Remolino del Caguán. È il frutto della coltura alternativa alla coca lanciata da padre Giacinto Franzoi, missionario della Consolata. Tostata al punto giusto, ha un aroma inconfondibile e un gusto ricco di personalità. È il Chocaguán, fiore all’occhiello del villaggio amazzonico. Il frutto del platano, simile alla banana, ma più grande, duro e dolciastro, immancabile nei piatti semplici dei coloni. Frutto della terra, consistente e polposo, va a braccetto con le zuppe e con la carne. Pezzo forte, il patacón, platano fritto nella pastella. Il gusto della plastica che si trasmette all’acqua contenuta nei sacchetti monodose. Un’altra assurdità colombiana, l’ennesima: in un’area ricca di fiumi e ruscelli, l’unica acqua bevibile è da comprare e lascia molto a desiderare. L’unico acquedotto della zona lo ha costruito la Chiesa, ma non c’è depuratore.

Olfatto La gasolina che i coqueros colombiani usano per impastare l’estratto della foglia di coca e arrivare così alla pasta, usata quale moneta di scambio per merci e alimenti. L’aroma pungente e nauseabondo del repellente usato dai militari e fornito da un’azienda farmaceutica rigorosamente statunitense. Oleoso e piacevole al tatto, emana, una volta spalmato, un odore flebile ma persistente. È l’unica via d’uscita all’aggressione violenta degli insetti amazzonici. Il ribollire della terra caliente inzuppata di pioggia, dopo un tipico temporale subtropicale. Sale nelle narici e ne prende possesso.

Tatto L’acqua fresca e oleosa del rio Caguán, unica via di comunicazione e arteria della regione. Mista a terra e rifiuti. Non c’è rispetto, non c’è educazione civica. Il fango melmoso e traditore della selva nella stagione delle piogge, che risucchia animali e cose, ingannando persino gli esperti muli da soma. Si nasconde sotto uno strato di foglie e bacche. Il pelo ispido e duro del paziente mulo, ricchezza del campesino. 9


Il reportage Euskadi

Radici consapevoli dal nostro inviato Angelo Miotto È poco distante dalla cattedrale del Buen Pastor, in una via di San Sebastian, quartiere Amara. Si scendono trenta scalini, si apre una sala da pranzo. I tavoli, a ferro di cavallo, sono tutti occupati.

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il pranzo per salutare José Luis Elkoro, membro della mesa nacional di Herri Batasuna. Alubias, fagioli, e filete, bistecca. Con patate. È il momento del caffè. Si sentono passi affrettati sulle scale, qualche grido. Nella sala le posate di fermano a mezz’aria, entrano una decina di ertzainas, polizia autonoma basca, le divise rosse e blu, i caschi, passamontagna che lasciano visibili solo occhi e naso. Manganelli, fucili antisommossa con palla di gomma, un foglio in mano. José Luis Elkoro li deve seguire, deve andare in carcere per apologia di terrorismo, perché ha contribuito a diffondere un video dell’organizzazione armata basca Eta (Euskadi Ta Askatasuna, Paese basco e libertà). Era l’Alternativa democratica, una proposta di inizio di dialogo politico, veicolata pubblicamente da Herri Batasuna (Unità popolare). Nel ristorante uno scambio di insulti, parenti e amici costruiscono un muro umano di fronte ai poliziotti. Spintoni, tensioni, due donne schiaffeggiate con violenza. Alla fine la trattativa: Inigo potrà bere il caffè, poi però dovrà seguirli. Il rumore del cucchiaino che gira nella tazza, in un silenzio irreale, quasi un fermo immagine. Poi la pellicola riprende a girare. La detenzione, le proteste, le grida, i calci al cellulare della polizia che trasporta l’uomo in carcere a Martutene. Era il dicembre 1997. Un anno dopo José Luis fu rilasciato, in piena tregua di Eta, in uno scambio funzionale al momento politico. Al governo, allora, c’era la destra di José Maria Aznar. Fine 2007. José Luis Elkoro ritorna in prigione, questa volta accusato di appartenenza a Eta per le sue idee politiche, socialiste e indipendentiste. Herri Batasuna non c’è più, si è trasformata in varie sigle elettorali lungo il trascorrere degli anni, fino al 2003, quando sotto il nome di Batasuna, Unità, è stata messa fuori legge per iniziativa parlamentare grazie alla Ley de partidos, voluta e scritta da due partiti, i socialisti e la destra dei popolari, per mettere alla berlina un movimento politico. Il suo arresto è drammatico. Torna in carcere con undici anni di più e, senza complimenti, il medico del carcere gli annuncia che è malato di cancro. Per questo può lasciare la cella. Frastornato.

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amminare per le vie di San Sebastian può essere piacevole. I palazzi signorili, le strade strette del casco viejo, le taverne e i bar con i bancali ricchi di pintxos, le tapas basche per tutti i gusti, il porto e la Concha, la splendida spiaggia a forma di conchiglia che disegna la baia, con un isolotto nel mezzo. A monte splendide ville, là dove Francisco Franco passava l’estate e navigava sul suo legno privato, l’Azor. La luce di un cielo sempre mosso e del mare capace di violente mareggiate si riflette sulle finestre. Sono ampie, per catturare la luce del giorno. Ci sono vie e posti, però, che parlano di assenze. I luoghi di attentati, i marciapiedi ripresi nelle foto con medici che cercano, invano, di rianimare vittime della violenza politica. E palazzi, appartamenti, che erano animati da una quotidiana e normale attività politica che oggi non c’è più. Un problema di maggioranze e minoranze, un conflitto politico radicato, gli estremismi della violenza armata e della repressione militare che si confrontano, ormai, da più di cinquanta anni senza un vincitore chiaro e con una vittima designata: la società civile. E dal 2003 una parte, ridotta ma significativa, della società che per esprimere le proprie idee è stata spinta nella clandestinità. “Non diciamo il nostro nome quando chiamiamo dal cellulare”. Miren, occhi 10

scuri come i capelli, ha l’espressione di chi non riesce a capacitarsi di quello che sta accadendo. “Se devo convocare una riunione, faccio un giro di telefonate e ci diamo appuntamento per un caffè”. Poi le scappa un sorriso: “Non avete idea di quanti caffè abbiamo preso in questi ultimi anni!”. Miren è una portavoce di Udalbiltza, un’istituzione nata nel 1999 con un’architettura politica molto semplice: è un parlamento formato dai consiglieri comunali eletti nei Paesi baschi - in territorio spagnolo e francese - e della Navarra che si riunivano per creare in forma embrionale una sintesi ‘nazionale’ delle sette provincie basche rivendicate storicamente dagli indipendentisti. Udalbiltza discuteva e votava su fatti concreti: costruire una cassa comune per dedicare fondi alle realtà più depresse, coordinare lo sviluppo dell’insegnamento dell’euskera, la lingua basca, sviluppare dinamiche decisionali che scardinassero la divisione territoriale e amministrativa attuale. Dal 1999 Miren vive con una spada di Damocle sui suoi scuri capelli. Perché il giudice istruttore spagnolo Baltasar Garzón ha costruito un teorema accusatorio (processo 18/98+) secondo cui, secondo lo storico italiano Giovanni Giacopuzzi, “solo l’accettazione dello status quo costituzionale, che nega non solo l’indipendenza ma anche l’autodeterminazione, può garantire che una opzione indipendentista socialista sia considerata parte di Eta “. In base a questo teorema sono stati chiusi quotidiani, settimanali, una radio, associazioni a favore dell’amnistia dei prigionieri politici, le organizzazioni giovanili indipendentiste, sono state criminalizzate fondazioni per la disobbedienza civile, per l’insegnamento della lingua basca, per la gestione economica e di supporto ai familiari dei prigionieri. Il processo è andato a sentenza per molti dei suoi filoni, non tutti, con pene severissime: giornalisti come Teresa Toda e Javier Salutregi – la vice direttrice e il direttore del quotidiano Egin chiuso nel luglio del 1998 – stanno scontando pene di oltre dieci anni. Nel caso di Udalbiltza, il giudice Garzón ha bloccato i fondi e sostiene che il disegno politico è funzionale, quindi parte, dell’organizzazione armata. Miren si stringe nel suo golf nero, spaesata. “Sono otto anni che aspettiamo di capire quando ci processeranno e otto di noi sono passati anche dal carcere”. Sono ventidue gli imputati. Forse, forse, il processo si celebrerà a ottobre. Ma chi può dire? Nel frattempo obbligo di firma.

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a comarca Lea Artibai è al confine fra Guipuzkoa e Bizkaia. Questa “contea” mette insieme la parte più popolosa, sulla costa, e quella meno numerosa, delle montagne. In pochi minuti l’odore dei pini e il profumo da camino acceso si trasforma nel fragore delle onde e un sottile gusto salato sulle labbra. Ondarroa è un porto famoso, diecimila abitanti. Famoso, non fosse altro, per un ponte di Santiago Calatrava incastonato nel centro della cittadina. Nel porto, ogni notte, il traffico dei tir che trasportano pesce. Molto spesso, però, il pesce non finisce dalle reti nelle casse e dalle casse nei tir. Ma dai tir viene scaricato e poi smistato. I pescherecci baschi si spingono spesso fino nelle acque internazionali e a ridosso con l’Irlanda per poter trovare pesce. E, per evitare di annullare i profitti nel consumo di Manifestazione della sinistra indipendentista esclusa dal voto del nove marzo. Paesi Baschi, Ondarroa, comarca Lea Artibai 2008. A.Miotto©PeaceReporter


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carburante del viaggio di ritorno, scaricano in porti stranieri più vicini e da lì il pesce viaggia su gomma. Pare incredibile, ma è così. Ondarroa è quasi una onomatopea: ondar, in euskera, è sabbia e aoa, bocca. E in effetti in una piccola baia poco distante dal porto una bocca di sabbia è accarezzata o fustigata dalle onde del mare. Unai è il sindaco. Anzi, dovrebbe esserlo. Le elezioni municipali del maggio scorso hanno contato con la messa fuori legge di centinaia di liste della sinistra indipendentista, erede di Herri Batasuna e di Batasuna. Il meccanismo elettorale spagnolo prevede che l’elettore possa già ricevere la scheda elettorale a casa, per poi depositarla nell’urna al momento del voto. E così la sinistra indipendentista aveva contato i suoi voti attraverso schede precompilate che finivano nel serbatoio dei voti nulli. A Ondarroa la lista annullata, quella di Acion nacionalista vasca (ANV), ha raccolto la maggioranza dei voti: duemila e duecento, primo partito, contro i mille e settecento del Partido nacionalista vasco (Pnv). Quindi sette seggi sui tredici previsti. Legittimi, illegali e maggioritari. Maggioranza assoluta, per di più. Ma il gioco democratico si è rotto. E con lui gli equilibri interni della vita della cittadina. I partiti nazionalisti moderati o legali si sono rifiutati, a livello centrale, di utilizzare una regola prevista dalla legge che avrebbe reso possibile la presenza dei consiglieri eletti di Anv nel consiglio comunale, con una chiamata nominale. E, alla fine, resta un grande interrogativo sul tavolo: perché chi riunisce il numero maggiore dei voti non può governare? “Abbiamo costruito una sorta di governo ombra – spiega il sindaco legittimo – ma senza soldi, senza fondi come possiamo influire su scelte come quelle urbanistiche?”. Il disagio nel paesino è forte. I consiglieri comunali delle altre forze basche hanno rifiutato di insediarsi e, di fronte al vuoto in consiglio, invece che ripetere il voto la sede centrale del Partido nacionalista vasco, democristiano e conservatore, ha deciso di catapultare in quei seggi dei notabili della formazione. “Noi li chiamiamo i paracadutisti” dice Unai. “Gente che non sa nulla di Ondarroa, che vive in altre città, che non viene qui, ma celebra i consigli comunali a Bilbao”. Unai ha un fare pratico, è spiccio nei modi, non ha dubbi sulle domande che riguardano cosa voglia dire essere socialisti oggi. “Non è che siamo a favore della democrazia partecipativa. Di più: da anni noi applichiamo politiche di partecipazione. Il nostro programma era molto chiaro: creare diverse commissioni di lavoro, cultura, urbanistica, educazione, immigrazione e sport, includere i cittadini nei processi decisionali. E una volta licenziati i progetti, il consiglio comunale li avrebbe dovuti assumere, semplicemente, per decreto”. Impossibile. “No, è possibile, tanto è vero che è già avvenuto nelle legislature in cui qui ha governato Herri Batasuna”. Poco distante da Unai, c’è Loren Arkotxa. È il presidente di Udalbiltza, quindi è sotto processo. Ed è stato sindaco di Ondarroa. Ha un corpo solido come il tronco di una quercia. Occhiali da ipermetrope, che ingrandiscono i suoi occhi e sotto il naso due simpatici baffi ormai bianchi. La mano è una tenaglia. Loren Arkotxa, da sindaco, provocò un vero e proprio esodo dalle regioni del sud della Spagna fino a questo paesino sconosciuto per molti migranti. Perché si era sparsa la notizia che chiunque volesse un permesso di soggiorno per vivere e lavorare a Ondarroa, lo avrebbe avuto senza dover rispondere a nessun altro requisito. Se vieni qui, lavori e vivi qui, sei di qui. E se impari anche il basco, sei basco. “Anche questa è partecipazione”.

