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mensile - anno I numero 5 - dicembre 2007

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Sierra Leone

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

La grande truffa delle Nazioni Unite

Venezuela Brasile Paesi Baschi Afghanistan Italia di A. Cazacu Mondo

L’oro di Chavez La guerra di Rio In carcere la pace La nostra guerra invisibile Io, cittadina del mondo Iraq, Gran Bretagna Turchia, Filippine

Gino Strada

Noi e la violenza

Il quarto fascicolo dell’atlante:

Kosovo



Fino a quando il colore della pelle sarà più importante del colore degli occhi ci sarà sempre la guerra. Bob Marley

dicembre 2007 mensile - anno I, numero 5

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Direttore Maso Notarianni

Redattori Christian Elia Matteo Fagotto Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Vauro Senesi Stella Spinelli Naoki Tomasini Alessandro Ursic Progetto grafico Guido Scarabottolo Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Relazioni esterne Marco Formigoni

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Stefania Alina Cazacu Valeria Confalonieri Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Giorgio Gabbi Muhiddin Mugne Hagi Mascat Paolo Lezziero Sergio Lotti Angelo Miotto Claudio Sabelli Fioretti Gino Strada Gianluca Ursini Hanno collaborato per le foto Raffaele Capasso Simone Manzo Samuele Pellecchia/Prospekt

Redazione e amministrazione Via Meravigli 12 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 Fotoeditor peacereporter@peacereporter.net Naoki Tomasini

Stampa Graphicscalve Amministrazione Loc. Ponte Formello - 24020 Annalisa Braga Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 30 novembre 2007

Pubblicità Via Meravigli 12 20123 Milano Tel (+39) 02 801534 Fax (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

a una certa impressione risvegliarsi, una mattina, in pieno regime. Con la sua bella censura sulle operazioni militari all’estero e la sua bella propaganda bellica. Nemmeno nei filmati dell’Eiar, la Rai ai tempi del fascismo, si possono trovare trasmissioni come quella andata in onda domenica 18 novembre sulla prima rete Rai. Un fiume ininterrotto di malcelati elogi alle nostre forze armate e ai corpi speciali di ogni ramo dell’esercito, della marina e dei carabinieri. Filmati di pura propaganda, con tanto di musiche accattivanti e da atmosfera. Quanto sono tosti, i nostri militari, capaci di entrare in azione in pochi secondi e di salvare vite umane in ogni parte del globo. Di entrare in covi con ostaggi di pericolosissimi terroristi e di far stragi selettive portando in salvo i prigionieri e sterminando i cattivi di turno. Capaci di compiere blitz notturni a bordo di gommoni o di sottomarini o di altri mezzi da sbarco. Capaci di tutto - così erano dipinti - fuorché di fare quello che stanno facendo, ad esempio in Afghanistan. Paese in cui, stando a fonti militari, le truppe italiane sono impegnate nella più importante offensiva militare di combattimento dalla Seconda guerra mondiale. Ma quello la nostra televisione non ce lo mostra. I nostri giornali non ce lo raccontano. I nostri inviati nemmeno lo vedono. Perché la cultura della guerra ha vinto un’altra battaglia: quella contro la verità, contro il giornalismo, sempre più ridotto ad essere il mestiere di chi riempie le pagine che non sono di pubblicità, stando attento a non disturbare con frasi troppo forti l’inserzionista. Dai teatri delle nostre guerre sono spariti anche i giornalisti embedded. Un paio di volte è sucesso che a qualcuno di loro venisse un rigurgito di coscienza civile che lo ha costretto a raccontare la verità dei fatti che gli capitavano intorno e che dimostravano che la guerra è sempre e comunque il peggiore dei crimini, e la nostra guerra è sempre più identica al “terrorismo”. Il nostro servizio pubblico non solo tace di fronte agli orrori che andiamo, noi e i nostri alleati, disseminando in giro per il mondo. Ma arriva anche a dedicare due ore di trasmissione sulla rete più importante alle menzogne e alle lodi rivolte all’esercito. Che qualche lode se la merita pure, visto il lavoro civile che spesso compie. Ma che è indegno di un tale servizio, in cui si è arrivati a vantare persino le sperticate e gloriose imprese dei militari italiani fascisti durante la seconda guerra mondiale. Che si sono coperti di gloria, secondo il servizio mandato in onda dalla Rai, invece di aver coperto di gas gli africani e di massacri e di stupri i popoli al di là dell’Adriatico. È una china davvero pericolosa, quella che han preso i nostri politici e l’informazione italiana. Quando si nasconde o si vuole ignorare in modo compiacente la realtà si rende un pessimo servizio al proprio paese. Che lo faccia la televisione pubblica, è più che scandaloso. È immorale. Ma pare che le questioni morali, oramai, non importino più a nessuno.

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Meravigli 12 - 20123 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Foto di copertina Nella discarica-bidonville di Kroo Bay, a Freetown. Sierra Leone, 2007 Maso Notarianni©PeaceReporter

Paesi Baschi a pagina 14

Afghanistan a pagina 20

Venezuela a pagina 10 Italia a pagina 22

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Migranti a pagina 24

Sierra Leone a pagina 4

Arabia Saudita a pagina 18 3


Il reportage Sierra Leone

La grande truffa dell’Onu Di Maso Notarianni

Quasi due miliardi di euro dal 1999 a oggi, circa seicentomila euro al giorno spesi nel Paese africano solo dalle Nazioni Unite. Ma tra i cittadini della Sierra Leone non se ne è accorto nessuno. unica cosa di internazionale che ha l’aeroporto di Freetown è un pulmino che trasporta i passeggeri nei venti metri che separano l’aeromobile dall’ingresso. Usciti dal minuscolo aeroporto, non si viene avvolti dal tipico caldo umido dei paesi centrafricani, peggio: la Sierra Leone è il paese dove piove di più al mondo. Quattro metri d’acqua all’anno contro i settanta centimetri italiani. Appena fuori dall’aeroporto, una strada sterrata e piena di voragini dovrebbe portare i viaggiatori e i turisti in città. Già, i turisti, perché stando ai cartelloni che si vedono in ogni dove, il turismo dovrebbe essere, nelle intenzioni del governo, una delle principali fonti di attrazione in questo paese. Dopo pochi metri, Demba, l’autista del pulmino, non si scompone più di tanto per il fatto che il motore si sia spento e non dia più segni di vita nel mezzo di un’enorme pozza d’acqua, rossa come la terra della Sierra Leone, e parecchio profonda. Sospira e sorride ai passanti e ai ciclisti: nel raggio di un centinaio di metri di automobili ferme o mosse, ma a spinta, ce ne sono altre quattro. Sarebbe tutto normale, le strade a pezzi, la mancanza di strutture, la mancanza di servizi. In fondo siamo in Africa, e per giunta in un paese appena uscito da una guerra devastante. Stanno lì a ricordarcelo in quell’angolo di aeroporto, appena fuori dov’è consentito fumare, i mutilati che chiedono una dignitosa e per nulla insistente carità che non può ripagare le braccia e le gambe lasciate all’assurdità di un conflitto durato oltre dieci anni. Sarebbe tutto normale se la Sierra Leone non fosse stata teatro, oltre che della guerra, anche della più impegnativa missione delle Nazioni Unite mai concepita e realizzata nella storia. Impegnativa, soprattutto dal punto di vista economico. Quasi due miliardi di euro in nove anni, circa seicentoottomila euro al giorno spesi solo dall’Onu, senza contare l’impegno dei singoli Paesi, dall’Italia agli Stati Uniti. E le migliaia di Organizzazioni non governative, attirate come api dal miele del danaro. Con le loro migliaia di progetti, uffici, logisti, esperti e consulenti di questo e di quello. Oggi di quelle Ong non ce ne sono quasi più. Perché le Nazioni Unite hanno finito la loro missione, e sono finiti i soldi pubblici assegnati quasi senza controlli. Un fiume di denaro mostruoso che non ha lasciato alcuna traccia. Ma questo non lo si riesce a vedere subito: Freetown ci accoglie con un temporale impressionante, che riduce la visibilità a pochi centimetri. Qualcosa però si intuisce: la missione delle Nazioni Unite, che tanto danaro è costata, non ha lasciato nemmeno un collegamento tra l’aeroporto e la città, che dev’essere raggiunta in elicottero, oppure con il ser-

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vizio di hovercraft che attraversano il golfo portando i nuovi arrivati, finalmente, vicini al centro città. reetown, in centro, assomiglia un poco a New Orleans. Non a quella famosa per il blues e le passeggiate, ma a quella post alluvione. Le strade sono tutte disfatte, le case cadenti, la povertà strutturale non lascia spazio nemmeno alla fantasia di quei quasi due milioni di abitanti costretti a vivere in una città che ancora in gran parte non ha nemmeno l’elettricità. Mohamed ha venticinque anni. È lui il Caronte che ci traghetta verso l’inferno con cui gli abitanti di Freetown convivono. “Dietro le colline che circondano la capitale, a Bumbuna, dovrebbe presto essere ultimata la costruzione di una centrale elettrica cominciata vent’anni fa. Dovrebbe portare la luce a tutta la città – ci spiega – ma solo durante e subito dopo la stagione delle piogge, quando l’acqua scorre potente. Da quel che dicono, chi l’ha progettata non ha tenuto conto del fatto che per sei mesi all’anno non piove. Non ci sono bacini di raccolta. E dunque se non piove, niente luce”. La centrale intermittente è un’opera imponente e ovviamente costosissima, circa diciotto milioni di euro, costruita dagli italiani. Ma non manca solo la luce, a Freetown manca anche l’acqua. Nel paese in cui piove di più al mondo, quasi due milioni di persone sono costrette a lavarsi e a prendere l’acqua per far da mangiare nei tanti fiumiciattoli che attraversano la città. Ma non c’è disperazione, né rabbia in questa miseria. È al ritmo del reggae e del calipso che le donne, coperte di stoffe coloratissime e sgargianti, e anche gli uomini, vanno a lavare i panni nei rivoli. Quelli più fortunati, in collina, hanno l’acqua pulita. Ma non ci sono fogne, e non c’è chi raccoglie la spazzatura. E a valle, dove vive la maggior parte delle persone, verso un mare che potrebbe fare concorrenza a quelli delle più gettonate isole tropicali, i panni vengono lavati e le pentole riempite in mezzo al pattume, in quegli stessi rivoli dove, qualche centinaio di metri più su, altri hanno gettato gli avanzi del cibo, l’immondizia di casa e anche pulito le latrine. Per bere, i ricchi usano le bibite e l’acqua minerale, che costa più della cocacola. Gli altri comperano l’acqua dai venditori di strada. Sono studenti, di solito, e trasportano sulla testa, sgattaiolando in un traffico di catorci perennemente congestionato e clacsonante, grandi cesti di sacchettini da circa mezzo litro di acqua fresca che viene venduta per pochi spiccioli.

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Bambini portano acqua presa in una discarica di Freetown Sierra Leone 2007. Maso Notarianni ©PeaceReporter


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Proprio vicino al mare c’è uno “stabilimento” dove l’acqua viene imbustata. Decine di donne con grandi mastelli prendono l’acqua che a momenti alterni sgorga dalle tubature dell’acquedotto di Freetown e la filtrano passandola da un mastello a un altro, ricoperto da un telo di stoffa che raccoglie le impurità. Le donne sono capitanate da Josef, il boss. “Faccio questo mestiere da dieci anni - racconta - e la mia acqua è pulita, la compro da Guma (la società che gestisce l’acquedotto n.d.r.) e la faccio mettere nei sacchetti. Però, anche durante la stagione delle piogge, l’acqua manca spesso”, aggiunge sorridendo tra il rassegnato e il furbo. “Ma da quando ci sono state le elezioni l’acqua c’è sempre, e così anche l’elettricità, dove arriva. E riesco a fare più di quattromila sacchetti al giorno”. Come Josef, sono in molti a puntare sul dopo-elezioni, vinte da Ernest Koroma, il candidato che ha scommesso tutto sulla devastante corruzione del governo che lo aveva preceduto. Con lui si era schierata la società civile di Freetown, a prescindere dai gruppi etnici in cui è normalmente divisa. “Quelli che c’erano prima si sono rubati tutto, speriamo che adesso le cose vadano meglio”, conclude Josef.

