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mensile - anno I numero 4 - novembre 2007

Filippine

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Dietro la maschera di Abu Sayyaf la strategia del terrore

Algeria-Sardegna Questioni di prospettiva Sahara La rivolta degli uomini blu Birmania Voci e volti dell’esilio Indonesia La pace dello tsunami Mondo Israele-Palestina, Ecuador, Pakistan, Paesi Baschi Gino Strada

I diritti dell’Africa

Il terzo fascicolo dell’atlante: Iraq

3 euro



L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità. John Fitzgerald Kennedy, presidente degli Stati Uniti

novembre 2007 mensile - anno I, numero 4

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Direttore Maso Notarianni

Redattori Christian Elia Matteo Fagotto Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Vauro Senesi Stella Spinelli Naoki Tomasini Alessandro Ursic Progetto grafico Guido Scarabottolo Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Relazioni esterne Marco Formigoni

iamo andati a toccare con mano il funzionamento della guerra al terrorismo. In una serie di isole più o meno sperdute dell’oceano Pacifico ogni giorno ci sono scontri a fuoco, bombardamenti, rastrellamenti di villaggi. E poi bombe artigianali nei mercati, nei luoghi pubblici. Insomma quel che in tanti altri paesi del mondo accade soprattutto da dopo l’11 settembre 2001. Quello che da questa parte, dalla “nostra” parte del mondo alcuni chiamano scontro di civiltà, altri guerra di religione, altri ancora guerra al terrorismo. E che dall’altra parte chiamano esattamente nello stesso modo ma rovesciando i ruoli: il nemico è sempre e comunque il miscredente, l’incivile, o il terrorista. Se ne sono dette tante su questa guerra che sta durando molto più della seconda guerra mondiale. Si sono fatte le ipotesi più strampalate. Ancora oggi si litiga sull’11 settembre, sulle cause, sugli autori, sulle motivazioni di quell’attentato che ha riacceso i fuochi della guerra in tante parti del mondo. E ancora oggi non si riesce a stabilire se siano più assurdi i commenti di coloro che dicono di combattere in nome e per conto di Dio (in entrambi gli schieramenti, i capi sostengono questa stessa versione dei fatti anche se il dio in questione per loro è diverso) o quelli di coloro che imputano tutto quel che è accaduto a un complotto “pluto-giudaicomassonico”. Siamo andati a vedere come inizia un conflitto di questo tipo. Come cresce, come lo si tiene vivo. E quel che abbiamo scoperto è quasi più incredibile delle più strampalate teorie cospirative o delle più smaccate e offensive giustificazioni che vengono date alla guerra (tipo la guerra umanitaria, una triste e italica invenzione). A una prima lettura. Ma poi, se ci si ferma a ragionare un momento, con gli strumenti propri dell’intelligenza umana, il tutto appare persino banale. La guerra, le guerre, che siano state fatte nel nome di Dio, che siano state fatte nel nome della patria, o addirittura in quello dell’umanità, hanno sempre e comunque scopi precisi: il potere e il denaro. O viceversa, che adesso è lo stesso. E il modello filippino sembrerebbe essere identico al modello afgano, al modello iracheno, al modello iraniano. E non si distingue nemmeno troppo dal modello italiano, da quella strategia della tensione che per oltre due decenni ha insanguinato l’Italia e che, si è scoperto dopo anche se qualcuno lo diceva da sempre, è servita a impedire mutamenti sociali importanti e a garantire la conservazione del potere a chi lo deteneva: dove non c’è il nemico lo si inventa. Quando l’invenzione e la bugia non reggono più, lo si costruisce, lo si rende reale. Si prendono quattro straccioni e li si finanzia, li si arma, li si fornisce di obiettivi e li si lascia colpire. Poi, ogni tanto, il tutto scappa di mano. Ma non importa. Tanto a prenderle sono sempre i civili e mai i potenti. “Alla fine dell'ultima” diceva Brecht a proposito delle guerre, “c'erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente”.

Hanno collaborato per i testi Claudio Agostoni Blue & Joy Valeria Confalonieri Gabriele Del Grande Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Lemnaouer Ahmine Paolo Lezziero Sergio Lotti Angelo Miotto Bruno Neri Claudio Sabelli Fioretti Gino Strada Gianluca Ursini Hanno collaborato per le foto Lemnaouer Ahmine Lucio Cavicchioni Luca Ferrari Mark Navales Filippo Masellani Samuele Pellecchia

Redazione e amministrazione Via Meravigli 12 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net Fotoeditor Naoki Tomasini Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Amministrazione Vilminore di Scalve (Bg) Annalisa Braga Finito di stampare 30 ottobre 2007 Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Pubblicità Via Meravigli 12 - 20123 Milano Via Meravigli 12 Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 20123 Milano Tel (+39) 02 801534 Fax (+39) 02 80581999 Foto di copertina peacereporter@peacereporter.net Militante di Abu Sayyaf Filippine, 2007. Luca Ferrari/Prospekt

Distribuzione in libreria Joo Distribuzione - via F. Argelati 35, 20143 Milano - Tel 028375671

Algeria-Sardegna a pagina 12 Migranti a pagina 24

Birmania a pagina 18

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Sahara a pagina 20

Filippine a pagina 4

Indonesia a pagina 22 3


Il reportage Filippine

La strategia del terrore Dal nostro inviato Enrico Piovesana

Tipo-Tipo, isola di Basilan, estremo sud dell’arcipelago. Superato l’ennesimo checkpoint dei marines filippini e lasciataci alle spalle la loro base-avamposto nella giungla, entriamo nella ‘terra di nessuno’ che separa il territorio governativo da quello dei ribelli. La strada asfaltata lascia il posto a una pista fangosa che serpeggia tra palme da cocco e alberi di banano, fiancheggiando piccoli villaggi di sfollati fuggiti dalla guerra. Dopo un paio di chilometri, un piccolo cartello di legno appeso a una palma segnala l’ingresso nell’area controllata dai guerriglieri del Milf, il Fronte Islamico di Liberazione dei Moro che da trent’anni combatte per l‘indipendenza di quello che un tempo era il sultanato di Sulu. ietro una curva compaiono improvvisamente decine di ribelli, tutti in divisa e armati fino ai denti. Alcuni portano in testa cappelli conici di paglia che li fanno sembrare Vietcong. Sulla spalla destra hanno lo stemma verde del Milf, con la spada e la mezzaluna stellata; sulla spalla sinistra spicca in rosso il loro motto: ‘Vittoria o martirio’. Nonostante questo, il loro aspetto è assai poco marziale e, anzi, piuttosto amichevole. Ci fissano curiosi e divertiti. E altrettanto fanno le loro donne velate e i loro bambini scalzi. Il giovane comandante Asid Salih, due pistole infilate nei pantaloni e uno sguardo da ragazzino, ci dà il benvenuto nel villaggio di Al Barka, sede della terza brigata del Milf da lui capeggiata, e ci invita a seguirlo nella giungla. Ci mettiamo in cammino lungo un sentiero seguendo la colonna di guerriglieri che, lungo il percorso, ci mostrano orgogliosi i rottami bruciati di alcuni camion dei marines: sono i resti della sanguinosa battaglia dello scorso 10 luglio, quando l’esercito, durante le ricerche di padre Bossi, ha invaso la loro area provocando uno scontro che ha lasciato sul terreno decine di morti, tra cui dieci marines decapitati. Mentre i guerriglieri salgono sul camion alzando i fucili verso il cielo e urlando ‘Allahuakhbar’, il comandante Salih ci spiega che le decapitazioni non sono state opera del Milf, come dice il governo, ma del famigerato gruppo di Abu Sayyaf. Arriviamo in un altro accampamento, dove passeremo la notte. Tre guerriglieri corrono come matti tra le baracche inseguendo un velocissimo pollo che non ha nessuna intenzione di diventare la nostra cena. Nel frattempo, dalla spiaggia poco lontana arriva un pescivendolo in moto con un secchio pieno di pesci legato alla sella. In cinque minuti ha già venduto tutto. Uno dei clienti, la moglie di un guerrigliero, se ne va in motorino con il suo uomo portando in una mano la spesa per la cena e nell’altra l’M-16 del marito. La notte cala sull’accampamento, sprofondandolo nel buio più totale. Nelle capanne si accendono le tremolanti fiammelle delle lampade a petrolio e il cielo s’illumina di milioni di stelle e dei bagliori dei lampi di un temporale lontano. Il canto dei grilli fa da sottofondo alla melodiosa voce di un guer-

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rigliero che chiama i compagni alla preghiera serale sotto il tendone che funge da moschea. erminata la funzione, che segna la fine del digiuno diurno del Ramadan, i guerriglieri si riuniscono per la cena attorno a un tavolaccio di legno sotto una tettoia, appendendo ai pali i fucili e le cartuccere. Chiediamo al comandante Salih quali sono gli obiettivi della loro lotta armata. “La creazione di uno Stato islamico indipendente che comprende i territori da sempre appartenuti al popolo musulmano dei Moro, ovvero Mindanao e gli arcipelaghi di Sulu e Palawan. Territori un tempo parte del potente sultanato di Sulu, che gli spagnoli prima e gli statunitensi poi hanno cercato di conquistare con la croce e la spada, fino all’annessione forzata alle Filippine indipendenti, che dagli anni ‘50 hanno spinto milioni di cristiani a emigrare qui nel sud per mettere in minoranza noi musulmani. La nostra guerra di liberazione, costata finora duecentomila morti e mezzo milione di sfollati, ha avuto inizio negli anni ‘70 sotto le insegne dell’Mnlf, il Fronte nazionale di liberazione dei Moro, che nel ‘76 accettò di deporre le armi e di trattare sull’offerta governativa di una limitatissima autonomia regionale. Fu allora che molti combattenti, delusi da questa resa, diedero vita al Milf continuando a combattere per uno Stato islamico indipendente”. Salih indica i volti rugosi di due anziani guerriglieri, Janalun e Karim. “Loro, per esempio, hanno iniziato a combattere nell’Mnlf nei primi anni ‘70 e poi sono passati al Milf. Questo flusso è continuato per tutti gli anni ‘80, raggiungendo il suo culmine a metà anni ‘90, quando l’Mnlf è definitivamente capitolato accettando di governare, come partito politico, la regione autonoma musulmana di Mindanao (Armm): una farsa amministrativa che oggi, a dieci anni di distanza, lo stesso Mnlf riconosce come un fallimento completo”. Il comandante si interrompe per

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Giorno, e notte, nel campo del Milf Basilan, Filippine, 2007. Mark Navales per PeaceReporter


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rispondere a una telefonata al suo cellulare e si allontana per un po’ in direzione dei lampi, sempre più vicini.

Quando chiediamo quante siano state le perdite dell’esercito, il generale risponde: “Segreto militare”. Verremo a sapere poi, da fonti dell’esercito, che solo in una delle ultime battaglie, il 19 luglio scorso, sono rimasti uccisi ventisette soldati filippini. “Abu Sayyaf è un nemico molto forte – spiega Rafael – perché si mischia alla popolazione civile, è protetto dalla locale fazione dell’Mnlf, che qui non ha ancora deposto le armi, e inoltre gode del sostegno dell’organizzazione indonesiana Jemaah Islamiyah e, tramite questa, di al Qaeda. L’aiuto militare degli Usa in questa lotta è molto prezioso”.

uando torna, gli chiediamo di proseguire il suo racconto. “Per contrastare la crescente influenza del Milf – riprende Salih – il governo filippino ha cercato di sconfiggerci militarmente e di delegittimarci politicamente. A questo scopo, nei primi anni ‘90, l’intelligence militare, assieme alla Cia, ha dato vita al gruppo di Abu Sayyaf: finti mujaheddin, provocatori manovrati dallo Stato per compiere attentati e attacchi contro la nostra stessa gente, allo scopo di screditare la l generale ci introduce nella parte della base data ‘in affitto’ al connostra lotta e il nostro movimento, falsamente accusato di intrattenere tingente delle forze speciali statunitensi, dove ci aspettano il comanlegami con Abu Sayyaf, e di giustificare così una guerra totale contro di dante Kenny, dei Rangers, e il portavoce Puello, della marina. Dopo noi che è durata fino al cessate il fuoco del 2001. Dopo i fatti dell’11 setaverci illustrato le opere umanitarie e di sviluppo da essi compiute, gli tembre, la presidente Gloria Arroyo ha approfittato della guerra globachiediamo perché il governo Usa abbia mandato i suoi migliori combatle al terrorismo per sabotare ogni tentativo di negoziato: ha chiesto il tenti in una zona di guerra solo per costruire scuole, ospedali, strade e sostegno militare degli Usa, che dal 2002 hanno schierato qui centinaia pozzi: non potevano mandare ingegneri e medici? Facciamo presente di truppe speciali, e ha rilanciato la sua campagna di stragi di Stato, con che lo stesso comandante in capo delle forze speciali Usa nelle attentati e azioni regolarmente attribuiti a noi, accusati quindi di esseFilippine, Maxwell, ha riconosciuto il fatto che qui le sue truppe sono re un movimento inaffidabile con il quale è impossibile trattare. Il rapiimpegnate in operazioni ‘anti-insurrezionali’ di mento del prete italiano in una nostra area e la ‘guerra non convenzionale’, ‘mascherate da decapitazione dei marines nel nostro territorio 1971: comincia il conflitto esercitazioni congiunte’. Facendo finta di nulla, rientrano in questa strategia: screditarci e farci indipendentista Moro ma evidentemente imbarazzato, il maggiore apparire dei terroristi legati ad Abu Sayyaf”. 1976: accordi di Tripoli tra Kenny riprende a parlare dei progetti umanitaCe ne andiamo a dormire, con le idee un po’ congoverno e Fronte Nazionale di ri. A toglierlo dall’imbarazzo ci pensa Puello, fuse, in una baracca del campo. Ci stendiamo a Liberazione Moro (Mnlf), con un ardito sofismo: “E’ vero che qui facciaterra, su una stuoia di paglia. Ai nostri piedi una comincia il processo di pace. mo una guerra non convenzionale, nel senso lampada a petrolio, un fucile mitragliatore e una 1977: nascita del Fronte che invece di sparare come si fa in quella conculla appesa al soffitto con dentro un neonato Islamico di Liberazione Moro venzionale, combattiamo il nemico cercando di che piange senza sosta. Sopra le nostre teste (Milf), che rifiuta gli accordi conquistare i cuori e le menti della gente. E ci penzolano dalla parete due lanciagranate e, 1992: nascita del gruppo intestiamo riuscendo”. sopra una mensola, un Corano ingiallito. gralista islamico Abu Sayyaf Chiediamo allora di vedere cosa è stato fatto Improvvisamente scoppia il temporale: uno scro1996: nascita della Regione per i più bisognosi: gli sfollati interni causati scio incessante di pioggia si abbatte per ore sul Autonoma Musulmana di dal conflitto, che in questa isola, secondo i dati tetto di latta della baracca con un rumore assorMindanao (Armm) della Croce Rossa filippina, sono cinquantamila dante. I guerriglieri di guardia fuori vengono a 2001: cessate il fuoco tra su una popolazione totale di cinquecentomila stendersi vicino a noi, con i loro fucili accanto. governo e Milf, abitanti. Il permesso ci viene però negato dal regolarmente violato indomani, lasciato il campo del Milf e uscigovernatore locale, Sakur Tan, secondo il quale: 2002: intervengono gli Stati ti dalla zona da loro controllata, facciamo “Di sfollati qui non ce ne sono più. Non c’è motiUniti d’America che inviano una sosta forzata nella vicina base dei vo che andiate là. Piuttosto perché non andate forze speciali marines filippini. Troviamo il generale Sabban, a visitare le nostre meravigliose spiagge?”. nelle zone di conflitto mimetica e testa rasata, fiero della sua fama di 200 mila i morti causati ipieghiamo quindi sulla Croce Rossa, ‘falco’, intento a discutere con alcuni ufficiali deldal conflitto armato sperando in un aiuto. Ma, incredibilmenl’esercito e della marina degli Stati Uniti. dagli anni ‘70 a oggi. 500 mila te, la responsabile locale dell’organizza“Dovevamo discutere della realizzazione di alcuni gli sfollati in quarant’anni di zione ci dice – chiedendo l’anonimato – che progetti umanitari e di sviluppo: scuole, pozzi, combattimenti nemmeno loro hanno il permesso di visitare i strade”, spiega Sabban dopo averli congedati. “Non vi fidate di quello che vi dice il Milf: sono dei campi degli sfollati e di portare soccorso ai civifalsi. Parlano di pace, vogliono il dialogo, e poi, alla prima occasione li nelle zone dei combattimenti. “Ci impediscono di fare il nostro lavoro buona, ci attaccano alle spalle e decapitano i nostri uomini. Non sono perché dicono che aiutando i civili dei villaggi interessati dalle operadiversi dai terroristi di Abu Sayyaf, con i quali infatti sono alleati. Avete zioni militari noi sosteniamo i terroristi! Il governatore dice che gli sfolrischiato molto ad andare da loro”. Ci offre di rimanere a pranzo: non lati non ci sono più per il semplice fatto che lo status di sfollato, per le digiunano per il Ramadan, perché tutti i soldati sono cristiani proveautorità, dura solo sei mesi: dopodiché, chi non torna nel proprio villagnienti dalle regioni del nord. gio perché distrutto o per paura dei militari, cessa semplicemente di Gli statunitensi lasciano il campo scortati da Humvee e blindati sopra i essere un rifugiato per il governo. Credo bene che non vogliono che quali stanno soldati con i mitragliatori spianati. Segno che forse qui non entriate in contatto con i profughi: vi racconterebbero di interi villaggi tutti apprezzano le opere di bene di questi missionari in divisa. occupati dall’esercito da oltre un anno, di violenze e abusi. E non credeIncuriositi dall’umanitarismo delle forze speciali statunitensi, decidiamo te alle balle sulle opere umanitarie: per questa povera gente non viene di andare nella vicina isola di Jolo: roccaforte di Abu Sayyaf e per quefatto nulla. Con il pretesto della guerra contro i terroristi di Abu Sayyaf, sto principale teatro operativo dei militari Usa. Nel quartier generale dei e con l’aiuto delle forze Usa, i militari tengono sotto assedio la popolamarines filippini, da cui decollano in continuazione elicotteri da combatzione di quest’isola, compiendo gravi violazioni dei diritti umani. Altro timento e vecchi Huey – quelli usati in Vietnam – incontriamo il generache guerra umanitaria!”. le Rafael che snocciola i dati sulla guerra ad Abu Sayyaf: “Nell’ultimo Guerriglieri del Milf nel campo di Al Barka. anno abbiamo avuto settantatré scontri armati, nei quali abbiamo elimiBasilan, Filippine 2007. Luca Ferrari/Prospekt nato centoquaranta terroristi, tra cui i loro maggiori capi”.