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a Ondarroa, per raggiungere Hernani, si corre su una cornice a picco sul mare. Dietro una curva si apre il frastagliato panorama di montagne che si incuneano nelle onde, a perdita d’occhio. Gli alberi hanno gemmato, un verde giovane e fresco negli occhi, fino al raccordo con l’autostrada. Si attraversano vallate e si incrociano ciminiere e tubi metallici fumanti, architetture industriali più o meno in disuso che raccontano di un passato ormai dimenticato dell’industria pesante. Prima di Hernani capannoni squadrati, cemento, zone depresse. Poi di colpo una fila di alberi apre la strada per la cittadina, feudo della sinistra indipendentista. Passato un arco murario, una piazzetta civettuola con la chiesa e il municipio, un caffè e negozi, l’imbocco delle strade del centro storico. Alle finestre e legate ai ferri delle balaustre dei balconi tante bandiere bianche con il disegno dei confini di Euskal Herria. Due frecce rosse indicano un movimento da fuori verso l’interno. “Euskal presoak, Euskal herrira”. I prigio12

nieri politici baschi torneranno nel Paese basco. È la lotta contro la dispersione carceraria, inaugurata dal governo socialista di Felipe Gonzales e mantenuta fino a oggi. Uno strumento in più della repressione, destinato a colpire i prigionieri politici e le loro famiglie, che ha causato anche numerosi lutti per incidenti stradali di chi è stato costretto a guidare per ore, in tempi ristretti, per quindici minuti di visita.

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ne ha gli occhi verdi. Forse risaltano così tanto perché si è messa un golf verde melange. Ha le mani piccole e sempre in movimento. È una avvocatessa. Si resta drammaticamente incantati, quando si ascoltano i racconti di chi denuncia torture dopo l’arresto. Igor Portu è uno degli ultimi casi, forse quello che ha avuto più eco mediatica, perché i media hanno avuto in mano il referto di un medico che descriveva i risultati di due giorni di interrogatori della Guardia civil. Fermato con Mattin Sarasola, gennaio 2008, arrestati, condotti in montagna vicino a un fiume, sottoposti alla bañera, l’immersione della testa nell’acqua, fino quasi all’annegamento. Li tenevano per i piedi, racconta la denuncia. Poi il commissariato: botte fino a che una costola si spezza e fora un polmone. La bolsa, una guaina che viene applicata su naso e bocca fino all’asfissia. Poi il ricovero urgente, il referto, la pubblicità. Ane racconta piano. “Le denunce riguardano sempre il periodo di incomunicacion, cinque giorni in cui chi viene arrestato non ha diritto a mettersi in contatto con nessuno. Avrà solo le visite di un medico forense e di un avvocato di ufficio”. Due figure che, dai racconti, escono come strettamente funzionali ai ‘carnefici’. “La tortura – prosegue imperterrita Ane – ha lo scopo di indurre a firmare una dichiarazione in cui l’arrestato si fa carico di una serie di crimini, o indica come colpevoli altre persone”. Le denunce contro i torturatori vengono spesso archiviate prima di arrivare al processo. Oppure “se i procedimenti vengono aperti, finiscono con lievi condanne per le forze di sicurezza, e poi l’indulto”. Il dato: in trent’anni, settemila casi di denuncia per tortura, solo nei Paesi baschi. Adesso Ane si aggira per gli uffici, parla al telefono, cerca una pratica. Si schermisce sulla vita privata: una ragazza di ventiquattro anni come tante altre, le piace il rock duro, divertirsi con gli amici. Ma cosa resta dentro di lei, dopo uno, due tre racconti di ore da incubo, che deve trascrivere parola per parola per costruire la struttura di una denuncia che sa che non andrà mai a buon fine? Quali paure nell’immaginario di chi descrive i meccanismi psicologici del terrore, dell’asfissia, delle violenze sessuali, dei bastoni infilati nell’ano, delle pistole introdotte nella vagina, del vomito fatto leccare sul pavimento, del pene tirato con una corda fino a farlo sanguinare, le finte esecuzioni. “Abbiamo uno staff di psicologi, ci insegnano come reagire, come riuscire a far scivolare il racconto senza che si spezzi qualche cosa anche dentro di noi”. I suoi genitori sono contenti di quello che fa. I suoi amici, dice, la sostengono. È per questo che ha studiato diritto, per fare l’avvocato e lavorare sui diritti umani. Dal 2003 la sinistra indipendentista è di fatto illegale. Dal 2007, di fatto, clandestina. Dal maggio 2007 a oggi sono più di duecento le detenzioni avvenute, con denunce di casi di tortura. Ci sono oltre settecentocinquanta prigionieri politici fra Spagna e Francia. Decine di liste comunali messe fuori legge. Sempre a partire dall’unico peccato originale, la Ley de partidos che a detta del Decano degli avvocati del collegio di Bizkaia, Nazario Oleaga “è una legge senza basi giuridiche”. Liste annullate in base, recita una sentenza del Tribunal Supremo, al principio di ‘contaminazione’ che evoca una lettura da apartheid. Un processo di pace fatto a pezzi. Ma c’è ancora una proposta di dialogo, politica, che rivendica soluzioni politiche, non armate. Gorka dice che andrà avanti, per ottenere il diritto a decidere del proprio futuro, per il diritto a presentare e votare la sua opzione politica . Non ha il cellulare, ha una mail più o meno coperta. E, a forza di riunioni nei caffè, beve solo decaffeinato. Sta lì, dritto. E al posto delle scarpe sembra avere nodose, e profonde, radici ben piantate. In alto: “I prigionieri politici baschi torneranno nei Paesi baschi”. Ondarroa 2008 In basso: Ane, avvocata del Tat, nella sede dell’organismo anti tortura. Paesi Baschi, Hernani 2008. A.Miotto©PeaceReporter


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L’intervista USA

Body of war Di Alessandro Ursic La rabbia provata l’11 settembre 2001, l’entusiasmo per una “guerra giusta” contro chi aveva attaccato l’America, un conflitto in Iraq combattuto con patriottismo all’inizio, ma poi con sempre più dubbi, una tragedia con cui bisognerà fare i conti per molto tempo. E’ la storia degli Usa degli ultimi sette anni. Ma anche quella del soldato Tomas Young, colpito alla spalla sinistra al suo quarto giorno in Iraq, nell’aprile 2004. E che da allora è paralizzato dal petto in giù, costretto su una sedia a rotelle. L’esperienza di Young è al centro di Body of War, un documentario indipendente appena uscito negli Usa e che promette di far parlare di sé, anche grazie alla colonna sonora di Eddie Vedder. Young, che in Iraq non ha sparato un solo colpo, fu ferito durante una missione di salvataggio di altri soldati a Sadr City. Il veicolo su cui viaggiava, senza protezioni, era progettato per diciotto soldati ma ne conteneva venticinque stipati “come sardine”, dice lui. Dopo due mesi di cure è tornato a Kansas City, per cominciare una lenta riabilitazione. Prende venticinque pillole al giorno. Oggi, a ventott’anni, è di nuovo in prima linea, ma nell’associazione Iraq Veterans Against the War. Tomas, com’è iniziata la tua carriera militare? Già a diciassette anni mi sono arruolato, mi servivano soldi per andare all’università. Sono stato esonerato per motivi di salute, con la possibilità di tornare dopo due anni. Non ci pensavo più, poi è accaduto l’11 settembre. Due giorni dopo ho chiamato l’ufficio di reclutamento. Volevo fare qualcosa per dare la caccia ai responsabili degli attentati. Lo faresti di nuovo? Se avessi saputo quello che so ora, se mi avessero detto che sarei andato in Iraq e non in Afghanistan, se avessi saputo che il mio patriottismo sarebbe stato usato in questa maniera, non mi sarei arruolato. Sei soddisfatto delle cure ricevute? Il personale medico del ministero per i Veterani fa del suo meglio. Ma il sistema, con l'afflusso di decine di migliaia di feriti dall'Iraq, è al collasso. Ho una sedia a rotelle che si muove anche se ha il freno tirato, ho visto letti tenuti insieme letteralmente con il nastro adesivo. E i politici, anche i repubblicani che si dicono più vicini alle truppe, sono sempre di manica stretta quando si tratta di approvare finanziamenti per le cure dei veterani. Che conseguenze fisiche e psicologiche ti ha lasciato l’esperienza in Iraq? Posso muovere solo le spalle e le braccia, ma quello sinistro si stanca molto presto. Comunque vivo da solo: dopo essere tornato dall’Iraq mi sono sposato, anche se ho già divorziato. Il mio “disturbo da stress post-traumatico” (Ptsd) sta migliorando lentamente. Ma sai quando viene fuori? Quando ascolto le notizie sull’Iraq e su cosa dice Bush. Lì mi incazzo come un tifoso quando segue la partita, inizio a sbraitare contro la televisione. Negli Usa dire I support the troops, sostengo i nostri soldati, è quasi un obbligo, anche per chi è contrario alla guerra. Cosa provi quando la senti? E’ un gesto un po’ vuoto. Qui tutte le automobili hanno calamite o adesivi con quella scritta, ma sono molti di meno gli americani che hanno qualcuno che conoscono in Medioriente. La mia idea di sostenere i soldati è di battersi per la loro sicurezza e affinché non vengano usati in maniera impropria, come in Iraq. Vorrei che quella guerra finisse, e che le truppe tornassero a casa. Per questo, paradossalmente, sono anche favorevole alla leva obbligatoria. 14

In che senso? Il problema è che solo il cinque percento della popolazione Usa è nelle forze armate, gli americani dicono I support the troops ma non è un loro problema. Con una leva obbligatoria come al tempo del Vietnam, invece di richiamare gli stessi soldati per quattro volte, tutti sarebbero a rischio. La gente protesterebbe nelle strade. E’ l’unico modo in cui tutti direbbero “questa cosa ha un effetto su di me, dobbiamo fermarla”. Sei favorevole a un ritiro immediato dei soldati Usa dall’Iraq? Vorrei che accadesse il prima possibile. Ma non si può ritirare tutto subito. Ci sarebbero problemi di sicurezza, sottoporresti i soldati a tutti i tipi di attacchi. Se lo fai gradualmente, le forze di sicurezza locali possono prendere il controllo. Il mio candidato alla Casa Bianca dice che dobbiamo essere “attenti nel tirarli fuori tanto quanto siamo stati sconsiderati nel mandarli laggiù”. E chi sarebbe il tuo candidato? Barack Obama. Ho votato per lui alle primarie e spero di poterlo rifare a novembre. E’ l’unico che è stato sempre contrario alla guerra in Iraq, nonché l’unico ad avere menzionato l’idea di dare la caccia a bin Laden se si nasconde in Pakistan, che è il motivo per cui mi sono arruolato. Come ti ha cambiato la vita Body of War? All’inizio pensavo sarebbe stato un piccolo documentario, visto da poca gente. Mai avrei pensato di andare a festival cinematografici, o di rilasciare interviste a un giornalista italiano. Vediamo come sarà ricevuto dal pubblico, ma ho una speranza: vorrei che mettesse in guardia la gente dall’arruolarsi in maniera precipitosa, come ho fatto io. Le giovani reclute sanno di poter morire. Ma non credo che molti siano consapevoli del rischio di finire in una sedia a rotelle. Nel film mostro che non posso più avere un’erezione senza un’iniezione. Sono sicuro che nessun uomo, quando si arruola, si rende conto che rischia di tornare e di non poter fare più sesso. Voglio che la gente capisca che ci sono tante cose che ti possono capitare, oltre alla morte. Vedi in tv un veterano senza una gamba e pensi sia tutto, ma non capisci cosa questo comporta nella vita quotidiana, cosa sente quel veterano dentro. L’altra grande battaglia nella quale sei impegnato è quella della ricerca sulle cellule staminali. E anche lì non la pensi come Bush. Lui pone il veto sulla ricerca con la motivazione che “non vuole distruggere delle vite per salvare altre vite”. Ma è esattamente quello che sta facendo in Iraq, no? Allora non mi va bene che bocci una causa come quella della ricerca sugli embrioni con questa scusa. Ma il discorso dell’“uccidere vite per salvare vite” non si applica anche all’Afghanistan? Quando l’America è attaccata, come a Pearl Harbour, noi reagiamo. Io non sono contro la guerra a prescindere: credo sia l’unica soluzione quando qualsiasi altro metodo è fallito, e sono contro le guerre sbagliate. Certo, in guerra distruggi vite per salvare altre vite. Ma quando invadi un Paese che non ti aveva attaccato, ciò ha ancora meno senso. In alto: Thomas Young. Usa 2008. Ellen Spiro©Body of war In basso: Camp Casey, Crawford, Texas, dove Tomas Young ha passato la luna di miele. Usa 2008. Ellen Spiro©Body of war