n riva al mare, dove un tempo c’era il porto dei pescatori della capitale, nella zona della Kroo Bay, c’è una immensa baraccopoli. Arrivandoci, si viene avvolti da mille profumi - banane mature, pastella fritta, pesce cucinato su improvvisate griglie o fritto - ma anche da mille puzze. Sopra le quali spicca “l’odore” di Escherichia coli, un batterio che, insieme a quello della salmonella e al vibrione del colera, da queste parti non se la deve passar male. Le baracche sono strettissime, addossate l’una all’altra. Salvo nella piazza centrale, dove centinaia di ragazzi si trovano per giocare e fare musica. Mentre si disputano il pallone (il calcio è il gioco nazionale della Sierra Leone) il tramonto disegna i loro muscoli rendendo ancor più inverosimile il contrasto tra il misero e scarso cibo di cui si nutrono, la sporcizia contaminante che da tutta la città cola verso la loro bidonville e i loro fisici da atleti e da modelle. Tra le baracche, proprio sopra un rigagnolo di fogna a cielo aperto, ne salta agli occhi una che per parete ha un sacco di riso arrivato come aiuto umanitario dall’Iraq post-Saddam. Poco più avanti, c’è la casa del dottore. È un medico tradizionale, il dottor Murah, e per arrivarci bisogna superare la diffidenza degli abitanti del quartiere e dei suoi collaboratori. Probabilmente siamo i primi bianchi, whiteman, a essersi spinti fino a casa icino a Waterloo Street (tutte le strade di Freetown portano nomi sua. Prima di essere ricevuti, facciamo in tempo a raggiungere la riva del molto british) scorre uno di questi “fiumi” mare. Andandoci, ci si accorge che gradualmente cittadini. Dalla collina scende ripido, a volte la terra su cui camminiamo si trasforma in spazzaDieci anni di guerra civile dal allo scoperto, a volte entro gigantesche tubature di tura. Una enorme discarica a cielo aperto contami1991 al 2001, e la corruzione dei governi postbellici, hanno cemento. Mano a mano che l’acqua si avvicina al nata dai percolati delle fogne e delle discariche lasciato un paese dalle enormi mare, è sempre più contaminata. Al punto che, che stanno più a monte: la fogna della fogna. Dei ricchezze naturali allo stremo. dove ci fermiamo noi, pochi mesi fa la spazzatura maiali si bagnano nell’acqua salmastra e salmoDue terzi della popolazione ha creato una vera e propria diga, che dopo qualnellosa che solo un centinaio di metri più al largo sono scappati in Liberia o in che tempo ha ceduto scaricando sulle poche case riesce ancora a sembrare mare. Ma il movimento Guinea. Fino al 2005 il tasso di e sulle molte baracche circostanti tutto il suo peso. che si nota non è quello dei maiali, che non portamortalità infantile era il più alto Adesso, intorno a noi stanno piano piano ricono magliette colorate: sono gli abitanti di Kroo Bay del mondo. Oltre il 70 percento struendo, a colpi di cartone e di qualche lamiera che vengono fin qui a cercare in mezzo al liquame della popolazione vive sotto la trovata in giro, baracche dove vivere. Stride il conqualcosa di ancora utilizzabile o vendibile. soglia di povertà trasto tra le impeccabili divise dei bambini che ell’oscurità della sua baracca, in una stanzetta di due metri per due vanno e vengono da scuola, per ognuna delle quali c’è un colore distintivo, senza finestre e con le porte chiuse, Murah ci mostra con orgoglio i e lo sporco, il fango, l’odore di malattia che si respira. suoi diplomi, rilasciati da diversi ministeri della Sierra Leone e della Proprio davanti a noi, una cascatella dove gli abitanti della zona vengono Liberia. Dietro di lui una raccolta di audiocassette, uno stereo portatile e vari a far la doccia. Poi il rigagnolo si snoda lungo la main street di questa improvvisata baraccopoli andando a raccogliere le deiezioni dei suoi abistrumenti da “stregone”: pezzi di corno, frammenti di ossa, sacchetti di cuoio tanti e portando il tutto verso l’oceano, verso altre e, se possibile più misedall’aria antica. Tutti da queste parti ricorrono alle sue cure, fatte di erbe, corre, baracche. tecce e infusi vari. Ma soprattutto fatte di saggi consigli, come bollire l’acqua Al contrario di quel che siamo abituati a vedere dalle nostre parti, a prima di usarla per qualsiasi cosa abbia a che fare col corpo e allontanarsi Freetown più ci si avvicina al mare e più si sprofonda nella miseria. dalle “case” per fare pipì. “Le malattie più diffuse - spiega Murah - sono quelMa è una miseria strana, quasi felice. Spesso a tempo di musica, certale legate all’intestino e allo stomaco. Colera, dissenterie varie. Ma anche la mente molto colorata, disperante più che disperata. Colorata come i conmalaria è un problema”. Le statistiche dicono che quasi trecento bambini su tainer che fanno da bar vendendo sacchetti di acqua e bibite a temperamille non arrivano a compiere cinque anni. Ma il sospetto, girando per la capitura ambiente, cioè calde; come i vestiti di donne uomini e bambini; tale e per la Sierra Leone, è che le statistiche siano davvero impossibili da come i sorrisi che ti accolgono ovunque. Sotto la cascatella, un gruppo di fare, e l’entità del problema sia decisamente maggiore. “Molta gente muore ragazzini gioca nel rigagnolo. Una donna ci raggiunge e ci racconta di per le cose più stupide - dice ancora il dottore - e le erbe che raccogliamo in quando la sua casa è stata spazzata via dalla furia dell’acqua. “Nessuno questa zona non sono più efficaci per le cure. Quando ci sono emergenze ci aiuta. Nessuno si occupa di noi. Nessuno si preoccupa del fatto che qui importanti, mando i pazienti negli ospedali. Ma non molti possono permetpotrebbe essere una strage, se succede un’altra volta che la pattumiera tersi di pagare le medicine, le garze, le bende, o le siringhe. Tutto si paga, formi una diga”. Poco dopo arriva anche un ragazzo. “Sono il responsaanche solo per entrare in ospedale ci vogliono quindicimila leoni”. Sono tre bile, qui, sono il capo. Che volete? Che ci fate? Non si possono fare fotoeuro o poco più, ma il guadagno medio delle famiglie non supera i tre-quatgrafie”. Ci vuole tutta la pazienza e la calma di Mohamed, per spiegare tromila leoni al giorno. Viene spontaneo chiedersi perché gli abitanti della al gruppo di ragazzi che ci circonda che non siamo nemici. E che non Sierra Leone debbano pagare per essere curati, soprattutto dopo essere siamo, come dice lui, “come quelli che negli anni passati venivano, propassati dall’ospedale di Emergency, poco distante dalla capitale, un gioiello di mettevano tutto, facevano un sacco di domande, e poi sparivano”. Quelli efficacia ed efficienza del tutto gratuito. Anche perché gli ospedali e le struterano le Ong e i funzionari Onu. Venivano, studiavano, costruivano sulla ture sanitarie sono state pagate con i soldi delle Nazioni Unite. La spiegaziocarta i progetti, se li facevano finanziare, e poi via, tutti i pomeriggi e le ne ce la fornisce Ibrahim Korona, studente e tassista: “È la politica della sere sulla strada che costeggia la bellissima spiaggia di Freetown, ricca, Banca Mondiale, che prevede l’autosostentamento delle strutture. Ma come fino a che sono state qui le Nazioni Unite, di ristoranti, night club, bar si può pensare che un ospedale possa autosostenersi? Il diritto alla salute gestiti perlopiù da libanesi, e frequentati da puttane. Noi vogliamo solo non è uno dei diritti fondamentali dell’uomo?”. raccontare, spieghiamo. Sperando che qualcuno legga e veda, e magari possa fare qualche cosa per loro. O per tutti gli altri che, come loro, sono In alto: La vita nella bidonville di Kroo Bay. In basso: Un’auto dell’Onu stati presi in giro dagli “aiuti umanitari” delle grandi agenzie e delle Ong sfreccia nelle strade della capitale. Freetown, Sierra Leone 2007. miliardarie. Ma capiamo in fretta che è meglio andarsene. Samuele Pellecchia/Prospekt per PeaceReporter

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I cinque sensi della Sierra Leone

Udito Whiteman! È l’appellativo che ci si sente rivolgere sempre e ovunque. Uomo bianco, ma detto senza razzismo. Che si sia bianchi, è solo un dato di fatto. Un po’ come da noi si usava rivolgerci agli sconosciuti con “hei capo”, per le strade di Freetown così si viene chiamati da tutti quelli che vogliono attirare la nostra attenzione, per venderci qualche cosa ma anche per avvisarci quando, sovrapensiero, ci accingiamo ad attraversare una strada trafficata. Lo scrosciare della pioggia sulle lamiere dei tetti. Che non è uno scroscio, ma un ruggito imponente. Un rumore che copre qualsiasi tentativo di comunicazione tra umani. Il rumore che fanno i palloni spesso sgonfi quando non addirittura fatti di stoffa appallottottolata. Lo si sente ovunque. Perché ovunque e in ogni occasione si può mollare tutto e giocare a calcio.

Olfatto Quello di cipolla è l’odore che decisamente sovrasta tutto quando si è in giro per i mercati della città e dei villaggi. L’Escherichia Coli è un batterio che si trova normalmente negli intestini degli animali a sangue caldo. Anche degli umani. Ma quando se ne sente l’odore in giro vuole dire che la zona è contaminata, pesantemente, dalle feci. Ed è meglio starne lontani, perché di solito sono feci malate. Il sapone è diffusissimo. Fatto in casa artigia-

nalmente con la soda, diffonde il suo profumo per noi d’antan in ogni dove. Oltre a rendere più igenica la vita, però, è causa di molti guai: sono sempre più frequenti gli incidenti da ingestione di soda caustica, e colpiscono soprattutto i bambini, rendendo i loro esofagi praticamente inutillizzabili per l’ingestione di cibi e bevande.

Tatto La sabbia finissima delle splendide spiagge della costa sierraleonese. Un tempo meta turistica, oggi meta soprattutto di pescatori e di quei pochi occidentali rimasti in Sierra Leone dopo la fine della missione Onu. La levigata roccia rossa che in ogni dove spunta a Freetown. Spunta dai muri delle case, dagli angoli delle strade, dai marciapiedi, dalle carreggiate. Ed è così tanto usurata da avere una superficie scorrevole come fosse coperta di alghe. Il legno antico e reso brillante da milioni di carezze umane degli enormi ficus che approfittando dell’umidità e del calore africano della Sierra Leone crescono a dismisura. Il più famoso è il Cotton tree, l’albero simbolo di Freetown: cinquanta metri di monumento naturale. La pelle e i muscoli degli uomini e delle donne della Sierra Leone, che nonostante la pessima nutrizione, sono belli e solidi come rocce. Rendendo persino più difficile ai chirurghi il loro lavoro: “Masse muscolari su cui riesce difficile operare, da tanto sono forti”, ci han detto all’ospedale di Emergency. Le gocce d’acqua che cadono sulla testa quando piove non sono gocce, sono ciascuna una bicchierata. E arrivano persino a fare male.

Gusto Le aragoste, piccole, freschissime, supersaporite. Sono un cibo da privilegiati. Pochi, oltre agli occidentali, si possono permettere di cenare nei ristorantini in riva al mare che cuociono il pesce sulla brace insaporendolo con spezie locali. Ma il pesce è molto diffuso, e una delle pietanze tipiche è una saporitissima zuppa di pesce. Che si accompagna al riso bollito con verdure oppure alla kasawa, una sorta di patata dal colore giallognolo e molto saporita. Il sapore aspro della corteccia di whe, una pianta curativa usata dai medici tradizionali dal sapore simile all’aspirina. Che qualche principio attivo lo deve contenere di sicuro: non appena ne si mastica un pezzetto, la bocca si anestetizza. Viene usata moltissimo per curare le malattie gastrointestinali, ma l’albero da cui si prende è sempre più raro.

Vista Ancora le spiagge, tornate incontaminate e davvero mozzafiato. Un misto tra Caraibi e Mediterraneo. Il mare della Sierra Leone poi, grazie a un incrocio di correnti atlantiche, è sempre particolarmente caldo. I cartelli pubblicitari che sono l’unico segno di una qualche ricchezza nel paese. Ma è solo apparenza. E stridono molto, i cartelli colorati delle compagnie telefoniche e delle grandi multinazionali alimentari, con la miseria che li circonda. I poster venduti per le strade, a ogni angolo. In bancarelle che espongono, senza nessun pudore, giovani amanti allacciati in amplessi di fianco a immagini sacre per i musulmani e per i cristiani. 9


Il reportage Venezuela

L’oro di Chavez Dal nostro inviato Alessandro Grandi

L’aria abitualmente dolce del lago di Maracaibo diventa irrespirabile una volta giunti a campo El Prado a Tia Guana, importante centro industriale del settore petrolchimico del Paese. Cambia anche il panorama. Le piante tropicali, le casette dai mille colori in stile coloniale e il verde lussureggiante lasciano spazio a immense colate di cemento, piccole palazzine, enormi hangar industriali. aracaibo è la capitale dello Stato di Zulia, il più occidentale degli stati venezuelani. La città è famosa per un noto motivetto anni Sessanta che descriveva la forza del mare che la circonda. Ma a Maracaibo il mare non c’è. C’è però un immenso lago sovrastato dal più lungo ponte dell’America Latina. Lo stato di Zulia è amministrato da Manuel Rosales, considerato il vero leader dell’opposizione politica al presidente Hugo Chavez. I rapporti fra i due sono pessimi e a risentirne è evidentemente anche l’economia di Maracaibo e in generale di tutto lo Stato che, come racconta Rosales, “Non riceve nulla di quello che produce. Tutto viene mandato a Caracas e là viene gestito. A noi non arrivano nemmeno i finanziamenti per il sostentamento delle strutture della regione. Credo che sia una questione politica”. Un cenno con la mano e una pacca sulla spalla indicano che è arrivato il nostro momento: un balzo sulla barca, la numero 0647, e via a curiosare fra i pozzi di petrolio, vere e proprie miniere d’oro. Le onde causate dalle imbarcazioni di passaggio nel lago sbattono violentemente contro la chiglia della lancia messa a disposizione da Pdvsa (Petroleo de Venezuela, la compagnia petrolifera statale) per visitare i pozzi di petrolio che si trovano a centinaia nel lago. Le acque sono inquinate: vicino ai pozzi che pompano greggio e gas naturale assumono un colore innaturale tendente al verde e rilasciano un cattivo odore, oltre che una strana alga simile alla mucillagine. Lo sanno bene anche i pescatori che vivono da queste parti: “La pescosità

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del lago è andata via via diminuendo nel corso degli anni. Il lago sta morendo, è sotto gli occhi di tutti. Non ci sono più tanti pesci e il nostro lavoro e di conseguenza il nostro sostentamento è seriamente pregiudicato”, raccontano dai banchi ormai semivuoti del mercato ittico di Maracaibo. aria emana una forte puzza, mai sentita prima. La prima impressione è quella di respirare qualcosa che nulla ha a che fare con la purezza dei luoghi intorno a Tia Guana. È l’odore del petrolio. Difficile abituarsi. L’odore del greggio avvolge tutto e tutti: gli abiti si impregnano e l’aria sembra non contenere ossigeno. Gli occhi si arrossano e diventano gonfi. Si fatica a respirare. La sensazione è strana e un senso di vertigine prende possesso del corpo. Bisogna anche fare molta attenzione: i pozzi, i bilancini e la gran parte di quello che serve per l’estrazione del greggio si trovano in mezzo al lago. L’unico modo di raggiungerli è un’imbarcazione. Le piattaforme non sono state costruite a pelo d’acqua ma hanno un’altezza di qualche metro in modo da evitare che la furia delle acque in tempesta le possa sommergere. Ma campo El Prado è uno dei complessi petroliferi più importanti del

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In alto: Un bilancino per l’estrazione del petrolio In basso: Le barche usate per portare i lavoratori Maracaibo, Venezuela 2007. Simone Manzo per PeaceReporter