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asciamo l’isola di Jolo e arriviamo a Zamboanga, dove ci aspetta Al Jacinto, giornalista locale esperto di ‘guerra al terrorismo’. “Io sono ateo, quindi non parteggio per nessuno: vi dico solo la verità. E la verità è che questa è una guerra molto sporca, in cui nulla è come sembra e in cui è difficile distinguere una parte dall’altra. Abu Sayyaf? Non è altro che un gruppo di banditi manovrati da politici e militari per sabotare i negoziati con il Milf, per giustificare il mantenimento di uno stato di guerra e con esso la permanenza delle truppe Usa. L’operazione “Base Verde”, svelata nel 2003 da alcuni ufficiali ammutinati, ne è una prova: l’intelligence militare aveva compiuto una serie di attentati nella città di Davao, accusando poi il Milf. E’ più che probabile che in questo gioco siano implicati anche gli Stati Uniti, che qui nel sud hanno grossi interessi economici - petrolio, gas, oro, rame e frutta - e strategici: non vogliono certo che una loro ex colonia diventi uno Stato islamico. Nel 2002 lo statunitense Michael Meiring, che si spacciava per un cacciatore di tesori, ha perso le gambe nell’esplosione di un ordigno che stava maneggiando nella sua camera d’albergo a Davao. Prima che la polizia lo potesse interrogare, agenti dell’Fbi lo hanno prelevato dall’ospedale e messo su un aereo per gli Stati Uniti”. Prima di salutarci, il giornalista butta là un’altra notizia-bomba: “Visto che siete italiani, magari vi interessa sapere che per padre Bossi è stato pagato un riscatto di oltre un milione di dollari”.

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perché lui aveva “un lavoro da fare”: il giorno seguente, un doppio attentato nella città di Kidapawan, attribuito a gruppi del Milf legati ad Abu Sayyaf, aveva provocato due morti e venti feriti. indomani, l’uomo ci dà appuntamento in una casa vuota alla periferia di Cotabato. Si presenta con il volto coperto da un fazzoletto nero, occhiali a specchio avvolgenti e cappellino dei New York Yankees. Posa sul tavolo il suo arsenale: un M-16 Fetus e due pistole calibro 45. “Queste armi – dice – hanno licenza militare. Io prima stavo nell’esercito, ero esperto di esplosivi. E sono cristiano. Sono entrato in Abu Sayyaf nel 1998 per motivi personali di vendetta. Il contatto iniziale è stato un alto ufficiale dell’esercito. Il mio ruolo è quello di organizzare attentati nell’area centrale di Mindanao”. Gli chiediamo se le bombe di Kidapawan sono state opera sua. “No – risponde secco – è stato il Milf”. E a rapire Padre Bossi? Stessa risposta. Ci sono altri ex militari in Abu Sayyaf? “Certo – dice – e ci sono anche diversi militari ancora in servizio che forniscono armi e copertura durante le operazioni”. Chiediamo se il gruppo ha legami con al Qaeda. Ride.

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er essere sicuri che lo sconcertante quadro che si sta delineando non sia il prodotto della propaganda del Fronte Moro e dei suoi simpatizzanti, decidiamo di volare a Manila, al quartier generale dei marines – una città nella città – per parlare con il colonnello che ha comandato la misCotabato, capoluogo della regione autonoma musulmana di Mindanao sione di ricerca di padre Bossi a Basilan, tragicamente finita con la decapita(Armm), proviamo a chiarirci le idee scambiando quattro chiacchiere zione di dieci dei suoi uomini. Troviamo l’ufficiale intento a riparare il suo furcon uno dei più rispettati intellettuali islamici delle Filippine. Vel gone. “Lavoretti da pensionato”, ironizza riferendosi al suo siluramento avveAcoymo, per gli amici Bapa Vel, è un musulmano nuto a fine agosto dopo un duro contrasto con lo progressista, direttore del battagliero giornale ‘Kota stato maggiore dell’esercito. “Non ce la facevo più a Il 10 giugno 2007 padre Wato Express’ ed esperto di storia del popolo Moro. veder morire i miei ragazzi per gli sporchi giochi di Giancarlo Bossi viene rapito E’ malato: ci accoglie nella sua casa. potere dei politici e dei miei stessi colleghi militari. nella provincia di Zamboanga “Volete sapere tutta la verità su Abu Sayyaf e sulla Così, dopo aver perso altri quindici uomini il 18 agoSibugay. Le accuse cadono sia su Abu Sayyaf che sul Milf. guerra al terrorismo nelle Filippine? Verso la metà sto, nell’ennesima inutile operazione, ho protestato Dietro il sequestro ci sarebbe degli anni ‘90 la forza e il seguito del Milf preoccue mi hanno messo fuori. Ma mi tengono d’occhio”, invece il potente politico pavano il governo di Manila e non solo. Così, nel dice mostrandoci i suoi otto telefoni cellulari. “Ogni Wahab Akbar. 1992, il neopresidente Ramos, ex cadetto di West settimana ne prendo uno nuovo perché gli altri li Il 10 luglio, battaglia di Al Point, incaricò l’intelligence militare di creare un mettono tutti sotto controllo. Lo so dagli amici che Barka, a Basilan, tra guerriglieri gruppo terrorista per sabotare la lotta del popolo mi sono rimasti all’interno dell’intelligence, dove ho del Milf e marine filippini. I miliMoro. L’agente segreto Edwin Angeles e l’allora lavorato per anni. Venite, andiamo nella mia cameziani di Wahab Akbar decapitagovernatore di Basilan, Wahab Akbar, arruolarono il ra: lì i telefoni non prendono”. no 10 soldati. Il 15 luglio entra carismatico jihadista Abdurajik Janjalani, ex uomo “Tutto è iniziato – racconta il colonnello dopo aver in vigore il contestato ‘Human della Cia e di Bin Laden in Afghanistan. Con le armi chiuso la porta – quando alla vigilia delle elezioni Security Act’, la legge che amplia i poteri dell’esercito, dell’esercito fornite da Angeles e con la copertura amministrative di primavera ho ordinato il sequeduramente contestata dalla politica garantita da Akbar, il gruppo si mise subito stro di tutte le armi della milizia privata dell’onoreChiesa filippina. in evidenza con spettacolari attacchi e attentati convole Wahab Akbar nel suo feudo di Basilan: praticaNegli stessi giorni il governo dotti nelle aree del Milf, fornendo all’esercito il premente ho disarmato Abu Sayyaf, visto che Akbar è il Usa sblocca un finanziamento testo per scatenare una guerra contro le basi del vero capo del gruppo terroristico, oltre che, tanto antiterrorismo di 100 milioni di Fronte Moro. Il colpo da maestro fu la presa degli per essere chiari, fedelissimo della presidente dollari a favore del governo ostaggi nel resort malesiano di Sipadan, nel 2000, Arroyo che deve a lui la ‘vittoria’ alle elezioni del filippino. Il 19 luglio Padre poi portati in una zona del Milf: quest’azione ha 2004. Ma questo è un altro discorso. Akbar controlBossi viene liberato, secondo le avuto l’effetto di porre fine al sostegno che la la Abu Sayyaf sia a Basilan che a Jolo, elargendo testimonianze raccolte, dietro Malesia aveva fino ad allora dato alla causa indiperiodicamente grosse somme di denaro ai politici pagamento di un riscatto di 60 pendentista dei Moro. Il terrorismo di Stato viene locali e anche a certi generali. E pure a qualche milioni di pesos, pari a 1,3 milioni di dollari. usato come strumento di potere. Se ci fate caso, gli comandante del Milf e dell’Mnlf. A Basilan è facilitaattacchi, gli attentati e i rapimenti attribuiti al Milf to dal fatto che il governatore e il sindaco del caporegistrano un’impennata in coincidenza con i negoziati di pace o con momenluogo sono rispettivamente la sua prima e la sua seconda moglie. Infatti, ti critici per il governo: scandali da cui distogliere l’attenzione pubblica, eledopo aver fatto rapire padre Bossi, Akbar lo ha fatto portare nella sua zona, zioni o dibattiti su leggi d’impronta marziale. Come quella entrata in vigore a Basilan. E lì sono stati i suoi uomini a imboscare i miei soldati e a decapiproprio dopo il rapimento Bossi e le decapitazioni di Basilan: la Chiesa aveva tarne dieci. Nei giorni successivi – conclude il colonnello – la nuova legge che duramente contestato questa legge prima del rapimento del missionario itadà poteri di polizia all’esercito è passata senza proteste, gli Usa hanno sblocliano, poi le proteste sono cessate. Coincidenze! Abu Sayyaf, Jemaah cato un finanziamento antiterrorismo da cento milioni di dollari e Akbar ha Islamiyah, non esistono in quanto tali: sono creature delle intelligence filippiincassato i sessanta milioni di pesos (1,3 milioni di dollari, ndr) del riscatto di na e statunitense. Nulla hanno a che vedere con l’islam o il popolo Moro. Molti padre Bossi: soldi con cui ora riarmerà Abu Sayyaf. E così il gioco può condei membri di Abu Sayyaf non sono nemmeno musulmani! Un vero musulmatinuare. Ma senza di me”. no non mette le bombe per uccidere i suoi fratelli”. In alto, Marines filippini a Basilan. In basso, donne alla festa per la fine del ramadan a Una conferma sembra arrivare pochi giorni dopo, quando riusciamo a inconJolo. Filippine, 2007 Mark Navales per PeaceReporter trare un sedicente ‘bombarolo’ di Abu Sayyaf. La prima intervista era saltata

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I cinque sensi delle Filippine

Udito I tristi arpeggi di chitarra che compongono ‘Balita’ (La notizia), vecchia canzone di protesta contro la dittatura militare di Marcos. E’ ancora ascoltatissima a Mindanao perché il testo parla della violenza che affligge questa regione e del desiderio di un futuro di pace per la gente che la abita. Risulta quindi ancora molto attuale. Il canto degli uccelli e il frinire degli insetti, assordante e ipnotico, che risuona nelle foreste equatoriali della regione di Mindanao e nelle isole dell’arcipelago di Sulu. E, di notte, il magico canto ininterrotto di migliaia di grilli. Il mescolarsi del suono delle campane delle chiese cristiane e del canto dei muezzin delle moschee islamiche, segno emblematico della convivenza, tutto sommato pacifica, delle due religioni nel sud delle Filippine.

La moltitudine di teste velate di bianco delle donne durante la preghiera dell’Hari Raya, la celebrazione che segna la fine del Ramadan, sulla spianata davanti alla gran moschea di Jolo. La sorridente ape rossa e gialla simbolo del Jollybee, il McDonald’s filippino, capillarmente presente in tutte le città del paese. I loro panini sono spesso ancore di salvezza per i viaggiatori meno avvezzi al cibo locale. I convogli verdi e gialli di Humvee statunitensi che percorrono ad alta velocità le affollate strade di Jolo. Esattamente come accade a Kabul o a Baghdad. Con la differenza che il giallo deserto, nelle giungle filippine, non è affatto mimetico. La colorata umanità che dorme, mangia, prega e chiacchiera sui letti a castello e sulle brande militari che ricoprono ogni metro quadrato dei ponti dei vecchi traghetti notturni che fanno la tratta Zamboanga-Jolo.