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Prime vittime civili nell’offensiva di primavera della Nato in Afghanistan

Algeria, la guerra tra integralisti e governo scende dalle montagne della Cabilia

Le buone nuove

La scimitarra della Nato

Una proposta sospetta

Pakistan, graziata presunta spia dopo 35 anni di carcere: si erano scordati di lui

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“Rivedo per la prima volta la luce e la confusione, è come se fossi in un altro mondo. Sto ridendo come non mi succedeva da 35 anni”, ha detto Singh alla tv pachistana Geo. Per la presunta spia era stata chiesta la pena di morte nel 1979, poi i cambi di regime in Pakistan avevano fatto cadere nel dimenticatoio il suo caso. Nel corso di decine di cambi di penitenziario, se ne erano perse le tracce, perché veniva registrato nei penitenziari col cognome di Ibrahim.

Guatemala verso il no alla pena capitale Álvaro Colom fa marcia indietro sulla pena di morte. Un mese fa aveva annunciato di volerla riportare agli antichi splendori (le ultime esecuzioni in Guatemala risalgono al 2000), ma poi ha dovuto prendere atto degli impegni sottoscritti dal suo Paese sul tema, con tanto di firma sulla moratoria voluta dall’Onu tre mesi fa. Colom ha quindi annunciato che la via per l'abolizione è possibile.

Kuwait, piccole donne crescono E’ nato il progettoi progetto Crescita, un network di donne fondato da Khuala al-Atiqi e da altre due signore, una sunnita, una sciita e una liberale laica. Un gruppo che si prefigge di rendere effettiva la partecipazione delle donne al voto in Kuwait, introdotta nel 2005, ma boicottata dalla politica e dalla società del ricco emirato del Golfo Persico. Il progetto Crescita si trasformerà in un vero e proprio partito.

India, finisce la strage delle innocenti? In India, nel 2007, si è registrata una media quotidiana di duemila aborti selettivi, ovvero riguardanti i feti di sesso femminile. Secondo il giornale medico britannico Lancet, negli ultimi venti anni più di dieci milioni di bambine sono state uccise prima o subito dopo la nascita dai genitori. Il governo finalmente corre ai ripari: sarà offerto un premio di tremila dollari per le famiglie povere che decideranno di mettere al mondo figlie femmine 16

a Nato in Afghanistan gioca d’anticipo sui talebani. I primi di marzo ha lanciato la sua ‘offensiva di primavera’, nel tentativo di prevenire quella talebana. Il nome in codice dell’operazione, che la scorsa primavera era ‘Achille’, quest’anno è ‘Shamshir’, scimitarra in farsi. Le manovre militari, che dureranno fino all’estate, riguardano le roccaforti talebane nel sud (Helmand, Kandahar e Uruzgan), nell’est (Khost e Paktika) e nell’ovest sotto comando italiano (Farah e Badghis). La strategia è sempre la stessa, con massicci bombardamenti aerei sui villaggi nei quali è segnalata la presenza di talebani. Una strategia che l’anno scorso ha provocato la morte di almeno cinquecento civili secondo i calcoli delle agenzie di stampa occidentali, più del doppio se si tiene conto anche delle tante stragi denunciate dai capivillaggio e dai sopravvissuti. Che a volte svelano come i ‘talebani’ uccisi nei raid secondo i bollettini della Nato siano in realtà donne, vecchi e bambini. E che spesso portano la dolorosa testimonianza di carneficine di cui nessuno parla, di civili uccisi che non rientreranno mai nei conteggi ufficiali degli ‘effetti collaterali’. Morti che non contano perché non contavano nulla nemmeno da vivi, contadini poveri, che vivono in case di argilla e paglia, in villaggi sperduti nei territori controllati dai talebani. Halima, una ragazza, è arrivata nell’ospedale di Emergency, a Lashkargah, a metà marzo, con una gamba spappolata, quasi morta e con un bambino nella pancia. E’ l’unica sopravvissuta della sua famiglia di quindici persone, sterminata in un raid della Nato. Ha raccontato ai medici dell’ong italiana che il 10 marzo c’erano stati violenti scontri a fuoco poco lontano dal suo villaggio, a nord di Grishk, nella provincia di Helmand. La notte successiva un razzo ha scoperchiato la sua casa e poi un elicottero ha iniziato a sparare all’interno. I muri sono crollati. Sotto le macerie sono rimasti i suoi due figli e il suo sposo, i cognati e i suoceri. Uccisi dalla scimitarra della Nato.

a guerra civile in Algeria è finita nel 1998, portandosi via la vita di duecentomila persone. Un unico gruppo armato non ha mai deposto le armi: il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (Gspc). Si è rintanato tra i boschi e i monti della Cabilia, regione berbera dell’Algeria, e la tensione con l’esercito algerino è rimasta alta, ma il livello delle violenze è sensibilmente calato. Fino al 2003, quando il conflitto è riesploso in tutta la sua violenza. Sono centinaia le vittime di questa guerra invisibile, di cui nessuno parla. Poche le vittime civili, per il resto una mattanza continua tra elementi delle forze dell’ordine e guerriglieri. Poi, nel 2006, la svolta: il Gpsc annuncia di aver aderito al network internazionale di al-Qaeda, cambiando nome in alQaeda nel Maghreb islamico. La strategia cambia: tornano gli attacchi ai civili, con i terribili attentati ad Algeri del 2006 e del 2007. Ma, soprattutto, la guerra tra militari e integralisti lascia le impervie montagne cabile per dilagare anche nell’Algeria meridionale. Una terra di nessuno, lungo i confini con il Niger, il Mali, la Mauritania e il Marocco. Travalica anche le frontiere fino alla Tunisia. Gli emiri del terrore hanno trovato nel deserto, vicini agli strategici nodi petroliferi algerini, una base sicura. Da mesi l’aviazione militare bombarda furiosamente al sud, accompagnando i raid aerei con rastrellamenti brutali. Eppure il gruppo armato è libero di entrare in territorio tunisino, rapire due turisti austriaci, e trascinarli con sé in una zona indefinita tra l’Algeria e il Mali. Sembra che all’implementazione dell’azione militare algerina corrisponda un rafforzamento di al-Qaeda nel Maghreb islamico, invece che un suo ridimensionamento. La zona è strategica, tanto da essere interessata dal cosiddetto Plan Sahel, una collaborazione internazionale che le truppe statunitensi offrono ai paesi della regione proprio per combattere il terrorismo islamico. La proposta Usa è stata respinta, perché sono molti i Paesi a ritenerla una manovra per impiantare basi militari in prossimità dei ricchi giacimenti di petrolio della regione.

Enrico Piovesana

Christian Elia


Sri Lanka la guerra di cui nessuno parla

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x colonia portoghese e poi olandese, l’isola di Ceylon è dominata dalla corona britannica dall’inizio dell’Ottocento fino al 1948. Il suo nome attuale, Sri Lanka, viene adottato solo nel 1972. Fin dagli anni Cinquanta, la politica del Paese è dominata dai nazionalisti singalesi buddisti, che approvano una serie di leggi discriminatorie verso la minoranza tamil induista, anticamente immigrata nel nord dell’isola dalle regioni meridionali dell’India. In reazione a questa politica da parte dei governi di Colombo, negli anni Settanta si sviluppa tra i tamil un sentimento nazionalista e indipendentista prima inesistente. Nascono diversi movimenti di protesta, tra i quali, nel 1975, le Tigri per la liberazione della patria tamil (Ltte) di Velupillai Prabhakaran, che presto si afferma come il gruppo più forte e radicale. Nel 1983, l’Ltte dà inizio alla lotta armata contro il governo. Una rapida escalation di attacchi dei ribelli contro l’esercito e di rappresaglie dei militari contro la popolazione civile innesca una sanguinosa guerra civile, costata finora più di settantamila morti. Tra il 1987 e il 1990 l’India sostiene attivamente la campagna militare di Colombo, temendo che l’indipendentismo tamil contagi anche le popolazioni tamil dell’India meridionale (Tamil Nadu). Nonostante questo, l’Ltte di Velupillai riesce non solo a resistere ma a prendere il controllo, militare, politico ed economico, di tutte le regioni tamil: quelle settentrionali di Jaffna, Kilinochchi, Mullaitivu, Mannar e Vavuniya, la costa nord-occidentale di Puttalam e i distretti orientali di Trincomalee, Batticaloa e Ampara. Nel corso degli anni Novanta, l’esercito e l’aviazione singalese iniziano a bombardare i villaggi tamil, causando numerose stragi di civili. Alle quali i guerriglieri dell’Ltte rispondono con sanguinosi attentati suicidi ad opera delle ‘Tigri Nere’, provocando altrettante carneficine di innocenti e decimando la classe politica singalese. Nel 1995 un’imponente offensiva governativa riesce a cacciare i ribelli dalla città di Jaffna, sulla punta settentrionale dell’isola. Con l’inasprirsi del conflitto l’esercito gover-

nativo inizia una ‘guerra sporca’ contro la popolazione tamil: stupri, saccheggi, rapimenti, torture, esecuzioni sommarie. Migliaia di tamil arrestati dai militari o dalla polizia spariscono nel nulla. Ogni anno si contano centinaia di desaparecidos. I tentativi di dialogo tra Ltte e governo, patrocinati dalla Norvegia, portano nel febbraio 2002 a un cessate il fuoco bilaterale, seguito dall’avvio di un difficilissimo negoziato. La popolazione tamil torna a respirare e inizia a sperare. Ma l’ottimismo dura poco. I falchi del governo, contrari alle trattative, approfittano infatti della pausa nei combattimenti per dividere il fronte tamil, comprandosi una parte dei ribelli. Nel marzo 2004, infatti, l’Ltte si spacca in due e la fazione fedele al ‘colonnello Karuna’, comandante dei distretti orientali, inizia a dare battaglia alle forze di Prabhakaran. Centinaia di bambini soldato vengono coinvolti in questi scontri intestini. Alla fine del 2004 ci si mette pure madre natura: il 26 dicembre lo tsunami si abbatte sulle coste orientali causando 31mila morti (quasi tutti tamil) e migliaia di dispersi. Gli sfollati rifugiati in campi profughi, templi e scuole sono circa un milione. a è un altro il fattore che determina la fine di ogni speranza di pace per lo Sri Lanka. Nel 2005 le prospezioni sottomarine effettuate dall’India rivelano la presenza di enormi giacimenti di petrolio e gas naturale sotto i fondali del Golfo di Mannar e in altri tratti di mare, proprio al largo della regione controllata dall’Ltte. Alla fine dell’anno, il neoeletto presidente Mahinda Rajapaksa decide di riprendere la guerra contro le Tigri tamil allo scopo di riconquistare il nord dell’isola. Dopo quasi quattro anni di relativa pace, la guerra civile riesplode con una violenza senza precedenti. L’esercito sferra una serie di offensive militari che portano alla riconquista dei distretti nord-occidentali e, nel 2007, di tutta la fascia costiera orientale. L’Ltte rimane in controllo dei soli territori settentrionali, dove ora si concentra la crescente pressione militare delle forze armate governative.