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Ad accompagnarci nella visita ai pozzi nel lago, Arnoldo Valbuena è il responsabile delle attività di comunicazione di Pdvsa. Arnoldo ha mal di schiena per via dei continui spostamenti in barca all’interno del bacino: se a terra l’umidità è altissima, all’interno del lago lo è ancora di più. Facile immaginare che non solo lui sia soggetto a frequenti dolori dovuti all’artrite. “Gli operai, per la maggior parte giovani - dice - lavorano sulle piattaforme muniti di sofisticatissimi computer che controllano che tutto vada per il verso giusto. Ormai le tecniche di estrazione e controllo a quando in Venezuela sono stati scoperti i giacimenti, nel lontano sono quasi tutte automatizzate”. 1914 (proprio nel Lago di Maracaibo fu installato il primo pozzo), il La tecnologia ha fatto passi da gigante. Eppure, raccontano gli operai petrolio è stato il traino dell'economia nazionale, trasformando un che in equilibrio precario lavorano sulla piattaforma, “è molto pericolopaese povero in uno dei più ricchi dell'area continentale. Fino agli anni so lavorare in queste installazioni. Per una picSettanta, il Venezuela si è tenuto stretto il titolo di cola distrazione si rischia di cadere in acqua”. maggiore esportatore di greggio al mondo. Il Venezuela, 25 milioni di abitanPer questo è obbligatorio allacciarsi in vita un L’abbondanza d’introiti legati all'industria petroliti, è l’ottavo paese produttore di giubbotto salvagente. fera ha reso Pdvsa l’industria più importante del petrolio al mondo. Ma per le sue Paese e una delle più influenti al mondo. riserve è al sesto posto, dopo Arabia Saudita, Iran, Iraq, e piattaforme petrolifere hanno diverse Nonostante questo una buona fetta di popolazioKuwait ed Emirati Arabi. dimensioni ma in generale non sono più ne vive in condizioni di povertà. grandi di 30 metri quadrati. Esattamente “Si stima che nel Lago di Maracaibo ci possano Il primo giacimento petrolifero fu al centro c’è un bilancino che pompa greggio in essere riserve petrolifere per i prossimi settanta scoperto nel 1914. Oggi, il 75 continuazione dalle viscere della terra. o cento anni - dicono i tecnici della compagnia percento delle entrate del Paese Sono costruzioni incredibili le piattaforme che si statale - ma le perforazioni e le installazioni sono deriva dal greggio e dai suoi innalzano nel lago di Maracaibo, come se fossein continuo aumento”. derivati, che incidono per un ro grattacieli nel deserto. Le onde del lago che Ovunque macchie nere di petrolio: sulle scale che terzo sul prodotto interno lordo. si infrangono sui piloni di cemento che le portano in cima ai pozzi e sulle piattaforme. Gli sostengono non sembrano scalfirle. operai che hanno appena terminato il turno sbarIl campo petrolifero di El Prado Quella su cui saliamo è di acciaio inossidabile cano dalle lance che li riportano a terra dopo una è a Tia Guana, vicino a Maracaibo . Misura 23 per 54 ma non si direbbe. È completamente ricoperta notte di lavoro all’interno dei pozzi. I loro volti miglia marittime di petrolio e assume un colore decisamente sono visibilmente affaticati. Le divise color aranHa un totale di 1.500 tra pozzi e diverso da quello dell’acciaio. cio (tutte uguali per ingegneri, operai e tecnici) piattaforme e produce 420.000 Oltre al greggio qui si estrae gas. Per mezzo di sono sporche all’inverosimile di petrolio e le scarbarili al giorno, impiegando1.600 una fitta rete di condutture, il gas viene lavorape antinfortunistiche, una volta di colore chiaro, persone fra ingegneri, tecnici e to e destinato all’industria petrolchimica. lasciano orme nere come la pece nei camminaoperai. Si stima che ci si possa Un cenno di Arnoldo al pilota della barca indica menti della zona di sbarco. Tutti i dipendenti, non estrarre greggio per i prossimi che è arrivato il momento di tornare a terra. appena messo piede a terra, si tolgono dal capo cento anni. “Adesso andremo a vedere le diverse fasi di il caschetto di plastica d’ordinanza che accumula lavorazione del petrolio”. un calore spaventoso, insopportabile se non si è A dieci minuti da campo El Prado c’è l’installazione dove converge tutto abituati. il greggio estratto nel lago. Enormi taniche da 150 mila barili di portata Ognuno di loro ha comunque un sorriso soddisfatto sul viso: un po’ persono piene di “oro nero”. ché hanno finito la loro giornata lavorativa, un po’ perché sanno di lavoUna fittissima rete di condutture fa confluire il gas e il petrolio in querare per l’azienda più importante del paese. sta installazione industriale di ultima generazione. Enormi vasche interL’importanza economica del settore industriale petrolifero venezuelano rate lasciano intravedere il petrolio e la sensazione è davvero impresha una eco internazionale. sionante. Dal sindaco di Londra, Ken Livingstone (conosciuto come Ken il rosso) alla Cina del miracolo economico fino ad arrivare all’Iran del discusso n rubinetto piccolissimo allacciato a una specie di tanica, una Ahmadinejad, tutti fanno a gara per diventare partner di Chavez. Anche volta aperto, lascia fuoriuscire il petrolio: nero, nerissimo. rischiando critiche durissime provenienti dal mondo politico internazionaCorposo, oleoso. La curiosità di toccarlo e sentirne l’essenza è le. Soprattutto dagli Usa che, pur essendo i primi compratori del petrolio enorme. La mano piano piano si bagna dell’oro nero tanto desiderato al di Chavez, criticano chiunque gli si avvicini. mondo. È unto, puzza e sembra essere frizzante per via delle bollicine egli ultimi mesi, infatti, Pdvsa e il governo venezuelano hanno firche lo animano fino quasi a renderlo vivo. mato accordi di fornitura di greggio con tutti questi paesi. Un milioDifficile riuscire a pulirsi. Nemmeno strofinando forte la mano sulla ne di barili al giorno verso la Cina entro il 2011: questo l’ambizioterra secca presente nell’area. Le unghie delle mani ormai hanno bisoso progetto venezuelano. A tutt’oggi il greggio del paese sudamericano, gno di un ‘trattamento particolare’ così come gli abiti. E pensare che al considerato di primissima qualità, stipato in circa duecentomila barili arrimondo si fanno guerre per questo liquido antichissimo che in alcune va nei mercati asiatici tutti i giorni. L’accordo siglato a Caracas alla prezone di questo splendido paese fuoriesce dal terreno in maniera del senza dei vertici politici venezuelani e del viceministro dello Sviluppo e tutto spontanea. della Riforma cinese Zhang Xiaoqiang, è da considerarsi a tutti gli effetti Dalla cima di un albero all’interno dell’area industriale un paio di enoruno dei più importanti mai stipulato da quando l’ex colonnello Chavez è mi uccelli, forse cormorani, sospettosi e curiosi sembrano salutarci con salito al potere. Ma la collaborazione fra Pechino e Caracas non è certo i loro versi come se stessero controllando quello che accade. una novità. Da diverso tempo, infatti, Chinaoil, China National Petroleum Company e altre aziende del settore energetico lavorano in territorio venezuelano su importantissimi progetti bilaterali nella Faja del Orinoco, In alto: Sulla piattaforma petrolifera. In basso: Depositi di greggio dove si stima esista la più grande riserva petrolifera del pianeta. Maracaibo, Venezuela 2007. Simone Manzo per PeaceReporter Venezuela. “Quest’area industriale è molto grande. In acqua si estende su di ventitré miglia marittime per cinquantaquattro” raccontano gli impiegati di Pdvsa. “Qui siamo in grado di produrre quattrocentoventimila barili di greggio al giorno, che in un anno valgono poco meno del quindici percento dell’economia nazionale. In questo campo si lavora ventiquattro ore su ventiquattro, con turni di otto ore e vi sono impiegate almeno milleseicento persone”.

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L’intervista Paesi Baschi

Il processo di pace? In galera Di Angelo Miotto

Haizpea Abrisketa fa parte della dirigenza di Batasuna, il movimento politico basco fuorilegge in Spagna dal 2003, perché considerato parte di Eta, pur essendo stato protagonista del processo di pace naufragato a maggio del 2007. Sembra paradossale, ma passata la frontiera fra Spagna e Francia, i ‘terroristi’ di Batasuna ritornano a essere normali politici. Per questo lei, arrestata con altri ventitré dirigenti, è stata rilasciata sotto cauzione: risiede in Iparralde, territorio francese. Ci racconta il momento del suo arresto? Siamo stati arrestati a Segura e poi sottoposti al periodo di isolamento completo per tre giorni. L’isolamento (fino a cinque giorni e prorogabile ndr) è un regime speciale denunciato ogni anno dal Comitato contro la tortura dell’Onu e da Amnesty International. Dopo tre giorni siamo stati portati dal giudice, che ha decretato il carcere per 17 dei 23 arrestati. In quattro siamo stati liberati con una cauzione da 10 a 24mila euro. Le accuse contro di voi? Un partito politico, interlocutore necessario di un processo di pace e che elabora una proposta di pace, viene considerato un’organizzazione terrorista. Bisogna ricordare che il giudice Garzon dice che l’autodeterminazione e la difesa di questo diritto è un’idea violenta. Vi aspettavate questi arresti dopo la rottura del dialogo? Non sarebbero fatti da aspettarsi, perché sono fatti anti-democratici e la situazione è completamente inaccettabile e irresponsabile dal punto di vista politico. La rottura della tregua avviene con gli stessi parametri. Si mette in marcia un processo di dialogo per superare il conflitto; la sinistra indipendentista basca pone come obiettivo il riconoscimento del popolo basco e del diritto di autodeterminazione. Ma lo Stato spagnolo rifiuta questa via e scommette sulla repressione. Uno degli interlocutori viene incarcerato e si mette da parte la possibilità di superare questo conflitto. Le elezioni politiche del prossimo marzo, in Spagna, hanno condizionato il premier spagnolo? Lo Stato spagnolo, nel processo di pace, ha cercato di evitare la possibilità che al popolo basco fosse riconosciuto il diritto di decidere autonomamente. Non era disposto ad accettarlo. Fra le varie forze interne dell’apparato statale spagnolo ha vinto quella che non vuole cambiamenti. Ci sono analisti che parlano di un possibile ritorno al tavolo dei negoziati, in caso di vittoria di Zapatero. Non sappiamo cosa succederà e non contiamo su Madrid, ma sulle condizioni che saremo capaci di portare avanti nel nostro Paese. Più iniziativa politica, è la nostra risposta. E dopo le elezioni vediamo che cosa sarà possibile fare. Il presidente basco Ibarretxe, del Partido Nacionalista Vasco, ha avanzato una proposta di soluzione che prevede due referendum. Come la valutate? Dare la parola al popolo è una cosa giusta. Ma si vedrà se la proposta di Ibarretxe va davvero alle radici del conflitto, se prevede un vero cambio istituzionale politico. Quello che ha fatto il suo partito, il PNV, nel processo di pace non è stato positivo. Conteranno i fatti, più che le intenzioni. Lei è dirigente di Batasuna, quindi per la Spagna è una terrorista. Ma in Francia lei è perfettamente legale... Sì, perfettamente legale: abbiamo sedi e attività come tutti gli altri partiti. Questa è la grande contraddizione: in un paese membro della Ue siamo terroristi e in un 14

altro siamo legali. Batasuna è una organizzazione politica che lavora nell’insieme di Euskal Herria (le sette provincie basche comprendono, per gli indipendentisti, anche la zona francese, ndr) e lavoriamo nella stessa maniera di qua e di là della frontiera. Batasuna ha sempre sostenuto un processo di pace in assenza di violenza. Eppure, quando Eta compie un attentato chiedono a voi di condannare. Facciamo parte di un gioco politico che cerca di indirizzare le mosse della sinistra indipendentista. Condannare non porta soluzioni, la soluzione viene dal dialogo e dalla politica. Vogliamo superare qualsiasi espressione armata che condizioni questo conflitto, tanto dalla parte dello stato come per quanto riguarda Eta. Anche da parte di Eta, quindi. Nella nostra storia e nella proposta di pace del 2004 abbiamo fatto in raltà una proposta di metodo per il conflitto in cui si dice che un processo democratico si compie in uno scenario di pace. Quindi in assenza di violenza. Che tipo di risposta avete avuto in Europa sulla mancanza di libertà di espressione e di riunione? Stiamo viaggiando, in Europa, per spiegare ai partiti la situazione. Molti ci dicono che non capiscono come si possa incarcerare un uomo come Arnaldo Otegi, che lo stesso Zapatero ha definito ‘un uomo di pace’. Ci sono state dichiarazioni di Gerry Adams del Sinn Fein, che diceva che se Londra avesse agito come sta facendo oggi la Spagna, in Irlanda non ci sarebbe processo di pace. L’Unione europea, il 25 ottobre dell’anno scorso in sessione plenaria, aveva votato una risoluzione per inserire nell’agenda il conflitto basco. Oggi dov’è l’Unione? Dov’è finita la responsabilità politica che aveva sbandierato tanto? Perché non hanno arrestato tutti i dirigenti? La domanda è: perché ne hanno arrestati solo alcuni. L’attività che facciamo dentro o fuori dal carcere è la stessa. Che cosa ricorda del suo arresto? Soprattutto i compagni che sono rimasti, poi, in carcere. È questo il ricordo che porto nel mio cuore. Quello che è successo che messaggio dà alle nuove generazioni? È il momento di rispondere lavorando villaggio per villaggio e a livello internazionale per ribadire che c’è una soluzione e che è sopra il tavolo, da discutere. Una lettera degli arrestati firmata dal portavoce di Batasuna, Joseba Permach, diceva che la proposta di pace rimane aperta e che si deve lavorare su quella. La proposta di pace continua a essere valida, allora? È l’unica che può risolvere il conflitto. Una proposta democratica, che risolva il conflitto alla radice, che ci metta intorno a un tavolo in condizioni di uguaglianza. Con il popolo chiamato ad avere l’ultima parola.

In alto e in basso: Manifestazioni anti Eta e in solidarietà con i detenuti di Batasuna Spagna 2007. Archivio PeaceReporter


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Bassora al centro degli interessi di chi si contende il sud del Paese

Giro di vite contro i partiti della minoranza curda: “O la politica o le montagne”

Le buone nuove

In Iraq nel mirino ci sono le donne D

Turchia, sempre più dura per i curdi

Corea: un binario per la pace Come annunciato nel primo storico trattato di pace, firmato a Pyong-Yang lo scorso mese di novembre, le due Coree hanno compiuto il primo passo verso la completa riconciliazione (e forse un giorno la riunificazione). I due primi ministri si sono accordati per rimettere in piedi un regolare servizio di linea ferroviaria lungo il confine più militarizzato del mondo. È la prima volta in cinquant’anni che un treno viaggia da Seul a Pyong-Yang, anche se per ora è un treno merci.