Vista

Gusto

Le ‘Jeepneis’, i taxi collettivi tipici di tutte le città filippine, dai colori sgargianti e le pacchiane decorazioni cromate che contrastano con il nero fumo degli scarichi. I grattacieli futuristici di Makati City, il centro affaristico e commerciale di Manila, che svettano sullo sfondo delle baraccopoli di Quezon City, la periferia più povera della metropoli. I contadini con i cappelli conici di paglia che, affondando i piedi nudi nell’acqua fangosa delle risaie, spingono gli aratri trainati dai bufali. Il verde brillante delle risaie e le distese infinite di palme da cocco che ricoprono tutta la regione di Mindanao e le isole vicine.

I soffici ‘siopao’, palle di pasta lievitata ripiene di pollo: è la variante filippina dell’hamburger, venduta a tutti gli angoli di strada e in tutte le panetterie del paese. Sono così pesanti che una sola sostituisce un pasto completo. Il ‘kinilaw’, l’insalata di tonno crudo tipica del sud delle Filippine, condita con aceto, latte di cocco e cetrioli, solitamente consumata come aperitivo al posto dei nostrani salatini. In molti bar la servono assieme alla birra. I calamari giganti, quaranta centimetri di indimenticabile sapore quando sono cucinati al nero di seppia nell’isola di Jolo. La dolce polpa bianca dei lanzones, i piccoli

frutti tropicali simili a piccole patate per aspetto e colore, tipici della zona.

Olfatto L’odore acre del fieno bruciato dai contadini nelle risaie, dopo il raccolto. La nauseante puzza dolciastra dei ‘durian’, il re dei frutti esotici dalla tipica scorza spinosa: il suo olezzo è così intenso che si sente a molti metri di distanza. L’esotico profumo dell’olio di cocco che aleggia attorno alle fabbriche dove si lavorano questi frutti, preziosi per il latte che producono e per l’olio che viene usato nelle industrie cosmetiche.

Tatto La pelle perennemente appiccicosa e sudata a causa dell’opprimente caldo umido che caratterizza il clima tropicale filippino, che assale all’uscita dell’aeroporto internazionale di Manila e che rende difficile qualsiasi sforzo per chi non ci è abituato. La caldissima acqua del Mare di Sulu, con temperature che sfiorano i cinquanta gradi, facendo diventare impossibile persino un tuffo e la finissima sabbia bianca delle spiagge di Jolo, orlate di palme, da cui i pescatori partono ogni mattina e tornano ogni sera. La morbida pece bianca che gocciola dai tronchi incisi degli alberi di caucciù, che viene poi lavorata e seccata per produrre gomma naturale. Lo scivoloso fango che rende faticoso il cammino sui sentieri nella giungla battuti dai ribelli del Milf e imbratta ogni parte dell’equipaggiamento di chi vi si avventura. 11


Il reportage Algeria - Sardegna

Questioni di prospettiva Dai nostri inviati Christian Elia e Lemnaouer Ahmine

Se per alcuni è un pugno nell’occhio, il polo industriale di Portovesme per altri è una visione celestiale. Siamo nel Sulcis, in Sardegna. Dal porto di Calasetta, nell’isolotto di Sant’Antioco, il panorama mozzafiato è brutalizzato da ciminiere che gettano alte colonne di fumo nascondendo il cielo di questo angolo di Sardegna. Ma per centinaia di ragazzi algerini, partiti dal porto di Annaba, quel fumo ha lo stesso significato che aveva la Statua della Libertà per i migranti italiani, quando si stagliava all’improvviso nella bruma della baia di New York. e lo dicono tutti”, racconta un ragazzo algerino, “quando vedete il fumo di una fabbrica siete arrivati in Italia”. La rotta dei migranti dal porto algerino di Annaba alla Sardegna sud occidentale è relativamente nuova: i primi sbarchi sono avvenuti nell’estate del 2005. Un fenomeno che, all’inizio, pare limitato diventa via via più importante, fino all’estate scorsa, quando gli sbarchi diventano massicci. Dall’inizio del 2007 sono più di 1.600 gli algerini arrivati in Sardegna, intercettati in alto mare o direttamente sulle spiagge del Sulcis: Porto Pino, l’isola di Sant’Antioco, l’isola di San Pietro fino a Capo Teulada e Chia. Tutti o quasi migranti algerini, e tutti o quasi provenienti dalla stessa città: Annaba. Annaba è il terzo porto dell’Algeria, con una popolazione di più di duecentomila abitanti. Lungo la centrale Court de la Revolution, i caffè sono pieni di turisti algerini e di gente del posto. Poco più in là troneggia la Basilica di sant’Agostino, che con la sua mole ricorda il tempo in cui le due sponde del Mediterraneo erano molto più vicine di quanto non lo siano adesso. L’argomento del giorno, di ogni giorno, tra i tavolini dei bar e sulle panchine baciate dalla oziosa ombra offerta dagli alberi, è uno solo: gli harraga. Sono coloro che ‘passano’, nel senso dell’emigrazione clandestina. “All’inizio sembrava quasi una leggenda metropolitana”, spiega Ben Tribeche, disoccupato e tuttofare. “Poi abbiamo cominciato a non vedere più alcuni giovani del quartiere. Qualcuno parlava di parenti che erano partiti, e a qualcun altro è partito il figlio. A quel punto abbiamo capito che era reale”.

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on molto lontano dal centro, c’è una piazza che ha mantenuto il suo nome coloniale francese, Place d’Armes, nonostante i tentativi del governo di arabizzare la storia del paese. Un modo come un altro, tra la gente comune, per mantenere vivo quel rapporto di amore-odio che li lega all’Europa. Rapporto che, nelle stradine affollate del suk della piazza, è rappresentato dalle migliaia di magliette delle squadre di calcio ammassate in un trionfo di colori vivaci sulle bancarelle: nazionale italiana, Inter, Milan, Juventus, Roma e altri club europei. Simboli dello sport più amato, e anche di uno stereotipo dell’occidente, fatto di soldi facili e ‘bella vita’. Quello stereotipo che per le centinaia di ragazzi che gironzolano nel mercato diventa un obiettivo da raggiungere. Sono i cosiddetti hitiste, quelli che reggono i muri standoci appoggiati senza fare nulla, i disoccupati. Centinaia di migliaia in Algeria, e Annaba non fa differenza. “Ho lavorato per 32 anni al complesso siderurgico del Haddjar, che adesso è stato privatizzato ed è finito in mano agli indiani”, racconta Hamdi, “hanno mandato un sacco di gente in pensione anticipata, promettendo di rimpiazzarci con del personale giovane. Credevo di lasciare il posto a mio figlio, invece è stata tutta una truffa. Più di dodicimila

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licenziamenti e, calcolando per ogni lavoratore licenziato una famiglia media di moglie e quattro figli, può immaginarsi che tragedia sia stata per questa comunità”. Un presente pieno di problemi, e un futuro carico di speranze, a volte più simili a miraggi. “Cosa resto a fare qua? Ogni estate vedo quelli che sono andati in Europa tornare vestiti bene, con la macchina nuova, che possono comprarsi una casa e mettere su famiglia”, racconta Tita, diminutivo di Toufik, “voglio anche io quelle cose. Se resto a fare il disoccupato, insieme ai miei fratelli, aspettiamo la pensione, i 130 euro al mese di nostro padre. Sono stufo, non ne posso più di chiedere i soldi a casa”. n Algeria il settanta percento della popolazione ha tra i 20 e i 35 anni: un esercito di insoddisfatti senza prospettive. Più o meno la stessa età di Giovanni Marco Ucheddu, un ragazzo che quando lo guardi capisci subito che è uno che si è fatto da solo. Di giorno, durante la bella stagione, gestisce un chiosco sulla spiaggia di Porto Pino, di sera un locale a Sant’Anna Arresi. La testa calva e la mascella serrata gli danno uno sguardo da duro, sostenuto dal petto in fuori stretto in una maglietta della nazionale italiana. “Qui non ci devono venire”, risponde brusco offrendo un caffè, “questa è una zona che adesso comincia a vedere turisti. Non vogliamo diventare come Lampedusa. La Sardegna non è l’Eldorado, qui ci sono un sacco di disoccupati. E non è vero che, come dice il governatore Soru, i clandestini sono ben accetti, perché ci sono tanti lavori che i sardi non vogliono più fare. Qui c’è tanta gente disoccupata, che vuole migliorare la sua vita. Ma non ci sono occasioni, e i giovani hanno ripreso a emigrare verso la penisola in cerca di un lavoro. Se continuano questi sbarchi, anche chi come me è rimasto qui, a lottare per creare un po’ di sviluppo nella sua terra, sarà costretto ad andare via”. Migrare per migliorare la propria vita, come gli algerini. “Ma cosa crede, che non sappia cosa si prova a dover andare via?”, risponde piccato il giovane imprenditore, “i miei genitori sono dovuti andare in Germania per lavorare. Noi sardi siamo un popolo di migranti, conosciamo bene la situazione. Però loro andavano dove il lavoro c’era, dove c’era bisogno di loro. Qui è differente, lavoro non c’è”. E’ davvero così dura la situazione? Arrivando da Cagliari, il Sulcis non dà l’idea di una regione in fermento produttivo. Contro il cielo lungo la strada, costellata di alture brulle attraversate da pecore al pascolo, si ergono come silenziosi monoliti i residui arrugginiti della ‘era del carbone’, monumenti alle migliaia di minatori che sono vissuti e morti nelle viscere di questa terra.

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Un gruppo di immigrati segue le indicazioni degli agenti della Guardia di Finanza per lo sbarco. Italia 2006. Samuele Pellecchia/Prospekt


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Algeria è una terra ricca di risorse. Eppure la sua gente vive in povertà, perché una cricca di potenti si tiene tutto”, commenta l’imprenditore Ucheddu. “Ma la libertà non si ottiene con facilità. Prenda noi italiani con il fascismo: abbiamo dovuto lottare per essere liberi, ce la siamo presi da soli la democrazia. Dovrebbero fare così anche loro. E se pensano di costruire anche qua i centri di permanenza, accoglienza o detenzione, o come si chiamano, si sbagliano. La gente non li vuole e i sindaci lo sanno”, conclude il giovane sardo. In una terra come il Sulcis, costellata di piccole comunità, il rapporto tra gli amministratori e i cittadini è molto diretto. Salvatore Cherchi è sindaco di Carbonia, capoluogo della provincia di nuova istituzione, in prima linea rispetto agli sbarchi. Lo si trova nella piazza della cittadina costruita dal fascismo. L’architettura tradisce nello scarso fascino le poco nobili origini, ma una frotta di ragazzi allegri anima la piazza principale dove si affaccia il municipio. “Vede, io capisco questi ragazzi. Cercano solo di cambiare vita”, dice il primo cittadino, “ma l’illegalità non è la soluzione. Dobbiamo batterci per un’immigrazione costruttiva, che faccia il bene delle comunità di origine e di quelle d’accoglienza. Questa è una terra d’immigrati, qui arrivarono da tutta Italia all’epoca delle miniere, conosciamo i problemi di coloro che lasciano la loro terra. Però non è la clandestinità la soluzione. Bisogna lavorare sulla comprensione dei problemi reciproci. Stiamo lavorando a contatto diretto con le autorità algerine e io per primo cerco il mio omologo di Annaba, per ragionare assieme su problemi e soluzioni. Ma devono collaborare”. Come l’imprenditore, anche il sindaco si aspetta qualcosa dall’Algeria e dal suo governo, ma non è così semplice, ed è ancora più duro se i giovani hanno perso qualsiasi forma di fiducia nelle istituzioni.

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uesti giovani sono come dei morti viventi”, spiega Allia, giornalista di Liberté, uno dei più importanti quotidiani algerini. “Guardano la loro vita che gli passa davanti senza parteciparci. Ripetono le stesse cose tutti giorni, non credono più nel futuro, perché qui a trenta o quarant’anni non hai lavoro, il che vuol dire niente certezze, niente casa, niente matrimonio. Non credono più nei politici corrotti, che li cercano solo al momento delle elezioni. Le ultime legislative hanno registrato la più bassa partecipazione al voto dai tempi dell’indipendenza nel 1962”. Una situazione claustrofobica, dalla quale fuggire a ogni costo. Alla periferia di Annaba c’è la spiaggia di Sidi Salem. Basta far due passi tra i ragazzi che si godono il sole, o che fanno un bagno, per capire come sia scattato il passaparola tra loro. “E’ sufficiente guardare la cartina per rendersene conto: con il mare in buone condizioni si arriva in otto ore. Basta una barca e un motore”, racconta Samir, uno di loro. “Abbiamo calcolato quanta benzina ci vuole e quelli che vogliono partire fanno una colletta. Il totale della spesa può arrivare a cinquemila euro. Settecento per la barca, tremila-quattromila per il motore e una cinquantina per il carburante. E infine trecento per il Gps. La spesa viene ripartita tra quelli che s’imbarcano e via”. “Per i soldi s’investe tutto quello che si possiede”, continua Samir “e in alcuni casi sono le famiglie a sacrificarsi per permettere a qualcuno di partire. Io per esempio, quando partirò, venderò la mia bancarella di vestiti al mercato. Ci organizziamo da soli, guardando internet, anche se può essere che qualcuno venda dei posti in una barca”.

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e do solo un dato: in provincia di Carbonia, su 140mila abitanti, ci sono 33mila disoccupati”, commenta Marco Grecu, della Cgil locale. “Questo fenomeno, se non viene gestito, aumenterà gli aspetti della crisi. Nei registri anagrafici dei braccianti agricoli ci saranno iscritte sì e no un centinaio di persone. Prima erano migliaia. Non è calato il lavoro: è il fenomeno del nero ad essere in crescita. Un’immigrazione massiccia avrebbe effetti distorsivi sul mercato. Le autorità solo adesso si muovono. Ma se pensano di costruire il Cpt all’aeroporto di Elmas, alle porte di Cagliari, commettono un altro errore. Quello è un lager! Un vecchio capannone, non attrezzato per ospitare una struttura di questo tipo. Si rende conto che è nell’aeroporto militare, a due passi da quello civile? Cosa succede se qualcuno si mette a correre sulla pista mentre sta atterrando un aereo passeggeri?”. Soluzioni d’emergenza, per parare una situazione che nessuno si aspettava.