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Sri Lanka



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Dalla ripresa dei combattimenti, nel dicembre del 2005, si contano già quasi undicimila morti, di cui circa 1.700 civili, 7.700 ribelli e 1.500 soldati. Nel 2006 i morti sono stati più di quattromila (981 civili, 2.319 ribelli e 826 soldati) e nel 2007 sono saliti di alcune centinaia (525 civili, 3.345 ribelli e 499 soldati). Ma l’escalation più drammatica si è avuta dopo che, all’inizio del 2008, il presidente Rajapaksa ha ufficialmente annunciato quella che era già una realtà di fatto, ovvero la fine della tregua del 2002. Da quel momento, le forze armate governative hanno iniziato una campagna militare senza precedenti. Nei primi due mesi del 2008 si sono già registrati circa duemila morti (quasi tutti combattenti dell’Ltte). Ormai la guerra civile in Sri Lanka è diventata, dopo quelle in Iraq, Afghanistan e Pakistan, il conflitto armato più sanguinoso del mondo.


Kenya, firmato l’accordo tra Presidente e opposizione. Ma la tensione rimane alta

Storiche elezioni in Paraguay. Gli eredi del dittatore destinati a perdere

Il numero dei morti nel mese di marzo*

Kenya, traballanti Paraguay, dialoghi di governo l’ora della svolta

Un mese di guerre

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PAESE

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onostante l’accordo siglato a inizio marzo tra il presidente, Mwai Kibaki, e il leader dell’opposizione, Raila Odinga, rimane alta la tensione in Kenya. I due principali protagonisti della crisi politica scoppiata all’indomani delle presidenziali del 27 dicembre scorso, che ha provocato più di mille morti e la fuga di decine di migliaia di persone, si sono accordati per concedere a Odinga il ruolo di primo ministro, una figura nuova per la politica keniana e che svuoterà, almeno teoricamente, la presidenza di molti dei suoi poteri. Mentre le due fazioni continuano a trattare per accordarsi concretamente sulle funzioni del premier e sui suoi rapporti con la presidenza, le violenze all’interno del Paese continuano, seppur con minor intensità rispetto ai primi mesi dell’anno. Le milizie etniche Luo e Kalenjin da una parte e Kikuyu e Kisii dall’altra, sostenitrici rispettivamente di opposizione e maggioranza, si danno battaglia, scacciando dai propri territori gli abitanti appartenenti alle comunità nemiche. Decine, se non centinaia di migliaia di keniani sono stati costretti ad abbandonare le proprie case e a rifugiarsi nelle zone del Paese in cui la loro etnia è maggioritaria, contribuendo così a un frazionamento etnico molto pericoloso in prospettiva futura. A livello economico, il Kenya ha perso almeno un miliardo di dollari tra i danni causati dagli incidenti e le mancate entrate, dovute principalmente al crollo del turismo e al blocco dei porti orientali (Mombasa soprattutto) che riforniscono di beni Paesi quali l’Uganda, il Sudan meridionale e la parte orientale della Repubblica Democratica del Congo. Impegnati nel ricucire i rapporti tra le varie comunità per non destabilizzare ulteriormente il Paese, Kibaki e Odinga hanno chiesto ai propri sostenitori di dimenticare le violenze degli ultimi mesi e di impegnarsi per costruire assieme il Kenya del futuro. Uno sforzo che quanti hanno perso la famiglia o la casa perché scacciati dai miliziani un tempo loro vicini di casa difficilmente riusciranno a fare, almeno in un primo periodo.

a tornata elettorale prevista per il prossimo 20 aprile potrebbe portare novità importanti per il Paraguay. Dopo oltre sessant’anni di governo del Partito Colorado, un’altra figura sembra stagliarsi all’orizzonte, con buone possibilità di vittoria. Si tratta di Fernando Lugo, ex vescovo cattolico convertitosi alla politica, leader carismatico del movimento Tekojoja, che in lingua guaranì significa uguaglianza. Dalla sua parte la società civile, i movimenti sociali, quelli dei lavoratori e i partiti della sinistra. Contro di lui un nutrito gruppo di burocrati affezionati alla vecchia politica dittatoriale di Stroessner, uno dei tiranni più sanguinari che il Novecento latinoamericano abbia conosciuto. Ma anche nelle fila del Partido Colorado da poco è spuntata una novità: la candidatura di Blanca Ovelar, prima donna nella storia del Paese a inseguire una carica così importante. Bella e determinata, la Ovelar ha da tempo intrapreso la vita politica occupando diverse cariche, ultima quella di ministro dell’Educazione. Sostenuta dall’attuale presidente Nicanor Duarte, la Ovelar ha dovuto fare i conti con il machismo prepotente che caratterizza da sempre il suo partito, soprattutto durante le consultazioni per le primarie. “Oltre a essere state molto dure, queste primarie mi hanno fatto sentire una forte discriminazione per la mia condizione di donna. Ma le ho vinte grazie alla determinazione e posso affermare che per la prima volta una donna sarà presidente del Paraguay”. Una posizione decisamente ottimista che non corrisponde ai dati dei sondaggi. L’ex teologo della liberazione secondo gli ultimi rilevamenti otterrebbe il gradimento del trentacinque percento della popolazione. Mai come ora c’è stata la possibilità che un soggetto politico nuovo potesse vincere le elezioni. Mai come ora il Paraguay ha avuto la possibilità di dare una svolta alla sua esistenza, mettere definitivamente nel cassetto gli anni bui della dittatura e ricominciare verso una nuova strada, con la certezza di avere nell’area rossa sudamericana molti amici.

Matteo Fagotto

Alessandro Grandi

MORTI

Iraq Sri Lanka Afghanistan Pakistan Talebani Sudan (Darfur) Israele-Palestina Turchia Pkk India Naxaliti Somalia India Nordest Filippine Npa India-Kashmir R.D.Congo Thailandia del Sud Ciad Russia (Nord Caucaso) Colombia Pakistan Balucistan Rep. Centrafricana Nepal Filippine Abusayyaf Algeria

1101 639 410 254 162 147 95 87 75 60 32 29 29 26 19 18 16 11 8 4 2 1

TOTALE

3.225

* Periodo: 14 febbraio – 12 marzo 17


Qualcosa di personale Italia

Il lavoro che uccide testo raccolto da Gianluca Ursini Mi chiamo Carmelo. Ho cinquantun anni. Operaio dal 1979 al 2006 in una conceria a Reggio Calabria. Fino a contrarre una malattia invalidante, la brucellosi. Ora non lavoro più e la mia famiglia vive con 600 euro al mese. Moglie, due figli e l’affitto da pagare.

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vevo ventidue anni e volevo sposare la mia ragazza. Un lavoro è un lavoro, non stai a pensare se ti renderà invalido. Dovevo lavorare e sposarmi, e accettai l’impiego in conceria con un salario sicuro. Ditta ‘Arecchi’. Non è la conceria vera e propria. Con altri dodici colleghi, trattavamo gli scarti animali ritirati nelle macellerie al mattino; poi le pelli andavano in conceria per essere lavorate. Dieci ore al giorno in mezzo al puzzo di bestie morte; quell’odore di sangue marcio che non se ne va. Si cominciava alle 7, fino a mezzogiorno. Poi dall’una e mezza alle cinque, da lunedì a sabato. Ma se arrivavano nuove carcasse, nessuno andava a casa. Tutto il giorno a trattare animali morti; e la nostra unica protezione erano guanti in lattice. Come quelli con cui si lavano i piatti. Niente mascherine per proteggere la bocca. Niente tute da lavoro disinfettate. I nostri abiti non venivano sterilizzati per evitare il contagio animale-uomo. Era sempre stato così. Se ci stavi, bene: lavoravi e ti pagavano. Oppure ti cercavi un altro posto. E in quegli anni a Reggio non c’era molta scelta. Sapete come vanno le cose in Calabria; nessuno protesta. Mi sono sposato, sono nati due bambini. E la famiglia deve campare. I sindacalisti, anni fa, ci avevano detto che per la legge 626 del 1994 (sicurezza nei posti di lavoro), nelle concerie è previsto un controllo degli ispettori sanitari ogni sei mesi. Dicevano che per legge dovevamo avere mascherine, guanti e tute sterilizzati. Il necessario per isolarci dalle carcasse e dalle malattie. Ma di ispettori dell’Asl non se ne vedevano, nemmeno dopo la 626. E i sindacalisti non entravano in conceria. Il titolare diceva che non avevamo bisogno di quelle protezioni. Poi, una volta abbiamo visto un signore girare per la fabbrica e a osservarci mentre lavoravamo. Il titolare è venuto a dirci che era un ispettore Asl. Secondo l’Asl di Reggio tutto era regolare, noi lavoravamo in condizioni sicure. Quel signore mi era sembrato molto amico del titolare. Arriva l’ottobre 2005. Non avevo ancora quarantanove anni. Giorni, settimane, con la febbre a 41 gradi. Andava e veniva. E tutto d’un tratto il braccio sinistro mi si paralizza. Non lo muovevo. Al lavoro non riuscivo ad andare, così il 5 novembre entrai al Policlinico ‘Riuniti’. Mi ci tennero fino al Natale del 2005. Nessuno capì che avevo la brucellosi. Non sapevo nemmeno cosa fosse, nessuno alla conceria ce lo aveva spiegato. All’ospedale di Reggio mi diagnosticarono una discopatia: vertebre schiacciate. Ma la febbre non passava. Un parente da Roma mi consigliò di provare al policlinico Gemelli. A gennaio mi presento al Pronto soccorso. Ricovero immediato. Vengo trasferito al reparto Ortopedico. Dicono che le vertebre esterne sono in suppurazione, che se la suppurazione è passata alle vertebre 18

interne avrò bisogno di un trapianto. Mi chiedono se sono disposto a farmi aprire; che strano, io che macellavo gli animali. Speravo solo che il pus non fosse marcito; mi dicevano che c’era il rischio che le vertebre fossero da buttare. Spiegavano che la brucellosi si prende dalle pecore morte, ma sarebbe bastata una mascherina per evitare l’infezione. A fine gennaio mi hanno operato. Un intervento di quindici ore. Mi hanno riferito di aver disarticolato l’osso sacro per staccare le vertebre e salvare il salvabile. Mi hanno bloccato le vertebre per rafforzarle. Ora vivo con una barra sotto la nuca che mi inchioda prima e seconda vertebra, non posso girarmi del tutto né a destra, né a sinistra. Non posso alzare pesi superiori ai due chili né fare sforzi. Non posso correre. Per tre mesi ho tenuto indosso un apparecchio da trenta chili, più che un busto sembra uno scafandro. Per aspettare che le vertebre si rafforzassero, è stato attaccato allo scheletro, o meglio al teschio. Per tre mesi avevo questa lastra inchiodata dalle tempie giù al petto, fino all’addome. Per fissarlo all’occipite mi hanno fatto quattro buchi, che ho ancora sulle tempie. Per sei mesi non ho dormito. Dopo dieci minuti in posizione supina sentivo i 30 chili addosso e mi svegliavo in affanno. E il titolare mi ha licenziato. Era venuto in ospedale a salutarmi: “Che brutti scherzi tira la vita. Mi dispiace, Carmelo”. Una stretta di mano e tanti saluti. Sei mesi di malattia, poi non ero più buono per lavorare, dovevo rivolgermi a sindacati e Inail; ed è scomparso. Ho chiesto se mi spettava una liquidazione. Risultava che non era mai stata accantonata. Però potevo stare tranquillo, i contributi degli ultimi anni erano stati versati. Che va bene, per Reggio. Dopo tre mesi mi è stata concessa la pensione d’invalidità: il 50 percento dell’ultimo stipendio. Mi danno 600 euro, arriviamo a 700 con gli assegni familiari: moglie e due figli dipendono da me. Vorrei riconosciuta l’invalidità al settanta percento. Mi hanno detto di pazientare. Passo le giornate all’Inail, e al sindacato.

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a fabbrica? Sento i colleghi ogni tanto, sono rimasti in pochi. Quattro calabresi, gli altri sono romeni. Saranno in nero. Non protestano per le mascherine. Periodicamente ho un controllo a Roma. L’ultima volta, al reparto Infettivologia del ‘Gemelli’, mi hanno detto di aver chiamato l’Asl di Reggio. Hanno ricevuto assicurazioni su una nuova ispezione. I miei colleghi non ne sanno nulla. All’Inail dicono che dai rapporti risulta che in quella fabbrica sono rispettate tutte le norme di sicurezza. Miniera Monte Sinni. Sardegna 2007. Andrea Pagliarulo/Prospekt


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La storia Nepal

Voto all’ombra dell’Himalaya di Rocco Santangelo Un bue pascola di fronte all’ingresso di casa. Qui abita il ‘maestro’ Dilli. Appartiene alla casta dominante e qui in città è rispettato da tutti in quanto ‘uomo di potere’. L’animale lascia un suo grosso ricordo davanti al cancello. Ma né il maestro, né nessun altro lo rimuoverà nel rispetto della regola induista della ‘non azione’, dell’ineluttabilità delle cose.