Messico: meno morti tra i migranti Continuano a morire nel deserto, più di uno al giorno. Ma meno dell'anno scorso, e del 2005. Per il secondo anno di fila, il numero dei migranti clandestini che hanno perso la vita sul confine tra Stati Uniti e Messico è diminuito. Nell'anno fiscale conclusosi lo scorso 30 settembre, i decessi sono calati del dodici percento, da 453 a 400. Due anni prima erano stati 494.

Kashmir: fuori i soldati Dopo diciotto anni di occupazione militare, tutte le scuole e gli ospedali del Kashmir usati come caserme dall’esercito indiano verranno restituiti alla popolazione. Il ministro della Difesa A.K. Antony ha ordinato al mezzo milione di soldati di stanza in Kashmir di smobilitare entro il 30 novembre da tutti gli edifici pubblici occupati. La storica decisione permetterà la riapertura di centinaia di istituti scolastici e strutture ospedaliere finora usate come dormitori e uffici militari in una delle zone che ancora oggi è tra le più militarizzate del pianeta

Repubblica Ceca: i rom finalmente a scuola La Corte europea di Strasburgo ha condannato la Repubblica Ceca per aver praticato ‘discriminazioni razziali’ ai danni di numerosi bambini rom. Fin dagli anni ‘90 venivano mandati nelle scuole speciali, quelle per disabili mentali. La Corte di Strasburgo ha comminato una multa al governo ceco di quattromila euro per ogni bambino, per ‘danni simbolici’.

allo scorso settembre, quando le truppe britanniche hanno lasciato alla sicurezza irachena il controllo di Bassora, nel sud dell’Iraq, la città è caduta nelle mani delle milizie. Queste sono il braccio armato di interessi più grandi, che si contendono il sud del paese in un conflitto che stritola i più deboli: i civili e soprattutto le donne. “La città è succube della violenza confessionale e ideologica” ha dichiarato il capo della polizia di Bassora, Jalil Khalaf Shubel. Scampato a sette tentativi di omicidio negli ultimi quattro mesi, Khalaf Shubel ha spiegato che il vuoto di potere lasciato dai britannici è stato riempito dalle gang di criminali che, infiltrati nella polizia e sostenuti dalla politica, hanno ammassato enormi fortune e sono diventati i veri padroni della città. Il generale Graham Binns dell’esercito britannico sostiene che, dal ritiro delle truppe dalla città, gli attacchi contro militari della coalizione a Bassora sono calati del novanta percento. Ma la violenza contro i civili non è affatto calata. Rapine, omicidi e sequestri avvengono ogni giorno, anche con la collaborazione della polizia. In questo quadro, le fasce più deboli della popolazione si trovano spesso a un bivio: ingrossare le fila della criminalità o diventarne vittime. In particolare le donne, che sono minacciate dal racket della prostituzione e dalle milizie, pronte a tutto per imporre loro uno stile di vita radicalmente islamico. “Indossate il velo o sarete uccise” si trova scritto sui muri. “La repressione contro le donne a Bassora è terribile” spiega ancora Khalaf Shubel. “Le uccidono e poi lasciano su di loro un messaggio oppure le vestono in abiti indecenti per giustificare il loro crimine”. Secondo statistiche locali, almeno quindici cadaveri di donne vengono trovati ogni mese, gettati nelle discariche, con addosso pesanti segni di torture. La Bbc calcola che le irachene uccise, dal ritiro dell’esercito britannico, siano già quarantadue. In questo clima, i parenti delle vittime preferiscono non denunciare i delitti e, tante volte, evitano di andare all’obitorio a riconoscere i cadaveri.

ella zona di confine con l’Iraq la Turchia combatte i ribelli del Pkk militarmente; ora, la battaglia contro i curdi si sposta ad Ankara e nelle aule di tribunale. La pubblica accusa turca ha infatti chiesto alla Corte costituzionale di mettere al bando il Dtp, il partito curdo che quest’anno è riuscito a far entrare in Parlamento venti suoi deputati, perché sospettato di aver legami con i guerriglieri. Secondo il procuratore Abdurrahman Yalcinkaya, i deputati del Dtp prendono ordini da Abdullah Ocalan, il leader del Pkk detenuto da otto anni in un’isola carcere vicino a Istanbul. “È un passo indietro nel processo democratico di questo Paese e in quello di integrazione con l’Unione Europea”, ha ribattuto il numero due del Dtp, Sirri Sakik. “La Turchia sta diventando un cimitero di partiti politici messi fuorilegge”. La battaglia legale dovrebbe andare avanti per mesi: una sentenza della Corte è attesa entro il prossimo marzo, quando sono previste elezioni locali. Il Dtp, nato nel 2005 dalle ceneri del partito Dehap (sciolto prima della probabile messa al bando per gli stessi motivi), sarebbe il quinto movimento curdo a essere vietato in Turchia con l’accusa di essere il braccio politico del Pkk. Nei giorni precedenti la richiesta del procuratore, i leader del partito avevano chiesto per l’ennesima volta più diritti e una maggiore autonomia per il sud-est, dove vive la maggior parte dei 15 milioni di curdi nel Paese. La questione curda rimane bollente: l’inasprirsi degli scontri tra esercito e ribelli del Pkk ha avvelenato il clima. I media turchi aizzano le voglie di vendetta contro i “terroristi” curdi, i leader politici chiedono al Dtp di definire il Pkk un’organizzazione terroristica, per dimostrare la sua fedeltà alla Turchia. E il primo ministro Recep Tayyip Erdogan ha chiesto ai politici curdi di “scegliere tra le montagne e la politica”. Intanto, dal carcere Ocalan propone una “qualsiasi soluzione democratica” per il problema curdo. Ma le autorità turche sembrano avere altre idee.

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Naoki Tomasini Alessandro Ursic 16


Kosovo L’inconscio dell’Europa

a situazione in Kosovo, nonostante anche in passato ci fossero state tensioni tra la minoranza albanese e il governo di Belgrado, precipita nel 1989, quando l’allora presidente jugoslavo, Slobodan Milošević, revoca l’autonomia della provincia risalente alla costituzione della Repubblica Jugoslava di Tito (che era una repubblica federativa con diritto di secessione unilaterale delle varie repubbliche, ma non anche delle regioni autonome). Tra le altre cose, viene revocato lo status paritario goduto dalla lingua albanese-kosovara e vengono chiuse le scuole autonome. Dal 1989 al 1995, guidati dalla Lega Democratica del Kosovo di Ibrahim Rugova, gli albanesi del Kosovo attuano una politica di resistenza non violenta. Dopo la fine della guerra in Bosnia, però, cominca a rafforzarsi nella regione serba a maggioranza albanese l’ala militare dell’indipendentismo. Nasce una serie di gruppi albanesi armati e tra loro emerge l’Esercito di Liberazione del Kosovo, meglio noto con l’acronimo albanese di Uck, finanziato dagli albanesi della diaspora e da traffici illeciti. Ha inizio una stagione difficile, caratterizzata da episodi di violenza e attentati che contribuiscono all’innalzamento della tensione tra serbi e albanesi in Kosovo. Comincia una repressione sempre più dura da parte della polizia e, più tardi, da parte di forze paramilitari di estremisti serbi, a cui rispondevano le milizie albanofone in una escalation di violenza che sfocia nel 1998 allo scontro aperto. La comunità internazionale, sollecitata dall’opinione pubblica albanese, decide di intervenire per proteggere la comunità albanofona in Kosovo. A febbraio 1999, su iniziativa dell’allora Segretario di Stato Usa, Madeleine Albright, il governo serbo e i rappresentanti albanesi del Kosovo vengono invitati al tavolo dei negoziati a Rambouillet, in Francia. I mediatori pongono due condizioni: il distacco del Kosovo dalla federazione serba entro tre anni e l’installazione di una serie di basi Nato nel territorio serbo. Il governo di Belgrado si rifiuta di accettare l’accordo, ma anche l’ala più estremista

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dell’Uck pretende una formalizzazione dell’indipendenza futura del Kosovo. Un mese dopo, esattamente il 24 marzo 1999, i bombardieri della Nato, partendo dalla base aerea di Aviano, in Italia, si alzano in volo diretti verso la Serbia. Fu la prima volta che il suolo italiano veniva utilizzato per un’azione militare offensiva dalla fine della Seconda Guerra mondiale e la missione, per timore del veto di Russia e Cina, non aveva il via libera delle Nazioni Unite. La violenza dei bombardamenti è stata enorme: la Serbia subiva una media di seicento attacchi al giorno. Il numero delle vittime del conflitto, anche a causa di una forte disinformazione sia da parte degli albanesi che dei serbi, non è certo, anche se si può tenere conto di almeno un migliaio di morti. Più di ottocentomila kosovari albanesi abbandonarono il Kosovo. Le forze preponderanti della Nato hanno il sopravvento in meno di un mese, e l’Onu interviene in ritardo, con il coinvolgimento della Russia. A quel punto, per un periodo di transizione che venne fissato in cinque anni, l’amministrazione del Kosovo passa nelle mani della missione delle Nazioni Unite (Unmik). Comincia un contro esodo, questa volta della popolazione serba, ancora oggi stipata nei campi profughi in Serbia. Quelli che decidono di restare, vivono ancora oggi in enclave blindate e protette dai caschi blu, tra l’ostilità della comunità albanese. Il periodo più brutto cade nel marzo 2004, quando una falsa notizia causa una serie di aggressioni albanesi nei confronti dei serbi nelle quali perdono la vita ventidue persone. Scaduto il mandato Onu, si attendeva una decisione della comunità internazionale, ma il piano presentato dall’inviato speciale del Palazzo di Vetro, il finlandese Marrti Ahtisaari, è stato rigettato dai serbi. Nel 2006 sono iniziati a Vienna i colloqui per una soluzione diplomatica del conflitto, ma l’accordo sembra lontano. Il 10 dicembre 2007 scade il termine per trovare un’intesa, mentre gli albanesi kosovari, con il benestare degli Stati Uniti, hanno già fatto sapere che dichiareranno l’indipendenza unilaterale.


Kosovo, l’inconscio dell’Europa

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La questione del Kosovo, comunque andrà a finire, non lascerà indifferente la regione dei Balcani. Come è accaduto spesso anche in passato, si genera un ‘effetto domino’ che finisce per aprire altre partite politiche con il rischio di innalzare la temperatura dei Balcani. In primo luogo, per quanto rappresenti ancora un fenomeno marginale, bisogna immaginare il destino della Vojvodina, regione serba a maggioranza ungherese che, se il Kosovo ottenesse l’indipendenza, potrebbe volersi staccare anch’essa da Belgrado. Ci sono poi la minoranza albanese in Macedonia, già in passato in

aperto contrasto con il potere centrale di Skopje e, per finire, i difficili equilibri della vallata di Preševo, area a maggioranza albanese nel sud della Serbia. La valle di Preševo è stata teatro, tra il 2000 e il 2001, di scontri tra forze serbe e guerriglieri separatisti albanesi che avevano costituito l’Esercito di liberazione di Preševo, Mevedja e Bujanovac. Resta da definire la situazione degli almeno 200mila serbi sfollati dal Kosovo dopo il 1999, che vivono ancora nei campi profughi sparsi in tutta la Serbia.


Filippine, dopo oltre un anno di stallo, riparte il negoziato tra governo e Milf

Al via un programma per il controllo dei viaggiatori da e per la Gran Bretagna

Il numero dei morti nel mese di novembre*

Speranze di pace Londra, vigila il a Mindanao grande fratello

Un mese di guerre

a guerra civile che da decenni insanguina il sud musulmano delle Filippine potrebbe essere a un punto di svolta storico. Lo scorso 15 novembre, al termine di un incontro avvenuto a Kuala Lumpur, in Malesia, il governo di Manila e i guerriglieri indipendentisti del Fronte islamico di liberazione Moro (Milf) hanno riesumato un processo di pace che sembrava ormai destinato a morire. Le parti hanno finalmente trovato un accordo sul punto che più di un anno fa aveva causato la rottura del negoziato: la demarcazione dei confini del territorio Moro di cui d’ora in avanti si discuterà lo status. I termini dell’accordo, siglato dal negoziatore governativo Rodolfo Garcia e da quello del Milf, Mohagher Iqbal, non sono stati resi pubblici. Ma lo stesso Iqbal ha accettato di parlarne con PeaceReporter. “Sono stati definiti sia i confini territoriali che quelli marittimi dell’Entità giuridica Bansamoro”, ha spiegato Iqbal, dicendo che esso “comprende una porzione dell’isola di Mindanao, l’arcipelago di Sulu e parte di quello di Palawan”. Significa quindi che governo e ribelli hanno trovato una via di mezzo tra le rispettive posizioni. Infatti, il Milf ha sempre chiesto l’indipendenza del “dominio ancestrale” dei Moro comprendente l’intera isola meridionale di Mindanao e i due arcipelaghi di Sulu e Palawan. Manila, dal canto suo, non ha mai accettato – fino ad ora – di prendere in considerazione un territorio più ampio rispetto a quello della Regione autonoma musulmana di Mindanao (Armm) già riconosciuta nel 1996, ovvero una piccola parte di Mindanao e l’arcipelago di Sulu. Ribelli e governo pare abbiano trovato un accordo anche su un'altra questione molto delicata: i diritti di sfruttamento delle risorse del sottosuolo – petrolio e metalli preziosi – di cui i Moro chiedono il controllo in autonomia. Questa svolta negoziale giunge in un momento in cui la tensione tra esercito e Milf stava pericolosamente risalendo, rischiando di far riesplodere una guerra pluridecennale che ha causato finora quasi 200 mila morti.

ntro il 2014, tutte le persone in movimento da e per la Gran Bretagna saranno schedate. La misura, chiamata e-borders (frontiere elettroniche), rientra nel pacchetto sicurezza presentato da Gordon Brown per contrastare il terrorismo. Il piano costa 1.7 miliardi di euro, e partirà dal 2009. Ogni viaggiatore, prima del viaggio, dovrà rispondere a cinquantatre domande, con informazioni personali che variano dalla targa della macchina ai dettagli della carta di credito. I dati verranno trasmessi a polizia, dogane, ufficio immigrazione, servizi di sicurezza ventiquattro ore prima del viaggio. Ulteriori controlli potranno essere effettuati su individui sospetti, a cui si potrà eventualmente impedire la partenza. Ma il progetto-sicurezza di Gordon Brown non si ferma qui. Oltre venticinquemila ispettori di frontiera, membri dell'agenzia per l'immigrazione e dell'ufficio visti avranno facoltà di arrestare chi viola la legge sul terrorismo o sull'immigrazione. Nelle maggiori stazioni britanniche da gennaio verrà effettuato lo screening di tutte le valigie. Barriere anti-autobomba verranno costruite in duecentocinquanta porti, stazioni ferroviarie e aeroportuali e in altri cento obiettivi sensibili. Linee guida contro il terrorismo verranno diffuse in scuole, cinema, teatri, ospedali, hotel, strutture sportive, centri commerciali, luoghi di culto. Centosessanta consulenti istruiranno civili su come riconoscere minacce e identificare sospetti. Verranno costruiti quattordici nuovi tribunali protetti e la giurisdizione su tutti i casi di terrorismo verrà affidata a un magistrato unico. Una nuova unità di intelligence verrà creata per identificare soggetti 'a rischio di cadere sotto l'influenza dell'estremismo'. L'unità interverrà anche all'estero. I provider internet verranno invitati dal ministero degli Interni a combattere la propaganda estremistica. Editori di giornali e televisivi, inoltre, dovranno dare ampio spazio al dibattito sul terrorismo. Il Grande Fratello è già realtà, nell'Inghilterra a prova di bomba di Gordon Brown.