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“Le barche sono tutte uguali: lunghe sei o sette metri, nuove di pacca e rivestite in vetroresina, con motori nuovi della Suzuki da 40 cavalli”, spiega Pietro Paolo Di Giovanni, presidente della cooperativa di pescatori di Capo Teulada. “Lo so bene, perchè me le hanno mollate qui in consegna, dopo il sequestro. Mi chiedo come fanno questi ragazzi ad avventurarsi in un viaggio così pericoloso. Sembra facile, ma il mare dalle nostre parti è sempre grosso, con correnti fortissime. Non è mai capitato di trovare corpi in mare, ma tra i pescatori certe storie girano, e qualcuno comincia a parlare di tonni ripescati, per indicare qualcuno di questi disperati. Ma nessun pescatore ha la minima convenienza a impicciarsi in queste storie: troppi problemi. Se avvistiamo qualcuno in mare, avvisiamo la capitaneria e ci pensano loro”. Ci pensa, da un po’ di tempo a questa parte, il comandante Martinez, “napoletano dei Quartieri Spagnoli”, come annuncia sorridendo nella sua scintillante divisa bianca della Guardia Costiera. “Il nostro non è un compito di polizia, ma solo di soccorso”, spiega l’ufficiale, “ci limitiamo ad andare ad aiutare i natanti in difficoltà, e rifocilliamo questa gente, accompagnandola in porto dove ci sono i carabinieri o la polizia e la Croce Rossa. Il fenomeno, all’inizio, ci ha colto di sorpresa e i miei ragazzi sono stati sottoposti a turni massacranti. Ma cosa vuole che le dica, sono giovani anche i miei uomini e non si può non tendere una mano verso questi disperati. La traversata è davvero rischiosa. E poi, in questa zona, ci sono le servitù militari, spesso ci sono delle esercitazioni. A volte i clandestini sono sbarcati in quelle acque, correndo un rischio immenso, al quale si somma quello degli ordigni inesplosi. Si muovono spesso con i Gps, ma sono anche in collegamento con amici e parenti, perché le telefonate che ci segnalano imbarcazioni in difficoltà arrivano a volte anche dall’Italia o dalla Francia. Tutti hanno il cellulare, con il quale chiamano subito casa per dire che tutto è andato bene”. Ma non sempre quel telefono squilla. lla periferia di Annaba, nel quartiere che dai suoi abitanti continua ad essere chiamato con il nome coloniale di les Allemands, anziché Sahel el gharbi, in uno dei tanti caseggiati grigi e inespressivi dell’epoca del realsocialismo all’algerina vive la famiglia di Ami Boubeker. La casa è povera, ma nulla può scalfire la sacralità dell’ospite nella cultura di questa gente, e un tè arriva rapido a confortare il visitatore. Accanto ad Ami siede la moglie, con la quale scambia una carezza dolce e triste allo stesso tempo. Mostra con orgoglio e pudore la foto del figlio Faycel. “Non ha detto nulla al padre, solo io sapevo che sarebbe partito”, racconta la madre, “ho fatto di tutto per convincerlo a non andare. Quando ne discutevamo lui si arrabbiava tanto, e mi diceva che qui si sentiva morire. Mi diceva che non andava certo a divertirsi, ma a lavorare, per dare una svolta alla sua vita e alla nostra. Non l’ho mai rivisto e non sappiamo ancora che fine abbia fatto”. La donna si chiude in un pianto pieno di dignità, mentre il signor Ami Boubeker tira fuori una cartelletta sdrucita, da cui fuoriescono da tutte le parti ritagli di giornale e di foto. “Non mi arrendo, voglio sapere che fine ha fatto”, spiega il padre di Faycel, “Alcuni ragazzi sono in carcere, in Tunisia. Ma ad altri la traversata potrebbe essere andata male. Ci sono altre sessanta famiglie in tutta la regione di Annaba che hanno visto un figlio partire e del quale non sanno più niente. Per questo abbiamo deciso di costituirci in un’associazione. Molti genitori non parlano, perché hanno paura delle autorità o perché non hanno i mezzi per cercarli. Dobbiamo lottare da soli: il governo non si occupa dei vivi, figuriamoci dei morti! I figli dei politici sono a studiare all’estero, mentre noi non possiamo neanche dare un funerale musulmano ai nostri ragazzi”. Le costruzioni, sulla spiaggia di Sidi Salem, sono ricoperte di scritte e graffiti e tutte parlano del viaggio. “Il problema sono i visti”, spiega un ragazzo, “tutti qui partiremmo senza correre rischi. Vogliamo solo lavorare. Ma qui siamo chiusi dentro. Sappiamo bene che è pericoloso, ma non importa. Meglio finire in fondo al mare, in pasto ai pesci, che vivere così”. Tutt’attorno ai giovani stesi sulla sabbia si sente della musica. Una di queste canzoni si chiama ‘Lettera ai dispersi’: “Ho attraversato mari, ho visto le onde. Padre mio, non dimenticarmi. La terra è lontana, la mia barca è piccola, la mia paura e grande, ho freddo. Pregate dio, non dimenticatemi”.

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In alto: Pescatore e barche sequestrate. Italia, Porto Pino (Ca) C.Elia ©PeaceReporter In Basso: Per le strade di Annaba. Algeria, 2007. Lemnaouer Ahmine per PeaceReporter


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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

L’inviato Onu: “Troppa l’influenza degli Usa. Non si riesce a far rispettare i diritti umani”

Le buone nuove

Israele-Palestina, Le rivoluzioni Quartetto stonato di Rafael Correa

Colombia: la terra torna ai contadini

gni volta che mi sono recato in visita nei Territori palestinesi la situazione mi è parsa peggiore. L’ultima volta sono rimasto molto colpito dalla totale mancanza di speranza del popolo palestinese”. Non ha usato giri di parole il professore di diritto internazionale sudafricano John Dugard, da sette anni inviato speciale delle Nazioni Unite per la tutela dei diritti umani nei Territori Palestinesi, in un’intervista nella quale chiedeva alle Nazioni Unite di valutare l’idea di ritirarsi dal cosiddetto Quartetto. Il Quartetto, formato da Onu, Russia, Stati Uniti e Unione europea, è il gruppo di contatto incaricato di monitorare e favorire l’applicazione della Road Map, la proposta lanciata dall’amministrazione Bush nel 2002 per porre fine al conflitto israelo – palestinese. “Chiederò al segretario generale Ban Ki-Moon di ritirare le Nazioni Unite dal Quartetto, se questo dovesse fallire nel tentativo di avere il massimo riguardo per la situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi. La situazione nella quale si trova il popolo palestinese - ha continuato Dugard - è da attribuire ai disastrosi effetti delle violazioni dei diritti dell’uomo e in particolare alle restrizioni israeliane alla libertà di movimento dei palestinesi”. La Road Map prevedeva che, in tre fasi distinte, si arrivasse a un accordo quadro che avrebbe dato il via alla nascita di uno Stato palestinese, alla soluzione del controverso status di Gerusalemme e al dramma dei profughi palestinesi. Il tutto sarebbe dovuto accadere entro il 2005. Basta guardare la situazione attuale per rendersi conto di come la Road Map sia completamente fallita. Le parole di Dugard non sottolineano solo questo, ma accusano la comunità internazionale di non aver saputo proteggere la popolazione civile palestinese: “La comunità internazionale ha deciso di appoggiare solo una fazione palestinese, quella del Fatah. Questo ruolo non compete all’Onu”, denuncia l’inviato delle Nazioni Unite, chiedendo all’Onu di abbandonare il Quartetto, in quanto questo è “pesantemente influenzato dagli Stati Uniti”.

Ecuador di Rafael Correa, nel suo braccio di ferro con i poteri tradizionali, ha messo a segno una serie tanto eclatante di colpi da fortificare la sua carismatica leadership, sia in politica interna che estera. Innanzitutto, ha deciso di non rinnovare agli Stati Uniti l'accordo sulla base di Manta, dal 1999 usata dalla Casa Bianca quale punto strategico per il controllo della regione. Per la prima volta nella storia dell'America Latina, un presidente ha saputo dire no a una collaborazione militare con Washington e fra due anni, quando quell'accordo decennale scadrà, ai militari nordamericani non resterà che lasciare la base, uscendo definitivamente dal territorio ecuadoriano. Grandi successi anche a discapito della partitocrazia “causa di tutti i mali”. Il suo partito, Alianza Pais, ha trionfato nelle elezioni per l'assemblea costituente, la quale, ben presto, lavorerà a una nuova Magna Carta che rivoluzionerà il piccolo paese andino. Una vittoria indiscutibile, per un presidente amico di Chavez e Morales, malvisto dagli Stati Uniti e ammirato dagli emarginati e da tutte le minoranze indigene del continente. Ma anche uno dei più gravi colpi inferti ai partiti politici consolidati, che vacillano increduli. Inoltre, forte di questo successo, ha osato anche in politica economica. A metà ottobre, ha fatto i conti con le multinazionali dell'oro nero, lanciando loro un ultimatum: entro il 31 ottobre, saldare tutti gli arretrati delle obbligazioni da versare allo Stato ecuadoriano, che ammontano al 99 percento del surplus ottenuto dall'aumento del prezzo del greggio. Pena, la decadenza dei contratti. Un'altra rivoluzione, dunque, rafforzata da un'ulteriore iniziativa. A giugno, ha lanciato una campagna ecologica fuori dagli schemi: per evitare nuove nocive emissioni di Co2, rinuncerà a sfruttare il petrolio del parco nazionale amazzonico di Yasuní, riserva Unesco di Biosfera. Ma in cambio chiede ai paesi stranieri 350 milioni di dollari all'anno, l'equivalente della metà degli introiti che sarebbero arrivati dallo sfruttamento dei giacimenti.

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Stella Spinelli

Da 130 ettari a 17.816 nel giro di una decade. In Colombia, i recinti delle proprietà di coloni e coltivatori di palma africana (preziosa coltura destinata al biocombustibile) sono cresciuti a dismisura inglobando sconfinate aree limitrofe, spesso coltivate da piccoli produttori, senza bisogno di trattative né esborso di denaro. Ma grazie alle denunce delle Ong in difesa dei diritti umani, il governo è dovuto intervenire, individuando non solo l’illecita estensione dei terreni, ma anche la mancanza di un diritto di proprietà su quelle terre. E ha deciso di restituirle ai legittimi proprietari: le comunità contadine dei discendenti degli schiavi africani, cacciate a forza dai paramilitari.

Gran Bretagna: più soldi per aiutare La Gran Bretagna è diventata il secondo Paese al mondo per donazioni in aiuti umanitari dopo gli Stati Uniti. Lo scorso anno i britannici hanno aumentato del 12 percento le sovvenzioni rispetto al 2005, con un incremento di 1.131 milioni di euro, portandosi a 10,8 miliardi di euro.

Coree: pace dopo 54 anni Dopo tre giorni di colloqui tra il dittatore del Nord Kim Jong Il e il presidente eletto del Sud Roh Mu Hyun nella capitale settentrionale Pyongyang, arriva l’annuncio storico: Nord e Sud Corea firmano un impegno per un trattato di pace che chiuda il capitolo del conflitto 1950-53, concluso con un armistizio che non era stato firmato da tutte le parti in causa.

Australia: proprietario e gentiluomo La Bhp, la compagnia australiana che controlla il più vasto giacimento di uranio del Paese, potrebbe sospendere l’estrazione del minerale. John Poppins, ingegnere in pensione che con la sua famiglia controlla azioni della Bhp per oltre un milione di dollari australiani (circa 623mila euro), sta raccogliendo firme per una petizione, da presentare all’ordine del giorno nella riunione degli azionisti, che chiede che venga abbandonata l’estrazione di questo minerale, sempre più redditizia ma giudicata eticamente sbagliata da Mister Poppins. 16

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Il presidente dell’Ecuador ha deciso di cacciare gli Usa dalla base di Manta

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Iraq C’era una volta un Paese

econdo i libri di storia sono due gli attacchi che coalizioni internazionali hanno scagliato contro l’Iraq. Il primo nel 1991, il secondo nel 2003. Non è così, perché la ‘guerra all’Iraq’ non è mai finita e nel periodo di tempo dal primo attacco al secondo l’aviazione militare statunitense e quella britannica hanno continuato a compiere raid contro obiettivi strategici in Mesopotamia. Quando la ‘coalizione dei volenterosi’, nel marzo 2003, ha invaso l’Iraq per rovesciare il regime di Saddam, ben poco restava di quella presunta armata di fedelissimi del rais, che secondo le accuse dell’amministrazione Usa era in combutta con Osama bin Laden e al-Qaeda, che possedeva armi di distruzione di massa e che ambiva a procurarsi energia atomica. Quello che restava erano i 500mila bambini morti durante il periodo dal 1991 al 2003, quando l’embargo imposto dalla comunità internazionale, lungi dall’accellerare la caduta di Saddam, aveva messo in ginocchio la sanità irachena, un tempo fiore all’occhiello del Medio Oriente. Quello che restava era la paurosa escalation di bambini, donne e vecchi che si ammalavano di tumore, a causa della proliferazione dell’eredità micidiale dei proiettili all’uranio impoverito scagliati sulla popolazione civile irachena durante il primo attacco. Restavano anche le fosse comuni, utilizzate poi come prova d’accusa nel processo che ha portato all’impiccagione di Saddam, ma nel quale nessuno ha chiamato come correi i governi occidentali, che prima hanno invitato i curdi e gli sciiti a ribellarsi a Saddam nel 1991, e poi li hanno abbandonati alla furia del rais. Un paese in pezzi insomma, che ha ceduto in poco meno di un mese quando le truppe della Coalizione lo hanno invaso. Il 1 maggio 2003, sul ponte di una portaerei Usa, il presidente statunitense George W. Bush ha annunciato al mondo di aver portato a termine il lavoro iniziato dal padre, dichiaran-

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do trionfante che la guerra era finita e la missione compiuta. Non era vero. Come non era vero che il regime di Saddam possedesse armi di distruzione di massa, come non era vero che fosse in combutta con al-Qaeda. Dal 2003 a oggi la situazione è andata sempre peggiorando, come dimostrano le statistiche dei militari stranieri morti in Iraq, il cui numero è andato aumentando di anno in anno, e come ancor più dimostrano le statistiche (per quanto controverse) dei civili iracheni morti dall’inizio del conflitto. La guerra era cominciata con la promessa di rovesciare il regime di Saddam e di portare la democrazia in Iraq. Adesso il paese è spaccato tra curdi, sunniti e sciiti, l’un contro l’altro armati, in un crescendo di violenza interetnica e interreligiosa. Il governo di Baghdad, frutto delle prime elezioni tenutesi nel paese negli ultimi quarant’anni, vive blindato nella Zona Verde, un quartiere della capitale che era il fortino del potere prima e lo è ancora adesso. Stesso discorso di Abu Ghraib, che era un carcere dove la gente veniva torturata e che è ancora lo stesso. E’ solo cambiata gestione. Le immagini delle torture subite dai prigionieri iracheni, rivelatisi in gran parte innocenti, hanno fatto il giro del mondo, macchiando per sempre la pretesa civiltà del diritto occidentale. Molti partner della Coalizione sono andati via, mentre gli Stati Uniti costruiscono basi militari nei pressi delle principali installazioni petrolifere, lasciando alla polizia e all’esercito iracheno la mattanza quotidiana, tra milizie religiose e terroristi internazionali, attentati contro i civili ed episodi di vera e propria pulizia etnica. Ma tra poco resterà ben poco dell’Iraq che conoscevamo, se si tiene conto che al momento sono in cammino 4,5 milioni di sfollati iracheni, metà interni e metà all’estero. Invece della democrazia, in Iraq sono arrivati morte e distruzione. Il regime di Saddam è finito, ma per la popolazione irachena l’incubo continua.