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i troviamo in una cittdina immersa nei campi, piantagioni e piccoli appezzamenti, del Terai, la regione pianeggiante del Nepal dove la vita procede senza fretta, dove c’è sempre tempo per un tè. La gente si gode il tepore primaverile, ne approfitta per riscaldarsi dopo il grande freddo dei mesi scorsi. Siamo ai piedi dell’Himalaya. Intorno a un fuoco, mangiando dalbhat, riso con verdure tipiche nepalesi, il maestro parla delle piccole e grandi guerre da cui questo Paese è appena uscito: la lunga guerra civile tra ribelli maoisti e governo monarchico, costata la vita a tredicimila persone, e la recente rivolta degli indipendentisti del Terai, che stava portando il Paese sull’orlo di una nuova tragedia. Dilli si definisce un indipendente, nel senso che non parteggia per nessuno. Quando parla di politica abbassa la voce e si guarda intorno per essere sicuro di non dire la cosa giusta al momento sbagliato. “Cinque bombe sono esplose intorno a casa mia negli anni della guerra civile”. La sua voce bassa e lo sguardo impaurito sono il retaggio di questo passato prossimo e il sintomo della consapevolezza di un futuro non così certo. “I Pahadi, i nepalesi delle montagne, sono scesi qui, si sono presi le terre e hanno occupato tutte le cariche pubbliche. Ora sono loro che danno lavoro alle masse, sono loro che hanno il potere”. Per chi credi che voteranno quindi le masse, gli chiediamo. Lui accenna un sorriso intelligente: “Le elezioni, se si faranno, saranno controllate da chi il potere lo ha già”. Il Nepal è in piena campagna elettorale: dopo oltre due secoli di monarchia (abolita ufficialmente pochi mesi fa) e dieci di guerra civile, il 10 aprile il popolo è chiamato a eleggere i rappresentanti dell’Assemblea Costituente, che dovrà riscrivere la Costituzione e creare una Repubblica Federale. Per molti, ci troviamo nell’anno zero di questo Paese. Nessuno qui in città sembra essere escluso dal fenomeno elettorale. Tutti parlano delle elezioni, tutti discutono di politica. La paura del passato ha lasciato il posto all’ansia per il futuro: come prima di un matrimonio, pare che tutti si affannino a parlare, a dire la loro, per non dover poi tacere per sempre.

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ono passati meno di due anni dalla firma degli accordi di pace tra maoisti e governo, ma i segni della guerra sono ancora visibili. Amar, giovane quadro maoista dallo sguardo vivace e bambinesco, ci mostra le campagne intorno alla città che venivano periodicamente rastrellate dall’esercito. “Qui – racconta – vivono ai margini della società le caste più basse e la popolazione ‘indigena’ delle pianure. Questa gente non sosteneva la nostra guerriglia, non erano maoisti, ma l’esercito temeva che potessero diventarlo. Così li spaventava in via preventiva, con la conseguenza che molti di loro decidevano poi di diventare maoisti per davvero”. Amar ricorda 20

che durante la guerra, in un villaggio qui vicino, fatto di poche case di fango e paglia, sette persone sono state fucilate in piazza dai militari perché accusate di presunti legami con i rivoluzionari. “Ora la situazione è più tranquilla – dice – ora stiamo costruendo un nuovo Nepal e il nostro partito si è impegnato a intraprendere un percorso democratico”.

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a poche settimane fa un tentativo destabilizzante ad opera di gruppi indipendentisti del Terai ha fatto precipitare il Nepal nella paura di una nuova guerra civile. Dalla fine della guerra, nel 2006, il Terai pullula di movimenti armati, un tempo parte della milizia maoista, che ora rivendicano il diritto all’autodeterminazione dei popoli delle pianure di lingua indù: i Madhesi nell’est e i Tharu nell’ovest. Movimenti che, secondo molti, sono sostenuti dall’India, preoccupata che il successo politico dei maoisti nepalesi dia nuovo slancio alla guerriglia maoista indiana. Questi movimenti indipendentisti prima erano parte delle milizie maoiste, dalla quale poi si sono separati. Commentando la sua cacciata dai maoisti, uno dei leader del movimento dei Tharu ci aveva spiegato così la sua posizione: “All’interno del partito maoista non c’era sufficiente spazio per il nostro gruppo etnico. I Tharu sono gli abitanti originari di questa terra. E, come i Madhesi nell’est del Terai, anche noi vogliamo il nostro Stato autonomo all’interno della federazione nepalese”. Per molti giorni, ai primi di marzo, le pianure del Nepal sono state teatro di scioperi, proteste e rivolte organizzate dagli indipendentisti: negozi chiusi, attività produttive ferme, strade bloccate, approvvigionamenti di cibo interrotti, trasporti pubblici bloccati, manifestazioni di piazza, autobus dati alle fiamme, gente picchiata perché non aderiva allo sciopero. La pace appena raggiunta sembrava essere di nuovo in pericolo. In quei giorni un contadino senza terra, Tharu anche lui, commentava amaramente: “Chi blocca le strade ha riserve di cibo per un anno, ma noi come facciamo? Se non lavoriamo non abbiamo soldi per dare da mangiare ai nostri figli”. Un leader locale dei maoisti invece diceva: “Le loro richieste mirano solo a rinviare le elezioni. Nella nostra agenda abbiamo già previsto la creazione di Stati autonomi nel Terai”. Alla fine, dopo lunghe trattative, indipendentisti e governo provvisorio hanno raggiunto un compromesso e il voto non è stato rinviato. Ma qui nelle pianure nepalesi si respira un clima di inquietudine, come se il peggio non fosse ancora passato. Nessuno, però, pare preoccuparsene più di tanto. Le cose andranno, ineluttabilmente, come dovranno andare. Figlia di un contadino senza terra del Terai. Nepal 2008, Rocco Santangelo


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Italia

Stranieri in banca di Marco Marcocci Da Paese di emigranti a Paese di immigrati: questa è in estrema sintesi la trasformazione, sempre più marcata, che da qualche anno sta caratterizzando l’Italia, dove il fenomeno dell’immigrazione ha ormai raggiunto un’importanza rilevante. Gli ultimi dati attestano che il 6,2 percento della popolazione italiana è formato da stranieri e che le imprese dei migranti presenti nella penisola sono oltre 220mila. L’Italia, quindi, ha progressivamente assunto una posizione centrale nella geografia dei Paesi ricettori dei flussi migratori contemporanei ed è, a questo punto, allineata con la media europea della popolazione straniera nei singoli Paesi. Il nuovo scenario presuppone anche che ogni banca, così come l’intero sistema finanziario, sia tenuta a studiare strategie innovative con l’obiettivo di far fronte alle esigenze di un contesto socio-demografico sempre più multietnico e multiculturale. Ed è in questa direzione che, seppur timidamente, da qualche anno le banche si stanno muovendo, riversando sul mercato prodotti e servizi rivolti ai migranti. Tecnicamente questo fenomeno prende il nome di migrant banking e può essere definito come l’insieme di tutte quelle attività inerenti all’avvicinamento dei migranti alla banca e ai prodotti e servizi da questa offerti. Troppo spesso, però, concretizzare il rapporto tra migrante e banca non è cosa semplice: continua, infatti, a persistere un’estraneità di fondo tra i due attori che, oggi come oggi, non trova nessuna giustificazione alla sua esistenza. A ben guardare, infatti, banche e migranti sono destinati a intensificare proficuamente la loro relazione a condizione, però, che le sollecitazioni e le potenzialità di ciascuno nei confronti dell’altro sappiano essere colte da entrambi come occasione di miglioramento. Deve essere sempre tenuto presente che, da un lato, l’intermediazione della banca è indispensabile al migrante per la gestione del proprio risparmio in impieghi utili e produttivi nei diversi territori coinvolti dalla migrazione, vale a dire oltre all’Italia, Paese ospitante, anche nel Paese di provenienza. Dall’altro le banche devono vedere nel migrante un’opportunità per aprirsi a nuovi segmenti di mercato, ampliando la propria offerta finanziaria nonché la fascia di servizi resi alla clientela. La bancarizzazione fornisce al migrante la cosiddetta “cittadinanza economica” che garantisce la partecipazione attiva nella società di riferimento. In Italia, secondo recenti ricerche, il numero degli stranieri titolari di un conto corrente bancario si aggira intorno a 1.400.000, cifra destinata a raddoppiare entro qualche anno. Le banche dovranno specializzarsi sempre più per offrire servizi idonei a soddisfare le molteplici esigenze dei “nuovi italiani” che, di frequente, hanno bisogno di essere interpretate in quanto legate a vari fattori quali, ad esempio, il progetto che il migrante ha deciso di intraprendere o l’et22

nia di riferimento. La formazione del personale bancario e l’impiego di mediatori culturali giocano un ruolo prioritario per cogliere immediatamente la domanda del migrante. Tra i vari prodotti e servizi che il migrante chiede alla banca vi è senz’altro quello relativo alle rimesse di denaro, ossia alla possibilità di inviare soldi ai familiari rimasti nel proprio Paese di origine. Il tema delle rimesse è particolarmente delicato e rilevante, basti pensare ai volumi che esprime: nel 2006 sono usciti dall’Italia oltre 4,3 miliardi di euro per il tramite di banche e money transfer, ai quali se ne devono aggiungere altrettanti che raggiungono il Paese di origine grazie ad amici, parenti e vettori vari. E’ stato accertato che tre stranieri su quattro effettuano rimesse con cadenza regolare ed è auspicabile che presto la comunità internazionale stabilisca delle regole comuni a cui questa tipologia di trasferimenti di denaro dovrà attenersi. Il costo della rimessa, il tempo necessario affinché questa sia disponibile al destinatario, e la modalità con cui quest’ultimo entra in possesso della somma spedita, sono fattori basilari che devono essere sempre tenuti presenti quando si parla di rimesse. Si pensi, ad esempio, al costo applicato alla rimessa che deve essere il più basso possibile in quanto, tra l’altro, va a distogliere risorse da impiegare nel Paese di origine del migrante. Tra gli altri prodotti richiesti dai migranti al sistema bancario italiano, vi sono anche le varie forme di finanziamento. Quelle destinate all’acquisto della casa registrano, specie tra i migranti di seconda generazione, un trend in forte crescita: nel 2005 vi sono stati ben 116 mila contratti di compravendita sottoscritti da cittadini stranieri. Quello che il migrante chiede alla banca è in sintonia con quello che viene offerto tradizionalmente dal mercato bancario: conto corrente, carte di debito e di credito, prestiti... La vera innovazione però sta nel modello di bancarizzazione che deve essere applicato nella situazione in esame: deve essere infatti fornito al migrante un indirizzo sul corretto impiego del denaro, anche per quello che viene inviato ai familiari nel Paese di origine. Per fare ciò occorre il coinvolgimento di istituzioni finanziarie e organizzazioni, pubbliche e private, operanti nei Paesi di origine. Questa sinergia e interazione trasnazionale costituisce il vero valore aggiunto, irrinunciabile, che il sistema bancario italiano deve saper offrire al “nuovo italiano”. Suonatore ambulante a Milano. Italia 2007, Andrea Pagliarulo/Prospekt