PAESE

Enrico Piovesana

Luca Galassi

L

E

MORTI

Iraq Afghanistan Sri Lanka Rep. Dem. Congo Somalia Pakistan (talebani) Etiopia India (naxaliti) Cecenia e Inguscezia Colombia Sudan India Kashmir Thailandia del Sud Israele-Palestina Turchia (Kurdistan) Algeria Filippine (comunisti) India Nordest Balucistan (Pakistan) Filippine (islamici) Burundi

1.651 733 461 134 126 118 100 66 62 56 56 54 50 49 29 19 17 16 13 13 9

TOTALE

3.742

I dati che qui riportiamo sono dati ufficiali, raccolti da agenzie di stampa internazionali o locali. Per cui sono da intendersi sempre per difetto: in molti paesi del mondo non si contano i vivi, figuriamoci i morti.

*Il periodo considerato è quello compreso tra il 20 ottobre e il 15 novembre

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Qualcosa di personale Arabia Saudita

Per un cenno del principe di Muhiddin Mugne Hagi Mascat testo raccolto da Christian Elia Mi chiamo Muhiddin, ho sessant’anni, e sono un medico somalo. Ho studiato in Italia negli anni Settanta, in una Roma dove tutto cambiava in fretta. A un certo punto della mia vita sono finito in carcere in Arabia Saudita. Accusato di essere un terrorista. onquistata la mia laurea, ho cominciato a lavorare in un ospedale italiano, ma nonostante fossi felice e avessi avuto una figlia da una donna italiana, la vita non correva al mio ritmo. Alzarsi, andare a lavorare fino a tardi, tornare a casa e guardare la televisione. No, non faceva per me. Ho provato ad aiutare la mia gente, facendo il volontario durante una brutta siccità. Non mi bastava. Volevo ricominciare da zero. L'Arabia Saudita mi ha offerto questa possibilità. Nel 1985, sono stato assunto dal ministero della Sanità saudita, e ho lavorato con passione prima alla Mecca e poi ad al-Baha. Mi piaceva, ero sempre tra persone che venivano da ogni angolo della Terra. L'estate tornavo nella mia Africa, a fare il volontario in Kenya, dove spendevo le mie conoscenze per i tanti somali meno fortunati di me, nei campi profughi attorno a Mombasa. Avevo trovato il mio ritmo. Poi tutto mi è crollato addosso. Ero ospite di un amico saudita, Ahmed. Nel 2005 mi ha chiesto un favore. Se penso a tutto quello che da quel giorno è accaduto vorrei avergli detto di no, ma non l'ho fatto. Gli ero grato. Mentre lui si trovava fuori città mi ha telefonato, dicendomi che dovevo dare una mano a due ragazzi che avevano fatto un incidente automobilistico. Non ricordo neanche i nomi. ''Domani dobbiamo prendere a tutti i costi un volo per il Qatar'', mi ha detto uno dei due, quello meno conciato. Gli ho spiegato che il suo amico, ventiquattro anni, non stava bene per niente. La mattina dopo quello sano è partito, lasciandomi solo, in una casa non mia, con una persona in difficoltà. Ho chiamato Ahmed e gli ho detto che così non potevo continuare, che il ragazzo aveva bisogno di andare in ospedale. Lui mi ha detto di stare calmo e di non parlare con nessuno, altrimenti la famiglia del giovane si sarebbe molto adirata con lui. ''Portalo in aeroporto e mettilo sul primo volo per Medina'', mi ha detto Ahmed. A questo punto la vicenda cominciava a puzzare di bruciato, ma dal ragazzo non riuscivo a sapere nulla. Così l'ho accompagnato all'aeroporto ed è partito. Non l'ho mai più visto. Ma avrei ancora sentito parlare di lui.

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opo qualche giorno, infatti, un vicino di casa mi ha detto che i servizi segreti sauditi avevano arrestato Ahmed. ''Perché? Cosa ha fatto?'' ho chiesto preoccupato, ma quello non sapeva molto di più, o almeno così diceva. ''Vai via dalla sua casa, altrimenti arrestano anche te'', mi ha consigliato. Non avevo fatto nulla di male, ma avevo paura, perché in Arabia Saudita non esiste una famiglia (eccezion fatta per quella reale) che non abbia un congiunto 'passato' per le mani delle autorità. Di molti di loro non si sa più nulla. Sono andato in moschea a chiedere aiuto e mi hanno alloggiato in una struttura dove preparavano i cadaveri per la sepoltura. Mi hanno arrestato dopo qualche giorno. Era il novembre 2005, cominciava il mio incubo. Durante il mio primo interrogatorio ho capito di essermi cacciato nei guai. Mi hanno mostrato due foto, chiedendomi se li conoscevo: erano i due ragazzi

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che avevo soccorso. Non ho mentito, ho raccontato tutto. Non mi hanno creduto. Secondo loro ero un fiancheggiatore dei terroristi che curava in clandestinità i ricercati. Ho urlato tutta la mia indignazione, ho cercato in tutti i modi di farmi ascoltare, ma non c'è stato verso. Finito l'interrogatorio mi sbattevano di nuovo in cella. Così per tre lunghi mesi. lla fine sono crollato fisicamente e a quel punto si sono decisi a farmi uscire dall'isolamento e mi hanno portato in una cella con altri. Era il febbraio 2006. I miei compagni di cella erano tutti o quasi miliziani. Uomini che avevano combattuto la loro jihad in Bosnia, in Cecenia, in Afghanistan e in Iraq. Ma io che c'entravo con loro? Ho potuto chiamare finalmente mia figlia Jamila, che mi aveva disperatamente cercato per tre mesi. Si è rivolta a tutti, ambasciate e associazioni, ma sembrava non esserci nulla da fare. Stavo sempre peggio. A maggio 2006, all'improvviso, il mio inquisitore mi ha detto che ero libero. Si erano convinti che non avevo nulla a che fare con i terroristi. Ero felice, tornavo a essere un uomo libero.

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a mi sbagliavo. Cominciava una nuova odissea. Seguito giorno e notte dagli agenti dei servizi segreti, anche gli amici avevano paura di me. In un paese come l'Arabia Saudita, quello che è capitato a me può capitare a chiunque e tutti avevano il terrore di finire in manette. Un giorno, senza nessuna spiegazione, mi hanno arrestato di nuovo, ma questa volta per espellermi dal paese. A me andava bene, volevo scappar via. Mia figlia riusciva a farmi ottenere un visto dall'Italia e tutto sembrava fatto. Solo che all'ufficio passaporti il mio nome era in una lista nera e mi negavano il visto d'uscita. Ogni volta con una scusa differente. Non so perché, forse volevano seguirmi per vedere chi incontravo, forse sono solo finito in un incastro burocratico di organi dello Stato in lotta tra loro. L'unica certezza è che ero ancora prigioniero. Ero disperato: senza soldi, senza documenti e sbattuto da un ufficio all'altro. Alla fine mi hanno detto che l'unica possibilità era quella di ottenere la grazia diretta del principe reale, il ministero degli Interni. Ogni giorno, per ore, ho atteso che il principe mi ricevesse. Nella grande sala dove ci ammassavano c'erano migliaia di persone che sognavano solo un minuto del suo tempo. In Arabia Saudita funziona così: un popolo intero vive dei cenni di un membro della famiglia reale. Anche un solo cenno può decidere della tua vita. Non veniva mai, oppure riceveva solo poche persone. Ho passato un anno e mezzo in queste condizioni, ma alla fine mi ha ricevuto. Sono stato dentro solo pochi secondi, ma è bastato un suo cenno perché fossi libero di lasciare l'Arabia Saudita e di scappare tra le braccia di mia figlia. Sono arrivato a Roma a settembre 2007. Sono tornato da dove sono partito. Ma nulla sarà più come prima.

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La storia Afghanistan

La nostra guerra invisibile Di Enrico Piovesana

A novembre i soldati italiani in Afghanistan hanno combattuto duramente e per molti giorni a fianco dei soldati statunitensi e afgani per respingere la più grande offensiva mai sferrata dai talebani nel settore occidentale di nostra competenza. Ma la censura di guerra imposta dal governo è stata così efficace che pochi si sono accorti di quanto è accaduto. entrare in azione a Farah nelle scorse settimane, contro centinaia di guerriglieri talebani, sono stati i corpi d’élite della Task Force 45: la più grande unità di forze speciali mai messa in campo dall’Italia dai tempi dell’operazione ‘Ibis’ in Somalia, comprendente i Ranger del 4° reggimento alpini paracadutisti ‘Monte Cervino’, gli incursori di marina del ‘Comsubin’, il 185° reggimento acquisizione obiettivi (Rao) della brigata ‘Folgore’ e il 9° reggimento d’assalto paracadutisti ‘Col Moschin’, sempre della Folgore. Oltre a questi, sono scesi in campo anche i fanti italiani della Forza di Reazione Rapida dotata di elicotteri da attacco ‘Mangusta’ e mezzi corazzati ‘Dardo’. E nella provincia di Badghis, anch’essa sotto comando italiano, il generale italiano Fausto Macor, che da Herat coordina le operazioni militari Nato nel quadrante ovest, ha chiesto, o quantomeno autorizzato, bombardamenti aerei su villaggi che hanno causato diverse vittime tra i civili. Insomma: in violazione all’articolo 11 della nostra Costituzione e in spregio alle dichiarazioni pubbliche dei nostri governanti, in Afghanistan l’Italia è in guerra. Ma nessuno ne parla, nessuno si scandalizza. Salvo pochissimi addetti ai lavori i quali dispongono di informazioni più o meno riservate che aggirano la ferrea censura imposta dal ministero della Difesa. È il caso di Gianandrea Gaiani, esperto di questioni militari, che di tutto questo ha scritto sia sulle pagine del Sole 24 Ore che sul sito della rivista online Analisi Difesa, di cui è direttore. Abbiamo deciso, con il suo permesso, di riportare ampli stralci di un suo editoriale pubblicato su AD lo scorso 14 novembre. “I misteri italiani in Afghanistan cominciano a essere molti, a nostro avviso troppi per un paese democratico (…) I progressi della tecnologia militare italiana hanno raggiunto livelli portentosi nella prima decade di novembre. Ormai sono molti i paesi avanzati in grado di mettere in campo aerei e navi invisibili ai radar. Noi italiani però operiamo con successo su scala ben più ampia, rendendo invisibile una grande battaglia in corso ormai da quasi due settimane. Oltre settecento talebani hanno conquistato a fine ottobre due distretti della provincia di Farah, mettendone a ferro e fuoco un altro. Indiscrezioni e frammenti di notizie sono emerse da fonti afgane e internazionali, ma dal comando militare italiano di Herat e dal ministero a Roma nessuno ha rilasciato commenti o dichiarazioni. Eppure laggiù sono i nostri soldati a combattere. (…) Anche la notizia della riconquista di uno dei due distretti perduti, il 9 novembre, è giunta da fonti locali e confermata l’11 novembre da un interessante comunicato del comando della Combined Joint Task Force 82, che dal quartier generale di Bagram ha riferito della liberazione di Gulistan effettuata da truppe afgane, della Nato e di Enduring

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Freedom. Circa cinquecento soldati italiani, afgani e americani hanno combattuto e vinto insieme. Ma Parisi e D’Alema non ci avevano detto che non ci sarebbero più state sovrapposizioni tra Isaf ed Enduring Freedom nel nostro settore? Sotto pressione, la Difesa ha risposto il 14 novembre all’interrogazione dell’onorevole Severino Galante ammettendo che nella prima decade di novembre militari italiani “in attività di ricognizione e supporto alle forze di sicurezza afgane hanno subito isolati attacchi da parte di elementi ostili e hanno risposto al fuoco”. ntervenendo il 30 ottobre all’apertura dell’anno accademico della Scuola di Applicazione di Torino, il capo di stato maggiore dell’Esercito, generale Fabrizio Castagnetti, ha dichiarato alla stampa che «di questo passo rischiamo di non poter sostituire i mezzi che i talebani ci fanno saltare in aria». Un commento schietto ai possibili tagli della legge Finanziaria sul bilancio della Difesa, ma l’espressione utilizzata induce a porsi una domanda. Quanti mezzi italiani sono stati fatti saltare in aria dai talebani? La censura posta dal ministro Parisi sulle operazioni in Afghanistan non solo impedisce ai reporter di seguire sul campo le attività dei nostri militari, ma ha anche ridotto quasi a zero il flusso d’informazioni fornite dagli uffici stampa di Kabul ed Herat. In base alle scarne notizie degli ultimi dodici mesi, i mezzi distrutti dai talebani dovrebbero essere due blindati Puma, tre veicoli Lince e un fuoristrada di modello civile. L’affermazione del generale Castagnetti sembrerebbe però indicare che i mezzi andati perduti siano molti di più di una mezza dozzina dal momento che, se così non fosse, la loro sostituzione non costituirebbe un grave problema finanziario. Considerato che alcuni scontri a fuoco che hanno coinvolto i nostri soldati sono stati rivelati solo da fonti giornalistiche, è quasi certo che, in assenza di vittime italiane, molte azioni di combattimento non siano state rese note dal Ministero della Difesa.(…) Il cittadino/contribuente italiano non deve sapere, insomma, che è in corso la più massiccia offensiva talebana contro il settore presidiato dai nostri soldati, né che il 5 novembre è stata denunciata la morte di alcuni civili colpiti per errore dai bombardamenti aerei della Nato contro un gruppo di talebani nella provincia Badghis: un’area affidata alle truppe spagnole ma sotto il comando italiano. Vuoi vedere che anche gli italiani, dopo aver accusato gli anglo-americani di bombardare indiscriminatamente i civili, ordinano ai jet di colpire i talebani nonostante i rischi di provocare danni collaterali?”.