Il pantano iracheno



Uno degli aspetti più macabri della guerra in Iraq è il balletto sul numero delle vittime civili del conflitto. Per lungo tempo, la fonte privilegiata è stata quella di Iraq Body Count, un network statunitense indipendente di ricercatori scientifici che, avvalendosi di una rete di contatti nella sanità irachena e raccogliendo le informazioni dai giornalisti che lavorano in Iraq, fissa in un massimo di 81.887 le vittime civili da marzo 2003 a settembre 2007. Poi però, a ottobre dello scorso anno, la prestigiosa rivista medica britannica Lancet ha pubblicato la ricerca di un gruppo di ricercatori della Scuola

medica Bloomberg dell’Università John Hopkins di Baltimora, che stimava in 665mila le vittime. Per il ministero della Sanità iracheno, invece, le vittime dall’inizio del conflitto sono 150mila. Un balletto di cifre inquietante, sia per la gravità della strage in atto in Iraq, sia perchè è evidente come queste ipotesi così differenti tra loro siano possibili anche perchè non esiste più un’informazione libera in Iraq. Dall’inizio del conflitto infatti sono 142 i giornalisti morti in Iraq, in una mattanza che ha portato l’oblio sulla verità e sulla vita della popolazione irachena.


Nella roccaforte pachistana dei talebani i raid aerei continuano a uccidere civili

Spagna, dopo la rottura tra il governo e gli indipendentisti

Il numero dei morti nel mese di ottobre*

Waziristan, la strage continua

Paesi Baschi, ritorna il passato

Un mese di guerre

na lunga striscia di anarchia. Che parte dalla valle di Swat, cara all'Agha Khan e ai suoi seguaci Alauiti. E dal capoluogo della provincia di frontiera del nord-ovest, Peshawar, arriva giù alle due valli dove si annidano i capi talebani e i vertici di al Qaeda che sfuggono da sette anni alla guerra al terrore: sud e nord Waziristan. Un territorio oramai fuori controllo per il presidente dittatore Pervez Musharraf, sempre più isolato anche dopo la sua seconda rielezione del 7 ottobre scorso. Neanche il rientro in grande stile di Benazir Bhutto dello scorso 18 ottobre, funestato da un attentato costato la vita a oltre centotrenta persone, ha dato una stampella al generale. La due volte premier pachistana (prima donna al comando in un Paese musulmano) aveva già dichiarato in due occasioni alle tv britanniche di essere disposta “a bombardare al Qaeda e i ribelli islamici che si annidano al confine con l’Afghanistan”. Una linea integralmente pro-Washington, quindi, come aveva anche avuto modo di dire il 25 agosto il candidato liberal alle primarie del partito democratico Barack Obama a una convention tenutasi a Boston. La realtà di queste regioni al confine afgano è che la legge che s’impone non è quella di Islamabad, ma una rigida sharia, la legge coranica. Il mese scorso, ad esempio, dieci componenti di un clan, accusati di furto, sono stati uccisi in un raid nelle loro case. Il giorno dopo gli unici sei superstiti della famiglia sono stati decapitati sulla pubblica piazza a Momhmand. Non meno caotica la situazione militare sul terreno. Circa duecento soldati pachistani sono stati nelle mani dei talebani per quasi due mesi a partire dallo scorso agosto nel sud Waziristan. L'esercito di Musharraf ha provato una offensiva aerea con jet Eurofighter F-16 che ha prodotto cinquantamila sfollati a Mir Ali, seconda città wazira a nord. I morti sono stati oltre duecentocinquanta, di cui cinquanta combattenti, mentre per gli altri duecento non è ancora stata trovata una definizione. E, tra gli alti gradi pachistani, c’è chi ha riciclato una espressione familiare in Afghanistan, quando non si sa che abiti mettere a dei cadaveri sospetti: “Talebani, o presunti tali”.

n un solo mese, ottobre, la dirigenza del movimento politico Batasuna viene arrestata in un grande blitz e una bomba di Eta esplode sotto la macchina di una guardia del corpo rimasta ferita - a Bilbao. Non ci sono telefonate di preavviso, un fatto che non accadeva dal 2000. Le speranze della società civile basca e spagnola sono andate deluse. I segnali di violenza e repressione che animano le cronache giornalistiche sono frutto della chiusura dei due tavoli di negoziato: quello fra Eta e il governo spagnolo e quello fra i socialisti e Batasuna, illegale dal 2003. Tre le notizie che in qualche maniera spiegano un ritorno al passato così brusco. La prima, a maggio: a poche ore dai comizi amministrativi gli emissari di Zapatero si siedono in gran segreto con Eta e poi con Batasuna. Non si trova un accordo. Secondo il quotidiano basco Gara, non smentito, i mediatori internazionali elaborano un documento di compromesso. Batasuna è disponibile ad accettarlo, Eta è pronta al disarmo, se il percorso stabilito verrà controfirmato. Ma la delegazione spagnola abbandona il tavolo. La seconda notizia: a marzo si vota in Spagna. Mentre il processo di pace si sgretola, i sondaggi danno la destra spagnola in continua ascesa, per una asfissiante campagna di delegittimazione contro il tentativo di dialogo di Zapatero. Che decide di invertire la rotta: Arnaldo Otegi, il portavoce di Batasuna, finisce in carcere. Pochi mesi dopo, l’asse magistratura-socialisti porta in carcere la dirigenza di Batasuna, cioè gli stessi interlocutori del negoziato. La terza notizia: il presidente basco Juan José Ibarretxe, esponente del Pnv (Partido Nacionalista Vasco, conservatore, che ha ostacolato il processo di dialogo ormai defunto), rilancia una proposta di soluzione politica che comprende due referendum popolari entro il 2010, per rendere più vicino il diritto di autodeterminazione. Zapatero è esplicito: “Non è previsto dalla costituzione, non si può fare, non si farà”.

PAESE

Gl. U.

Angelo Miotto

U

I

MORTI

Iraq Afghanistan Pakistan (talebani) Sri Lanka Sudan Rep. Dem. Congo India Kashmir India Nordest Cecenia e Inguscezia Somalia Thailandia del Sud Algeria Turchia (Kurdistan) Nepal (maoisti) Israele-Palestina Filippine (islamici) India (naxaliti) Filippine (comunisti) Colombia Bangladesh (comunisti) Balucistan (Pakistan)

1.839 564 388 450 202 199 119 90 60 53 42 42 41 33 32 26 21 14 8 4 8

TOTALE

4 .2 2 5

I dati che qui riportiamo sono dati ufficiali, raccolti da agenzie di stampa internazionali o locali. Per cui sono da intendersi sempre per difetto: in molti paesi del mondo non si contano i vivi, figuriamoci i morti.

*Il periodo considerato è quello compreso tra il 22 settembre e il 19 ottobre

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Qualcosa di personale Birmania

Voci e volti di libertà Di Moe Aye testo raccolto da Luca Galassi

Con la sua rete di corrispondenti, la Democratic voice of Burma è stata una delle poche emittenti a fornire immagini e filmati della protesta, rivelando al mondo intero il vero volto del regime che governa il Paese più isolato del mondo. è una voce democratica in Birmania. Una voce che proviene da lontano, da più di ottomila chilometri. E’ il più grande media indipendente del nostro Paese. Eppure non ha, né potrebbe, avere sede entro i suoi confini. Perché in Birmania, o Myanmar, come i militari l’hanno ribattezzata diciassette anni fa, il regime soffoca il dissenso e censura l’informazione libera. Ma non può contenere la diffusione delle onde radio. A meno di irrompere in ogni casa, scovare e distruggere ogni parabola, ridurre al silenzio ogni apparecchio radiofonico. Mi chiamo Moe Aye, ho quarantadue anni e sono un giornalista. Lavoro in Norvegia, al Democratic Voice of Burma, una stazione radio-televisiva che ogni giorno cerca di perforare la corazza della propaganda e delle menzogne del regime. L’emittente ha sede a Oslo, e quotidianamente trasmette via satellite giornali-radio e telegiornali. E’ stata fondata nella capitale norvegese pochi mesi dopo l’assegnazione del Premio Nobel per la pace ad Aung San Suu Kyi, legittima vincitrice nel 1990 di elezioni che la Giunta militare ha annullato, incarcerandola per diciassette anni e facendo sprofondare il Paese nella paura e nell’arretratezza economica. Per coprire la protesta dei monaci di Rangoon e la violenta repressione che ne è seguita alla fine di settembre, il sito internet della Democratic Voice of Burma (www.dvb.no) ha quasi quintuplicato i suoi bollettini radio. Il nostro organo di stampa è composto da una dozzina di giornalisti, tutti dissidenti in esilio. Decine sono i corrispondenti dalla Thailandia e altrettante le fonti che operano sotto copertura in Birmania. Sono le stesse fonti, come Htay Kywe, 39 anni, fino qualche settimana fa latitante, a chiamare i nostri giornalisti, eludendo l’intercettazione e la cattura grazie a quotidiani cambi del numero di cellulare. Htay era il ricercato numero uno della Giunta. E’ stato arrestato l’11 ottobre scorso con altri tre leader della Generazione ‘88, gli studenti che hanno sostenuto la protesta color zafferano, chiamata così per la tinta degli abiti dei monaci che l’hanno innescata. Altri hanno preso il loro posto. Da loro riceviamo le poche notizie che riescono a filtrare. Spesso, all’inizio della conversazione, si usano frasi in codice per ingannare gli eventuali ‘ascoltatori’ del regime. Alcuni di noi hanno conosciuto il carcere duro e la tortura. Io sono fuggito da

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Rangoon nel 1997, dopo sei anni di galera. Non potevo fare il giornalista lì perché tutti i miei pezzi venivano rifiutati, perché non mi adeguavo alla propaganda del regime. Gli unici due quotidiani del Paese, New Light of Myanmar e Myra sono in mano ai militari, così come la televisione, la Mrtv. Mi hanno preso perché diffondevo articoli che criticavano il comportamento del regime dopo le elezioni del ‘90. Con quali accuse precise? Non l’ho mai saputo. L’anticamera della prigione sono stati gli interrogatori, condotti con torture fisiche e psicologiche. Incappucciato e con le mani legate dietro la schiena, dovevo stare in piedi per ventiquattr’ore, con la luce sempre accesa, senza mangiare né bere, fino a quando la guardia non arrivava dicendo: “Ecco l’acqua”. Mi tirava su il cappuccio a scoprire la bocca, mi slegava le mani e mi appoggiava la bottiglia alle labbra. “Ora puoi bere”, mi diceva. Ma la bottiglia era vuota. Non un goccio d’acqua. Poi mi intimidivano di continuo, dicevano che sapevano dove abitavano tutti i miei parenti, e che una visita ‘di cortesia’ non gliel’avrebbero negata. A volte mi facevano sedere bendato su una grossa sedia di legno, le mani legate ai braccioli. Mi bruciavano i polsi col metallo rovente. Quando sono uscito dal carcere sono entrato in ospedale. Polmoni e cuore erano quasi andati... Come me, altri hanno subito le stesse maniere forti. Impossibilitati a vivere, e a scrivere, in un Paese dove ormai i servizi segreti ci controllavano a vista, come me sono espatriati in Norvegia. Proprio nella città dove ha sede l’Accademia che ha conferito il Nobel ad Aung Saan Su Kyi. La nostra emittente è stata fondata grazie ai generosi finanziamenti norvegesi, ma non solo. I circa due milioni di euro del budget provengono da altri Paesi scandinavi, da Olanda, Irlanda e Stati Uniti. Nonostante tali somme, il nostro direttore, Aye Chan Naing, ha deciso di lanciare una raccolta fondi, perché i dipendenti fanno orari che vanno ben oltre lo straordinario, perché è costoso trasmettere e perché molte delle nostre apparecchiature sono state distrutte durante le manifestazioni di fine settembre, quando nessuno pensava che si sarebbe ripetuto un altro ‘88. Fu quell’anno, dopo le rivolte studentesche che provocarono migliaia di morti, che il mio Paese sprofondò nell’abisso. La redazione di Democratic Voice of Burma Oslo, Norvegia 2007. Luca Galassi ©PeaceReporter



L’intervista Sahara

La guerra in blu di Matteo Fagotto

Dal febbraio 2007, i “signori del Sahara” sono di nuovo in guerra. Dopo il conflitto che li oppose al governo del Niger negli anni ‘80, i Tuareg, che occupano le zone al confine tra Algeria, Libia, Mali, Niger e Burkina Faso, hanno ripreso le armi per rivendicare maggiori diritti politici e risorse economiche per le comunità che vivono nella zona nord-occidentale del Niger, a lungo trascurata dal governo. Che, finora, si è rifiutato di trattare con il Mnj (il Movimento dei nigeriani per la giustizia), definendolo un’accozzaglia di criminali. Pur essendo uno tra i principali produttori di uranio al mondo, il Niger è il Paese più povero dell’Africa. Per comprendere le ragioni della rivolta, abbiamo parlato con Chiekna Hamaté, presidente dell’ufficio politico del Mnj Signor Hamaté, quali sono le principali ragioni che vi hanno spinto a prendere le armi? Il Mnj lotta per i diritti di tutti i nigerini, diritti messi a dura prova da un’élite politica di corrotti prebendieri. In questa lotta, i diritti dei Tuareg trovano posto perché è dalle regioni in cui vivono che viene estratta la maggior parte delle ricchezze del sottosuolo, che i dirigenti del paese dilapidano lasciando le popolazioni vegetare nella miseria. I Tuareg devono avere accesso all’educazione, alla salute e all’impiego nelle società minerarie presenti nella regione. Ma lottiamo anche per l’accesso alla proprietà fondiaria da parte dei nomadi e contro la concessione dei diritti di esplorazione alle multinazionali energetiche, se questi non sono accompagnati da una politica che prenda in considerazione le popolazioni che abitano le zone minerarie: delle ricadute economiche devono beneficiare tutti, e le regioni Tuareg devono essere compensate equamente. Le vostre rivendicazioni sono le stesse della comunità Tuareg durante la ribellione del 1985-90? Le rivendicazioni del Mnj in parte sono differenti da quelle degli anni ‘90, ma le radici del problema sono le stesse. La nuova ribellione è il frutto di una serie di ingiustizie: dalla violazione dei diritti umani al dilapidamento delle risorse economiche, dal dirottamento a fini privati degli aiuti internazionali destinati ai civili alla concessione senza regole dei permessi di esplorazione alle compagnie minerarie, dal non rispetto dell’ambiente alla contaminazione nucleare della popolazione nomade. Tutta opera del governo. Siamo un movimento a maggioranza Tuareg, ma dove sono rappresentate tutte le etnie del Niger. Non chiediamo l’indipendenza, il movimento riconosce la repubblica del Niger come stato unito e indivisibile. Il Mnj lotta solo per difendere la popolazione civile da una banda di dirigenti che tengono il Paese in ostaggio. Vi sono connessioni tra il Mnj e i gruppi ribelli in Mali? Non ci sono connessioni ufficiali, ma solo “contatti di fratellanza” tra i membri dei gruppi combattenti. Le problematiche che incontrano i Tuareg sono le stesse in ogni Paese. Tante famiglie sono state spaccate dalle nuove frontiere nate nel Sahara, e il popolo Tuareg rimane diviso tra l’Algeria, la Libia, il Niger, il Mali... L’integrazione economica e politica dei Tuareg in questi stati è quasi nulla, la loro marginalizzazione evidente. Con un sottosuolo sahariano ricco di materie prime, i popoli del deserto si trovano alla mercé dei nuovi Stati e delle multinazionali a 20