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Migranti

I due diritti alla vita Di Gabriele Del Grande Sono 36 i migranti e rifugiati morti lungo le frontiere europee nel mese di febbraio: 24 vittime al largo delle coste marocchine, due in Spagna, una a Ceuta e sei in Algeria, lungo le rotte per la Sardegna. In Egitto si torna a sparare: tre richiedenti asilo ammazzati dalla polizia di frontiera sul Sinai. La Libia firma un accordo con Malta, dopo quello con l’Italia, e apre al negoziato con l’Ue per un accordo quadro, mentre è allarme per i 200 rifugiati eritrei rimpatriati da Kufrah. In Algeria finiscono in manette un prete francese e un medico algerino mentre assistono dei migranti nelle baracche di Maghnia. Intanto dalla Francia parte il primo rimpatrio collettivo verso il Pakistan e Bruxelles dà il via libera all’entrata in vigore dell’accordo di riammissione tra Ue ed Ucraina. Per gli esuli eritrei la Libia continua a essere dannata. A Misratah prosegue, da ormai due anni, il calvario dei 600 esuli detenuti e in attesa di espulsione. Mentre da Kufrah, nel sud della Libia, 200 eritrei sono stati rimpatriati a metà febbraio. Della notizia, non confermata, sono sicuri gli eritrei romani. Sette famiglie hanno confermato il rimpatrio dei figli, che sarebbero finiti in galera, nella località di Wea, vicino ad Assab. Che sarà di loro? Le testimonianze dei deportati del video “Eritrea – Voice of Tortures” non lasciano dubbi: per loro sarà la tortura nel migliore dei casi, la morte nel peggiore. E viene da chiedersi chi abbia pagato quel volo. Strano che la Libia, abituata ad abbandonare i migranti in mezzo al deserto, investa tanto denaro per un volo diretto per Asmara. Ha pagato l’Italia? La domanda è legittima, visto che nel 2004 l’Italia pagò il rimpatrio di 109 eritrei dalla Libia. Ma per il momento rimarrà senza risposta. Di sicuro l’Italia ha stanziato 6.243.000 euro alla Guardia di Finanza per il pattugliamento congiunto in Libia. L’accordo bilaterale del 29 dicembre 2007 è stato ratificato dal governo libico il 19 febbraio e a breve sarà operativo. Il 27 gennaio la Libia ha firmato un accordo di cooperazione per il soccorso in mare con Malta. E da Bruxelles l’Unione europea ha aperto il negoziato per un accordo quadro con Tripoli. Notizie che non devono essere sfuggite ai dallala (gli organizzatori delle traversate), dato che a febbraio si è registrato un record nel numero di arrivi sulle coste siciliane: 1.855 contro i 355 del febbraio 2007. Tutti vogliono fare presto. I dallala perché, se i pattugliamenti funzioneranno, rischiano di perdere un sacco di soldi. E i richiedenti asilo perché, se i pattugliamenti funzioneranno, rischiano di perdere la vita. Chiedevano tempi più celeri per il riconoscimento dell’asilo politico, adesso saranno processati per direttissima con l’accusa di sequestro di persona. Succede anche questo in Sicilia, nel centro di identificazione di Cassibile. I fatti risalgono al 23 gennaio. Intorno alle dieci del mattino un gruppo di 110 eritrei occupa per protesta il cortile antistante il cancello dell’ingresso, impedendo di fatto l’uscita di un infermiere e due operatori sociali dell’ente gestore Alma Mater. Fanno parte di due gruppi. Il primo sbarcato il 30 ottobre a Portopalo, l’altro arrivato ad Agrigento il 23 Novembre del 2007. Dopo tre mesi di detenzione, le prime convocazioni sono iniziate soltanto il 21 gennaio. Dopo la prima udienza, il processo è 24

stato aggiornato al 23 maggio. L’accusa propone il patteggiamento a una condanna di 2 mesi e 20 giorni con la condizionale. Se la manifestazione, durata soltanto due ore, fosse pacifica e legittima poco importa. Un anno di carcere con la condizionale. Pierre Wallez non avrebbe mai immaginato che una preghiera potesse costargli tanto cara. Ma succede anche questo in Algeria. Per una volta però il terrorismo islamico non c’entra. La colpa è dei camarades, come gli algerini chiamano i neri che attraversano senza documenti il Paese alla volta del Marocco per poi imbarcarsi per la Spagna. Il 26 dicembre scorso, il prete francese, cattolico, aveva celebrato una preghiera di Natale tra i fedeli di una baraccopoli alle porte di Maghnia, una città algerina a pochi chilometri dalla frontiera marocchina. Ci vivono centinaia di migranti sub-sahariani in transito verso il Marocco, diretti a Ceuta e Melilla. E ci trovano rifugio i migranti che le forze armate marocchine deportano ogni giorno dall’altro lato della frontiera (anche nelle ultime settimane), abbandonandoli a se stessi in una terra di nessuno. Wallez visitava i baraccati da otto anni. Il 9 gennaio è stato arrestato. Il tribunale di Orano lo ha condannato “per celebrazione di un culto in un luogo non riconosciuto dal governo”, un reato introdotto da un’ordinanza presidenziale del 28 febbraio 2006. Un anno di carcere con la condizionale e una multa di 200.000 dinari algerini, circa 2.000 euro. Un’acrobazia giuridica per condannare la solidarietà. Lo prova il fatto che ad essere stato condannato non è stato soltanto il prete. Con lui quel giorno c’era un medico algerino. Anche lui è finito sotto processo. I giudici gli hanno inflitto due anni di carcere per aver sottratto dei farmaci dal centro sanitario di Maghnia con i quali aveva curato i malati delle baracche È partito il 13 febbraio da Parigi il primo volo charter comunitario di espulsi pakistani detenuti in diversi Paesi europei. Un unico volo per tutti. In nome dell’efficienza e del risparmio. Con scali in Inghilterra, Olanda, Spagna e Slovenia. La notizia è stata diffusa dall’associazione francese Cimade. L’aereo è partito dalla Francia con 27 cittadini pakistani e 75 poliziotti. E si è riempito negli altri Paesi. “Una espulsione collettiva”, denuncia la Cimade, contraria all’articolo 4 del Quarto protocollo della Convenzione europea sui diritti umani (vista la situazione politica del Pakistan). “Andate a domandare alle vittime degli attentati della campagna elettorale se il Pakistan è un Paese sicuro! – ha dichiarato il presidente della Ligue des droits de l’Homme (Ldh), Jean-Pierre Dubois – Chi ha firmato gli atti di espulsione non ci spedirebbe certo i propri bambini”. Dubois dice tutto: “Ci sono due standard di protezione e di diritto alla vita: uno per gli europei e un altro per gli indesiderabili”. Non c’è molto altro da aggiungere. In alto e in basso: Migranti a Lampedusa. Italia 2007, Samuele Pellecchia/Prospekt


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Rubriche

In edicola di Claudio Sabelli Fioretti

La sigla scippata In tivù

di Sergio Lotti

Domande astruse E’ vero che la famigerata par condicio, cattivo rimedio a un sistema televisivo da sesto mondo, sfavorisce i partiti minori, ma ci sarebbe da aspettarsi che proprio per questo gli stessi partiti fossero stimolati a sfruttare al meglio il poco spazio a loro disposizione. Invece pare che non se ne preoccupino. Prendiamo il candidato socialista Bobo Craxi, per esempio, che a Primo Piano, alla richiesta del conduttore Maurizio Mannoni di esprimere il suo pensiero su certe candidature dello schieramento avversario, si è aggrovigliato in una serie di discorsi fumosi dai quali l’unica cosa chiara emersa è che a lui di chi è Giuseppe Ciarrapico non gli potrebbe importare di meno, se uno lo vuol candidare faccia pure. Il fatto che si sia dichiarato fascista, insomma, o che abbia avuto a che fare con la giustizia dalle parti del Banco Ambrosiano e altrove, non gli pare degno di attenzione. Della serie la storia non insegna niente, neppure quando ti sfiora molto da vicino. Accanto a lui, invece, Daniela Santanché, candidata premier della Destra di Storace, aveva le idee molto più chiare: la candidatura di Ciarrapico sarebbe la prova dell’imminente inciucio fra i due partiti maggiori. Ora, può darsi che noi gente semplice non abbiamo ancora afferrato la transizione della politica italiana verso una dimensione onirica, ma anche pensando tutto il male possibile di Veltroni e Berlusconi, come pontieri di un possibile inciucio ci verrebbero in mente altri nomi. La cosa più divertente, però, era l’espressione sgomenta di Mannoni che, non sapendo più cosa chiedere ai suoi ospiti, sembrava chiedere a se stesso: ma questi due, sanno di cosa stiamo parlando? Forse è per evitare questi imbarazzi che a Porta a Porta le domande sono più regolamentate, tanto regolamentate che il direttore del quotidiano napoletano Il Mattino, Mario Orfeo, ha dovuto usare quasi la forza per chiedere a Berlusconi quali misure prevedesse il suo programma per risanare il Paese, a partire dalla sanità. Domanda astrusa, si capisce, davanti alla quale il Cavaliere aveva cominciato ad aggiustarsi il nodo della cravatta. Così Vespa ha cercato in tutti i modi di interrompere Orfeo, dicendo brutalmente che il tempo stringeva e che su queste cose il leader del Pdl aveva già risposto. Però nessuno se lo ricordava. 26

I quotidiani e i tg italiani sono sempre pronti a dare ogni genere di notizia purché sia importante. Se Mike Jagger annuncia di voler svelare il segreto della sua longevità, per esempio, ecco pronta la prima pagina di Repubblica. Ed il Corriere non dimentica di sbattere Madonna in prima pagina quando si tratta di parlare del suo nuovo single scaricabile da www.corriere.it E quando Marina Berlusconi fa l’elogio di Luxuria ecco che sempre il Corriere non si tira indietro. Gli esempi potrebbero continuare per ore e per pagine. Risparmiatemi la fatica. Credetemi sulla parola oppure andate a controllare l’importanza delle notizie pubblicate. D’altronde è anche giusto che non si limiti alle notizie serie la possibilità di riempire le pagine. C’è anche l’emergenza imballaggi, diamine. C’è anche il gasolio record. C’è anche Berlusconi che la mena di nuovo sui brogli. Capito? Ma una cosa non riesco a comprendere. Come mai nessun giornale italiano, nessun telegiornale, quando Tabacci, Pezzotta e Baccini si sono presentati agli elettori italiani con la sigla "La rosa bianca", hanno trovato lo spazio, un misero spazietto, per dare la notizia che il nuovo partito cominciava la sua attività

politica con un furto? Come mai nessuno se l’è sentita di togliere la notizia di una velina, di un calciatore, di un nuovo reality per dire che la Rosa Bianca è una sigla che ricorda il martirio di cinque studenti tedeschi e del loro professore , cattolici e non violenti, che furono assassinati dai nazisti a causa della loro attività di propaganda antihitleriana? Non solo. La Rosa Bianca è anche un’associazione italiana nata proprio per ricordare i sei eroi. E l’associazione ha protestato, ha parlato ai tre ladri di memoria, li ha anche denunciati. Ma loro sono andati avanti imperterriti. Interesse elettorale? Fastidio? Leggerezza? Un partito di ispirazione cattolica e cristiana scippa una sigla, un ricordo, una testimonianza di valore altissimo sia dal punto di vista religioso che da quello della democrazia. Lo fa con arroganza e supponenza. Io non credo in Dio, Ma Tabacci, Pezzotta e Baccini sì. Sappiano che andranno all’inferno. Ma dove mandiamo tutti quei giornali che pensano che questa non sia una notizia?

A teatro

so: “Synagosyty”, scritto con Gabriele Vacis ( che cura anche la regia) e da lui interpretato. Ci racconta la sua vita, la vita di un giovane sospeso tra un passato (quello del padre) che non gli appartiene e un futuro che non riesce a vedere uguale a quello dei coetanei con i quali è cresciuto. “Una storia malinconica e allegra, comica e tragica, come ogni vita” osserva Vacis, da cui emergono però tutte le diffidenze e difficoltà della convivenza con chi si sente “più italiano” di lui: insomma il percorso irto di intoppi verso un’integrazione per ora ancora problematica. Forse andrà meglio alla terza generazione… Lo spettacolo “vola alto e leggero”, hanno scritto, e Aram Kian è bravissimo. Accanto a lui Francesca Porrini e una piccola folla di personaggi allusi ma reali.

di Silvia Del Pozzo

Una via piena d’intoppi In apparenza è un trentenne come tanti. Alle spalle ha un’infanzia normale nella periferia industriale di una città del Nord, al massimo qualche scherzo di compagni bulletti, la maestra che ogni tanto lo chiama Gheddafi… forse per via dei capelli ricci e la pelle un po’ olivastra; un’adolescenza banale negli anni Novanta (scuola, discoteca, qualche corteo studentesco). Poi gli anni svogliati dell’università, la ricerca difficile di un lavoro… Di nome fa Aram, Aram Kian, perché suo padre è iraniano, un immigrato iraniano, sposato a un’italiana. Aram è quindi uno dei sempre più numerosi “italiani di seconda generazione”, che si racconta in uno spettacolo dal nome curio-

www.sabellifioretti.it

“Synagosyty”, Torino, teatro Gobetti dal 9 al 21 aprile.