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In alto e in basso: Soldati italiani Afghanistan 2007. Foto Esercito Italiano


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Italia

Cittadina del mondo Di Stefania Alina Cazacu

Comincerò questo mio scritto in anonimato e racconterò senza pregiudizi o paure i miei più profondi pensieri. Penso che sarebbe meraviglioso se i popoli non esistessero ed esistesse solo il mondo, con i suoi cittadini. Allora saremmo tutti uguali, indipendentemente da religione, paese, continente o colore. osa si penserebbe se tanti cittadini del mondo commettessero reati odiosi proprio come succede nei nostri tempi? Diremmo forse che siamo un mondo di assassini? Secondo me, no. Lascio a voi riflettere su questa cosa. L’unione fa la forza, si dice, e solo essendo solidali l’uno con l’altro possiamo sconfiggere il “male”. Quando succede un fatto di cronaca nera ci preoccupiamo di trovare colpevoli tra le nazioni, di trovare collegamenti tra l’aggressività di un individuo e la sua nazionalità e, il più delle volte, ci dimentichiamo di chi è veramente responsabile per l’accaduto, del criminale, l’unico vero colpevole. Un’intera nazione non può rispondere delle azioni di uno o più individui, dovrebbe essere lui a pagare in base a quello che ha fatto. Ma è davvero così? A questo punto mi presento: sono una ragazza romena di ventitré anni, mi chiamo Stefania Alina Cazacu e ho perso mio padre quando avevo appena sedici anni. Si chiamava Ion Cazacu e aveva quarant’anni quando fu bruciato vivo. Non dirò il nome del suo assassino, né parlerò di lui, perché non voglio dare a questo più importanza di quanto non ne abbia già avuta. Dirò soltanto che il processo è finito con sedici anni di carcere per l’uccisione di mio padre e che nel corso di tale processo si è stati molto attenti ai diritti dell’accusato, nonostante lui avesse tolto a una persona il diritto alla vita. Adesso vivo da quattro anni in Italia con mia mamma e mia sorella e ci sentiamo come a casa, grazie a tante persone meravigliose che ci hanno sostenuto e voluto bene. Cosa voglio dire con tutto questo? Voglio dire che nel mondo non è tutto bianco o nero, nella vita te ne accorgi che ci sono tante sfumature. Io sono una persona ottimista e sono sicura che questi difficili momenti, in cui presi dalla rabbia e confusi ce la prendiamo con tutti, passeranno. Sono sicura che il mondo intero capirà che la violenza non ha nazionalità e non va cercata nella cultura dei popoli; va solo punita e fermata prima che faccia più vittime di quante non ne abbia già fatte.

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ifficile dimenticare la storia di Ion Cazacu, operaio in nero bruciato vivo dal suo padrone il 14 marzo del 2000. Ion aveva 40 anni, era rumeno, muratore e piastrellista durante la settimana, la domenica giocava a calcio con i suoi amici. Era un uomo alto e possente - ricordano ma soprattutto era un uomo giusto.

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Viveva a Gallarate, fra Milano e Varese, con altri cinque connazionali, tutti stipati in un piccolo appartamento. Era disposto a tutto per arrivare a un permesso di soggiorno, aveva in tasca il sogno di farsi raggiungere dalla moglie, di garantire gli studi alle due figlie. Per arrivare dalla Romania, allora, ci voleva un visto. Lo si poteva comperare, o fingersi turisti, o semplicemente arrivare fino alla frontiera, e poi passare dai boschi del nord. Il 14 marzo del 2000 le fiamme avvolgevano Cazacu dopo che il “suo” padrone, Cosimo Iannece, lo aveva cosparso di benzina, sotto gli occhi atterriti dei compagni di appartamento. Il 16 aprile Ion moriva a Genova, dopo una passione di 40 giorni nel reparto grandi ustioni. La moglie Nicoleta sempre accanto. l processo porterà a una condanna a sedici anni per l’assassino, ma non verrà riconosciuta, inspiegabilmente, l’aggravante dei ‘motivi abbietti’, in un omicidio particolarmente odioso. L’imprenditore, che non pagava con regolarità, punì Ion per aver avanzato la richiesta di un aumento del suo salario da fame. Arrivò con una piccola tanica, lo cosparse di benzina e mosse il pollice sulla pietra focaia dell’accendino. Ion era partito per l’Italia dalla sua città natale, Rumnicu Valcea, posata fra le colline, alle soglie di vasti boschi. Era un ingegnere, ma lavorava come operaio in un’industria siderurgica, che nel giro di pochi anni aveva mandato a casa un terzo dei dipendenti. A Rumnico Valcea ci sono case dagli intonaci scrostati, palazzoni a piramide in cemento armato anneriti da scarichi fumosi, grondaie arrugginite, ma anche una zona residenziale, con villette e localini. Strade ampie, pochi negozi, decine di shops che vendono alcolici. I graffi del passato hanno lasciato solchi profondi: lo dicono le spese quotidiane, le abitudini, i sempre più numerosi giovani che aspettano visti turistici per passare la frontiera in cerca di lavoro. Il 23 aprile del 2000, una settimana prima della Pasqua ortodossa, è il giorno dei funerali di Ion Cazacu. A Rumnicu Valcea c’erano i suoi familiari, i suoi compagni di lavoro oggi testimoni chiave per il processo e un centinaio di persone arrivate alla spicciolata dalle case vicine. Sui giornali rumeni, allora, nemmeno un rigo, come su quelli italiani, che si occuparono della storia di Ion con colpevole ritardo.

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In alto e in basso: per le strade di Bucarest Romania 2007. Alessandro Ursic ©PeaceReporter


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Migranti

Non si ferma la strage Di Gabriele Del Grande

Almeno 296 migranti e rifugiati sono morti lungo le frontiere dell’Unione Europea nel mese di ottobre 2007. Più di 200 dispersi al largo delle isole Canarie, in Spagna, 51 vittime nel Canale di Sicilia e in Calabria, 33 morti nel mare Egeo, tra la Turchia e la Grecia. Almeno 1.343, i morti dall’inizio dell’anno. ortress Europe pubblica due duri rapporti sulle condizioni dei migranti in transito in Libia e Algeria. E intanto Pro Asyl, dopo una visita in Grecia, accusa Atene di arresti sistematici, torture e deportazioni collettive di migranti e rifugiati, anche minori. Sono 51 le vittime del Canale di Sicilia nel mese di ottobre. Tre corpi affiorati sulle coste tunisine, due cadaveri ripescati in alto mare senza nessuna traccia delle imbarcazioni naufragate, e altri 46 uomini annegati sulle spiagge di Siracusa, a Vendicari, e sul litorale calabrese di Roccella Ionica, nei due naufragi del 28 ottobre. A Vendicari è stato un gommone a rovesciarsi in mare, a causa del maltempo, mentre portava a terra un gruppo di migranti trasbordati da una nave madre. A Roccella invece è stato un vecchio peschereccio ad aprirsi in tre pezzi dopo essersi schiantato contro una secca a cento metri dalla riva. Sia il peschereccio che la nave erano partiti dall’Egitto. E dall’Egitto si va imponendo una nuova rotta. Viaggi su grosse navi da cui si viene trasbordati al largo su gommoni che proseguono fino a riva. Una nuova rotta figlia dell’accordo di riammissione con l’Egitto del 10 gennaio 2007, che ha portato alla riammissione sistematica degli egiziani intercettati al largo di Lampedusa nei mesi scorsi. Adesso l’obiettivo è evitare il tratto di mare più battuto dai pattugliamenti, a sud di Lampedusa e Malta. E sfuggire ai controlli al momento dello sbarco. Per non fare la fine dei cento egiziani rimpatriati sui voli charter partiti da Lamezia Terme il 16 e il 26 ottobre. E per non fare la fine dei quaranta egiziani rimpatriati da Bari, due giorni dopo la rivolta esplosa nel cpt di Bari Palese, dopo una settimana di tensioni. Nessuno è in grado di dire quante vite ingoino ogni anno il Mediterraneo e l’Atlantico. Sono il fossato della fortezza Europa. Sono le fosse comuni di cui tra qualche generazione qualcuno si indignerà. I cadaveri riaffiorano nelle reti del pesce. A Níjar, vicino Almería, in Spagna, il peschereccio “La Pastora” ne ha ripescati quattro nelle prime due settimane di ottobre. Un altro peschereccio spagnolo, il “Tiburón III”, il 25 ottobre ha soccorso una piroga alla deriva al largo di Capo Verde, a 300 miglia dal Senegal. A bordo c’era l’unico superstite, stremato, sdraiato in mezzo a sette cadaveri. Gli altri cinquanta compagni di viaggio sono finiti in mezzo alle onde. Dispersi. Fantasmi. Come i 150 di Kolda. Le autorità spagnole non ne sanno niente. Ma 150 famiglie hanno celebrato un funerale collettivo, il 19 ottobre, nella città senegalese. Erano partiti su una piroga alcune settimane fa. Il legno si è spezzato in mezzo al mare, per il troppo peso. Solo una decina di ragazzi si sono salvati e hanno diffuso la notizia. Quest’anno i morti alle Canarie

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sono già 444, dei quali 392 dispersi in mare. Nel 2006 erano stati almeno 1.035. Gli sbarchi sono diminuiti del 75 percento. Ma in mare si continua a morire. igranti picchiati e torturati nei centri di detenzione delle isole greche di Lesbos, Hios e Samos, dinieghi ingiustificati delle richieste d’asilo e respingimenti collettivi alla frontiera. Sono gravissime le accuse contro le autorità greche nel rapporto appena pubblicato dalla ong tedesca Pro Asyl e dalla Associazione degli avvocati greci per la difesa dei diritti dei rifugiati e dei migranti. Cento interviste realizzate tra il 12 luglio e il 14 agosto 2007 sulle isole di Lesbos, Hios e Samos. A Hios, si legge nel rapporto, “i maltrattamenti consistevano in pestaggi a sangue, simulazioni di esecuzioni a morte, elettroshock, immersione della testa in secchi riempiti d’acqua”. Le richieste d’asilo – denuncia il rapporto – sono sistematicamente rigettate e le condizioni di vita nei centri di trattenimento sono “inaccettabili”. Anche l’Acnur, lo scorso 5 ottobre, aveva chiesto la chiusura del centro di Samos, lamentando condizioni “deplorevoli” di detenzione. Al contrario di quanto va accadendo in Italia e Spagna, in Grecia gli sbarchi quest’anno sono aumentati. Già 4.500 persone sono state intercettate dalla Guardia costiera nei primi otto mesi del 2007, contro i circa 3.000 degli scorsi anni. A Samos sono arrivati 2.404 migranti in otto mesi, contro i 1.580 di tutto il 2006 e i 455 del 2005. E la Guardia costiera greca, secondo il rapporto di Pro Asyl, sarebbe responsabile di gravi crimini. Le barche, raccontano i migranti intervistati, sono spesso bloccate in alto mare e costrette a fare ritorno verso la Turchia. I gommoni vengono spesso danneggiati per evitare che ripartano. Alcuni migranti sono abbandonati su isolotti disabitati. E la Guardia costiera ammette di non esitare a sparare sui gommoni che tentano la fuga. I migranti arrestati nell’Egeo sono trasferiti a Evros, alla frontiera con la Turchia. E da lì riammessi in Turchia. Il diniego delle domande d’asilo è sistematico: su 13.345 richieste d’asilo nei primi sette mesi del 2007, sono stati riconosciuti solo sedici rifugiati e undici protezioni umanitarie. Il che equivale allo 0,2 percento, o ancora meno, tenendo conto del fatto che in Grecia non esiste un solo rifugiato iracheno, nonostante i 3.843 che ne hanno fatto richiesta solo nei primi sei mesi del 2007.