caccia di risorse come uranio, petrolio, oro. Con piccole differenze, i Tuareg vivono lo stesso dramma del popolo curdo. Sembra che i due governi abbiano un approccio diverso al problema: mentre il Mali si mostra disponibile al dialogo, il presidente nigerino Mamadou Tandja continua a definirvi dei banditi, preoccupati di mantenere il controllo delle rotte sahariane del contrabbando. Il presidente del Mali non ha scheletri nell’armadio, mentre quello nigerino ha sulla coscienza omicidi rimasti impuniti, tangenti, traffici illeciti... Il presidente del Niger è a capo di un gruppo di banditi che governa il Paese con il pugno di ferro per fini personali. Non dimentichiamo però che l’emarginazione economica ai danni dei Tuareg e delle altre etnie sahariane è la stessa in Niger e in Mali. Al momento siete in contatto con il governo nigerino? Non abbiamo alcun contatto con il governo. Il Mnj ha sempre dichiarato la sua disponibilità al dialogo, finora senza avere riscontri. Il governo del Niger e in particolare alcuni alti vertici dell’esercito, alcuni ministri e il presidente del Tandja sono responsabili di tante ingiustizie ai danni dei civili. Per questo hanno paura di sedersi al tavolo delle trattative. Anzi, tramite le radio, le tv di stato, i giornali e internet, il governo incita la popolazione alla guerra civile contro i Tuareg. E’ un comportamento irresponsabile da parte di un’amministrazione eletta democraticamente. Il governo fa di tutto per far credere che siano stati solo i Tuareg a ribellarsi, mentre il Mnj è un movimento di lotta popolare dove si ritrovano tutte le etnie del Niger. Alcune fonti sostengono che il Mnj sia finanziato e supportato dalla compagnia energetica francese Areva, delusa dall’aver perso il monopolio dello sfruttamento dell’uranio nigerino e decisa a farla pagare al governo. Il Mnj non ha mai avuto contatti con Areva, con la Francia, o con altri governi stranieri. Il governo del Niger usa menzogne per ricattare Areva. Il Mnj non ha connessioni con nessuno, il movimento va avanti solo grazie alla volontà dei civili e dei suoi membri. La nostra unica ideologia è rendere giustizia ai dannati del Niger e del Sahara. Gli unici aiuti che riceviamo provengono dai membri, e in queste condizioni è difficile far cadere un presidente sostenuto dalle multinazionali dell’uranio cinesi, francesi, indiane... Ma la volontà del popolo finirà per rovesciare il governo più corrotto della storia del Niger. Nomade. Mali 2005. Lucio Cavicchioni per PeaceReporter


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La storia Indonesia

La pace dello tsunami Di Bruno Neri

A due anni dalla firma degli accordi di pace tra il governo indonesiano e i guerriglieri indipendentisti della provincia di Aceh, sconvolta dallo tsunami, oltre il settantacinque percento degli ex guerriglieri è disoccupato. E i giovani, una volta semplici combattenti, vedono i loro ex-superiori sfrecciare per strada con costose macchine nuove e telefonare da luccicanti cellulari. o tsunami che il 26 dicembre 2004 ha colpito la provincia di Aceh, a nord ovest dell’isola di Sumatra, oltre ai gravi danni e alle migliaia di vittime, ha prodotto anche un accordo di pace tra il Movimento di Liberazione di Aceh (Gam, Gerakam Aceh Merdeka) e il governo indonesiano. L’accordo, conosciuto come Accordo di Helsinki, è stato firmato il 15 agosto del 2005 nella capitale finlandese. Da quel momento il processo di pace è andato avanti sulle proprie gambe, speditamente e nel rispetto delle tappe previste: il 21 dicembre 2005 si è conclusa la smilitarizzazione del Gam con la consegna e distruzione delle armi. E il 31 dicembre a Banda Aceh si svolgeva la cerimonia per il ritiro finale di 7.500 soldati e 2.150 agenti di polizia. Da quel momento gli ex combattenti Gam e i prigionieri politici sono rientrati nei loro villaggi e dalle loro famiglie. Un rientro per molti festoso, con momenti di commozione nelle case e nei villaggi dopo trent’anni di conflitto. In molte cittadine si sono organizzate Peusijuk o Kebduri, le feste tradizionali di benvenuto. Oggi però, dopo l’euforia iniziale, i rientrati e i loro familiari continuano a dover affrontare molte difficoltà di reinserimento sociale ed economico. Oltre il settantacinque percento degli ex guerriglieri è disoccupato.

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sussidi e le compensazioni previsti dall’accordo di Helsinki vengono erogati molto lentamente agli ex-combattenti, e questo sta provocando seri problemi, come risulta dall’aumento dei furti lungo le arterie principali, dove svariate macchine vengono fermate di notte, specialmente dai giovani ex-guerriglieri. Ma molti di loro, nei villaggi dove sono rientrati, cercano di condurre una vita normale. Villaggi di montagna, in mezzo alla foresta dove si coltiva uno dei caffè migliori del mondo, di qualità arabica. Sulle montagne di Aceh trent’anni di guerra sono stati devastanti: in molti villaggi l’ottanta percento delle case è andato distrutto, così come le coltivazioni di caffè. Visitando i villaggi più colpiti, raramente si vedono case ricostruite. Molte abitazioni hanno ancora come tetto teloni di plastica, a guisa di copertura provvisoria, primo segnale del rientro verso una difficile normalità. A Bener Marieh, uno dei villaggi maggiormente colpiti dal conflitto, è tornato ad abitare Sabar, che non combatte più da sette mesi. “Vivevo alla macchia sulle montagne insieme ai mie compagni del Gam, ma dopo che soldati e polizia di Giacarta hanno abbandonato le caserme grazie alle quali occupavano i nostri villaggi, sono rientrato qui a Bener Marieh. Adesso vivo temporaneamente nel centro di accoglienza e tutte le mattine vado a lavorare sulla mia proprietà per riavviare le coltivazioni di caffè. Ho un ettaro di terra

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e la mia casa è ancora a pezzi, non ho ricevuto nessun sostegno per ricostruirla”. Sabar ha ventiquattro anni, ma non è nella condizione economica di sposarsi e avere una famiglia come desidera. Vive vendendo al mercato i pochi prodotti che riesce a coltivare, principalmente pomodori, peperoncino, e qualche quintale di caffè di discreta qualità. “Vorrei ricevere degli attrezzi agricoli e delle sementi buone per guadagnare più di quanto guadagni oggi. Mi piacerebbe avere i soldi per aprire un piccolo negozio, un mini market”. ndiamo a visitare il centro di accoglienza, accampamento provvisorio di tende dove vivono circa cento famiglie. Lì abbiamo la fortuna di incontrare il Bhupati, il prefetto del distretto di Bener Marieh. Secondo lui fino a oggi sono rientrate solo mille famiglie sulle oltre quattromila previste. Bhupati Jalan ha molta fede nel proprio lavoro, come si capisce dalle sue parole: “Qui a Bener Marieh stiamo preparando dei centri di accoglienza per quelli che torneranno: ci sono trentaseimila persone che durante il conflitto hanno abbandonato casa nel nostro distretto. Fino a oggi siamo riusciti ad aiutarne poche, circa mille. A queste famiglie abbiamo distribuito mille pacchi di sementi, cinquanta chili di fertilizzanti, mille piantine di caffè e un milione di rupie a testa (circa ottanta euro)”. “Nel nostro distretto - continua Jalan - ci sono trentanovemila ettari di coltivazioni di caffè, abbandonate durante il conflitto. E noi non abbiamo sufficenti risorse per aiutare i trentamila produttori di caffè”. Quello che si può definire un ‘assessore’ alla salute, il dottor Alue, ci presenta una situazione psicologica e traumatica abbastanza seria per la maggior parte della popolazione, conseguenza di trent’anni di conflitto. Uomini e donne hanno subito per decenni traumi, violenze, soprusi. Secondo uno studio dell’agenzia Onu Iom e dell’università di Harvard negli Usa, il cinquantasei percento degli uomini e il venti percento delle donne durante il conflitto sono stati picchiati. Il venticinque percento degli uomini e l’undici percento delle donne sono stati torturati. Un quadro molto drammatico e difficile, che nonostante il nuovo corso, non lascia ben sperare per il futuro di Aceh, senza interventi rapidi e trasparenti che favoriscano la ripresa e il consolidarsi di un fragile processo di pace.

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La moschea di Lamno nella provincia di Aceh. Indonesia 2005. Luca Galassi©PeaceReporter


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Migranti

Si continua a voltare la testa Di Gabriele Del Grande

Sono novantanove i migranti che hanno perso la vita sulle rotte dell’immigrazione clandestina a settembre. Erano stati 243 ad agosto, sono 1.096 dall’inizio dell’anno. ra quelli di settembre 43 sono morti alle Canarie; 19 al largo dell’isola francese di Mayotte, nell’Oceano Indiano, 11 tra l’Algeria e le coste andaluse, 13 nel Canale di Sicilia e 10 in Grecia. Assiderate alla frontiera polacca con l’Ucraina tre bambine che attraversavano a piedi il confine, accompagnate dalla madre cecena. Gli sbarchi diminuiscono (-75 percento in Spagna e –7 percento in Italia), ma tra la Libia e Lampedusa non sono mai state così tante le vittime: già 500 nei primi nove mesi del 2007, contro le 302 di tutto il 2006. Bloccare i migranti in acque libiche e respingerli verso i porti di partenza. È l’obiettivo di Frontex, che sta facendo lo stesso in Mauritania e Senegal, dove oltre 1.500 migranti sono stati bloccati nel 2007. E se l’Acnur (Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati) dice che tra chi sbarca in Sicilia vi sono rifugiati e Human Rights Watch accusa la Libia di gravi abusi e torture contro gli stessi, poco importa. Frontex ha già un ufficiale di collegamento con il governo libico. E l’Ue finanzia con i fondi Aeneas un programma Oim di rimpatrio assistito dalla Libia verso Niger e Chad. Alla Libia Bruxelles offre un sistema elettronico di controllo della frontiera sud con Niger, Chad e Sudan, da dove entrano illegalmente almeno un terzo dei migranti che poi fanno rotta su Lampedusa. Presto Franco Frattini invierà una missione a Tripoli per verificare le esigenze e poi installare le forniture. Lo aveva già annunciato Giuliano Amato il 18 settembre 2007.

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o stesso giorno un comunicato della Presidenza dell’Unione europea condannava le “gravi violazioni dei diritti umani” in Eritrea. Nessun accenno però ai 2.589 eritrei sbarcati lungo le coste siciliane nel 2006, il 12 percento dei 22.016 migranti sbarcati in Italia lo scorso anno, il 20,8 percento dei 10.438 richiedenti asilo dello stesso periodo. Nessun accenno nemmeno ai 600 eritrei detenuti da un anno e sei mesi a Misratah, 200 km a est di Tripoli, in condizioni degradanti, con donne incinte e neonati, né ai 70 arrestati a Zawiyah durante una retata nella notte tra l’8 e il 9 luglio 2007. Centocinquanta sono rifugiati politici riconosciuti dall’Acnur, che sta cercando una soluzione per sistemarli. Ma i tempi stringono e il rimpatrio sembra sempre più vicino. La maggior parte sono disertori dell’esercito in guerra con l’Etiopia. Asmara per loro significa carcere, tortura e il rischio della pena di morte. Lo dice Amnesty International: nel 2005 almeno 161 disertori sono stati fucilati in Eritrea. Le comunità eritree della diaspora hanno manifestato per la loro liberazione il 18 settembre 2007, in diverse capitali di un’Europa che però continua a voltare la testa.

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flussi sono misti. Lo ammette anche il libro verde Ue sull’asilo, ma il diritto d’asilo è la prima vittima delle politiche securitarie di respingimenti e militarizzazione delle frontiere. Lo dice Eurostat: 192.000 domande d’asilo nei 27 paesi dell’Ue nel 2006, contro alle 670.000 domande nel 1992 nei soli 15 Stati membri di allora. Le richieste sono dimezzate negli ultimi 5 anni, nel 2006 il calo è stato del 15 percento. È il primo risultato del giro di vite sull’immigrazione clandestina, ultima opzione per chi fugge senza documenti dall’Iraq o dall’Afghanistan, dal Darfur o dall’Eritrea. Il filo spinato a Ceuta e Melilla, le pattuglie militari di Frontex nel Canale di Sicilia, nell’Atlantico e nell’Egeo, i respingimenti di afgani e iracheni dai porti di Bari e Ancona, e il muro di 500 chilometri che la Turchia ha iniziato a costruire per blindare la sua frontiera con l’Iraq: arrivare in Europa è sempre più difficile.

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a muri e barriere si elevano anche alla frontiera orientale dell’Ue. La nuova cortina passa per Slovacchia, Polonia, Ungheria e Romania. E l’esternalizzazione dei controlli è affidata all’Ucraina. Il 14 settembre tre bambine cecene, di 6, 10 e 13 anni, sono morte assiderate tentando di passare a piedi il confine tra Ucraina e Polonia, insieme alla madre. In Ucraina – si legge nel rapporto di Hrw del 2005 – “migranti e richiedenti asilo affrontano sistematici abusi, detenzioni arbitrarie in condizioni degradanti, violenze, estorsioni e rimpatri forzati”. “Il sistema d’asilo – continua il rapporto – non funziona, e ciò causa il rimpatrio forzato di persone verso Paesi dove rischiano torture e persecuzioni”. Human Rights Watch denuncia gli accordi di riammissione tra i Paesi dell’Est Europa e Kiev, che portano al frequente rimpatrio in Ucraina di richiedenti asilo prima dell’esame della loro domanda. Human Rights Watch esprime particolare preoccupazione per i rifugiati della Cecenia, spesso espulsi nella Russia di Vladimir Putin. L’Ue è conoscenza di questi rapporti, ma con Kiev ha già stretto un accordo di riammissione, firmato a latere del Consiglio di cooperazione Ue-Ucraina del 18 giugno 2007, e che dovrebbe entrare in vigore entro la fine dell’anno. Il rapporto Hrw è datato di due anni, ma è confermato punto per punto dai più recenti documenti dell’associazione ucraina Pawschino.