Musica di Claudio Agostoni

Rem

Palestinesi ed ebrei, saharawi e marocchini, serbi e albanesi… tutti insieme nelle note delle sue canzoni. Con questo nuovo lavoro Sepe (con l’ausilio determinante della Rote Jazz Fraktion,

Sono tornati, erano in tanti ad aspettarli. Il quattordicesimo album da studio della band capitanata dall’inconfondibile volto e voce di Michael Stipe è fatto di chitarre potenti e pezzi ben ragionati, 34 minuti scoppiettanti. “L’album più veloce che abbiamo fatto in vent’anni di carriera”, ha dichia-

di Nicola Falcinella

La zona di Rodrigo Plà I benestanti che si murano dentro un quartiere residenziale per “proteggersi” dai poveri delle baraccopoli circostanti. Non parliamo di ricchi asserragliati nelle loro ville protette da recinzioni,

la formazione “allargata” di musicisti che da anni suonano con lui, e dell’Ensemble Micrologus, protagonisti assoluti del rilancio dell’interpretazione della musica medievale) ha voluto superarsi, spingendosi ad esplorare la guerra illustre contro il tempo. E così la sua ricerca di contaminazione si è spinta fino all’anno mille, tra i Carmina Burana, le Cantigas e le versioni in latino di Stayin’ Alive (Vivimus) e Norwegian wood (Norwegiae lignum). Ne esce una lotta contro il tempo, un viaggio musicale inedito, serio e giocoso insieme, nell’Europa del Duecento e del Trecento: quasi una crociata al contrario, verso una Terra Promessa aperta alle culture, alle storie, ai suoni del mondo. rato il band leader. Un album col turbo-reattore: undici canzoni caratterizzate da un’affilata sensazione di elettricità, caratteristica di una delle band più stimate, amate e creative dei nostri tempi, che con questo nuovo lavoro sfida se stessa a superare nuovi limiti. È anche una sorta di Bignami del Rem pensiero. Considerazioni che Michael Stipe ha illustrato in sede di presentazione dell’album, dove ha esternato tutta la rabbia per Bush e la sua politica: un governo che ha rifiutato di firmare il protocollo di Kyoto, ma che ha permesso a una nazione potente come gli Stati Uniti d’America di invadere uno stato sovrano nascondendosi dietro un mare di bugie. Rabbia anche per i media che, anziché svolgere il ruolo di torre di guardia al comportamento del governo, si limitano a mischiare intrattenimento e informazione. I Rem fanno la scelta di non sporcare i testi delle loro canzoni con il nome del loro presidente, non ce n’è bisogno anche perché in ogni verso si respira lo sguardo duro e rabbioso della protesta. Non resta che aspettarli in tour, quando per l’ennesima volta si trasformeranno in una gioiosa macchina da guerra, armata dell’elettricità dei propri strumenti.

Al cinema

Daniele Sepe, “Kronomakia”, Il Manifesto

telecamere e guardie armate come sempre più spesso accade in alcuni paesi ricchi o in tanti Paesi del sud del mondo (anche da noi, se continuerà il processo di abbandono delle metropoli per andare a vivere negli hinterland tutti uguali). Questa volta si tratta di borghesi come tanti di una città messicana, pronti a prendere le armi e organizzare ronde contro gli intrusi. Come leghisti un po’ sovreccitati dopo un fatto di cronaca. Lo racconta un film inquietante e attualissimo, “La zona”

Vauro

Rem, “Accelerate”, WEA

Daniele Sepe Il sassofonista napoletano è sicuramente, tra i musicisti italiani, quello che maggiormente ama miscelare le culture. Musicali e non. Una ricetta la sua che, come più volte ha spiegato, tende a far capire che la mescolanza è il miglior antidoto contro l’intolleranza e l’istinto guerrafondaio che si respira in questi anni. 27


del messicano Rodrigo Plà. Una pellicola già vincitrice, alla Mostra di Venezia 2007, del Leone del futuro come migliore opera prima. La zona del titolo è il nome del quartiere benestante. Quando un temporale provoca la caduta di un pilone, che crea un varco nel muro, tre ragazzini s’intrufolano

nell’appartamento di una signora. Sorpresi nel furto, strangolano l’anziana. Due vengono uccisi dalla reazione del vicino, mentre il terzo non può tornare a casa e deve nascondersi nel circondario. I residenti gli danno la caccia in un crescendo di violenza e terrore. Un suo coetaneo, figlio di uno dei più esagitati e intolleranti, lo scopre e, dopo l’iniziale diffidenza, lo nasconde. Invece i residenti, che si autogestiscono riunendosi in un comitato nella palestra della scuola e non riconoscono l’autorità della polizia, coprono l’uomo che ha sparato ai ragazzi. Uno scenario spaventoso, perché molto vicino al vero di una società dove è saltata ogni forma di condivisione delle regole. Tutto è sorvegliato da telecamere, ma allo stesso tempo è fuori controllo. Non a caso il quartiere ha per nome “la zona”, come il territorio misterioso dello “Stalker” di Andrej Tarkovski, anche se qui il senso è ribaltato. Il film è come un incubo e non basta a rassicurarci la fiducia finale nei ragazzi.

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In libreria di Giorgio Gabbi

Un cammelliere a Manhattan di Lucia Vastano È un romanzo di avventure che ha come protagonisti due ragazzi di diciassette anni: belli, coraggiosi, di sani principi morali, ma abbastanza incoscienti da cacciarsi in situazioni molto più grandi di loro. Lui, come vuole la tradizione del suo popolo, i pashtun dell’Afghanistan meridionale, pascola il branco di cammelli di proprietà della sua famiglia: ha fatto le scuole superiori, se la cava con qualche lingua, adora la lettura dei grandi poeti persiani, compone versi e passa gran parte del tempo a sognare viaggi. Lei, orfana di un professore universitario e studentessa modello, è un tipo deciso: sicura di sé e, insofferente dei vincoli che la società tradizionale impone alla donne, tende a comportarsi come un maschiaccio. Sono cugini e, per volere dei genitori, anche promessi sposi. Ma c’è un problema: lei, Muna, è perdutamente innamorata di lui. Il ragazzo, Azad, invece è segretamente innamorato di un’altra, appena intravista, e tratta la promessa sposa come una sorella. Muna decide allora di stanarlo e mette in piedi un’iniziativa pazzesca. Che dà il via alla

serie di avventure. Nel libro, però, c’è molto di più: che è poi la ragione per occuparsene in questa rubrica. C’è la tragedia senza fine del popolo afgano, fra gli strascichi della feroce dittatura talebana e la guerra degli americani contro i terroristi di al Qaeda con imperdonabile contorno di vittime innocenti; ci sono gli scontri fra clan rivali con contorno di attività criminali di ogni genere, dal traffico di droga a quello dei reperti archeologici e delle armi, dalle rapine ai sequestri di persona. E poi c’è il “grande gioco” delle potenze mondiali che si contendono affari vantaggiosi nella sconfinata area ex-sovietica dell’Asia centrale, ricchissima di petrolio e di gas. Qui Azad realizza il suo sogno di ragazzo di ripercorrere


le tappe della Via della Seta, oggetto delle sue fantasie. Però, se i paesaggi naturali non lo deludono e quanto resta delle città cantate dai suoi profeti preferiti suscita pur sempre in lui un’emozione, il paesaggio umano gli racconta storie diverse. Spie e trafficanti di ogni genere, mafiosi russi e brutali poliziotti cinesi, corruzione e odio: certo, ci sono anche gli onesti e i generosi, il vecchio artigiano che martella il rame e il pastore che lo ospita nella sua tenda mongola. Ma non sono loro quelli che comandano. E qui l’autrice, Lucia Vastano, nota corrispondente di guerra, dimostra una conoscenza molto ben documentata dell’area che tratta. Muna, l’intraprendente, fa un viaggio tutto diverso da quello del suo Azad. Diventa lo strumento consenziente di un’operazione anti-terroristica: è trattata con ogni riguardo ma del tutto inconsapevole di quello che ha architettato per lei un agente segreto degli americani. E così ha l’occasione di scoprire l’America, attraverso vicende che sono fra le più divertenti e paradossali del libro. Il lieto fine è assicurato, ma la morale della favola è un’altra: da questo mondo di malvagi e di matti è meglio scappare, preferibilmente su un’isola. Salani Editore, 2008, pagg. 304, 15,00 €

In rete di Arturo Di Corinto

Contro il prestito bibliotecario Negli ultimi anni il copyright (il diritto d’autore in Italia) ha smesso di essere un argomento per avvocati ed è diventato un tema di importanza cruciale per musicisti, designer, scrittori, accademici, consumatori e per chiunque sia coinvolto a vario titolo nella produzione e fruizione di cultura. Ma poco si dice di quanto un regime di copyright rigido danneggi la diffusione dell’istruzione nei paesi in via di sviluppo. Il copyright è nato e poi si è consolidato come un dispositivo di bilanciamento per garantire agli autori un incentivo alla produzione di opere creative e allo stesso tempo favorire la loro circolazione presso il pubblico, affinché chiunque potesse goderne. Non è nato certo per tutelare i profitti delle case editrici come qualcuno sostiene. E la migliore dimostrazione del ruolo di garanzia di questo istituto sta nel fatto che da sempre le biblioteche pubbliche esistono come alternativa alla distribuzione commerciale delle creazioni culturali. Nel seguito di "The Disney Trap", fortunato video contro le storture del copyright, questa volta a essere preso di mira è l’equo compenso sul prestito bibliotecario. Anche per questo è nata la Open Access Initiative: per garantire la libera fruibilità e circolazione dei prodotti della ricerca

lettere a un chirurgo confuso scrivi a chirurgo@peacereporter.net Caro Gino, In aprile saremo chiamati alle urne. Mentre scrivo, i partiti hanno già cominciato a scannarsi per la campagna elettorale. Ma la cosa che mi stupisce è che i due maggiori contendenti di accusano non litigano sul programma del loro eventuale governo, sul merito delle rispettive proposte, no. Litigano soprattutto accusandosi a vicenda di aver copiato i programmi elettorali. I partiti più piccoli sono schiacciati dagli appelli al voto utile e dalla spropositata potenza di fuoco dei due partiti maggiori. Io, però, faccio fatica a trovare qualcuno che mi rappresenti. Tu cosa farai?

Caro Franco, “L’Italia è un Paese democratico?” Ponessimo la domanda ai nostri concittadini, sarebbe un plebiscito per il “sì”. Se ci spingessimo poi a chiedere “perché?”, la risposta più comune sarebbe sicuramente “perché si vota”. Il trucco, e la trappola, sono proprio qui, nell’accettare questa equivalenza. Eppure sono innumerevoli nella Storia i fatti che dimostrano senza equivoci come la convinzione “si vota quindi c’è democrazia” sia del tutto infondata. Non solo Hitler salì al potere “democraticamente eletto”. La storia del voto (e quella delle elezioni) trasuda imbrogli. Non parlo di schede contraffatte (e ce ne sono tante) ma di elezioni fantasma, fittizie, pilotate, di risultati imposti, addirittura di colpi di stato militari per rovesciare risultati indesiderati. Tanti modi di ottenere e organizzare di volta in volta “il consenso”, cioè la sottomissione al volere della classe dominante. Potremmo fare una mappa dei Paesi coinvolti, e occuperebbe gran parte del planisfero, Stati Uniti, Cina e Russia in testa. La mia idea di democrazia è quella di un sistema sociale teso a sviluppare la persona umana in base al riconoscimento della comune “eguaglianza” in dignità e diritti di tutti i suoi cittadini. Se ci guardiamo intorno non è cosi’. Non lo è nel mondo: non hanno uguale dignità e diritti i bambini che nascono a Kabul o a Helsinki, in Darfur o alle isole Cayman. E non lo è neppure qui in Italia. Quanti milioni di persone soffrono per l’indigenza, per la povertà? Quanti nostri concittadini, venuti da lontano a cercare speranza nel nostro Paese, soffrono per discriminazioni e razzismo? Anche per questo, a mio avviso, un sistema davvero democratico non potrebbe e non dovrebbe essere un sistema “neutro”: al contrario, dovrebbe prima ristabilire quella parità di condizioni (la basic equality), come precondizione