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Ponte Cestio, Roma 2005 ©Raffaele Capasso per PeaceReporter


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Rubriche

In edicola di Claudio Sabelli Fioretti

Giornali da costruzione In tivù di Sergio Lotti

Un pensiero delicato I commenti dei politici nei telegiornali e nei talk show che nelle ultime settimane hanno commemorato la scomparsa di Enzo Biagi sono stati, anche per i telespettatori più distratti e smemorati, assai più illuminanti di qualsiasi ricostruzione cronistica. Si distingue come al solito (c’era da dubitarne?) l’ex presidente del Consiglio con il tentativo di negare l’esistenza del cosiddetto editto bulgaro, con il quale cinque anni fa creò le premesse per allontanare dai teleschermi Biagi e altre persone non allineate, tentativo che di fronte all’evidenza dei filmati appariva persino più indegno e offensivo dell’editto stesso. Ma si è difeso bene anche l’attuale presidente del Consiglio, che di fronte alla domanda se il Governo avesse o no l’intenzione di occuparsi di quell’oggetto misterioso che si chiama conflitto di interessi, sgattaiolava fra la folla borbottando che non era il momento di strumentalizzare, mentre uno smarrito Paolo Gentiloni, ministro delle Comunicazioni, mostrava di non avere la più pallida idea di quando la sua legge sul riordino del sistema radiotelevisivo sarebbe approdata nelle aule del Parlamento. Pensiero delicato, questo di non voler strumentalizzare una dolorosa scomparsa, che era addirittura affiorato assai prima della malattia di Biagi (preveggenza?) e che persiste ancora a distanza di molte settimane dalla sua sepoltura. Peccato però che questa strumentalizzazione fosse invece palpabile già nella massiccia presenza sulla scena del funerale e negli studi televisivi, dove tutti si sbracciavano per far vedere che loro stavano dalla parte di quella libertà di espressione che quasi tutti, al momento opportuno, si erano dimenticati di difendere. Non solo i politici, ma anche quei dirigenti Rai che nessun presidente del Consiglio avrebbe potuto obbligare a inviare raccomandate con ricevute di ritorno. E soprattutto i colleghi di Biagi, della Rai e non, che non fecero molto allora per impedire quella ferita della democrazia, e non fanno molto neppure oggi per impedire che si ripeta, rassegnandosi sempre più a quella perdita di ruolo che da quasi tre anni toglie loro persino la dignità di un contratto nazionale di lavoro. 26

Bisogna che qualcuno soccorra quei poveri edicolanti. Il loro negozio una volta era un’allegra esposizione di quotidiani e periodici. In mezzo a prime pagine e copertine si intravedeva la simpatica faccia del giornalaio che faceva capolino fra un titolo a nove colonne e una fotona a colori troneggiante sul settimanale. E il giornalaio aveva la faccia da giornalaio, di uno che vende giornali. Poi i giornalai hanno assunto piano piano la faccia da commercianti, a volte da salumieri, a volte da farmacisti, il più delle volte da commessi di un negozio di giocattoli. Non ti chiedevano più che giornale volevi. Ti chiedevano se volevi l’enciclopedia allegata al quotidiano oppure il cubo di Rubik allegato al mensile. Il nome del quotidiano o del mensile era del tutto superfluo. Veniva buttato appena fuori dall’edicola. Questa era la situazione fino a poco tempo fa. Da qualche anno infatti il giornalaio ha la faccia del venditore di materiali edili. Vende mattoni. Tu vai da lui speranzoso, con l’animo sgombro e leggero, credi di acquistare un piccolo grumo di fogli e lui ti sommerge di carta. Dici: “E di che cosa ti lamenti? Ti danno in carta un valore superiore a quello che tu gli dai in monete”. D’accordo, se è ancora vero che i giornali il giorno dopo servono per incartare la verdura, la cosa diventa interessante. Ma quanti cavolfiori debbo comprare per utilizzare le cento pagine di quotidiano? Quanti ravanelli debbo portarmi a casa affinché tutte le pagi-

Salute di Valeria Confalonieri

Sudan, la morte arriva dagli animali Non c’è tregua per il Sudan: le difficoltà di una vita quotidiana scandita dalla delicata situazione politica si sommano in questi mesi alla diffusione di una malattia che, nella sua forma più grave, può essere mortale nella metà dei casi. Il nome dell’infezione è febbre di Rift Valley, e le cifre, in salita, riportate a metà novembre dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) indicano oltre 320 casi di infezione, fra i quali 96 morti. La malattia, causata da un virus, arriva dagli

ne dell’allegato trovino il loro giusto impiego? Nel periodo delle sfilate di moda devi andare in edicola col carrello del supermercato per portare a casa tutti i blocchetti di tufo in cui sono stati trasformati i settimanali femminili. Dici: “Tutto sommato più informazione è meglio di meno informazione”. Informazione? Ma quale informazione? Pubblicità, pubblicità, pubblicità. Fatua, ingannevole, inutile. Strafiche per vendere cellulari, troione per vendere automobili, anoressiche per vendere vestiti. Mattoni pieni di ammiccamenti sessuali per stimolare il già alto consumismo compulsivo che ci ossessiona. Un mio amico, non sapendo dove mettere i molti numeri di un famoso settimanale politico italiano che gli ingombravano la cantina, decise di seppellirli per alzare un’aiuola di qualche centimetro. Le copie risultarono di alto gradimento per l’erba, per le piante e anche per le talpe che ogni tanto riportavano alla luce qualche copertina con donnina nuda, qualche fondamentale inchiesta, qualche editoriale pensoso. Stupendo uso alternativo. Oggi se ne può proporre un altro. Usare i mattoni editoriali proprio come mattoni reali. Costruire case mettendo un mensile sopra un mensile. La carta: ottimo prodotto isolante e termico. Abitare in una casa fatta di giornali. Che figata! Trasforma ognuno di noi in un intellettuale. www.sabellifioretti.it animali domestici, prime vittime del virus, da cui può passare agli uomini. Fra la fine del 2006 e i primi mesi del 2007, in Kenya, un’epidemia di febbre di Rift Valley ha portato a circa 400 casi di infezione e decine di vittime, oltre ad avere avuto un impatto sull’economia per la morte dei capi di bestiame. Il dubbio sulla diffusione di una malattia infettiva in Sudan risale a metà ottobre, quando le autorità sanitarie hanno chiesto l’intervento dell’Oms per il sospetto di una epidemia di febbre emorragica in alcuni stati del Paese. Ai primi di novembre è arrivata la conferma che siamo di fronte a febbre di Rift Valley da esami di laboratorio su campioni provenienti da persone malate: solo nei giorni seguenti sono stati comunicati i primi risultati di accertamenti eseguiti su animali, che hanno riscontrato la presenza dell’infezione. Si cerca ora di proteggere la popolazione sudanese da questa nuova minaccia.


A teatro di Silvia Del Pozzo

Burattini involontari Ad Ariel Sharon e Yasser Arafat, usciti dalla scena israelo-palestinese per “cause naturali”, Antonio Tarantino assegna un destino teatrale diverso. Nella sua commedia, “La pace”, ce li presenta esuli in una Tunisia immaginaria, cacciati dai loro popoli stanchi di guerre e carneficine, condannati a percorrere insieme una sorta di via crucis, le cui stazioni sono il deserto infuocato, una caverna inospitale, una barca insicura. Entrambi definitivamente sconfitti, e derelitti, non smettono però di insultarsi e aggredirsi, in un confronto violento senza esclusione di colpi. E nel finale, quasi complici di un vissuto comune, li ritroviamo a filosofeggiare sull’universo mondo. Sono i burattini involontari di un destino gestito da una donna (Maria Luisa Abate) che volteggia in una tela di ragno metallica nel triplice ruolo di strega (che li condanna all’esilio), di madre (che piange i figli sacrificati alla loro sete di potere e violenza), di puttana (che li conosce come frequentatori di bordelli e li giudica e irride). Messa in scena dalla compagnia torinese Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, la pièce, diretta da Marco

Isidori (nei panni di Arafat, mentre Sharon è interpretato da Paolo Oricco) è intessuta di perfida ironia, gag allucinate e allegorie feroci. Nessuna ironia invece nelle parole con cui David Grossman ci racconta “La guerra che non si può vincere”, spettacolo che Eugenio de’ Giorni ha tratto dagli articoli del “laico” scrittore israeliano il quale indica, con lucida intelligenza di quella complessa realtà, una sola strada per costruire la pace tra i due popoli: “Il dialogo e il riconoscimento del diritto dell’altro”. Filo conduttore dello spettacolo un giovane militare che parla alla sorella più piccola dei suoi sogni, delle sue speranze e ambizioni. “La pace”: dal 4 al 9 dicembre a Torino, Teatro Gobetti. “La guerra che non si può vincere”: dal 10 al 27 gennaio 2008 a Milano, Teatro Olmetto

Musica di Claudio Agostoni

Comicopera di Robert Wyatt Artista anarchico e geniale, Wyatt è abituato a metter su disco quel che gli pare quando gli pare. Dopo quattro anni di silenzio ci regala, pubblicate da Domino, una manciata di canzoni eterogenee: vecchio jazz buona maniera, etnica del terzo mondo, pop intellettuale, inni politici. Con quella voce, di chi ha appena finito di piangere, sempre più vicina al suono di una tromba, ci parla di cronaca, di fondamentalismi, di irragionevolezza del nuovo millennio, di guerra (stupendi i due brani scritti a quattro mani, con Brian Eno, “A beautiful Peace” e “A beautiful war”). Le sue, come sempre, sono riflessioni fra il dolce e il gioioso, lo smarrito

e il malinconico, dove mescola con abilità nuove composizioni, vecchie canzoni, improbabili cover (c’è anche la rilettura di Del mondo dei CSI), poesie di Garcia Lorca e persino un omaggio alla celeberrima Hasta Siempre Comandante Che Guevara di Carlos Puebla. Come nelle abitudini di Wyatt, un album che non è merce, ma un pezzo di vita…

L’immagine di te Radiodervish “La verità è uno specchio caduto dalle mani di Dio e andato in frantumi. Ognuno ne raccoglie un frammento e sostiene che lì è racchiusa tutta la verità”. Questi versi di Rumi, antico poeta e mistico persiano, fanno da epigrafe al sesto album dei Radiodervish, il gruppo fondato nel 1997 da Nabil Salameh, palestinese, e Michele Lobaccaro, pugliese doc. Un lavoro, pubblicato da Radiofandango, con cui danno voce a un’Italia ormai irrimediabilmente multietnica, meticcia, terra di frontiera tra Europa e Mediterraneo. Il disco contiene canzoni che parlano innanzitutto d’amore e di vita, costruite su melodie di presa immediata e arrangiamenti che guardano indietro liberamente, ricomponendo

una memoria personale e generazionale che si nutre dei ritmi regolari della disco music anni Settanta e del Battiato pop dei primi anni Ottanta, dell’onda araba del raï e delle tastierine giocattolo dell’elettronica povera, come dei nuovi ritmi sinte-

Vauro

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tici dell’Europa meticcia che hanno cominciato a prendere forma nell’Inghilterra degli anni Novanta. Ma anche alla scena musicale della Beirut degli anni ‘60, un luogo che guardava in modo apertissimo a una primavera purtroppo infranta. Due ospiti, entrambi pugliesi, duettano vocalmente con Nabil. Il rapper Caparezza getta benzina sul fuoco nella “militante” Babel, un brano dove soffiano i venti di guerra (“L’idea di vedere la situazione in Iraq è stato il motivo ispiratore”, racconta Nabil. “Caparezza con il suo rap, noi con una visione più poetica”). E la sedicenne Alessia Tondo, voce dell’Orchestra popolare della Notte della Taranta, che canta in griko la bellissima e arcana Yara. Intensa anche “Milioni di promesse”, un brano che con delicatezza estrema parla della tragedia dei disperati che in gommone arrivano sulle nostre coste. Le nove canzoni dell’album hanno un tratto in comune: la speranza di chi si affida alle promesse fatte dal mare, di chi confida in un viaggio per far sì che il rumore delle lotte e delle violenze finisca di tuonare nel cuore… quella speranza che fa apparire possibile l’arrivo di un tempo in cui “i bambini di Beirut giocheranno a Tel Aviv”.

Al cinema di Nicola Falcinella

Leoni per agnelli di Robert Redford Secondo gli ufficiali tedeschi della Prima guerra mondiale, i leoni erano i soldati inglesi che combattevano coraggiosamente e gli agnelli i loro inetti generali. Oggi i leoni sono i soldati americani che combattono per una causa che non è la loro. “Leoni per agnelli” è il nuovo film di Robert Redford, in uscita italiana il 14 dicembre. Uno dei grandi miti dello

schermo, un liberal d’altri tempi lontano dal glamour, da sempre impegnato nel sostenere il cinema indipendente (con il Sundance Festival e il sistema che gli ruota attorno) e in politica. Un uomo capace di scaldare i cuori e le menti, che si è gettato con passione e determinazione in un’impresa ardua: stimolare l’opinione pubblica americana, e i giovani in particolare, a darsi da fare, assumersi le proprie responsabilità, passare dal lamento alla presa di coscienza. Lo fa con un cast altisonante: Meryl Streep, Tom Cruise, Michael Pena e lo stesso regista.

che per il senatore avrebbe dovuto riaprire la guerra. Le scene di combattimento sono pure girate male, tra il ridicolo (un paracadutista si butta senza paracadute a soccorrere l’amico caduto dall’aereo per un incidente) e il videogame. E rovinano il gusto di quei bellissimi momenti di cinema e di civiltà legati alle parole di Meryl Streep.

In libreria di Giorgio Gabbi

Il mio cuore tra le rovine di Tracy Chamoun

Tre storie separate, di fatto tre film distinti e diseguali intrecciati tra loro: uno bellissimo, uno didascalico e uno brutto. Una giornalista esperta (Streep) intervista un senatore cinico e ambizioso (Cruise) che vuole rilanciare la guerra in Afghanistan per ridare slancio all’amministrazione Bush in crisi. I due protagonisti sono seduti l’uno davanti all’altro, entrambi fermi sulle proprie convinzioni e convinti di vincere l’altro. La Streep pone le domande che tutti vorremmo fare ai governanti americani. E con ironia esordisce: “Dovete essere messi male se lei mi dedica un’ora del suo tempo!”. Un film solo d’attori, dove la regia si nasconde e lascia che Cruise tenga testa al mostro di bravura della Streep. Che tornata in redazione non potrà dire al Tg quel che vorrebbe. C’è poi un vecchio professore universitario (Redford, con jeans e camicia a scacchi) che stimola uno studente talentuoso e apatico a interessarsi dei problemi del mondo. Infine due ex studenti di Redford andati volontari a combattere e morire nell’azione

Una testimonianza davvero inconsueta, questa di Tracy Chamoun, su una delle guerre più feroci del Novecento e che ha distrutto il Libano fra il 1975 e il 1990. Una guerra che non è mai finita del tutto e che da due o tre anni dà tragici segnali di ripresa: battaglia fra israeliani e milizie Hezbollah nel sud del Paese, attentati clamorosi, giovani che tornano in montagna per addestrarsi alla guerriglia, fuga all’estero di capitali e di famiglie che se lo possono permettere. L’autrice appartiene a una di quelle decine di famiglie ricche e potenti che hanno fatto (e poi disfatto) il Libano moderno: é nipote di un presidente, Camille, e figlia di Dany, leader di un partito armato cristiano. Nata e cresciuta nella ricchezza e negli agi, imbraccia anche lei, giovanissima, le armi nelle “Tigri” comandate dal