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In alto: Migrante Rumena in un campo a Bologna In basso: Preghiera a Castelvolturno (Na) ©Filippo Masellani per PeaceReporter


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Rubriche

In edicola di Claudio Sabelli Fioretti

Il tabaccaio giallo In tivù di Sergio Lotti

A lezione di giornalismo Sembra che la rivolta dei grilli e grillini cominci a produrre i suoi effetti. Guardando i dibattiti televisivi, si capisce benissimo che i politici si stanno ravvedendo e invece di prendere di petto i problemi reali dei cittadini, discutono dei loro problemi personali, molto più seri e stimolanti. E soprattutto elargiscono opportune lezioni di giornalismo. Ha cominciato il ministro della Giustizia Mastella, che invece di spiegare meglio i gravi motivi di urgenza che giustifichino il trasferimento del procuratore di Catanzaro, Luigi de Magistris, dal momento che anche il Consiglio superiore della magistratura fa fatica a riconoscerli, preferisce insegnare a Michele Santoro come si conduce Annozero. Con tanto di minaccia di licenziamento (ci risiamo). Qualche sera dopo, nello studio di Ballarò, il vicepremier Francesco Rutelli, quando Maurizio Crozza gli chiede se è venuto in aereo, fa la faccia feroce chiarendo che era in giro in auto per parlare con migliaia di persone, e che lo faceva gratis. Lì per lì poteva sembrare una rivendicazione salariale: fra il lavoro di parlamentare, di ministro e di leader della Margherita, deve esserci qualcosa che non rientra neppure sotto la precaria tutela della legge Biagi. Ma poi, quando Rutelli si è messo a spiegare a Giovanni Floris come avrebbe dovuto condurre la trasmissione, si è fatta strada nei telespettatori l’idea che la crisi della politica potesse essere risolta soffiando il posto ai giornalisti televisivi. Un’idea balzana, certo, che oltretutto dovrebbe fare i conti con una concorrenza assai agguerrita, anche da parte dell’opposizione. L’economista parlamentare Renato Brunetta, per esempio, di comprovata fede berlusconiana, dopo aver preso più volte la parola per protestare con Floris che non lo faceva parlare abbastanza, ignaro del vantaggio che avrebbe potuto ricavarne (con l’aria che tira è meglio lasciare che si espongano gli avversari), si è messo anche lui a spiegargli dove sbagliava, con dovizia di argomentazioni. Ma cosa preferirebbero fare, tutti questi critici, i conduttori di trasmissione o i direttori di rete? In ogni caso, di facce nuove in televisione ci sarebbe bisogno. 26

Adesso c’è anche un premio per il titolo più bello. Lo ha organizzato lo spumante Ferrari e servirà a premiare quei redattori capo e quei capiservizio che non si accontentano della banalità. Al momento in cui scrivo non so chi sarà il vincitore, anche se faccio parte della giuria. Vincerà, come si potrebbe sospettare, il Manifesto, che in questi ultimi anni ci ha abituato a titoli intelligenti e spiritosi? Io, per esempio, ho segnalato il titolo che fece il Manifesto quando quel tal Rivera, il primo maggio, attaccò dal palco di San Giovanni il Vaticano e si beccò la reprimenda della Chiesa: “IL PAPA MAZZOLA RIVERA”. Geniale e anche un po’ “dada”. Mi piaceva la gratuità del titolo, la sua insensatezza. Come insensato era stato sia l’attacco di Rivera che la risposta dei cattolici. Oppure forse vincerà l’Espresso, altro giornale molto attento a non fare titoli scontati. Sull’argomento titoli, dopo una lunga e dignitosa carriera, non sono ancora arrivato a una convinzione forte. A volte mi infastidiscono quelli volutamente spiritosi o con giochi di parole. Ho cominciato a fare il

Salute di Valeria Confalonieri

L’avanzata del colera La prima segnalazione è di metà agosto a Kirkuk: colera. Da allora gli scatti del contatore sui casi in Iraq continuano, verso l’alto. Secondo le ultime valutazioni di inizio ottobre dell’Organizzazione mondiale della sanità, i casi di diarrea acquosa acuta avrebbero superato la quota trentamila: in 3.315 di questi è stato ritrovato il batterio che causa la malattia (Vibrio cholerae) e sono morte quindici persone. Il colera è ormai presente in metà del Paese, nove province su diciotto: inizialmente concentrate nel Nord, in seguito le segnalazioni si sono diffuse, arrivando nella capitale Baghdad.

giornalista a Panorama, dove avevamo l’ossessione dei giochini. Il best seller era “Falce e martello”. Ne facevamo di tutti i colori ispirandoci al simbolo del Pci. Se gli ambientalisti diventavano troppo di sinistra, era subito “Felce e mirtillo”. Se troppo di sinistra diventava il delfino di Craxi facevamo “Falce e Martelli”. E via andare, come con Lotta Continua che poteva diventare “Cotta continua”, “Botta continua”, “Rotta continua”, “Gotta continua”. Di questi calambour oggi non ne posso più. E sogno titoli tranquilli, sereni, chiari, didascalici. C’è un articolo sulla crisi della politica? Titolo: “La crisi della politica”. E magari non mi dispiacerebbe nemmeno che il titolo corrispondesse al contenuto dell’articolo. Ma qui pretendo troppo. Per questo mi piacerebbe che accanto al titolo più bello le cantine Ferrari premiassero anche il titolo più orrendo. Ho già il mio candidato. “RAPITO UN TABACCAIO. E’ GIALLO”. Come dire: facile rintracciarlo. Basta cercare un tabaccaio e vedere di che colore è. www.sabellifioretti.it

Le zone più colpite rimangono comunque Kirkuk, con oltre 2.300 casi, e Sulaymaniah, con 870. Il colera viene trasmesso principalmente da acqua o cibo contaminati dal batterio; nei casi più gravi, la diarrea importante con inizio improvviso può causare la morte per disidratazione e insufficienza renale. Rappresentano un rischio le condizioni di vita precarie, alle periferie delle città o nei campi dove trovano rifugio i profughi, con un difficile approvvigionamento di acqua: in Iraq è stato calcolato che meno di un terzo dei bambini possa utilizzare acqua sicura. Ogni giorno, riporta Amnesty International, duemila persone lasciano la loro casa: gli sfollati interni, che rimangono nel Paese, sarebbero due milioni, ancora di più quelli oltreconfine. All’inizio di ottobre sono arrivate segnalazioni di colera anche in Iran, soprattutto in zone vicine all’Iraq: ufficialmente dieci casi, ma potrebbero essere il quadruplo.


A teatro di Silvia Del Pozzo

Noccioline tra violenza e humor Peanuts è un testo politico, ma non arrabbiato. Anzi ha i tratti di una commedia piena di humour. Non fa proclami o agnizioni ideologiche, ma in chiave di metafore divertenti la dice lunga in fatto di globalizzazione, lavoro, politica, violenza, potere. L’ha scritta per il Royal National Theatre di Londra Fausto Paravidino, voce giovane (ha trentun anni) ma tagliente del teatro italiano, all’indomani dei traumatici fatti del G8 di Genova. E volendo comunicare ai ragazzi inglesi cosa avevano vissuto i loro coetanei italiani, ha scelto un modello di dialogo comune a tutti, quello dei fumetti. Da Schultz ha preso a prestito i personaggi, assolutamente beckettiani secondo l’autore: Charlie Brown, Linus, Lucy, Schroeder, Sally: ha cambiato loro un po’ il nome e li presenta in sequenze esistenziali, veloci come le vignette di una striscia. Nella prima parte, un gruppo di ragazzini “occupa” l’appartamento che i proprietari hanno affidato a un loro compagno (che deridono chiamandolo “servo”), e si abbandona a bisbocce a base di Cola-Cola, noccioline e Tv. Ma già s’intravedono nel gruppo vincitori e vinti, e regole del gioco non tanto lontane da quelle ‘dell’altro mondo’. Un mondo più duro, certo peggiore, in cui precipitano nella seconda parte dello spettacolo: cresciuti di dieci anni li ritroviamo, chi poliziotto-carnefice e chi vittima, nello stanzone di una caserma (il riferimento a quella di Bolzaneto è evidente) dove violenza e potere hanno imbarbarito comportamenti e relazioni. Già rappresentato in Inghilterra e in Germania, Peanuts debutta a fine novembre a Roma, messo in scena da Valerio Binasco, con una compagnia di attori giovani (l’aspetto infantile era di rigore), ma di consumata finezza recitativa, per riuscire a divertire e al tempo stesso trasmettere un messaggio che il regista definisce “brechtiano”. Roma, Teatro Eliseo dal 27 novembre al 18 dicembre

con cui si è tolta qualche sassolino dalle scarpe. Il titolo, Canzoni di distruzione di massa, nasce dalla constatazione che “rispetto alle due guerre mondiali e al disastro atomico di Hiroshima e Nagasaki, le guerre e i genocidi sono aumentati. Guardandosi intorno si vedono distruzioni ovunque”. Forte di questa constatazione ha commis-

delle donne di tutto il mondo”. I proventi che si ricaveranno dai downlad gratuiti in rete di questo brano, verranno devoluti all’associazione 46664 di Nelson Mandela e alla Treatment Action Campaign (Tac), organizzazione che si batte per la cura e i diritti dei malati di Aids. Che sia nato qualcosa di più che un Bono in gonnella?

Make some noise Autori vari

sionato un video dove la bandiera statunitense è associata ai senzatetto: “Per me quella bandiera ha rappresentato non solo una grande nazione, ma anche il sogno di libertà e democrazia. Oggi è il simbolo di sogni che sono stati frantumati. L’America è piena di persone povere, senza casa. E se poi penso alle orribili scuse e bugie che sono state dette per avere un motivo per andare in Iraq… Non c’è più Saddam, ma gli iracheni oggi vivono sotto la tirannia della guerra”. Sing, la canzone che sta passando nelle radio, Annie Lennox la canta insieme a Madonna, Joss Stone, Shakira e Fergie (Black Eyed Peas) e altre colleghe famose. “E’ un potente brano femminista, un inno alla forza e alla determinazione

Una raccolta dove oltre cinquanta artisti internazionali e trenta etichette discografiche hanno unito le forze in favore della lotta contro le atrocità in Darfur (Sudan). Nel rispetto della lunga tradizione di attivismo rafforzato dal potere della musica, Amnesty International ha usato il catalogo solista di John Lennon, offerto da Yoko Ono, come fulcro della sua campagna in difesa dei diritti umani della popolazione del Darfur. Più che di un cast bisogna parlare di un dream team: dagli U2 (Make some noise) ai Green Day (Working class hero), dai R.E.M. (#9 dream) a Jackson Brown (Oh, my love), da Christina Aguilera (Mother) a Ben Harper (Beautiful boy). “La musica di John”, ha dichiarato Yoko Ono, “è uno strumento fantastico per ispirare ed aiutare i diritti umani, affinché si possa veramente fare del mondo un posto migliore”.

Vauro

Musica di Claudio Agostoni

Songs of mass destruction di Annie Lennox Il fatturato dei suoi cd può competere con il PIL di qualche Paese del sud del mondo. Da sola ha venduto 78 milioni di dischi. Ha vinto un Oscar, quattro Grammy Awards, due Golden Globe… Per i suoi cinquantatré anni si è regalata un album 27


Al cinema di Nicola Falcinella

Ai confini del paradiso di Faith Akin Dal regista de La sposa turca arriva a novembre in Italia un film denuncia sul non rispetto dei diritti civili in Turchia. È Ai confini del paradiso, del turcotedesco Fatih Akin, un melodramma in tre atti con sei personaggi a cavallo di due mondi distanti. A Cannes la pellicola ha ricevuto il premio per la

migliore sceneggiatura. Nejat è un giovane professore di tedesco di famiglia turca. Suo padre Alì è un pensionato che vive solo e frequenta un quartiere di prostitute a Brema: un giorno convince Yeter ad andare a vivere con lui. Il figlio prende malamente la cosa, soprattutto quando il genitore è vittima di

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un infarto. Finisce in litigio con l’anziano che con una sberla uccide la donna e finisce in carcere. Per Nejat è l’occasione per andare a Istanbul alla ricerca delle proprie origini e di Ayten, la giovane figlia di Yeter. Nel frattempo la ragazza si è aggregata a un gruppo d’opposizione di estrema sinistra e, dopo una manifestazione finita tragicamente, deve lasciare il paese e rifugiarsi in Germania: troverà l’amicizia e poi l’amore di una studentessa, Lotte. Scoperta come immigrata clandestina e rispedita in Turchia dove è immediatamente incarcerata, Ayten è raggiunta da Lotte che la assiste legalmente. Il destino è in agguato sotto forma di un gruppo di ragazzini che derubano Lotte per strada e le sparano. È Susanne, madre di Lotte, che dopo aver a lungo litigato con l’amante della figlia cerca di aiutarla. Akin, nato ad Amburgo da genitori dell’Anatolia, ha una posizione più politica rispetto al film precedente, critica esplicitamente le “mancanze” della Turchia in vista di un ingresso nell’Unione Europea sul piano dei diritti umani e del rispetto dei prigionieri politici. Nel cast di buon livello spiccano Tuncel Kurtiz, mostro sacro del cinema turco, nel ruolo di Alì e Hanna Schygulla come Susanne. Un film sull’apertura all’altro e il dialogo, dove le culture si incontrano e le persone riescono ad andare oltre le diffidenze. Ai confini del paradiso non è però palpitante come La sposa turca, non ha la stessa mistura di dramma e ironia, non tutte le buone intenzioni funzionano: gli incidenti sono troppo forzati per essere credibili e la storia fra le due ragazze è improvvisa quanto ingiustificata dalla trama.

In libreria di Paolo Lezziero

Regina di fiori e perle di Gabriella Ghermandi Mahlet, una bambina sveglia e curiosa protagonista del romanzo, fa parte di una antica famiglia patriarcale etiope che risiede a Debre Zeit, a cinquanta chilometri da Addis Abeba. Con il vecchio Yacob, un ex arbegnà, valoroso guerriero che aveva combattuto gli italiani invasori del suo paese, ha un rapporto privilegiato. Stimolata da altri due venerabili anziani, Mahlet promette di diventare la loro “cantora” e di raccontare in Italia le storie dell’Etiopia. “Per i bianchi non ero bianca e per i neri non ero nera”, dice di sé l’autrice, trasferitasi in Italia nel 1979, a Bologna, città di origine del padre, dove è autrice di spettacoli di narrazione e responsabile di scrittura creativa nelle scuole. Oltre a parlare benissimo l’italiano, non ha mai rinunciato alle lingue dell’infanzia , l’amarico e il tigrino. La descrizione dell’arrivo dei guerriglieri che erano andati in montagna per una quindicina di anni per abbattere Menghistu non ha niente di leggendario, ma è disperata: l’autrice parla di divise piene di buchi, di uomini magrissimi che a fatica reggono i kalashnikov, di donne che avevano lottato e avevano sofferto la fame e il freddo. Tornando agli anni Trenta, viene fuori che non


erano tutti cattivi gli italiani invasori. Uno di loro si innamora della madre della protagonista, creando scandalo e rabbia fra gli anziani che li avevano odiati e combattuti; alla fine però la situazione si normalizza e il giovane soldato viene accettato. La Ghermandi usa fresche pagine di scrittura come quelle del dialogo fra Abba Yacob e la giovane Mahlet che non ha il coraggio di dirgli che vuole

andare in Italia per studiare economia. Manca però il permesso dei genitori. Ci penserà il vecchio amico con i soliti anziani a convincerli incontrandoli tre sere di seguito. Dopo il soggiorno nella patria del padre, finalmente il ritorno ad Addis Abeba dove la famiglia era riuscita a tornare nella vecchia casa abbandonata. La descrizione dei mercati, della vita serena in famiglia, la testimonianza della religiosità del popolo etiope, della sua antica civiltà in contrasto con le cronache fasciste che lo descrivevano selvaggio e retrogrado, sono le pagine più incisive del volume. Gabriella Ghermandi lavora sulla ricerca della “identità unica di ciascun individuo da contrapporre alle identità collettive come percorso di pace”. Per chi viene da un paese, l’Etiopia, che ha conosciuto guerre e dittature, il desiderio di pace nel mondo è una conseguenza diretta.