per un funzionamento davvero neutro e non discriminante del sistema stesso. Non deve sorprendere l’affermazione che un sistema democratico debba esercitare il potere in modo “partigiano”, in favore di una parte dei propri cittadini, sta perfino scritto nella Costituzione italiana. In una democrazia compiuta, anzi, dovrebbe essere proprio il demos, il popolo più bisognoso e disagiato a detenere il potere, a orientare le scelte. Non trovo tracce di questa idea di democrazia nella casta politica italiana... Ma forse sto divagando, si discorreva di elezioni. Ho guardato i “programmi” (per quel che vale, visto che poi mai si realizzano) per cercare differenze significative, e ne ho trovate proprio poche. Anche qui nessuna sorpresa, gli opposti aspiranti leader si attribuiscono la paternità originaria del programma, accusando l’avversario di aver copiato... “Lo abbiamo detto prima noi” è tra gli argomenti più intellettualmente pregnanti del dibattito pre-elettorale. Tra l’altro ho notato che in nessuno dei programmi c’è un accenno al rifiuto della guerra. Eppure dovrebbe essere nel “Dna politico” della casta nostrana, sta perfino scritto nella Costituzione. Per decenza evito commenti su chi scrive “pace” sui propri manifesti elettorali e ancora sta in Parlamento dove ad ogni occasione ha votato per la guerra. Per il resto, zitti. Parlare della guerra non conviene a nessuna delle “coalizioni”. Anche qui, un programma tendenzialmente comune... Chi avrà copiato chi? La stragrande maggioranza della casta politica italiana è per la guerra, lo ha già dimostrato e lo sta dimostrando. L’Italia è oggi parte della grande crociata a stelle e strisce che sta affliggendo il mondo da anni. Mi si propone di scegliere quale sia il mio tipo di “condottiero” ideale (o il meno peggio) per guidare il nostro carro in quella crociata. Non mi riguarda, non ho nemici e non voglio averne, la guerra e l’idea di uccidere mi ripugnano, per me la questione finisce qui. Anche quella del voto. Gino Strada

accademica finanziata con soldi pubblici, organizzandoli in archivi aperti, liberamente accessibili e gratuiti (http://www.openarchives.org). Oggi finalmente i ricercatori possono pubblicare in

nuova generazione di riviste ad accesso aperto, in cui i costi sono coperti da meccanismi diversi dagli abbonamenti. Come il caso della Public Libray of Science. PLOS. http://www.plos.org/

Franco, Palermo

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Per saperne di più Colombia LIBRI

GUIDO PICCOLI, Colombia, il paese dell’eccesso. Droga e privatizzazione della guerra civile, Feltrinelli Editore. Una delle necessità del neoliberismo è di trovare metodi efficaci di contenimento dell’antagonismo che inevitabilmente genera. Uno di questi metodi è il cosiddetto "sistema del passero", sperimentato con sanguinoso ma straordinario successo in Colombia e suggellato con la recente elezione a presidente di Alvaro Uribe Vélez. I primi paramilitari degli anni Quaranta, epoca d’inizio dell’inesauribile guerra civile colombiana, venivano infatti chiamati pajaros per la loro capacità di agire e scomparire rapidamente, senza lasciare traccia. Da allora, nel ricco e bellissimo paese latinoamericano, si sono accumulate centinaia di migliaia di cadaveri di politici, sindacalisti e, soprattutto, povera gente massacrati con sistematicità, mai casualmente, e nell’impunità più scandalosa. "Il sistema del passero" rivela l’agghiacciante evoluzione del paramilitarismo, dalle sue origini nella teoria statunitense delle "guerre a bassa intensità" fino all’abbraccio con i signori della droga e con l’oligarchia nazionale e, buon ultimo, con i guerrieri della "Enduring freedom" che, come ricorda Bush dopo l’11 settembre, deve essere "necessariamente sporca". Ma il libro pone in risalto anche come la tendenza alla "privatizzazione dell’uso della forza" vada ben al di là della Colombia e sia evidente in tutti i moderni conflitti di ogni tipo: dall’utilizzo delle bande clandestine parastatali, fino all’uso, ormai consueto in continenti come quello africano, delle Military Private Company. MARC CHERNICK, Acuerdo posible. Solución al conflicto armado colombiano, Edizioni Aurora, Bogotá 2008. Chernick, politologo statunitense, professore associato e ricercatore per la Georgetown University di Washington D.c., fa un’analisi storica comparata del conflitto colombiano, ripercorrendo gli scontri e i tentativi di accordi. La sua tesi è che non esiste, a breve termine, una soluzione militare alla guerra colombiana, quindi ripercorre con dovizia di particolari le cause storiche della violenza colombiana e le politiche di pace e guerra dei governi Betancur, Barco, Gaviria, Samper, Pastrana e Uribe, sottolineando opportunità perse e costi politici e umani che hanno portato i dialoghi al fracasso. Quindi un occhio al narcotraffico, precisando che, anche se ha contribuito a far dilagare il conflitto, non ne è la causa. Un libro che dà gli strumenti per ripensare il processo di pace e trovare elementi importantissimi per costruirne uno certo e definitivo. GIACINTO FRANZOI, Rio Caguán. Memorie e leggende di una colonizzazione, Edizioni La Consolata, 2007. Questo libro analizza la società colombiana, origine e vittima dei conflitti che da sempre l’attanagliano. É una raccolta di testimonianze dirette che danno il quadro di una Colombia sconosciuta ai più, quella del sud amazzonico, quella delle piantagioni di coca, quella sotto controllo guerrigliero, quella che per molti è la causa di tutti i mali. A scriverlo è un missionario della Consolata, che da trent’anni vive a Remolino del Caguán, del quale ha voluto raccogliere storia, miti, leggende e memorie, affinché non si dimentichi quello che fu e si rilegga alla luce di un futuro diverso, magari in pace. 30

SITI INTERNET

http://www.eltiempo.com/ E’ il sito del principale quotidiano colombiano: El Tiempo. In mano alla potente famiglia Santos, che sforna politici, diplomatici e uomini per tutti i gangli del potere, riesce comunque a coprire con professionalità gli eventi, anche se non con eccessiva lucidità quando si tratta del conflitto. http://www.semana.com/ E’ il sito del settimanale colombiano più letto, Semana. Le sue inchieste, i suo scoop sono approfonditi e di spessore. La versione cartacea è curatissima e raffinata, ma quasi tutto il contenuto importante viene pubblicato anche on-line. Anche questo settimanale è della famiglia Santos, quindi gli editoriali hanno un taglio conservatore. Gli argomenti e l’accuratezza nell’affrontarli, però, ne fanno un giornale coraggioso e ben fatto. http://www.betancourt.info E’ il sito della Federazione internazionale dei comitati Ingrid Betancourt, la franco-colombiana rapita il 22 febbraio 2002 dalle Farc, mentre era candidata alla presidenza della Repubblica. Raccoglie appelli, mobilitazioni, informazioni sullo scambio umanitario che la guerriglia sta proponendo al governo Uribe. Uno scambio ben visto anche dalla comunità internazionale, Francia in primis, ma ancora lungi dall’avvenire.

FILM

JOSHUA MARSTON, Maria piena di grazia, Stati Uniti/Colombia, 2004. Maria, giovane colombiana incinta, decide di cambiare vita e accetta di volare verso gli Stati Uniti, per conto di un narcotrafficante, portando con sé della droga. È la drammatica storia dei muli, las mulas, termine per indicare uomini e donne che decidono di inghiottire capsule piene di coca per trasportarle oltre confine. Scelte spesso dettate da miseria e mancanza di alternative in un paese in guerra e piegato dalla piaga del narcotraffico. FABRIZIO LAZZARETTI, Giustizia nel tempo di guerra, Italia 2004. Settembre 1995. Giacomo Turra, un ragazzo di Padova, muore a Cartagena de Indias in Colombia. Il caso viene archiviato come overdose da cocaina, ma prove e autopsia rivelano un’altra storia: Giacomo Turra è stato brutalmente ucciso da 5 poliziotti. 24 anni, Turra era un poeta e uno studente di antropologia. Si trovava in Colombia per studiare le popolazioni indigene della Sierra Nevada di Santa Marta. La complessa realtà della Colombia viene osservata e commentata dalle poesie di Giacomo, dalla tenace lotta della famiglia Turra e dalla ricerca senza tempo di una vita pacifica e spirituale degli indios della Sierra Nevada. La tragedia di Giacomo diventa l’inizio di un viaggio attraverso la Colombia: Àlvaro Uribe, l’attuale presidente del paese, in connessione con gruppi paramilitari, promuove un nuovo modello di stato di polizia, la guerra di oltre 50 anni fra paramilitari e guerriglia sembra non aver fine. Nel tempo di guerra, come i colombiani sanno troppo bene, la vita umana è solo il prezzo della vittoria. Giacomo Turra è soltanto una delle molte persone ammazzate in Colombia dalla polizia e dall’esercito e uno dei pochi sopravvissuti all’anonimato. Il film è il frutto di tre anni di lavoro del regista Fabrizio Lazzaretti e del produttore Vanni Gandolfo. Incredibilmente è stata possibile una co-produzione a livello internazionale che ha messo insieme alcuni dei più grossi broadcasters europei, tra cui la BBC, la Rai, ZDF (Germania), ARTE (Francia e Germania), Tv Ontario (Canada) e ha ottenuto il supporto del Programma Media dell’Unione Europea (sia per lo sviluppo che per la distribuzione), nonché un supporto del prestigioso Sundance Institute.

Baschi LIBRI

JOSEBA SARRIONANDIA, Lo scrittore e la sua ombra, Tranchida 2002. E’ una delle novelle di un autore basco di riferimento. Esule e ricercato, riuscì ad evadere dal carcere nascosto dentro la cassa di un amplificatore. Dal luogo in cui si trova, per ora sconosciuto, ha continuato a scrivere e a pubblicare libri. AUTORI VARI, Pintxos, edizioni Gran Via 2007. Una felice raccolta di racconti di diversi autori baschi e di differenti visioni. Fra i quindici scritti selezionati dalla piccola e coraggiosa casa editrice c’è anche uno scritto di Bernardo Atxaga. La traduzione è affidata a Roberta Gozzi. ANGEL REKALDE, SANTIAGO ALBA RICO, RUI PEREIRA, GIOVANNI GIACOPUZZI E JABIER SALUTREGI, La grande menzogna, Datanews 2003. Gli autori di questo libro ricostruiscono vari aspetti della ‘gran mentira’ del governo Aznar sugli attentati dell’11 marzo del 2004 alle stazioni ferroviarie di Madrid. Analisi politica e massmediatica. Uno degli autori, Jabier Salutregi è stato direttore del quotidiano Egin, chiuso dalla magistratura spagnola. Per questo fatto si trova ora in carcere.

FILM

GILLO PONTECORVO, Operacion ogro, Italia 1979. Capolavoro di Gillo Pontecorvo, con l’indimenticabile interpretazione di Gian Maria Volonté. La ricostruzione dell’attentato di Eta in cui perse la vita il delfino del dittatore Franco, l’ammiraglio Carrero Blanco designato alla successione del Caudillo. JULIO MEDEM, La pelota vasca, Spagna 2003. Documentario politico che raccoglie le opinioni di politici, intellettuali, personalità del Paese basco, a eccezione dei rappresentati del Partido popular e della Chiesa. Fu oggetto di proteste e di grande dibattito per la sua candidatura ai premi Goya. Settanta interviste e una cornice magica per la fotografia che ritrae gli angoli più belli e significativi dei Paesi baschi.

SITI INTERNET

www.gara.net Il quotidiano che si autodefinisce ‘la voce dei senza voce’ nasce da una sottoscrizione popolare. È l’erede storico del quotidiano Egin, chiuso nel 1998 per iniziativa del giudice Garzon. Dentro la redazione c’è anche Info7, una radio che trasmette via etere e sul web. http://www.deia.net E’ l’organo ufficiale del Partido nacionalista vasco, la forza maggioritaria nelle provincie basche in territorio spagnolo. http://www.basqueleft.org/ Sito che riunisce interessanti dossier sulla situazione storica e sugli ultimi avvenimenti politici. Come dice il nome stesso, legato agli ambienti della sinistra indipendentista. http://www.euskara.it L’Associazione Culturale Euskara è una associazione senza scopo di lucro ed ha per oggetto la promozione, divulgazione e conoscenza dell’euskara e della cultura basca e lo scambio con le diverse culture presenti in Italia.


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