- ABBONAMENTO di un anno (11 uscite) al prezzo di 30,00 euro - ABBONAMENTO SOSTENITORE di un anno (11 uscite) al prezzo di 50,00 euro. Riceverete in omaggio il libro “Guerre in ombra. Undici storie di conflitti”. - ABBONAMENTO PROMOTORE di un anno (11 uscite) al prezzo di 100,00 euro. Riceverete in omaggio il libro “Guerre in ombra. Undici storie di conflitti” e il Dvd “Ist’imariyah. Controvento tra Napoli e Baghdad”. Indicando la causale ‘Abbonamento PeaceReporter’ potrete utilizzare uno dei seguenti metodi di pagamento: 1. bollettino di conto corrente postale intestato a Dieci dicembre soc. coop. a r. l. - n. 64866734 (inviate il modulo in Pdf compilato e ricevuta del bollettino a PeaceReporter Via Meravigli n. 12, 20123 Milano o per fax al numero 02 80581999) 2. bonifico bancario o da bancoposta intestato a Dieci dicembre soc. coop. a r. l. - n. 000064866734 - Abi 07601 - Cab 01600 - Iban IT 94 F 07601 01600 000064866734 (inviate il modulo in Pdf compilato e ricevuta del versamento a PeaceReporter Via Meravigli n. 12, 20123 Milano o per fax al numero 02 80581999) 3. carta di credito Visa o Mastercard online sul sito www.picomax.it

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padre che adora. La sua casa è piena di ragazzi esaltati dal possesso di un fucile, intossicati dall’atmosfera bellica che travolge il paese. Tutti hanno voglia di sparare, di farla finita con gli “altri”, i nemici: che sono a turno i palestinesi, i sunniti, gli sciiti, i drusi. E anche i cristiani della milizia rivale, per non parlare degli israeliani e dei siriani. La guerra libanese è una giostra infernale che vede i clan familiari di volta in volta nemici o alleati fra loro, pronti a chiedere l’intervento dello straniero contro i rivali del momento. Un’assurdità politica che ridicolizza qualunque interpretazione ideologica, più che mai quella di uno “scontro di civiltà” fra Occidente e Islam. L’autrice, deposte le armi, riparata all’estero, arriva a questa conclusione attraverso un percorso interiore dolorosissimo, raccontato con un linguaggio scarno e diretto. Ha visto la morte in faccia, ha visto morire gli amici e andare in rovina i luoghi che aveva cari. E infine, la perdita più atroce, subisce l’assassinio di suo padre e di due fratelli ancora bambini, compiuto da miliziani anche loro “cristiani” (il mandante del delitto, prima condannato a morte, poi all’ergastolo, infine liberato, ha ottenuto un posto nel governo). Tracy Chamoun parla degli episodi vissuti in prima persona ma non racconta la guerra come fanno gli storici o i cronisti, meno che mai la giustifica. La interpreta come il risultato di una catastrofe morale prima ancora che politica. Perché sono la feroce ottusità dei capi, il loro egoismo cieco, l’incapacità di vedere il bene comune al di sopra dell’affermazione personale e di clan, all’origine di ogni tragedia. E non solo in Libano. Tracy Chamoun, Il mio cuore tra le rovine, Edizioni Marlin, 2007, pagg. 192, € 13,00

In rete di Arturo Di Corinto

Codepink: donne per la pace Codepink, (Codice rosa) è la sigla di un movimento non violento di donne e uomini per la pace e la giustizia sociale, che ha tra i suoi ambiziosi obiettivi quello di fermare la guerra in Iraq e impedire nuove guerre creando una comunità di pacifisti attraverso azioni creative e nonviolente. Il gruppo, nato dall’inziativa di alcune donne e madri, è impegnato anche in altre attività, come fornire istruzione ai poveri, garantire le cure sanitarie per tutti e altre “life-affirming activities”. Contrari alla politica della paura dell’amministrazione Bush, rivendicano l’importanza di politiche basate sull’empatia, la gentilezza e il rispetto delle leggi internazionali, con gioia e umorismo. Sono saliti alla ribalta quando un’attivista del gruppo, Desiree Fairooz, durante un’audizione congressuale, mostrando le mani coperte di vernice rossa, si è rivolta a Condoleeza Rice gridandole: “Le tue mani sono sporche del sangue di milioni di iracheni”. http://www.codepink4peace.org

lettere a un chirurgo confuso chirurgo@peacereporter.net Caro Gino, so che tu ti occupi perlopiù dell’“altro mondo”, ma vorrei conoscere il tuo parere su quello che sta succedendo qui, nel nostro mondo. Il telegiornale della sera, ormai,è una lunga sequenza di cronaca nera: brutali omicidi, violenza efferata. Il vicino di casa si trasforma in un mostro, il fidanzato diventa carnefice, si uccide per soldi, per invidia, per futili motivi. E l’ultimo terribile episodio: la tragica morte di un ragazzo ucciso da un poliziotto, un servitore dello Stato, proprio uno di quelli che dovrebbe garantire la nostra sicurezza. Sembra che non ci si possa più fidare di nessuno. Ma dove sta andando il nostro Paese? Siamo anche noi in guerra, senza saperlo? Buon lavoro. Marcella, Ferrara

Cara Marcella condivido la tua preoccupazione. In Italia un poliziotto prende la mira e fredda un ragazzo con un colpo alla testa. Negli Stati Uniti, Paese modello dei nostri governanti dove le cose si fanno alla grande, un gruppo di poliziotti uccide con venti proiettili un altro ragazzo che “li minacciava” con una scopa. Si spara e si ammazza, si accoltella e si stupra. Non è solo questione che riguardi gli Stati e i loro apparati, viviamo in un mondo sempre più violento. Dovesse esserci in futuro un atlante geografico dell’Universo, gli abitanti del pianeta Terra sarebbero probabilmente descritti come “dediti alla guerra, al saccheggio, alla rapina, allo sfruttamento”. Ce ne stupiamo? La violenza è il “modus operandi” della nostra società. Viene praticata e benedetta, invocata e giustificata, celebrata e instillata ogni giorno, più volte al giorno. Esistono canali televisivi dedicati al delitto, all’orrore, al terrore, alla paura, alla propaganda del militarismo, siamo ormai ai serial sulle “army

wives”, le mogli dei combattenti... Non si tratta solo di fiction. Gli stessi atteggiamenti, gli stessi comportamenti, la stessa filosofia li troviamo riprodotti sempre di più nella vita quotidiana. La “soluzione” a qualsiasi problema, nel modo prevalente di funzionare dei cervelli umani, passa ormai attraverso l’uso sistematico della violenza. Non siamo ancora capaci di elaborare altre strategie, qualcosa di meglio, di meno bestiale e più “umano”. Siamo ad esempio, e non a caso, l’unica specie animale che pratica la guerra, cioè la violenza organizzata di massa. Tanto è pervasiva la logica della violenza che sta sempre più trasformando la nostra società in una giungla, e non è realistico pensare di “controllarla” con mezzi a loro volta violenti. Al massimo – nei rari casi in cui sembrerebbe “funzionare” – un tale modo di agire semplicemente rimpiazza una violenza con un’altra. Legittima e necessaria oppure bestiale e gratuita, la violenza è il vero problema che sta davanti alla nostra specie. Creare una cultura, cioè un modo di sentire diffuso tra i cittadini, per cui tutti (ma proprio tutti) i paladini della violenza siano considerati – e opportunamente trattati – come imbecilli cerebralmente sottosviluppati, è forse l’unico modo per tentare di interrompere la spirale. Mi pare difficilissimo il riuscirci, ma di certo indispensabile il provarci. Gino Strada

Ragazzi negli anni ‘60. Poi adulti. In mezzo, la storia di un gruppo di donne e uomini con le loro scelte, le av v enture, le gioie, le ambizioni, gli obiettivi raggiunti e mancati. Intorno il boom economico e il Sessantotto, la motorizzazione di massa e le manifestazioni studentesche. Romanzo di Paolo Lezziero prezzo 10 euro disponibile presso Edizioni La Vita Felice Via Hay ez 6 20129 Milano tel 0229402703 info@lav itafelice.it 29


Per saperne di più Sierra Leone

http://www.allafrica.com/sierraleone Sito di notizie, poche, dal Paese e dai paesi vicini. http://www.awarenesstimes.com/ È il principale giornale online sulla Sierra Leone. Fornisce sia breaking news sia notizie di approfondimento.

FILM LIBRI FORNA AMINATTA, Le pietre degli avi, Feltrinelli, 2007. Londra, luglio 2003. Abie riceve una lettera che la invita a recarsi in Sierra Leone per prendere possesso della piantagione di caffè appartenuta al padre. Da quel momento, raccoglierà le testimonianze di quattro zie, quattro delle figlie che il nonno ha avuto dalle molteplici mogli. Attraverso le loro storie si ricostruisce la storia della famiglia Kholifa, ma si delinea anche il ritratto di una cultura e delle sue tradizioni e del loro evolversi nel tempo. Sullo sfondo, la realtà politica della Sierra Leone: il graduale passaggio dal dominio britannico all’indipendenza, e la difficile vita della giovane repubblica, tra governi corrotti, dittature e guerre civili, in cui combattono i bambini-soldato. SENNO TONI, L’elefante e la capra. Favole della Sierra Leone, EMI 2003. Un “libro collettivo”, favole raccontate in momenti diversi da persone che non si conoscono ma che hanno uno scopo comune: l'educazione dei loro figli. Anche in Sierra Leone le favole costituiscono un mezzo di educazione e di trasmissione della conoscenza tribale per i giovani ascoltatori. Molte storie riguardano gli animali, altre riguardano gli esseri soprannaturali. Ma tutte queste categorie di esseri non vivono in mondi separati. Si mescolano e condividono momenti di amicizia, di collaborazione, ma anche di ostilità e intolleranza. Le favole sono narrate nella prospettiva di correggere il comportamento di chi ha sbagliato e insegnare che le grandi conquiste sono il frutto di sacrifici. HANCILES MILDRED E VITALE ROSAMARIA, Il prezzo del coraggio. Storia di una donna della Sierra Leone, capace di ribellarsi e lottare per i valori in cui ha sempre creduto, Baldini Castoldi Dalai, 2003. Una lunga intervista-racconto tra Mildred e Rosamaria: giornalista della Sierra Leone la prima, psicologa italiana la seconda. La donna africana racconta la sua terribile esperienza di giornalista umiliata e perseguitata per i suoi crudi reportage sulla società e sulla guerra civile in Sierra Leone e ricorda la perdita del figlio, ucciso dai ribelli rivoluzionari. CARITAS ITALANA (a cura di), I bambini combattenti tornano a casa: frammenti di pace in Sierra Leone, Edizioni Gruppo Abele, 2002. Monsignor Vittorio Nozza ha raccolto in questo volume una serie di scritti e di testimonianze sulla guerra che per oltre dieci anni ha insanguinato la Sierra Leone, coinvolgendo nei combattimenti cinquemila bambini, sottoposti dalle milizie in conflitto alle più atroci crudeltà per garantirsi la totale obbedienza. Si è parlato di guerra primitiva e tribale, che ha fatto ricorso alla mutilazione come metodo sistematico per conquistarsi un minimo di visibilità agli occhi di un Occidente disinteressato alle sorti di un'Africa incapace di uscire dal tribalismo. Ma questo cliché non regge alla prova dei fatti, che brillano alla luce dei diamanti che si estraggono in grande quantità e con estrema facilità nelle regioni più insanguinate della Sierra Leone.

SITI INTERNET http://www.sierraleone.com/ Più che un sito, è un newsgroup con centinaia di interessanti interventi sulla storia, sulla cultura e sulla politica della Sierra Leone. Purtroppo è solo in inglese. 30

EDWARD ZWICK, Blood diamond, Usa, 2006. Tra azione e impegno, Blood Diamond punta il dito contro l’industria dei diamanti e i commerci illegali che finanzia(ro)no guerre civili in cui vengono impiegati bambini soldato e violati i diritti umani. Zwick coniuga la denuncia sociale con il cinema d’azione, la meditazione dell’autore su soggetti gravi e urgenti con la tecnologia decisamente esibita di Hollywood. Notevole il Di Caprio in versione “cattivo”. ZACH NILES, BANKER WHITE The refugee all stars, Usa 2005. La storia di un gruppo musicale formato da rifugiati che con la loro musica rilanciano l’impegno per la pacificazione del loro paese. Disponibile solo in inglese in Dvd.

Venezuela LIBRI DIAZ GONZALES JOAQUIN, Giuramento di Simon Bolivar sul monte sacro, Roberto Massari Editore, 2005. La storia del Libertador, Simon Bolivar, che nella sua vita passò anche dall'Italia, precisamente da Roma. La storia è vera e narra le vicende, a volte drammatiche, dell'aristocratico Bolivar che poco a poco scopre il romanticismo e l'ardore dell'interesse per la politica senza immaginare cosa gli avrebbe riservato il destino.

SITI INTERNET http://www.aporrea.org/ Nato nel maggio del 2002, Aporrea è un ottimo sito web di divulgazione di notizie socio culturali, e anche politiche, identificato con il processo innovativo voluto dal presidente Chavez. I suoi collabo-

ratori sono tutti volontari. Aporrea.org è anche un'agenzia “popolare” e alternativa di notizie, con sezioni aperte al pubblico che liberamente può partecipare a forum e discussioni sui più svariati temi sociali. http://www.telesurtv.net Canale televisivo satellitare con base in un bellissimo quartiere di Caracacs, Telesur si occupa di diffondere notizie per tutti gli abitanti del continente americano. Specializzata nelle lunghe dirette, Telesur è un grandioso contenitore di informazioni interessanti sui Paesi latino americani, soprattutto sul Venezuela. Il canale televisivo trasmette sette giorni su sette, lo si trova sul satellite, e i suoi corrispondenti forniscono informazioni aggiornate e tempestive da ogni capitale latinoamericana. http://www.pdvsa.com/ E' il sito ufficiale della compagnia petrolifera statale venezuelana. In queste pagine potete trovare tutte le informazioni sull'industria petrolifera del Paese, sui progetti di sviluppo sociale a cui partecipa e molte altre notizie relative al mondo economico che gravita intorno al greggio.

FILM CUAL REVOLUCION? Venezuela: tra petrolio, castrismo e povertà, Eg Video Un preciso documento che ricostruisce la vita politica del Venezuela dalla fine del 1998 al 2004. Il Paese visto dall'interno e dalla comunità internazionale, il tentativo di colpo di Stato per deporre Hugo Chavez e il referendum per revocarne l'incarico. Insomma, il Venezuela di oggi in un mix di povertà dilagante e risorse infinite.


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