Donzelli editore, 2007 pagg. 268, € 21,00

In rete

lettere a un chirurgo confuso scrivi a chirurgo@peacereporter.net Caro Gino, da anni sono una simpatizzante di Emergency, di cui ammiro le iniziative coraggiose. Portare aiuti e cure adeguate alle popolazioni martoriate dalla guerra è un lavoro meraviglioso, oltretutto non privo di gravi rischi, come i recenti avvenimenti in Afghanistan hanno dimostrato. Per questo mi duole oggi uscire dal coro dei plaudenti per esprimere le mie perplessità sull’ultima iniziativa di Emergency, quella di aprire un centro di cardiochirurgia in Sudan. Non perché abbia dei dubbi sulla qualità del servizio che sarà in grado di offrire, visto il vostro tradizionale impegno e l’adesione di cardiochirurghi di fama internazionale. Ma che senso ha aprire un ospedale di quel livello in una zona così sottosviluppata, dove la popolazione muore di malattie molto più banali di quelle cardiovascolari? Non conosco le cifre esatte, ma sento dire che per ogni bambino che muore per una cardiopatia congenita, ne perdiamo decine per una semplice dissenteria o per altre malattie che potrebbero essere curate con farmaci a basso costo e attrezzature limitate. Allora mi chiedo: quante vite potrebbero essere salvate con i soldi che è costata una struttura del genere e con quello che costa mantenerla efficiente? E ancora: che possibilità di sviluppo può avere questa struttura in una zona così povera, con le difficoltà di comunicazione che ha e la cronica carenza di personale qualificato e ospedali efficienti? Per quello che posso capirne io, ha tutta l’aria di diventare la solita cattedrale nel deserto. Paola - Milano Cara Paola, per prima cosa ti tranquillizzo: le tue critiche non sono “fuori dal coro”. In molti, quando abbiamo presentato il progetto del centro di cardiochirurgia Salam, ci hanno rivolto le stesse obiezioni: ma come, un centro di eccellenza in un continente in cui si muore ancora di diarrea? Comincio con un paio di risposte cliniche. Le cardiopatie congenite e quelle acquisite in età pediatrica sono la seconda causa di mortalità infantile in Africa. La seconda causa di mortalità: centinaia di migliaia di bambini che non hanno la diarrea ma muoiono comunque, se non vengono curati. L’età media dei primi centocinquanta pazienti operati nel centro Salam - ma saranno duecento quando leggerete - è sotto ai vent’anni. I problemi cardiovascolari, quindi, rappresentano

un’emergenza sanitaria in questo continente. Peraltro, Emergency in Sudan cura anche la diarrea: a Mayo è attivo dal 2005 un ambulatorio pediatrico che serve il campo profughi, dove vivono cinquantamila sfollati del Darfur, di cui quasi la metà sono bambini. Poi ci sono anche motivi culturali. Potrei ribaltare la domanda “perché la cardiochirurgia in Africa?”, e chiedere semplicemente “perché no?”. Perché decidere che in questa regione si può sperare solo di curare la malaria, o la diarrea? Perché se nasco a Khartoum, o Bangui, o Asmara, non ho diritto alle migliori cure, quelle più sofisticate - come la cardiochirurgia - che pretendo se sono nato a Milano, Parigi o Londra? Ecco, portare la cardiochirurgia di alto livello e gratuita in una regione africana grande tre volte l’Europa, è anche una affermazione culturale. Significa che tutti, anche loro, hanno diritto alla medicina migliore. Peraltro, con alcuni effetti collaterali: il centro Salam, costruito per servire anche gli Stati confinanti, ospita nelle stesse corsie pazienti di Khartoum, del Darfur, della Repubblica Centroafricana, dell’Eritrea, cittadini di paesi che spesso non sono in buoni rapporti, quando non sono direttamente in lotta. Eppure i rispettivi governi cooperano per definire gli accordi sanitari che permettano ai pazienti di raggiungere il centro Salam. Un buon passo, speriamo, per riuscire a cooperare anche su altro. Magari lasciando la parola agli ospedali, appunto, o alle scuole, anziché alle armi. Poi, se venissi a Khartoum, potresti guardare in faccia Sunia, Zeinab, Ahmed, e tutti gli altri. E forse basterebbe quella come risposta. Grazie, e a presto. Gino Strada

di Arturo Di Corinto

Non grilli ma mucche Il blog di Beppe Grillo è diventato un caso mediatico e politico per il sapiente intreccio fra la satira irriverente del comico e una tecnologia che permette di rivolgersi a un pubblico gobale, denunciando ogni tipo di casta. Chi però ha fatto dello slogan “combattere gli Dei divertendosi” una vera bandiera è il gruppo

statunitense di MediaCow.tv, una web TV statunitense appena lanciata da alcuni guru della frontiera digitale: Lawrence Lessig di Creative Commons, Eben Moglen della Free Software Foundation, insieme ad alcuni partner d’eccellenza come l’American Civil Liberties Union (550 mila iscritti) e il supporto di Civicactions. Mediacow si specializza esclusivamente in filmati di humour politico, satira politica, cartoon politici, scandalismo politico e documentari su temi centrali per la società ma ignorati o distorti dai media

tradizionali per motivi sistemici, come le guerre. Ma non è il solito webchannel. Infatti il suo modello di sviluppo prevede la compartecipazione agli utili generati, in maniera diretta o indiretta, dalla visione di video forniti dai partners, e ogni video sponsorizzato permette di utilizzare quei fondi per produrre nuovi video, nuova satira, nuove denunce. A differenza di Youtube, Mediacow non è proprietà di una multinazionale, usa software libero e garantisce la privacy degli utenti. 29


Per saperne di più Filippine LIBRI GIANCARLO BOSSI, Rapito. Quaranta giorni con i ribelli, una vita nelle mani di Dio, Editrice Missionaria Italiana, 2007 Il libro è molto più di un semplice diario della prigionia: esperienza che padre Bossi arriva a giudicare, nonostante tutto, come "un tempo di grazia", una sorta di Esodo di purificazione e ritorno all’essenzialità. Sui motivi del rapimento padre Bossi è categorico: si è trattato di soldi, non di persecuzione anticristiana. Dei suoi rapitori dice: “Semplicemente criminali, non lo hanno fatto in quanto musulmani. È sbagliata l’equazione musulmano-criminale”. E tuttavia, non mancano nel libro - oltre a pagine bellissime in cui il missionario si sofferma sul perdono per i rapitori - pensieri e riflessioni, talora provocatori, sull’islam e sull’impegno per il dialogo. Che per padre Bossi deve partire dal rispetto reciproco, “altrimenti non è autentico”. STEFANO VECCHIA E GIORGIO LICINI, Le Filippine. L'arcipelago dei contrasti, Il Segno dei Gabrielli, 1999 Il testo affronta i principali aspetti della vita delle Filippine: la geografia, la storia, la situazione economica, religiosa, politica e sociale, intervallando i vari capitoli con schede dedicate alla letteratura e alla produzione artistica, alla cucina, alle usanze tipiche, all'istruzione e agli sport. L'opera è promossa dal Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere), l'istituto missionario che opera da decenni nel sud delle Filippine e al quale appartiene padre Bossi. ROLAND DUSIK, Filippine, Gremese Editore, 1997 Si tratta di una guida turistica rivolta a chi desidera uscire dai sentieri battuti dalla tradizione per esplorare in prima persona aspetti a torto ritenuti secondari del paese. Le informazioni spaziano dalla cultura alla storia, dall'arte alla geografia. La sezione pagine gialle riunisce tutte le informazioni pratiche necessarie per chi si mette in viaggio. GËZIM HAJDARI, San Pedro Cudud. Viaggio negli inferi del tropico. Fara Editore, 2004 Una cronaca di viaggio nelle Filippine che ha l’intensità di una prosa poetica, pur nella scorrevolezza del testo pieno di curiosità e di attenzione all’incontro con l’altro. “Lo scopo del nostro viaggio nel paese del sud-est asiatico - dice Hadjari, poeta albanese - era quello di fare un servizio fotografico a San Pedro Cutud…”. In questa località ogni 9 aprile ha luogo una crocifissione che alcuni “volontari” si autoinfliggono. Ma in questo libro troverete tante altre notizie e informazioni meno cruente: l’occhio del poeta Hajdari ci offre uno spaccato della società filippina di oggi che ogni cittadino attento a ciò che accade nel mondo saprà apprezzare. UGO STECCONI (a cura di), Balikbayan. Antologia di scrittori filippini, Feltrinelli, 1999 La prima antologia di narrativa filippina edita in Italia. Si tratta di una raccolta di racconti pubblicati a Manila dopo la caduta del dittatore Marcos: storie di gente stretta tra il sogno di fare fortuna in America e l'angoscia di vivere lontano da casa, tra l'avvolgente calore di un paesino di provincia e il problema di condividere una megalopoli con dieci milioni di persone. Un umorismo leggero e raffinato s'intreccia con i dolorosi problemi della condizione postcoloniale. FRANCESCA LAZZARATO, La fata della luna. Fiabe della tradizione filippina, Mondadori, 2003 Le Filippine possiedono un ricco e suggestivo patrimonio di fiabe, raccolte in questo volume, che 30

contiene anche schede di approfondimento ricche di notizie e curiosità sulle innumerevoli isole dell'arcipelago. EMILIO SALGARI, Le stragi delle Filippine, Fabbri editore, 2003 Ambientato nel pittoresco scenario dell'arcipelago, è un racconto ispirato all'insurrezione avvenuta nelle Filippine nel 1896, in un crogiuolo di razze e sullo sfondo di una guerra di liberazione. Si può trovare anche in versione e-book su internet in diversi siti che diffondono gratuitamente i grandi classici della letteratura.

SITI INTERNET http://www.inquirer.net L'Inquirer è il maggiore quotidiano nazionale filippino. http://mindanaoexaminer.com Il Mindanao Examiner è un giornale locale indipendente. http://www.luwaran.com Luwaran è il sito ufficiale del Fronte Islamico di Liberazione Moro (Milf). http://www.moroland.net http://www.bangsamoro.info Due siti sull'indipendentismo del popolo Moro. http://www.amnesty.it/pressroom/ra2007/filippi ne.html L'ultimo rapporto di Amnesty International sulle Filippine. http://www.hrw.org/doc?t=asia&c=philip Tutti i documenti di Human Rights Watch sulle Filippine.

FILM NEIL DE LA LLANA, IAN GAMAZON, Cavite, Filippine, 2005 Un thriller che racconta la storia di uno statunitense di origini filippine che ritorna nel suo Paese natale, dove scopre che sua madre e sua sorella sono state rapite da terroristi islamici. Le scene si svolgono negli squallidi bassifondi di Manila, ma sullo sfondo c'è la complicata situazione politica di Mindanao e della ribellione indipendentista del popolo Moro. Il film è stato premiato al Woodstock Film Festival e all'Independent Spirit Awards.

GIAN ANTONIO STELLA, L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Rizzoli, 2003 L’inchiesta del giornalista del Corriere della Sera ripercorre le storie e le strade dei migranti italiani. Sottoposti alle stesse umiliazioni e vittime degli stessi abusi che oggi infliggono ai migranti africani.

SITI INTERNET http://fortresseurope.blogspot.com Fortress Europe è un blog che tiene una rassegna stampa dal 1988, nella quale fa memoria delle vittime ‘dell’assalto’ dei migranti nel tentativo di entrare in Europa. Persone che hanno perso la vita solo perché cercavano un futuro migliore, invisibili disperati che muoiono dimenticati. http://www.meltingpot.org Melting Pot è il sito di un network di associazioni unite dal progetto di promuovere il diritto di cittadinanza. Attraverso un attento monitoraggio delle legislazioni europee ed extra europee in merito al tema dei migranti, denuncia gli abusi e le violazioni che ogni giorno sono subiti dai cosiddetti ‘clandestini’. http://www.liberte-algerie.com Quotidiano algerino che, più di altri, segue il tema degli harraga, i giovani algerini che tentano una via di raggiungere l’Europa, anche a costo della vita. http://lanuovasardegna.repubblica.it/ Quotidiano sardo che segue il fenomeno degli sbarchi in Sardegna fin dal 2005, quando si sono avuti i primi casi.

FILM

Algeria-Sardegna LIBRI GIOVANNI MARIA BELLU, I fantasmi di Portopalo, Natale 1996: la morte di 300 clandestini e il silenzio dell’Italia, Mondadori, 2004 La notte di Natale del 1996, nel canale di Sicilia, è avvenuto il più grande naufragio della storia del Mediterraneo dalla fine della seconda guerra mondiale. Nel tentativo di sbarcare nel nostro Paese, circa trecento clandestini muoiono per l’affondamento di una “carretta del mare”. Il fatto passa quasi sotto silenzio, ma alcuni anni dopo l’inchiesta del giornalista di Repubblica getta luce sulla vicenda. GABRIELE DEL GRANDE, Mamadou va a morire, la strage dei clandestini nel Mediterraneo, Infinito Edizioni, 2007 L’inchiesta di un giovane cronista sulle tracce dei migranti. Migliaia di chilometri percorsi sulle rotte dei dannati in Africa, tra il dolore di coloro che non hanno più notizie di un amico o di un parente, e le speranze che spingono migliaia di persone a partire ogni giorno.

VITTORIO DE SETA, Lettere dal Sahara, Italia, 2006 Il grande sceneggiatore e documentarista, diventato famoso nel mondo per il suo Banditi a Orgosolo del 1961, dove racconta un indimenticabile spaccato della Sardegna, dedica la sua ultima opera al viaggio, del corpo e dell’anima, di un migrante dall’Africa all’Italia. GIANNI AMELIO, Lamerica, Italia, 1994 Due spericolati imprenditori italiani si recano nell’Albania devastata dalla crisi economica e politica dei primi anni Novanta per impiantare un business sulle macerie di un paese. Uno dei due, meno cinico dell’altro, resta invischiato nella drammatica realtà del popolo albanese, e viene abbandonato dal socio. Per tornare in Italia prenderà una di quelle navi della speranza, vivendo in prima persona il dramma di tanta gente che, solo fino a poco tempo prima, aveva disprezzato. STEFANO MENCHERINI, Mare Nostrum, Italia, 2003 Un film inchiesta che mette a nudo l’anticostituzionalità della recente legge sull’immigrazione: la Bossi-Fini-Mantovano. Dalle storie denunciate nel film sono almeno sette gli articoli della Costituzione calpestati dalla legge 189 del 30 luglio 2002. Alcune immagini di Mare nostrum hanno dato il via a quattro inchieste della magistratura su un “Centro di permanenza temporanea” gestito dalla Curia arcivescovile di Lecce. Il documentario è un viaggio in presa diretta nell’Italia dei diritti negati agli stranieri.


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